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..:CORTEGIANO:.. di Castiglione

letteratura



..:CORTEGIANO:..

di Castiglione


Una svolta di civiltà impone sempre un nuovo codice di comportamenti e di co­stumi. Si trattava di adeguare la forma della vita politica e cortigiana alla nuova cultura, delineando un ideale astratto di perfezione che tenesse conto però della con­creta realtà di fatto. Idealismo e realismo sono due facce, dunque, della stessa esi­genza; e infatti si ritrovano sia nel modello del principe lasciatoci da Machiavelli, sia in quello del "cortegiano" trasmessoci da Baldassar Castiglione.

Fra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, la trattatistica delineò esempi di comportamento in ogni campo, da quello religioso a quello profano del­le corti, sia in latino che in volgare. E in latino, per esempio, il De cardinalatu III car­dinalato di Paolo Cortese, del 1510, che contiene una serie di precetti per la vita privata e pubblica dei cardinali; è in volgare il più immediato antecedente, sulla stes­sa materia, del Cortegìano di Castiglione, e cioè il Tractato dello cortesano, pubbli­cato nel 1487 959b12j dal napoletano Diomede Carafa. Ma mentre Castiglione delinea una figura di cortigiano autonoma e, in sé, quasi autosufficiente, quella di Caràfa è del tutto subordinata alla «natura» e alle esigenze del signore. Si tenga inoltre presente che nell'ambito della trattatistica del comportamento si colloca anche il Galateo di Della Casa, che tratteremo più avanti, in questo stesso capitolo.



Un aspetto particolare della vita cortigiana era poi rappresentato dal costume femminile, a cui anche Castiglione dedica ampio spazio nella sua opera. Si con­trontano qui due posizioni, una misogina, fondata sulla considerazione della infe­riorità della donna e dunque della diversità delle qualità cortigiane che le sono ri­chieste, l'altra pio spregiudicata, in cui si teorizza la scissione fra essere e apparire:

la dissimulazione consentirebbe di salvare, da un lato, la famiglia e il matrimonio e, dall'altro, la libertà dei costumi in materia sessuale.

Il trattato di Castiglione si impone fra tutti e a un livello non solo italiano ma europeo sia perché dà espressione alla massima ambizione della civiltà umanisti­co rinascimentale, quella di unire in un modello unico la grazia e l'utilità, il bello e il buono, l'estetica e l'etica, sia perché riesce a fondare un ideale perfetto di compor­tamento a partire dallo studio concreto di una realtà attentamente analizzata duran­te tutta una esistenza appunto dedicata alla vita di corte.


L'opera è preceduta da una lettera dedicatoria a Michele De Silva, vescovo di Viseu in Portogallo, in cui Castiglione dichiara di aver preso a modello Cice­rone, Platone e Senofonte. Come costoro avevano offerto modelli di perfetto ora­tore (Cicerone, nel De oratore [L'oratore]), di perfetto stato (Platone, nella Repub­blica) e di perfetto sovrano (Senofonte, nella Ciropedia), così Castiglione vuole in­segnare a diventare perfetti cortigiani. Nella lettera dedicatoria viene allontanata nel tempo l'occasione del dialogo, facendo presente che quasi tutti gli interlocutori, che allora si riunivano alla corte di Urbino sotto Guidobaldo di Montefeltro, so­no nel frattempo morti. In tal modo l'autore tende a orientare la ricezione dell'o­pera, sganciandola da una situazione ancora attuale e concreta: trasforma in miti la corte urbinate e il dialogo che vi si svolge e li offre come modello assoluto alle va­rie corti europee.

Il dialogo è ambientato a Urbino nel 1506, durante il viaggio in Inghilterra del­l'autore. In sua assenza si sarebbe tenuto un gioco di società che poi gli sarebbe stato riferito al suo ritorno: per quattro sere una trentina di cortigiani, fra cui Pietro Bembo e Giuliano de' Medici, riunitisi intorno alla duchessa Elisabetta Gonzaga, cercano di definire il perfetto cortigiano.

