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ALTRI DOCUMENTI
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Gabriele d'Annunzio divenne un personaggio di primo piano nella nostra storia nazionale per la sua azione favorevole all'intervento italiano nella prima guerra mondiale: Il celebre discorso La sagra dei mille, pronunciato sullo scoglio di Quarto il 5 maggio 1915, fu come una scintilla che percorse tutta l'Italia ed infiammò i giovani alla lotta. Quando l'Italia entrò in guerra, D'annunzio aveva 52 anni, ma partecipò alla lotta prima fra i Lancieri di Novara, poi in marina e quindi in aviazione. Compì molte imprese eccezionali, dalla beffa di Buccari al volo su Vienna. Alla fine della guerra non fu soddisfatto della cessione di Fiume alla Jugoslavia e perciò occupò la città dalmata costituendovi un gD'Annunzio, il geniale D'Annunzio, D'Annunzio che tutto faceva invece di sognarlo, fu idolatrato dalla borghesia che sognava di imitarlo ma o non era capace o non poteva (gli affari, gli interessi, la famiglia, la mamma, il perbenismo). Fautore di un progetto aristocratico sia per la vita che per l'arte, D'Annunzio disprezzò le masse e coprì di parole di spregio e di derisione la borghesia bottegaia. Nondimeno era adorato.
Nell'Italia umbertina e giolittiana del buon senso il dannunzianesimo eccitava morbosamente la fantasia di quanti non avevano la forza morale (o dovrei dire immorale?), l'intelligenza e la vitalità per diventare essi stessi Gabrielid'annunzio.
Nasce a Pescara il 12 marzo 1863. Nel 1874 viene iscritto al collegio Cicognini di Prato, dove resta sino al completamento degli studi liceali nel 1881; nel 1879 pubblica una raccolta di versi, Primo vere, che esce in seconda edizione l'anno seguente.
1881-1891: periodo romano
Trasferitosi a Roma nel 1881, alla conclusione degli studi liceali, pubblicò dei racconti di cornice verista, Le novelle della Pescara , ambientate in un Abruzzo primitivo e prorompente di umori sensuali, che danno inizio a un periodo detto appunto il periodo romano, denso di interessi mondani e culturali. Tutto proteso alla conquista della notorietà e della gloria, frequentò i salotti più raffinati ed ebbe amori tanto travolgenti quanto effimeri; tentò l'avventura politica, ottenendo l'elezione al Parlamento e scrisse moltissimo sia in prosa che in poesia.
Pubblica le raccolte poetiche Canto novo (1882) e Intermezzo (1883). Lo "scandalo" della sua relazione con la duchessina Maria Hardouin di Gallese si conclude con il matrimonio. Nel 1889 pubblica Il piacere, la testimonianza più cospicua dell'estetismo italiano.
1891-94: periodo napoletano
La relazione con Barbara Leoni, iniziata all'incirca nel 1886, sta già per finire agli inizi degli anni Novanta: non se ne avvantaggia comunque il rapporto coniugale da cui sono nati tre figli. Si trasferisce a Napoli: collabora al "Corriere di Napoli" diretto da E. Scarfoglio e M. Serao; inizia una relazione con Maria Anguissola, principessa Gravina, da cui ha due figli, che finisce nel 1897 quando inizia la frequentazione con Eleonora Duse.
Pubblica:
il romanzo L'innocente (1892)
la raccolta di liriche Elegie romane (1892)
le liriche del Poema paradisiaco (1893, il titolo della raccolta fu "imposto" a D'Annunzio dall'editore; il poeta, in quel momento in urto con il pubblico voleva titolarla: Margaritae ante porcos, Perle ai porci, dove è chiaro chi fossero i "porci" e cosa le "perle")
il romanzo Trionfo della morte (1894).
Nell'estate del 1895 compie un viaggio in Grecia e nel 1897 partecipa alle elezioni riuscendo eletto deputato, con un programma "al di là della destra e della sinistra", che sostanzialmente è di chiara impostazione nazionalistica.
1898-1910: periodo de "La Capponcina"
Negli ultimi anni del secolo D'Annunzio si stabilì a Settignano in Toscana, nella villa della Capponcina, dove condusse una vita talmente dispendiosa che, caricatosi di debiti nonostante i cospicui guadagni ottenuti con le sue opere, nel 1909 fu costretto a fuggire in Francia, in "volontario esilio", come egli disse con sconfinata impudenza. "La Capponcina", che ha lussuosamente arredato, è poco lontana dalla villa della Duse, la quale nel 1899 è interpreta l'opera teatrale La Gioconda che ottiene notevole successo.
Nel 1900 il suo romanzo Il fuoco 656b11g fa scandalo per le rivelazioni sugli
amori con la Duse.
Produce varie opere teatrali: La figlia di Jorio, La fiaccola sotto il moggio,
La nave e coltiva anche altre relazioni amorose..
1910-15: periodo francese
Vive, lussuosamente, a Parigi, circondato da ammiratori e da amanti. Dalla Francia seguiva attentamente le vicende italiane. Allo scoppio della guerra di Libia scrisse le Canzoni delle gesta d'oltremare che inneggiavano alle mire espansionistiche italiane.
Scrisse, in francese: Le martyre de Saint Sébastien, e la Pisanelle.
