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INTELLETTUALI E PUBBLICO DEL SETTECENTO

letteratura



INTELLETTUALI E PUBBLICO DEL SETTECENTO


La reazione antibarocca che segna l'inizio del Settecento coinvolge anche l'intellettuale e i suoi rapporti con il pubblico: parallelamente alla crisi dell'assolutismo - ora intaccato, dopo l'apogeo secentesco, da un sempre più rapido processo di delegittimazione - la figura dell'intellettuale avventuriero, tipica dell'età barocca, inizia a decadere; emerge quella dell'intellettuale organico ad un contesto ben definito e stabilizzato (una città, un'istituzione, un gruppo sociale) di cui ambisce farsi portavoce, interprete e testimone. L'aspirazione alla gloria, la bramosia di successo, la narcisistica esibizione di sé, che avevano permeato la personalità dell'artista barocco, lasciano il posto ad una progressiva istituzionalizzazione del ruolo, ad una concezione del lavoro intellettuale come decorosa carriera, il "mestiere" delle lettere, in cui quella del "poeta" diventa una professione come un'altra.

L'Arcadia, che ordina e centralizza lo smoderato proliferare di accademie che si era verificato nel secolo precedente, rappresenta il dato più eloquente di questa "normalizzazione", in forza della quale la figura dell'intellettuale viene a perdere la sua aura di eccezionalità (riconquistata solo in epoca romantica). Il pubblico sembra gradire e, anzi, esigere questa convergenza dell'attività intellettuale su un tono medio, depurato di ogni enfasi e di ogni oltranzismo e attestato su caratteri di elegante e rassicurante sobrietà; si tratta di una richiesta ben compren 535e47f sibile se si considera che la composizione sociale del pubblico settecentesco è oramai molto diversa da quella del pubblico barocco: questo era composto da due estremi sociali, le masse plebee e le aristocrazie, rispetto alle quali funzionava, per ragioni diverse ma con esiti simili, il principio dello stupore e della ricerca dello straordinario; il pubblico settecentesco, invece, è prevalentemente formato da piccola e media borghesia urbana, che individua nell'equilibrio, nella ragionevolezza e nel senso della misura i valori più consoni alla sua indole. La capillare diffusione delle accademie (in particolare delle "colonie" arcadiche) anche nei più riposti angoli di provincia, favorisce quest'aggregazione di ideali moderati e costituisce il loro principale veicolo di trasmissione.



Molto importante fu poi in Italia il ruolo svolto dalla Chiesa nell'incoraggiamento e nella diffusione diretta di questi valori: attraverso la scuola e il mercato editoriale (ambedue sotto il controllo o la gestione diretta dell'istituzione ecclesiastica) e, naturalmente, attraverso la predicazione, la Chiesa promosse una linea di moderato razionalismo e di ritorno all'ordine, considerati come efficaci antidoti contro le sfrenatezze del Barocco da una parte, e le nascenti tentazioni laiciste e materialiste dall'altra.

La seconda metà del Settecento segna in Italia il pieno dispiegarsi degli ideali illuministici anche per quanto riguarda la ridefinizione dell'intellettuale e le nuove caratteristiche dei suoi referenti. Proseguendo e accentuando la tendenza già emersa all'inizio del secolo, gli intellettuali, abbandonata ormai ogni velleitaria aspirazione all'"eccezionalità", tendono a integrarsi attivamente nei processi economici e sociali, trasformandosi in molti casi in funzionari (tipico è il caso di Cesare Beccaria, che pose le risorse dell'ingegno e la sua carica innovativa al servizio dell'amministrazione asburgica).

Un altro ambito in cui si aprono spazi nuovi all'attività intellettuale è quello del giornalismo, segnalato dall'impetuoso proliferare di giornali e riviste a cui collaborano i più bei nomi della cultura italiana, dai fratelli Pietro e Alessandro Verri a Cesare Beccaria, da Giuseppe Baretti a Gasparo e Carlo Gozzi.