Nel primo libro, a parlare è soprattutto Lodovico di Canossa. Si definisce subi­to la qualità principale del cortigiano: la grazia.. Questa consiste nel far diventare na­turale l'artificio della cultura, della raffinatezza, della civiltà, cancellando ogni affet­tazione attraverso la sprezzatura, cioè una disinvoltura e una scioltezza particolari.

Nel secondo libro si indicano le altre qualità del cortigiano: deve saper combat­tere e primeggiare nei tornei cavallereschi, saper cantare e danzare. L'ideale è quello di una medietà o mediocritas, che deve tenerlo lontano da ogni eccesso, anche nel ve­stire e nell'atteggiarsi.

Nel terzo libro l'argomento si sposta sulle donne, e cioè sulla figura della per­fetta «donna di palazzo». Giuliano de' Medici contrasta la tesi misogina, indicando un ideale di donna aggraziata ed elegante, che sa stare al gioco di società, sa ridere, scherzare, usare motti appropriati, ma resta comunque casta e virtuosa.

Nel quarto libro va registrato uno scarto. Sino a questo punto l'arte del corti­giano era considerata in sé e per sé e sembrava avere in se stessa il proprio fine. Ora invece viene considerata in relazione sia alla figura del principe e al problema del buon governo, sia alla moralità e alla dimensione religiosa dell'amore. Il fine del buon cortigiano è di influenzare il principe, senza adularlo: deve consigliarlo, dirgli la verità e correggerlo, se necessario. Il cortigiano, insomma, deve avere qualità mo­rali tali da poter condizionare l'attività del signore.

Si è a lungo discusso, fra i critici, se prevalga nel Cortegiano una mitizzazione astratta del passato, una sua assunzione a modello platonico e assoluto, fuori del tem­po e della storia, oppure una esigenza reale di attualizzazione, nata dall'analisi preci­sa del presente e dal bisogno di calare un modello di perfezione in una storia e in un costume concreti. Tende ora a predominare la seconda posizione. L'obiettivo della grazia esclude qualsiasi affettazione ed esige invece la conquista della sprezzatura , cioè di un'elegante naturalezza. Questa perenne metamorfosi di arte e natura, di artificio e di naturalezza, si gioca interamente sul terreno mobile e relativo dell'uso e della con­suetudine. Anche le posizioni sulla lingua di Castiglione sono coerenti con questa po­sizione, dato che assumono l'uso come criterio decisivo di scelta: di qui la diversità fra il classicismo linguistico di Castiglione e quello di Bembo, basato invece sull'imi­tazione. D'altra parte, il carattere di relatività implicito nella forma dialogica (che comporta una dialettica di posizioni diverse) è potenziato da Castiglione attraverso l'assunzione del criterio del «bon giudicio» che di volta in volta, al di fuori di ogni dogmatismo, deve indurre alle soluzioni più equilibrate. Perciò il Cortegiano, lungi dal sottrarsi al tempo, è «un'apologia del presente» (Mazzacurati), della sua mutevo­lezza e relatività, all'interno delle quali mira a portare ordine e regole.

A studiarla attentamente, l'opera di Castiglione non è insomma riducibile al mi­to immobile di un modello assoluto e metastorico. Ciò si nota anche sul piano del risultato conclusivo. Esso, lungi dall'essere l'esito perfetto ed equilibrato di un pro­getto armonico compiutamente realizzato, rivela tracce consistenti della sua fatico­sa gestazione, delle precedenti redazioni, di contraddizioni non risolte.

E vero tuttavia che Castiglione cerca di risolvere la tensione fra natura e civiltà e fra ordine e mutazione in un nuovo equilibrio, in una proposta che tiene conto sì della mutazione storica ma per disciplinarla in un modello. L'opera vuole presen­tarsi, insomma, e in parte effettivamente si presenta, come un campo di tensioni re­golato e dominato. La dialettica fra relatività e apertura da un lato e assolutezza e chiusura dall'altro appare come congelata. A questo effetto concorrono due ele­menti: anzitutto, l'orientamento dato alla ricezione attraverso la lettera dedicato­ria che allontana nel tempo il modello della corte urbinate e il dialogo stesso che vi si tiene trasformandoli in miti; in secondo luogo, lo stile.


