Prima
di lasciare la nona bolgia Dante cerca con gli occhi in essa un suo
congiunto, Geri del Bello, seminatore di discordia, la cui morte violenta e
rimasta invendicata, ma Virgilio gli ricorda che l'ombra di questo suo
parente è passata sotto il ponte, mostrando sdegno e' minaccìandolo col dito,
quando egli era tutto intento ad osservare Bertran de Born.
Ripreso il cammino, i due pellegrini giungono sopra l'ultima bolgia
dell'ottav 141d32b o cerchio, nella quale si trovano i falsatori, divisi in quattro
categorie: falsatori di metalli con alchimia, falsatori di persone, falsatori
di monete, falsatori di parole. Con il corpo deformato da orribili morbi
giacciono a mucchi o si' trascinano carponi gli alchimisti. Due di questi
dannati attirano l'attenzione di Dante: stanno seduti, appoggiandosi l'uno
alla schiena dell'altro, e cercano, con furiosa impazienza, di liberarsi
delle croste che li ricoprono interamente. Furono arsi sul rogo dai Senesi,
il primo, (GriffoIino d'Arezzo, per non avere mantenuto fede alla promessa di
far alzare in volo, novello Dedalo, uno sciocco; il secondo, Capocchio, per
aver falsificato i metalli, da quell'eccellente imitatore della natura che fu
in vita. |
Dispersivo
e discontinuo, il primo canto dei falsari segna un attenuarsi della tesa
indagine morale del Poeta, una pausa nel suo vigoroso impegno stilistico. Se
per i romantici la poesia di Dante spiccava con più risoluta nettezza di
contorni nel suo concretarsi in un contrasto di passioni e di caratteri -
quasi anticipando, entro la ferma cornice medievale, il libero dispiegarsi
del "tragico" rinascimentale (Shakespeare) - oggi dobbiamo
riconoscere che essa si identifica, nella Commedia, innanzi tutto con il dramma
del pellegrino posto di fronte alla realtà del peccato, dell'espiazione,
della beatitudine raggiunta, per cui molte pagine sulle quali i romantici
sorvolavano assumono, ai nostri occhi, una funzione di primo piano, anche e
soprattutto ai fini di una considerazione dei valori espressivi. La cornice
medievale - ìl dramma dell'anima che rende a se stessa presenti le fasi della
propria esperienza morale - non può più essere ritenuta qualcosa di
estrinseco rispetto ai drammi dei singoli personaggi, poiché ciascuno di questi
singoli drammi acquista le sue reali proporzioni soltanto se collocato entro
questa cornice.
Le tragedie di Francesca, di Farinata o di Ulisse non esistono in sé - sul
palcoscenico di un mondo che da queste figure attende la definizione del
proprio significato - ma hanno un senso, al contrario, soltanto nella misura
in cui si presentano già oggettivate, davanti al Poeta, nelle forme del
giudizio divino (il posto dell'inferno in cui questi personaggi si trovano,
la loro pena). Esse diventano soggettive nell'animo del pellegrino senza
nulla perdere della loro oggettività: in questo loro essere dolorosamente
rivissute dal Poeta, in questo ínteriorizzarsi del giudizio divino è la fonte
della loro problematicità inesauribile. Oggi non possiamo più assumere
pertanto come criterio di valutazione della poesia di Dante la presenza o
meno del grande personaggio, della individualità preminente che in certo modo
sfida il giudizio divino, proprio perché non possiamo trascurare la continua
e attiva presenza, nel poema, dell'autore, l'angoscioso cammino da lui
percorso per sollevarsi, dall'opacità del suo sentire iniziale, alla
trasparenza di una oggettività eterna. Un criterio per distinguere, nella
Commedia, le pagine più riuscite da quelle che lo sono meno può invece essere
rappresentato da un'interrogazione del dato stilistico, interrogazione che,
in Dante, ci conduce direttamente sul piano del suo impegno etico.
Mentre infatti, nelle poetiche umanistiche e rinascimentali il fattore "
stile " ha sempre rappresentato un elemento di evasione dalla
insufficienza del reale, di fuga dall'impegno etico, in Dante al contrario
esso costituisce il punto di convergenza delle sue convinzioni e reazioni
morali, il momento in cui queste trovano la loro espressione definitiva e, sul
piano dell'arte, incontrovertibile.
Su questo accordarsi dei momento etico e di quello stilistico sono unanimi i
critici più recenti. Per il Fubini nella Commedia può esservi a volte
retorica, ma "retorica che si fa strumento di un fine etico, che giova a
dar risalto coi suoi modi a un giudizio morale". Il Terracini dal canto
suo rileva che "quando Dante è eloquente.. si può essere sicuri che la
sua visione poetica si ammanta di un motivo di carattere, comunque, etico; è
come un pedale che Dante mette ai suoi versi".
Il Bigi infine - e questa considerazione ci riconduce sul terreno del canto
XXIX - osserva che "dove effettivamente si allenta la tensione morale
del giudice, si attenua l'impegno erudito e retorico dell'artista : come...
nel colloquio con Griffolino e Capocchio (XXIX, versi 109-139), in cui, non
che similitudini elaborate ed erudite, sono pressoché assenti i
caratteristici procedimenti della retorica dantesca".
Mancano, al canto XXIX, quella compattezza di visione, quello svolgimento
coerente di motivi, che caratterizzano i canti fra i quali si trova inserito.
Pur offrendo alla nostra attenzione temi in comune con il canto precedente
(ad esempio la presentazione dello spettacolo della bolgia attraverso
similitudini ipotetiche: s'el s'aunasse nel canto XXVIII, verso 7; qual dolor
fora nel XXIX, verso 46; o il motivo della meraviglia dei dannati
nell'apprendere che Dante è vivo, motivo che proprio nel canto XXIX trova
un'espressione, di inusitato vigore, tutta calata in raffigurazione concreta:
allor si ruppe lo comun rincalzo) e con il successivo (i colloqui con
Griffolino e Capocchio anticipano in certo modo l'atmosfera pettegola
dell'alterco fra Sinone e maestro Adamo senza per altro rasentare la
violenza, la degradazione che in quello si esprimono), esso non li
approfondisce in modo unitario. Questa pagina del poema, che inizia su un
tono di accorata elegia per concludersi in una serie di disegni schizzati
" in punta di penna ", con un gusto del particolare incisivo ma
fine a se stesso - che li accomuna a certi ritratti della novellistica
medievale (tra il Novellino e il Decamerone) - risulta incerta, scarsamente
determinata tanto sotto il profilo etico che sotto quello stilistico. Osserva
il Sapegno che nella seconda parte del canto Dante "non insiste tanto
sull'oggetto dell'ironia e dello scherno, quanto piuttosto sembra compiacersi
di ritrarre in atto l'arte appunto dell'ironizzare e dello schernire, vista
come un bel gioco che aguzza l'ingegno e gli offre campo di dispiegarsi e di
accendersi ìn un divertente, se pur futile, scoppiettio di frasi
maliziose" e conclude che le figure di Griffolino e Capocchio "non
sono più che macchiette garbate di secondo piano; e, anziché raccogliere e
concentrare in sé una diffusa atmosfera di tragedia, giovano se mai a
distrarre per un istante lo spirito da quel mondo e a trasportarlo in un'aria
più leggiera".
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