La crescita di una borghesia imprenditoriale, curiosa di novità e ansiosa di far corrispondere al prestigio economico un equivalente prestigio culturale, facilita questo processo di allargamento e consolidamento di un pubblico medio, tendenzialmente di massa, a cui bisogna rivolgersi con un linguaggio chiaro e concreto, aperto all'attualità e capace di divulgare contenuti fino a quel momento riservati a ristrette élites. Rientra in questo quadro anche la crescente presenza dell'elemento femminile all'interno dell'utenza culturale: ne sono eloquente prova testi come Il newtonianismo per le dame di Francesco Algarotti, oppure l'ode di Giuseppe Parini La laurea, in cui, al di là dei valori propriamente letterari, è interessante il dato di fatto di una fanciulla che giunge al dottorato, segnando così una liberalizzazione dell'accesso femminile all'alta cultura, fino a quel momento impensabile.

Il forte impulso alla scolarizzazione, dovuto alle riforme dei sovrani illuminati, segna un altro momento decisivo in direzione dell'allargamento del pubblico, la cui composizione inizia a coinvolgere anche esigui ma significativi strati popolari. Nonostante questi importanti passi verso la creazione di un vero "mercato" della cultura, però, l'intellettuale rimane ancora lontano dalla possibilità di sostentarsi con il proprio lavoro: per chi non goda di rendite personali o di particolari privilegi, quello del funzionariato resta ancora il modo più diffuso per guadagnarsi da vivere.

La Lettera sul commercio della libreria di Diderot esprime per la prima volta e in maniera decisa la forte contrapposizione tra autori, tipografi e mercato librario, nell'ottica di una considerazione del testo letterario come merce e oggetto di possibili ricavi economici da parte degli autori. Diderot sosteneva cioè che lo scrittore, il giornalista, l'uomo di cultura in genere, avessero ormai raggiunto quella fase d'indipendenza e autonomia intellettuale che permettesse loro di vivere della propria attività. La sua critica al vecchio mecenatismo è spesso violenta e ineccepibile: "Quali che siano la bontà e la munificenza di un principe amico delle lettere, esse non possono estendersi molto al di là dei talenti conosciuti. [...] Quale bene può appartenere a un uomo, se non gli appartiene un'opera dello spirito, il frutto unico della sua educazione, delle sue veglie, del suo tempo, delle sue ricerche, le ore più belle, i momenti più belli della sua vita, i suoi pensieri, i sentimenti del suo cuore, la parte più preziosa di se stesso, quella che non muore, quella che lo rende immortale?". Come si vede, la situazione descritta da Diderot lasciava trasparire un conflitto aperto tra interessi di natura diversa e non soltanto economici, poiché investivano anche il diritto dello scrittore a pretendere un'adeguata considerazione del proprio lavoro: erano molti i casi, per esempio, in cui i testi venivano tagliati o manomessi arbitrariamente dagli editori.

Una vicenda straordinaria, che ebbe un risvolto culturale molto importante in Francia e nel resto dell'Europa, fu la pubblicazione della Encyclopédie, un ambizioso progetto editoriale realizzato sotto la direzione di Denis Diderot e Jean Baptiste Le Rond d'Alembert con la partecipazione di numerosi collaboratori. L'opera nacque all'inizio come una traduzione e adattamento della Cyclopedia or an Universal Dictionary of Arts and Sciences dell'inglese Ephraim Chambers, ma subito essa si distaccò dal progetto originario, dando luogo ad un lavoro molto complesso e composito, che vide l'intervento (spesso accompagnato da contrasti e polemiche) di molti redattori, tra cui Holbach, Montesquieu (con la sola voce Gusto), Rousseau (con la voce Economia politica). Il primo volume dell'opera, il cui sottotitolo era Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métieres, uscì nel 1751; ad esso seguirono, con alterne vicende, gli altri sedici tomi: soltanto nel 1772, con l'uscita del volume XVII, l'opera poté dirsi compiuta (comprendeva inoltre undici tomi di tavole, un Supplément in quattro volumi di testo e uno ulteriore di tavole, per un totale di trentatré volumi: nel 1780 si aggiunse poi la Table analytique et raisonnée des matierès). La storia editoriale dell'opera è segnata dai ritardi dovuti alla censura ecclesiastica e alla forte ostilità dimostrata dai Gesuiti in occasione dell'uscita del primo volume. Interrotta nel 1752, la stampa riprese nel 1754: gli attacchi si intensificarono e nel '59 portarono alle dimissioni di d'Alembert (cui forse contribuirono anche ragioni economiche), mentre nello stesso periodo si aprì un altro fronte della polemica a causa della denuncia del libro di Helvétius De l'Esprit.

