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Il Futurismo e l'esaltazione del dinamismo e dell'aggressività

letteratura



Il Futurismo e l'esaltazione del dinamismo e dell'aggressività


Il Futurismo, considerato uno dei movimenti d'avanguardia del primo Novecento, si organizza intorno a vari manifesti teorici che ne definiscono le caratteristiche in ogni campo, dalle arti alla politica. Propone, quindi, non solo innovazioni nell'ambito letterario o figurativo, ma anche un nuovo stile di vita, sotto l'influenza sia delle riviste fiorentine del periodo, sia dell'eredità dannunziana.Tipico di questo movimento è il rifiuto del presente e della società borghese, mentre si esalta la macchina, la tecnica, la grande industria, la velocità e l'aggressività. Il manifesto principale che pose le basi per lo sviluppo del Futurismo fu quello pubblicato su " Le Figaro" nel 1909 da Filippo Tommaso Martinetti, in cui si celebra il movimento, l'azione, il gesto violento, la guerra e la virilità, disprezzando invece la donna e il femminismo. Ne riportiamo alcuni tratti significativi:

1: Noi vogliamo cantare l'amore del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità.

3: La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corda, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno.

4:.un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.

7: Non v'è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo.



9: Noi vogliamo glorificare la guerra-sola igiene del mondo-, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore, e il disprezzo della donna.

10: Noi vogliamo combat 757h74h tere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.

12: E' dall' Italia che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il "Futurismo", perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d'archeologhi, di ciceroni e d'antiquarii.


Si può dire che i futuristi sono ben più moderni di D'Annunzio e dei poeti crepuscolari, poiché non risolvono il rapporto dell'artista col mondo moderno attraverso la fuga dal reale ma incentrano la loro poetica sulla velocità, sull'industrializzazione, sulla metropoli. Connessa con l'accettazione della società moderna è una nuova etica basata appunto sull'aggressività e sulla competitività: gli atteggiamenti letterari e culturali del Futurismo fanno da copertura ideologica al meccanismo dell'industrialismo capitalistico. Inoltre i futuristi avranno un ruolo di primo piano tra gli interventisti prima e tra i fascisti poi: l'atteggiamento aggressivo non sarà più riferito solamente alla loro produzione letteraria ma anche alle loro posizioni politiche e ai loro comportamenti. Per quanto riguarda la loro poetica, si ha anzitutto la critica dell'arte precedente (ne è un esempio il manifesto: "Uccidiamo il chiaro di luna!"dell'aprile del 1909, contro la poesia tradizionale romantica e decadente). Nel "Manifesto tecnico della letteratura futurista" si propone poi la distruzione della sintassi, l'abolizione della punteggiatura e dell'aggettivo qualificativo, l'uso dei verbi all'infinito e dell'ortografia e della tipografia libere, per rendere vivo il concetto della velocità e dell'irruenza delle emozioni. Il continuo flusso di sensazioni e sentimenti è realizzato attraverso "la libertà assoluta delle immagini o analogie". Ai primi esponenti futuristi si aggiunsero Papini, Govoni, Folgore, Palazzeschi,cui si deve un' ardito sperimentalismo formale. Sul piano creativo vero e proprio, i risultati più notevoli del movimento si ebbero però nelle arti figurative. Nel 1910 Boccioni elabora, insieme ad altri pittori, il "Manifesto tecnico della pittura futurista", in cui si afferma la necessità di esprimere la "sensazione dinamica" anche in pittura. La luce e il movimento diventano i protagonisti in questo campo a scapito della forma, che viene rotta e ricostruita in modo da renderla appunto dinamica: si vuole mostrare l'"energia della materia", la ricerca frenetica di "slancio vitale", l'irrazionalità degli stati d'animo. I futuristi riescono a creare effetti luminosi attraverso la fusione e la sovrapposizione dei corpi, che possono deformarsi in un'immaginaria corsa quale segno di un dinamismo incessante e coinvolgente. Nel "Manifesto dei pittori futuristi" del 1910 leggiamo: "Il grido di ribellione che noi lanciamo esprime il violento desiderio che ribolle oggi nelle vene di ogni artista. Noi vogliamo combattere accanitamente la religione fanatica, incosciente e snobistica del passato, alimentata dall'esistenza nefasta dei musei [..] esaltare ogni forma di originalità, anche se temeraria, anche se violentissima [..] Largo ai giovani, ai violenti, ai temerari!".