GALATEO

Dopo Castiglione, la possibilità di realizzazione pratica dell'ideale del «cortegiano» entra in crisi. I superiori valori di civiltà che informano l'opera di Castiglio­ne si ridimensionano e si appiattiscono in quella di Della Casa: diventano precetti di vita comune, semplice buona educazione, "galateo" di norme pratiche.

La parola "galateo" deriva appunto dal titolo, Galateo ovvero de' costumi, del­l'opera di monsignor Giovanni Della Casa. A sua volta poi la parola 'galateo' deri­va dal nome del vescovo di Sessa, Galeazzo Florimonte, a cui l'opera era dedicata. Infatti il nome del vescovo, Galeazzo, in latino suona "Galatheus".

Nato vicino a Firenze nei 1503, Giovanni Della Casa intraprese la carriera ec­clesiastica allontanandosi dalla Toscana e vivendo a lungo a Roma e a Venezia, dove fu in contatto con Bembo. Al servizio del papa, sviluppò una politica filofrancese e antimedicea. A Venezia si occupò di censura libraria, cercando di opporsi all'aufè~ nomia giurisdizionale della Repubblica. Deluso per non esser stato nominato cardi­nale, si ritirò a vita privata nel trevigiano fra il 1549 e il 1555. Richiamato presso la curia nel 1555, ricoprì la carica di segretario di stato di papa Paolo IV Morì nel no­vembre 1556, senza aver ricevuto la nomina a cardinale a cui aveva a lungo ambito,

Il Galateo, scritto fra il 1551 e il 1555, e pubblicato postumo nel 1558, è scrit­to in uno stile medio e colloquiale. L'autore si finge un anziano illetterato che am­maestra un giovinetto, insegnandogli i buoni costumi, e cioè come comportarsi in società, a tavola, nella conversazione ecc. Fingendosi un «vecchio idiota» (ignoran­te), l'autore toglie alla propria prosa ogni carattere solenne e aulico e la ispira al buon senso della collettività. Della Casa non si rivolge infatti ai cortigiani, ma ai gen­tiluomini cittadini e dunque a uno strato assai più ampio e variegato della popola­zione. Si preoccupa soprattutto di insegnare ciò che non va fatto, norme di etichet­ta basate sul buon senso e sul conformismo sociale. Lo stesso linguaggio della co­municazione deve evitare ogni termine troppo forte o troppo colorito (di qui l'invi­to a non seguire il linguaggio di Dante, troppo espressivo e violento).

Della Casa sembra preoccupato più delle apparenze che della realtà, più delle forme che della sostanza: il gentiluomo deve soprattutto badare a conformarsi agli altri gentiluomini, a non fare nulla che possa dispiacere loro. Ma il suo libro, divenuto famoso (i suoi precetti, tramandati per secoli, sono giunti sino a og­gi), ha avuto comunque un effetto positivo di omogeneizzazione e uniformazione dei costumi civili.

ARETINO

La personalità dell'Aretino va vista in opposizione netta a quella di Bembo e Castiglione, personaggi di corte, teorici del classicismo moderno. Viceversa Aretino oppose alla vita cortigiana quella dell'uomo libero, si dichiarò sempre insofferente del servizio di corte - la sua vita fu rivolta solo all'affermazione di un anarchico individualismo - e seguace di una poetica che rifuggiva dall'imitazione di modelli classici e che si ispirava invece direttamente alla natura e alla forza libe­ra degli istinti. «Io dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo de la natura», scrisse infatti in una lettera del 1537.