Oltre alla controversia ideologica che si accompagnò all'Encyclopédie fino dal suo apparire, quest'opera segnò anche un sensibile passo in avanti nella concezione del lavoro editoriale e della produzione libraria. Nonostante i divieti l'opera ebbe in Francia più di 4255 sottoscrittori, che prenotarono l'acquisto direttamente presso l'editore Le Breton: in Italia la diffusione avvenne tramite due edizioni condotte a Lucca sotto la direzione di Ottaviano Diodati (1758-71, in 28 volumi) e a Livorno (1770, in 33 volumi) sotto l'alto patronato del granduca di Toscana. Ma stando alle parole che Diderot adoperò nella sua Lettre sur le commerce de la librairie (1764), nemmeno con l'Encyclopédie (che pure fruttò ai collaboratori introiti non disprezzabili), poté dirsi compiuto il processo di emancipazione degli intellettuali dal mecenatismo gentilizio e statale.

Il progetto dell'opera, delineato da d'Alembert nell'ampio Discorso preliminare, era riconducibile a un'idea del sapere inteso come fatto totalizzante e generale, e allo stesso tempo problematico e analitico: attraverso una disposizione alfabetica della materia venivano affrontati in maniera agile e breve le più diverse discipline, con una netta preponderanza delle scienze e delle tecniche (utile e di grande efficacia esplicativa risultarono a questo proposito le tavole, sintetiche e estremamente raffinate nella loro funzione didascalica, che formavano una vera e propria enciclopedia nell'enciclopedia). Al di là del vecchio enciclopedismo medievale, il cui intento era stato quello di conservare un sapere già dato e conosciuto, il disegno di Diderot e d'Alembert rispondeva a esigenze moderne di sistemazione e articolazione delle scienze non più come esperienze isolate e prive di una collocazione acritica. Al contrario il principio ispiratore dell'Encyclopédie era quello di una ragione moderna, volta all'indagine interdisciplinare delle materie, all'eclettismo intellettuale (eclettico è anche il termine usato da Diderot per identificare l'intellettuale), al criticismo, all'opposizione sistematica contro i pregiudizi religiosi.

Il concetto di enkýklios paidéia ("formazione circolare" o "globale") entra a far parte della cultura medievale attraverso l'assimilazione e diffusione delle correnti ellenistiche. Il patrimonio intellettuale dell'enciclopedismo antico era stato classificato da Aristotele nell'Etica nicomachea (VI, 3-4) ed era poi passato nell'antichità latina, ripreso da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, da Vitruvio nel De Architettura, da Quintiliano nella Institutio Oratoria. Gli autori della tarda latinità ripresero la sistemazione delle discipline e la metodologia del loro insegnamento, consegnando al Medioevo lo studio delle arti liberali e una nuova concezione della filosofia, intesa quest'ultima come exercitatio animi e comprensione dell'universale. Consegnata alla pratica educativa delle scuole cattedrali, l'enciclopedismo si caratterizzò come un sapere compilatorio e sincretico delle conoscenze, che tuttavia aveva l'esigenza di conservare e custodire la ricchezza della civiltà antica in uno strumento che fosse di semplice e immediata fruizione. Nel periodo compreso tra il VI e il XII secolo fiorirono infatti opere che avevano già dal loro titolo una precisa impostazione enciclopedica: summae, specula, trésors, sententiarum libri, institutiones, disciplinarum libri, regolarmente utilizzati per la formazione del clero e negli studi superiori presso i centri universitari che sorsero nel XII e XIII secolo.