Inserisco come esempio della pittura futurista alcune opere di Boccioni, che può essere considerato il maggior esponente del movimento nelle arti figurative:











Nietzsche e l'esaltazione dello spirito dionisiaco e aggressivo

Insieme alla poesia crepuscolare, il Futurismo contribuì ad eliminare i moduli e le forme della poesia tradizionale per creare una nuova letteratura. Questo movimento si inserisce nel clima di irrazionalismo che aveva avuto inizio alla fine dell'Ottocento e i cui pilastri sono le opere di Nietzsche, Bergson, Freud. Attraverso l'esaltazione dannunziana del superomismo e di una ferina vitalità, si diffondono nel dibattito culturale italiano d'inizio secolo un attivismo e un dinamismo spesso rozzo e becero. In particolare, la filosofia di Nietzsche è totalmente incentrata alla distruzione dei falsi valori e degli ideali borghesi, della fiducia in un deterministico progresso, del conformismo piatto e soffocante dell'epoca mentre esalta la forza, la sessualità libera da pregiudizi, il vitalismo, la volontà di potenza. Ciò che deve prevalere è lo "spirito dionisiaco" dell'uomo, al di là di ogni convenzione e di ogni limite che la società impone. L'individuo contemporaneo, generalmente represso e insoddisfatto, deve dare sfogo ai suoi istinti e alle sue passioni, ribellandosi alla morale cristiana e a tutti quelli ostacoli che si oppongono al pieno sfruttamento e godimento della vita. Questo culto per l'uomo d'eccezione porta gli intellettuali dell'epoca ad esaltare un governo forte contro le richieste della "plebaglia", antidemocratico e nazionalistico.


D'Annunzio e il fascino del primitivo e del violento

Anche il Decadentismo subisce l'influenza nietzschiana attraverso i temi del vitalismo e del rifiuto della società. In Italia questi temi sono presenti in D'Annunzio prima e in alcune riviste del primo Novecento poi. Gabriele D'Annunzio ha influenzato non solo la letteratura italiana d'inizio secolo ma anche il costume e i gusti del nostro Paese. Nella sua prima produzione in prosa ("Novelle della Pescara" del 1884) sembra rifarsi ai temi che erano stati propri del Verga, ossia a plebi abruzzesi e vita paesana, ma ad una più attenta analisi si può riconoscere la mancanza di quella pietas e di quella volontà di comprensione storica che erano tipici dello scrittore siciliano. Ciò che affascina D'Annunzio è la violenza, il primitivismo, l'istintività di queste masse. In poesia ("Primo vere",1879; "Canto novo",1881) si ha la disposizione al sensualismo e al godimento di ciò che offre la natura. Questo atteggiamento, volto al piacere e al panismo, particolarmente evidente nella produzione giovanile, si andrà via via elaborando, sotto l'influenza delle altre produzioni letterarie europee contemporanee, tra cui fondamentale è quella di Nietzsche. Per capire il fascino che la violenza, il sangue e l'aggressività esercitarono sul giovane D'Annunzio riporto qui di seguito parte della novella "Gli idolatri" (da "San Pantaleone"), in cui si ricerca in maniera evidente la barbarie primitiva e in un certo senso anche il fascino dell'esotico (le plebi meridionali sono paragonate ad una tribù di neri).


Un fumo bianco si levava nell'aria placidamente, dietro la corsa degli assalitori, su per l'incandescenza celeste. Tutti, accecati, in una furia belluina, gridavano:

"A morte! a morte!".

Un gruppo di idolatri si manteneva in torno a SanPantalone. Vituperii atroci contro San Gonselvo irrompevano tra l'agitazione delle falci e delle ronche brandite.

