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Giovanni Vérga

letteratura




Giovanni Vérga





Scrittore italiano (Catania 1840-1922). Di formazione romantico-risorgimentale, esordì con romanzi storici e patriottici ispirati a Dumas (Amore e patria, rimasto inedito; I carbonari della montagna, 1861-62; Sulle lagune, 1863), occupandosi nel contempo di giornalismo politico. Trasferitosi a Firenze nel 1865, frequentò i salotti letterari e, a Milano dal 1872, entrò in contatto con gli ambienti della Scapigliatura e aderì al Verismo. Non ebbe grande successo presso il pubblico, più sensibile alla problematica di Fogazzaro o all'estetismo di D'Annunzio. Ritornato a Catani 515g69f a (1893), abbandonò l'attività di scrittore, vivendo i suoi ultimi anni in modo schivo e riservato. Il tema dello scontro con la società appare già in Una peccatrice (1865), dove è affermato il valore assoluto della passione amorosa, con eccessive compiacenze per i motivi tetri e macabri, che fanno di questo romanzo, ripudiato dallo stesso autore, un "museo degli orrori romantici" (L. Russo). Una vicenda d'amore è anche Storia di una capinera (1871), che piacque per il motivo sociale della monacazione forzata e per il languido romanticismo; ma nella parte finale del romanzo appaiono motivi di gusto già scapigliato, che sono sviluppati in Eva (1873): questo primo romanzo milanese segna il passaggio di Verga dall'ingenua mitologia romantica a un moralismo ribelle contro una società dominata dal feticcio del denaro, alla quale viene contrapposto il ritorno ai valori tradizionali della famiglia. Questo tema domina anche in Tigre reale (1873), notevole per il primo apparire del motivo della rinuncia all'amore, che avrà ampio sviluppo nei capolavori e in Eros (1875), incentrato sul cinismo disilluso, come fulcro di una vita sbagliata, inesorabilmente chiusa dal suicidio del protagonista. Dopo questo romanzo, Verga abbandona anche il moralismo scapigliato e ogni polemica contro la società aristocratico-borghese per ripiegare nel vagheggiamento di una società contadina e preindustriale. Tale svolta, che coincide con l'adesione al Verismo, non si manifesta, nonostante l'argomento rusticano, in Nedda (1874), dove manca ancora l'impersonalità e troppo scoperto è il vittimismo tardo-romantico, e neppure in Primavera e altri racconti (1876), ma nei racconti di Vita dei campi (1880), centrati su un mondo elementare e arcaico, dove l'unica difesa contro la spietata legge dell'interesse economico è la famiglia. Vertici narrativi di Vita dei campi sono due racconti di emarginati: Jeli il pastore che, muovendo dalla struggente evocazione della campagna siciliana, narra il tragico impatto di un giovane "primitivo" con un contesto sociale fondato sulla proprietà privata come unico valore, e Rosso Malpelo, storia di un ragazzo che accetta e nel contempo denuncia con estrema lucidità, il sistema di violenza su cui è strutturata la società. Il contrasto tra mondo borghese e società arcaico-rurale si traduce, nei Malavoglia (1881), nell'opposizione tra gli abitanti di Aci Trezza, guidati dalla legge dell'egoismo e dall'interesse e i Malavoglia, fedeli al mito della famiglia ma destinati a essere travolti e a sentirsi isolati e "vinti". L'originalità del romanzo, sul piano stilistico, è nel "discorso rivissuto", con il quale Verga filtra il racconto attraverso i pensieri e i discorsi dei paesani, raggiungendo un esito altissimo di coralità. Dopo Il marito di Elena (1882), di ambiente cittadino e piccolo-borghese, Verga pubblicò le Novelle rusticane (1883), dove crollano i miti della famiglia e dell'onore, mentre diventa più spietata e più dura la logica economica (Pane nero, La roba) e si scatena la violenza di classe (Libertà). Dopo le novelle di Per le vie (1883) e Vagabondaggio (1887), dove è rappresentato il mondo popolare milanese e siciliano, appare il secondo romanzo del ciclo dei "vinti", Mastro don Gesualdo (1889), dramma dell'ascesa sociale di un ex manovale, il cui benessere economico, raggiunto dopo tante fatiche, rende ancora più tragica la morte, in una solitudine squallida e disperata. L'abisso tra natura e storia, che caratterizzava i Malavoglia, appare colmato in Mastro don Gesualdo non perché Verga abbia modificato il suo pessimismo, che, anzi, si è incupito, ma perché la vicenda storico-politica, che nell'episodio malavogliesco della battaglia di Lissa era una realtà estranea e lontana, ora è vista dall'interno, e Verga dà voce alla delusione storica nei confronti del Risorgimento tradito. Dopo Mastro don Gesualdo comincia il lungo crepuscolo dello scrittore, la cui esperienza teatrale si riduce a una trasposizione più o meno riuscita della sua narrativa sulla scena (Cavalleria rusticana, 1884; In portineria, 1885; La Lupa, 1896; Caccia al lupo e Caccia alla volpe, 1902; Dal tuo al mio, 1903; Rose caduche 1918). Tra le altre opere narrative, ricordiamo il racconto di Caccia al lupo (1897), di efficace taglio drammatico, e il romanzo Dal tuo al mio (1905), che, come l'incompiuta Duchessa di Leyra, contiene pagine di notevole potenza artistica.



I Malavoglia. È la storia di una famiglia decaduta di pescatori, i Toscano, detti "Malavoglia", che cercano invano di ritornare all'originaria condizione di proprietari della "casa del nespolo" e di una barca, la Provvidenza. Il vecchio Padron 'Ntoni, patriarca della famiglia e padre di Bastianazzo, che a sua volta è padre di cinque figli, combina un negozio di lupini, ma la barca che li trasporta fa naufragio provocando la morte di Bastianazzo. Per far fronte ai debiti, occorre vendere la casa; muore intanto, a Lissa, uno dei nipoti, Luca, e muore anche la nuora Maruzza, colpita dal colera; degli altri nipoti, Lia fugge da casa, Mena deve rinunciare all'amore e 'Ntoni finisce in galera. Resta Alessi, che riscatta la casa del nespolo, dove però non ci sarà più posto per 'Ntoni, uscito dal carcere, consapevole di aver profanato la religione della famiglia.

Mastro don Gesualdo. Gesualdo Motta, un manovale, diventa, a furia di lavorare, un ricco borghese e vuole imparentarsi con la nobiltà: sposa Bianca Trao, costretta al matrimonio per rimediare a una precedente relazione, il cui frutto è la figlia Isabella. Isolato nella famiglia, ricattato dalla famiglia d'origine, Gesualdo deve abbandonare Diodata, la serva fedele che egli ha reso più volte madre. Isabella sposa un duca squattrinato che disperde le sostanze accumulate con tanta fatica da Gesualdo; questi, ammalatosi nel palazzo palermitano del genero, tenta invano di comunicare le sue ultime intenzioni alla figlia e si spegne solo, tra l'indifferenza e i pettegolezzi dei servi.





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