Tra le opere enciclopediche medievali si segnalano il De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella (Le nozze di Filologia e Mercurio, composto verso il 430); le Institutiones divinarum et saecularium litterarum (Istituzioni delle lettere divine e profane) di Cassiodoro (490 ca.-524); i libri delle Etymologiae del vescovo Isidoro di Siviglia (560 ca. - 636); il De Universo libri di Rabano Mauro (IX sec.); lo Speculum majus di Vincenzo di Beauvais (XIII sec.); gli Excerpta di Costantino Porfirogenito (X sec.); il Didascalicon di Ugo di San Vittore (XII sec.); le Summae theologiae di Alberto Magno e Tommaso d'Aquino (XIII sec.); Li livres du Tresor di Brunetto Latini (XIII sec.).

L'erudizione è alla base della storiografia e consiste nella raccolta di notizie quanto più possibile minuziose e dettagliate intorno ad un argomento circoscritto e isolato in una dimensione strettamente specialistica. Quindi l'opera dell'erudito è preziosa per fornire allo storico i materiali su cui lavorare, e spesso le due figure coincidono. La cultura settecentesca, con le sue esigenze di rigore, esattezza e oggettività, fu particolarmente attratta dalla ricerca erudita, che spinse i suoi interessi nelle più varie direzioni, dall'antiquaria (lo studio di aspetti e problemi delle civiltà antiche) alla tradizione ecclesiastica, dall'arte alla letteratura; soprattutto in quest'ultimo campo furono raggiunti risultati interessanti, che culminarono nella Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi, primo esempio di un genere che, a partire dal secolo seguente, avrebbe espresso protagonisti illustri. Ma nel pur ricco panorama dell'erudizione italiana del XVIII secolo, la figura di maggior rilievo è senz'altro quella di Ludovico Antonio Muratori, scrittore di prodigiosa fecondità che seppe affrontare con la medesima autorevolezza gli ambiti tematici più diversi, dalle ricerche d'archivio sulla vita del Medioevo - i sei volumi delle Antiquitates Italicae medii aevi (Antichità italiane del Medioevo) -, alla raccolta di documenti rari e inediti di storia e cultura fra Medioevo e Rinascimento - Rerum Italicarum scriptores (Scrittori di storia italiana), in ventotto volumi -, fino al trattato in tre volumi Della perfetta poesia italiana, opera giovanile ma estremamente significativa per segnalare la decisa variazione del gusto che si verificò fra XVII e XVIII secolo. Il Muratori, però, fu una personalità che varcò i limiti della semplice erudizione: l'impegno per un rinnovamento culturale e civile della società italiana e la convinta adesione ai nuovi valori razionalistici contro l'ignoranza e la superstizione conferiscono alla sua opera un orizzonte ben più vasto di quello limitato e pedantesco proprio dell'erudito, e la affiancano alle manifestazioni più avanzate del contemporaneo pensiero europeo.

La scrittura autobiografica consiste nella narrazione in prosa della propria esperienza biografica e del proprio vissuto. Un genere dunque, molto specifico e particolare, tipico di molti scrittori dall'antichità fino all'età moderna, in cui il dato biografico e reale della vita vissuta viene spesso trasfigurato e modificato, fino a fare della vita un termine di riferimento ideale, un vero modello esemplare. Tra gli scritti autobiografici dell'antichità vanno ricordati per la ripresa che ebbero in tempi successivi I miei ricordi di Marco Aurelio, le Confessioni di Sant'Agostino, la Storia delle mie disgrazie del filosofo Pietro Abelardo. Ancora nel Cinquecento sono significative le autobiografie degli artisti-scrittori Benvenuto Cellini e Pontormo, che misero in evidenza il rapporto tra il mondo dell'arte e quello della committenza delle grandi corti signorili.