"Ladro! Ladro! Pezzente! Le candele! Le candele!".

Altri gruppi prendevano d'assalto le porte delle case, a colpi d'accetta. E, come le porte sgangherate e scheggiate cadevano, i Pantaleonidi saltavano nell'interno urlando, per uccidere. Femmine seminude si rifugiavano negli angoli, implorando pietà; si difendevano dai colpi, afferrando le armi e tagliandosi le dita; rotolavano distese sul pavimento, in mezzo a mucchi di coperte di lenzuoli da cui uscivano le loro flosce carni nutrite di rape.

Giacobbe alto smilzo rossastro, fascio di aride ossa reso formidabile dalla passione, condottiero della strage, si arrestava ad ogni tratto per fare un largo gesto imperatorio sopra tutte le teste con una gran falce fienaia. Andava innanzi, impavido, senza cappello, nel nome di San Pantalone. Più di trenta uomini lo seguivano. E tutti avevano la sensazione confusa e ottusa di camminare in mezzo a un incendio, sopra un terreno oscillante, sotto una volta ardente che fosse per crollare.

Ma da ogni parte cominciarono ad accorrere i difensori, i Mascalicesi forti e neri come mulatti, sanguinarii, che si battevano con lunghi coltelli a scatto, e tiravano al ventre e alla gola, accompagnando di voci gutturali il colpo. La mischia si ritraeva poco a poco verso la chiesa; dai tetti di due o tre case già scoppiavano le fiamme; un'orda di femmine e di fanciulli fuggiva a precipizio fra gli olivi, presa dal pànico, senza più lume negli occhi.

Allora tra i maschi, senza impedimento di lagrime e di lamenti, la lotta a corpo a corpo si strinse più feroce. Sotto il cielo color di ruggine, il terreno si copriva di cadaveri. Stridevano vituperii mozzi tra i denti dei colpiti; e continuo tra i clamori persisteva il grido dei Radusani:

"Le candele! Le candele!".

Ma la porta della chiesa restava sbarrata, enorme, tutta di quercia, stellante di chiodi. I Mascalicesi la difendevano contro gli urti e contro le scuri. Il santo d'argento, impassibile e bianco, oscillava nel folto della mischia, ancora sostenuto sulle spalle dei quattro ercoli che sanguinavano tutti dalla testa ai piedi, non volendo cadere. Ed era nel supremo voto degli assalitori mettere l'idolo sull'altare del nemico.

Ora mentre i Mascalicesi si battevano da leoni, prodigiosamente, sul gradino di pietra, Giacobbe disparve all'improvviso, girò il fianco dell'edifizio, cercando un varco non difeso per penetrare nel sacrario. E come vide un'apertura a poca altezza da terra, vi si arrampicò, vi rimase tenuto ai fianchi dall'angustia, vi si contorse, fin che non giunse a far passare il suo lungo corpo giù per lo spiraglio. Il cordiale aroma dell'incenso vaniva nel gelo notturno della casa di Dio. A tentoni nel buio, guidato dal fragore della pugna esterna, quell'uomo camminò verso la porta, inciampando nelle sedie, ferendosi alla faccia, alle mani. Rimbombava già il lavorìo furioso delle accette radusane su la durezza della quercia, quando egli cominciò con un ferro a forzare le serrature, anelante, soffocato da una violenta palpitazione di ambascia che gli diminuiva la forza, con la vista attraversata da bagliori fatui, con le ferite che gli dolevano e gli mettevano un'onda tiepida giù per la cute.

"San Pantaleone! San Pantaleone!" gridarono di fuori le voci rauche de' suoi che sentivano cedere lentamente la porta, raddoppiando gli urti e i colpi, di scure. A traverso il legno giungeva lo schianto grave dei corpi che stramazzavano, il colpo secco del coltello che inchiodava là qualcuno per le reni. E pareva a Giacobbe che tutta la navata rimbombasse al battito del suo selvaggio cuore.