Lo scenario dell'Aretino è la città, il mondo "moderno". Il suo anticlassicismo è un modo di intendere la letteratura come espressione immediata di un soggetto spregiudicatamente volto alla propria affermazione in una società ferocemente con­correnziale e che vuol sentirsi libero da qualsivoglia regola. Rientra in tale atteggia­mento anche l'uso anticonformistico, ma non privo di opportunismo, di tutti gli strumenti della scrittura e della stampa. Della stampa in particolare l'Aretino capì subito l'importanza ai fini non solo del successo e della fama letteraria, ma anche dell'affermazione economica: il libro, per lui, è anzitutto un prodotto da vendere, una merce.

Nato ad Arezzo nel 1492, si trasferì a Roma nel 1519, appoggiandosi a Giulio de' Medici e sostenendolo con violente pasquinate contro gli avversari. Costretto a un breve esilio quando salì al soglio pontificio Adriano VI. poté tornare a Roma appena Giulio de' Medici divenne papa con il nome di Cle­mente VII. Risale a questo periodo la prima redazione della commedia Cortigù­na che rovescia il modello perfetto di corte che stava allora offrendo Castiglione.La stampa dei Sonetti lussuriosi gli provocò l'inimicizia del vescovo Gianmatteo Giberti; accoltellato da un sicario di costui, dovette lasciare Roma nel 1526 e recarsi prima a Mantova, presso Federi­go Gonzaga, poi a Venezia, dove si stabilì nel 1527 e restò sino alla morte, avve­nuta trent'anni dopo, nel 1556. A Venezia - stato repubblicano e quindi più consono all'immagine di (<uomo libero» e anticortigiano che l'Aretino voleva dare di sé - egli sviluppò un'intensa attività di pubblicista, di incessante polemista, pronto a ricattare o ad adulare i potenti, a seconda delle sue esigenze pratiche.


L'aggettivo "cortigiano", cioè proprio della corte o di chi vive a corte, ha inizialmente un significato positivo. Il sost. cortigiano", e il suo equivalente femminile "cortigiana", na­scono con questa accezione positiva.

Il cortigiano è un gentiluomo che vive al seguito di un principe del quale è consigliere e collaboratore strettissima. Castiglione, nel suo Cortegiano, delinea le caratteristiche del perfetto cortigiano: sempre sincero nei con­fronti del proprio signore, pronto ad «aiutare il suo principe al bene e spaventarla dal ma­le», le sue virtù sono la ((prontezza d'inge­gno», la saggezza, la «notizia di lettere» cioè la cultura e la capacità di dissimulare in ap­parente naturalezza l'artificio del proprio equi­librato comportamento (cfr. ~ 81.

La donna di corte o cortigiana ha un ruolo attivo nella vita cortese: è una donna di livello intellettuale alto e di modi raffi­nati, che s'intende di poesia, di arte o di musica, che organizza la vita mondana del palazzo, che è capace di intrattenere rap­porti con uomini diversi, e di offrire i propri favori ad aristocratici (ecclesiastici o laici), in un rapporto di reciproca stima. Castiglione, sempre nel Cortegiàno, la chiama "donna di palazzo" e individua le sue virtù nell'affabilità piacevole», nell'onestà» (cioè nella dignità) non disgiunta da una ((pronta vivacità d'ingegno» che permetta di affrontare qualsiasi discorso o situazione con perfetto equilibrio.

Non è casuale che Castiglione preferi­sca l'espressione "donna di palazzo" (una *perifrasi) a "cortigiana". Infatti "cortigia­na" cominciò presto ad avere una sfumatu­ra negativa. Più tardi anche "cortigiano" as­sunse un significato egualmente negativo.

Cercando per esempio la voce "corti­giano" in un dizionario di sinonimi si trova 'adulatore': intatti il ruolo di consigliere interessato al bene del signore e dello stato decade presto a quello di parassita che adora il principe esclusivamente per garantire i propri interessi e privilegi; così oggi si chiama "cortigiano" chi adula per opportunismo. Cercando poi la voce "cor­tigiana" si trova 'prostituta': spostata l'at­tenzione solo sulla capacità femminile di intrattenere gli uomini, oggi si definisce "cortigiana" una prostituta che frequenta ambienti elevati.




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