Un aspetto invece borghese si può rintracciare nella proliferazione settecentesca dell'autobiografia, dai Mémoires di Goldoni all'Autobiografia di Giambattista Vico, dalla Vita scritta da lui medesimo di Pietro Giannone alle Memorie inutili di Carlo Gozzi. In molti casi il modello è assunto dalle Confessioni di Rousseau, che sottolineavano la dimensione intima, psicologica, sentimentale, della scrittura. Sulla fioritura dell'autobiografia influirono in questo periodo le grandi esperienze intellettuali; i viaggi all'interno di un continente in cui la circolazione fisica degli uomini era più accessibile e frequente rispetto al passato, la piena coscienza di appartenere ad un'epoca nuova resero la prosa autobiografica strettamente collegata alla vita pubblica degli scrittori che raccontarono così i loro viaggi, i loro contatti con le società letterarie, con la mondanità delle fastose capitali europee (si ricordi il caso della Histoire de ma vie di Casanova, proprio costruita su questa falsariga).

Per tutto il Settecento, i numerosi livelli della cultura e i diversi campi del sapere si intrecciarono all'interno di un progetto comune di riformismo e di intervento nella realtà politica e sociale degli stati europei: è in questo contesto che nasce il concetto di interdisciplinarietà delle scienze, delle tecniche e delle arti (merito soprattutto dell'impresa editoriale e culturale della Encyclopédie). La concatenazione delle discipline rispecchiava la complessità e la stessa eterogeneità dell'immenso orizzonte epistemologico, del vasto dibattito politico-sociale, dei moderni strumenti di diffusione e circolazione del sapere che vennero creati nel XVIII secolo. Tra teoria e pratica, tra ideologia e intervento sociale si realizzò un forte legame di dipendenza: lo stesso fenomeno politico della Rivoluzione francese, che produsse il crollo definitivo dello stato assoluto segnando l'ascesa della classe borghese, non si può concepire se non all'interno del vasto dibattito sulle forme del potere e sull'amministrazione dello stato e della giustizia che prese il via dopo l'Esprit des lois (Lo spirito delle leggi) di Montesquieu, pubblicato nel 1748. La forte ispirazione antiassolutistica e parlamentare di Montesquieu, che ricalcava il modello politico già in atto in Inghilterra, proponeva una divisione dei tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) e condannava l'accentramento assolutistico avvenuto in Francia durante l'età di Luigi XIV, senza tuttavia "una precisa direttiva per la riforma della monarchia francese".

Del tutto diversa era la posizione di Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), decisamente spostato in una prospettiva di critica severa della società moderna e dei suoi sistemi politici. Nella ristretta cerchia dei philosophes riuniti attorno al progetto della Encyclopédie, egli maturò un vivo e profondo dissenso verso le possibilità di un cauto riformismo illuminato: Rousseau muoveva da un'analisi negativa e pessimistica della società, corrotta alle origini e fondata sulla disuguaglianza economica e sulla rigida divisione classista degli uomini. A partire dal Discorso sull'origine dell'ineguaglianza (1754), il dissidio personale e teorico di Rousseau con il gruppo degli enciclopedisti si fece via via più aspro e insistente, nonostante egli avesse collaborato al progetto di Diderot e d'Alembert con la voce Economia politica (1755). I motivi di questo distacco vanno ricercati nell'analisi estremamente più incisiva che Rousseau fece delle teorie giusnaturalistiche: il diritto naturale è al centro dell'analisi condotta nel Contratto sociale (1762), in cui Rousseau ribaltava l'interpretazione dello stato di natura che ne avevano dato gli enciclopedisti. All'origine del patto sociale vi è in sostanza una regola iniqua tra il ricco e il povero: con il patto sociale veniva legittimata la proprietà privata, e con essa la disuguaglianza sociale, e da qui i conflitti sociali, la guerra.




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