Dopo un ultimo sforzo, la porta si aprì. I Radusani si precipitarono con un immenso urlo di vittoria, passando sui corpi degli uccisi, traendo il santo d'argento all'altare. E una viva oscillazione di riverberi invase d'un tratto l'oscurità della navata, fece brillare l'oro dei candelabri, le canne dell'organo, in alto. E in quel chiaror fulvo, che or sì or no dall'incendio delle prossime case vibrava dentro, una seconda lotta si strinse. I corpi avviluppati rotolavano su i mattoni, non si distaccavano più, balzavano insieme qua e là nei divincolamenti della rabbia, urtavano e finivano sotto le panche, su i gradini delle cappelle, contro gli spigoli dei confessionali. Nella concavità raccolta della casa di Dio, il suono agghiacciante del ferro che penetra nelle carni o che scivola sulle ossa, quell'unico gemito rotto dell'uomo che è colpito in una parte vitale, quello scricchiolio che dà la cassa del cranio nell'infrangersi al colpo, il ruggito di chi non vuol morire, l'ilarità atroce di chi è giunto ad uccidere, tutto distintamente si ripercoteva. E il mite odore dell'incenso vagava sul conflitto.

L'idolo d'argento non anche aveva attinto la gloria dell'altare, poiché un cerchio ostile ne precludeva l'accesso. Giacobbe si batteva con la falce, ferito in più parti, senza cedere un palmo del gradino che primo aveva conquistato. Non rimanevano se non due a sorreggere il Santo. L'enorme testa bianca barcollava come erba sul bulicame del sangue iroso. I Mascalicesi imperversavano.

Allora San Pantaleone cadde sul pavimento, dando un tintinnio acuto che penetrò nel cuore di Giacobbe più a dentro che punta di coltello. Come il rosso falciatore si slanciò per rialzarlo, un gran diavolo d'uomo con un colpo di ronca stese il nemico su la schiena. Due volte questi si risollevò, e altri due colpi lo rigettarono. Il sangue gli inondava tutta la faccia e il petto e le mani; per le spalle e per le braccia le ossa gli biancicavano scoperte nei tagli profondi; ma pure egli si ostinava a riavventarsi. Inviperiti da quella feroce tenacità di vita, tre, quattro, cinque bifolchi insieme gli diedero a furia nel ventre donde le viscere sgorgarono. Il fanatico cadde riverso, battè la nuca sul busto d'argento, si rivoltò d'un tratto bocconi con la faccia contro il metallo, con le branche stese innanzi, con le gambe contratte. E San Pantaleone fu perduto.


Ne "Il piacere" il disprezzo per le masse e la concezione élitaria della bellezza sono evidenti: in esso si parlerà di "grigio diluvio democratico odierno che tante belle cose e rare sommerge miseramente".  D'Annunzio teorizza il diritto di supremazia che spetta alla classe agiata. Claudio Cantelmo, nelle "Vergini delle rocce", afferma che: "Lo Stato non deve essere se non un istituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione di una classe privilegiata verso un'ideal forma di esistenza [..] Le plebi restano sempre schiave avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli". Queste idee antidemocratiche, notevolmente diffuse nella società italiana dell'epoca di D'Annunzio, sono una conseguenza del crescente peso delle masse e del crescente potere delle organizzazioni popolari (nascita dei sindacati e del Partito Socialista nel 1892).


Le riviste fiorentine del primo Novecento e l'esaltazione della guerra

Un importante fulcro intorno al quale ruotano le inquietudini del periodo è quello delle riviste fiorentine, affermatesi tutte nel primo decennio del secolo. Si ha tra queste "Il Leonardo" (1903-1907), fondato da Giovanni Papini, in cui l'eredità dannunziana è quanto mai evidente nella sua posizione antidemocratica e sprezzante. Al positivismo e al socialismo si oppone l'estetismo e il culto elitario delle arti e della bellezza ("Non pensano che tutti non possono sostenere certi doni, che tutti non son degni di certi doni." scriverà Papini in un articolo del 1903). Gli scrittori de "Il Leonardo" assumeranno poi atteggiamenti nazionalistici e interventistici, esaltando l'attivismo e il dinamismo, ripresi in seguito dai futuristi. Un'altra rivista fiorentina del periodo fu "Hermes", in cui le posizioni dannunziane sono apertamente sostenute sia nell'arte che in politica. Borgese e i suoi collaboratori si definiranno "imperialisti" e celebratori della "stirpe". Essi collaboreranno, tra l'altro, alla rivista di Corradini "Il Regno" che si configura come maggiormente impegnata sul piano politico più che su quello letterario. Vi si affermerà la superiorità borghese contro l'"ignobile socialismo", la necessità di una "missione africana" e della guerra, vista come "lezione d'energia" dell'istinto aggressivo. Nel 1905 Corradini lascerà la rivista e fonderà il partito nazionalista, unitosi poi con quello fascista.La più importante tra queste riviste è "La Voce", la cui storia si può suddividere in quattro fasi:

I FASE (1908-1911): Alla direzione è Prezzolini. La rivista si distingue dalle altre per serietà morale ed impegno intellettuale. Si criticano D'Annunzio, la politica giolittiana e quindi anche l'impresa di Libia.

II FASE (1912-1913): Salvemini lascia la rivista a causa della celebrazione che Prezzolini fa della guerra.

III FASE (1914): Influenza delle posizioni di Croce, Gentile, Bergson, Sorel. La rivista assume ora atteggiamenti irrazionalistici e interventistici.

IV FASE (1914-1916): La direzione è assunta da De Robertis che apre un periodo di interesse esclusivamente letterario per "La Voce": l'impegno civile è posto in secondo piano.

"Lacerba" fu fondata nel 1913 da Papini e Soffici e vi si sostiene le tesi dell'interventismo nazionalista e lo sperimentalismo in letteratura. La verità dei contenuti di un'opera letteraria è ritenuta meno importante rispetto alla volontà di stupire sempre e comunque. Questo attegiamento, che dette vita ad esempi di malcostume, di volgarità, di retorica nazionalista e di dilettantismo intellettuale, fu definito da Gobetti "canagliesco". Riporto parte di un articolo che Papini scrisse su "Lacerba" nel 1914, il cui carattere rivoluzionario e iconoclasta risulta completamente gratuito e non si avvale di solide convinzioni intellettuali. Il titolo emblematico del pezzo è "Amiamo la guerra".


Finalmente è arrivato il giorno dell'ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell'anime per la ripulitura della terra.

Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella annaffiatura di sangue per l'arsura dell'agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i freschi di settembre.

E' finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell'ipocrisia e della pacioseria. I fratelli son sempre buoni ad ammazzare i fratelli! I civili son pronti a tornar selvaggi; gli uomini non rinnegano le madri belve.

Non si contentano più dell'omicidio al minuto.

Siamo troppi. La guerra è un'operazione malthusiana. C'è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. Le guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un'infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita.

Fra le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare? Ci metterei la testa che non arrivano ai diti delle mani e dei piedi messi insieme. E codesta perdita, se non fosse anche un guadagno per la memoria, sarebbe a mille doppi compensata dalle tante centinaia di migliaia di antipatici, farabutti, idioti, odiosi, sfruttatori, disutili, bestioni e disgraziati che si son levati dal mondo in maniera spiccia, nobile, eroica e forse, per chi resta, vantaggiosa.

Non si rinfaccino a uso di perorazione, le lacrime delle mamme. A cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere. E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare anche il piacere. E chissà che qualcuna di quelle madri lacrimose non abbia maltrattato e maledetto il figliolo prima che i manifesti lo chiamassero al campo. Lasciamole piangere: dopo aver pianto si sta meglio.

Chi odia l'umanità - e come si può non odiarla anche compiangendola? - si trova in questi tempi nel suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l'odio e lo consola. "Avevo ragione di non stimare gli uomini, e perciò son contento che ne spariscano parecchi".

La guerra, infine, giova all'agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz'altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s'ammucchiarono i fanti tedeschi e che grasse patate si caveranno in Galizia quest'altro anno.

E il fuoco degli scorridori e il dirutamento dei mortai fanno piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendiarono saranno rifatti più belli e più igienici. E rimarranno anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli per gli abbrutimenti e i rapimenti e i rompimenti dei viaggiatori e dei professori.

Dopo il passo dei barbari nasce un'arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio mette capo ad una moda diversa. Ci sarà sempre da fare per tutti se la voglia di creare verrà, come sempre, eccitata e ringagliardita dalla distruzione.

Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa - e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi.


Se guardiamo al programma iniziale di "Lacerba", vediamo come il titolo stesso, "Introibo", vuole stupire e mostrare il cinismo e il carattere violento di questi giovani intellettuali. In esso vi leggiamo: "Tutto, nel mondo, se non il genio. Lenazioni vadano in isfacelo, crepino di dolore i popoli se ciò è necessario perché un uomo creatore viva e vinca" e ancora: "Di serietà e di buon gusto si fa oggi un tale spreco nel mondo, che noi siamo costretti a farne una rigorosa economia. In una società di pinzocheri anche il cinico è necessario." La tematica superomistica e la volontà provocatoria sono evidenti.

Il fascino che la guerra suscitava negli intellettuali dell'epoca è descritto anche da Corradini ne "Il Regno", in cui essa è vista sotto il lato estetico e liberatorio. Egli scrive: "Tutto questo dimostra.come la guerra, quando scoppia, non venga considerata più come un fatto sottoposto alle leggi del piccolo bene e del piccolo male, ma venga considerata quasi come un grandioso e terribile fenomeno della natura, un cozzo di forze avverse primordiali ed eterne, irrefrenabili. E tali sono appunto le forze che conducono alle guerre le nazioni e le razze. Perciò dinanzi ad esse l'uomo civile è abolito e ritorna l'uomo sincero allo stato di natura".

Totalmente differenti da queste riviste furono quelle di Salvemini ("L'Unità") e di Gobetti ("Il Baretti" e "Rivoluzione liberale") in cui l'impegno morale e la critica alle ideologie estremiste sono sempre presenti.


Gorge Sorel e il mito della violenza

Il mito della violenza non ha influenzato solo la destra conservatrice e reazionaria del periodo ma anche l'opposizione della sinistra socialista. E' bene ricordare, in questo senso, le tesi del filosofo francese George Sorel, che scrisse "Riflessioni sulla violenza" nel 1906. In questo libro viene assegnato alla classe operaia il compito di rinnovare e migliorare la società. La borghesia, corrotta e incapace di risolvere i gravi problemi presenti tra i vari ceti sociali, deve essere sconfitta attraverso la lotta di classe. La libertà, infatti, si realizza soltanto nell'atto di un contrasto radicale, violento e totale con la realtà storica già definita. Il mezzo più adatto per ottenere cambiamenti significativi è lo sciopero generale,attuato con violenza dai sindacati rivoluzionari, che porterà alla costruzione di nuovi valori etici e civili. Nella teoria di Sorel sono chiaramente riconoscibili sia parte della filosofia nietzschiana sia parte di quella marxiana; anch'essa esprime il senso di inadeguatezza di una cultura che si trovò impreparata ad affrontare problemi derivanti da una profonda trasformazione economica e sociale dell'Europa.


Il "Darwinismo sociale"

Dobbiamo accennare, inoltre, al "darwinismo sociale", ossia ad un travisamento delle idee di Darwin che si diffuse in larga misura nell'ambiente borghese del periodo. Estendendo dalla natura alla società il concetto di "selezione" e di "lotta per l'esistenza" si arrivò a giustificare le discriminazioni razziali e classiste esistenti. Secondo questa teoria la società si dividerebbe in "adatti" e "non-adatti", in "forti" e "deboli": i primi avrebbero la prerogativa naturale di dominare i secondi.


Freud e il contrasto tra indole aggressiva dell'uomo e società

Anche Freud esercitò una profonda influenza sulla cultura e la mentalità d'inizio secolo e sulla civiltà occidentale nel suo insieme. Prendendo atto del profondo disagio dell'uomo all'interno della società, metterà in evidenza (come Nietzsche) il meccanismo per cui l'uomo crea valori e regole per autoingannarsi e reprimere la sua vera natura istintiva e passionale, il cosiddetto "Es". In particolare Freud vede nella libido e nella pulsione sessuale la fonte maggiore di energia che ci guida per tutto il corso della vita, dall'infanzia alla vecchiaia. La religione viene vista come illusione e appagamento del nostro desiderio più antico e forte, quello di sentirsi protetti. La civiltà, benché inseparabile dal concetto di uomo, è costretta a porre un argine ad un numero rilevante di desideri e di pulsioni, e a "deviare" l'energia libidica e la ricerca del piacere in prestazioni sociali e lavorative (Super-io sociale). Questo non significa che Freud sia contro la civiltà. L'uomo, avendo un forte quoziente di aggressività, sarebbe portato a sfogarla liberamente al di fuori della vita associata, rimanendo così non solo infelice ma diventando ancora più pericoloso per il prossimo. Negli ultimi scritti il filosofo tende a dividere le pulsioni in due specie: quelle che tendono a conservare ed unire (pulsioni erotiche) e quelle che tendono a distruggere ed uccidere (pulsioni aggressive e distruttive). Nella lotta che si crea tra "Eros e Thanatos" non c'è speranza di sopprimere la tendenza aggressiva, che farà sempre parte della personalità umana, ma si può cercare di governarla in modo che non si esprima attraverso la guerra. E' prospettabile, quindi, una società che pur non escludendo regole e sacrifici cerchi di ridurre gli spazi di repressione e sofferenza.

Riporto un brano tratto da "Il disagio della civiltà" in cui Freud affronta il difficile rapporto tra società e istinto aggressivo e che mi sembra particolarmente adatto a chiudere questa breve trattazione:

"Se la civiltà impone sacrifici tanto grandi non solo alla sessualità ma anche all'aggressività dell'uomo, allora intendiamo meglio perché l'uomo stenti a trovare in essa la sua felicità [..] L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza [..] Quando giustamente protestiamo contro lo stato attuale della nostra civiltà, accusandolo di appagare troppo poco le nostre esigenze di un'assetto vitale che ci renda felici, di lasciar sussistere molto dolore che probabilmente potrebbe essere evitato, quando con critica spietata ci sforziamo di mettere a nudo le radici della sua imperfezione, sicuramente esercitiamo un nostro giusto diritto e non ci mostriamo nemici delle civiltà. Possiamo aspettarci di ottenere cambiamenti nella nostra società con l'andare del tempo, tali che soddisfino meglio i nostri bisogni e sfuggano a questa critica. Ma forse ci abitueremo anche all'idea che ci sono difficoltà inerenti all'essenza stessa della civiltà e che esse resisteranno di fronte a qualsiasi tentativo di riforma. Oltre agli obblighi, cui siamo preparati, concernenti la restrizione pulsionale, ci sovrasta il pericolo di una condizione che potremmo definire "la miseria psicologica della massa"".


In conclusione, senza esaltare in maniera fanatica la violenza, la prevaricazione, l'abuso, come hanno fatto a loro tempo scrittori quali Papini e D'Annunzio o filosofi come Sorel, mi sembra comunque ipocrita e superficiale negare la necessità e l'ineluttabilità dell'istinto aggressivo nell'uomo. Sono ottimista nel pensare che, giustamente canalizzato e diretto dalla civiltà e dai suoi valori morali, che sono giustamente inscindibili dalla nostra coscienza, questo istinto possa dare risultati estremamente positivi. Basti pensare alla determinazione, all'ambizione, alla creatività che da esso possono derivare se gli permettiamo di esprimersi nel modo migliore. Spero che la società futura possa trovare un giusto equilibrio tra repressione e libertà di sfogo.




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