1915-1920: gli anni della guerra
Nel 1915 ritorna in Italia e partecipa attivamente alla propaganda
interventista col discorso a Quarto per la Sagra dei Mille. Durante la guerra,
alla quale partecipò come volontario, ottenne varie medaglie d'oro e d'argento
per le sue imprese spericolate. In seguito a un incidente occorsogli durante un
atterraggio di fortuna, perse un occhio. Costretto all'immobilità per un certo
periodo, scrisse il Notturno, una serie di prose ritenute tra le cose di
D'Annunzio più sincere e più intense.
Nel settembre, a capo di volontari e di forze regolari, occupa militarmente
Fiume in opposizione al governo italiano: la abbandonerà di fronte
all'intervento dell'esercito italiano nel dicembre del 1920.
1921-38: gli ultimi anni
Si stabilisce sul Lago di Garda, a Gardone Riviera, in una magnifica
villa prospiciente il lago di Garda. Di qui salutò con grande favore l'avvento
del fascismo ma Mussolini, mentre da una parte lo ricolmò di favori e di onori,
dall'altra lo tenne alla larga dalla politica. D'Annunzio trascorse gli ultimi
anni in un isolamento tanto splendido quanto intimamente vuoto. Nel 1937 viene
nominato presidente dell'Accademia d'Italia; muore il 1° marzo 1938 per
emorragia celebrale.
A quest'ultimo periodo risale il Libro segreto, che insieme al Notturno oggi
gode di molta attenzione da parte dei critici.
OPERE PIÙ SIGNIFICATIVE
Canto novo, raccolta di liriche pubblicata nel 1882. La natura è rappresentata nel suo tripudio di luci, colori, odori e con essa il giovane poeta stabilisce un "rapporto di tipo solare" proteso al godimento e alla fusione con essa.
Il piacere, il più noto dei romanzi di D'annunzio.
Ne è protagonista Andrea Sperelli. Raffinato e gelido; cultore solo di un bello aristocratico; spregiatore del grigio diluvio democratico odierno che tante belle cose e rare sommerge miseramente, Andrea Sperelli è l'ultimo rampollo di un'antica famiglia nobile e ne continua anche la tradizione: è un raffinato, predilige gli studi insoliti, è un esteta. Tutta la sua vita è improntata su questi criteri come pure la vita amorosa.
Il romanzo si apre nel giorno di S.Silvestro. Andrea Sperelli, il protagonista, attende, nel suo appartamento la visita di Elena Muti, la donna che è stata sua amante, ma che non vede da quasi un anno. L'arrivo di Elena è preceduto da una rievocazione dell'ultimo incontro fra i due e, come in un gioco di scatole cinesi, dal ricordo della loro storia d'amore che in quel giorno lontano Andrea aveva rievocato. L'incontro porta però ad una nuova separazione ed Elena, che ora è sposata, se ne va piangente, lasciando l'amante nella prostrazione più profonda.
I capitoli che seguono ripropongono in modo più dettagliato ed
impersonale il primo incontro tra i due e la loro storia d'amore, terminata
quando la donna (già vedova del duca di Scerni) aveva preferito sposare il
ricchissimo Lord Heathfield, e la tumultuosa serie di avventure
erotico-sentimentali alle quali Sperelli si era abbandonato dopo il loro addio.
Il primo libro termina con la descrizione di un duello in cui Andrea è
coinvolto a causa di un'altra donna e che termina con il suo ferimento.
Durante la convalescenza, in una sorta di purificazione e di rinascita
spirituale, Andrea Sperelli scopre la profonda perfezione dell'arte e medita di
"trovare una forma di Poema moderno", "una lirica veramente
moderna nel contenuto ma vestita di tutte le antiche eleganze". E' in
questo momento di elevazione intellettuale e di distacco dalle passioni
tumultuose che egli incontra Maria Ferres, moglie di un ministro guatemalteco,
ed inizia fra i due un amore platonico, poi rievocato, attimo per attimo, nel
diario di Maria che occupa un'ampia sezione del secondo libro e che termina con
l'esplicito riconoscimento, da parte della donna, del suo amore per Andrea.
A questo punto si chiude la lunga parentesi retrospettiva e la narrazione
riprende dal quel giorno di San Silvestro in cui Elena ed Andrea si
rincontrano. Tutta la parte finale è costituita da una sorte di tormentato
contrappunto tra l'amore sensuale per la Muti, che illude e tradisce Andrea
tenendolo però avvinto a sé, e l'amore più puro e spirituale del protagonista
per Maria. Sarà però la passione dei sensi a prevalere e, proprio quando Andrea
sembra aver conquistato definitivamente il cuore della Ferres che gli si
concede, egli pronuncerà, fra le braccia della sua nuova amante il nome di
Elena.
Poema paradisiaco, raccolta di liriche composte dal 1891 e pubblicate nel 1893.
Il titolo, derivato dal latino, equivale letteralmente a "poema dei
giardini". Si rileva qui la tematica decadente, ma segnata di rievocazione
nostalgica, con aspirazioni epidermiche a una sorta di purezza e di
spiritualizzazione delle passioni, che si traducono in un linguaggio e in una
versificazione sapientissimi, accordati su toni dimessi, come di colloquio e di
confessione.
L'Innocente, romanzo pubblicato nel 1892, che non tiene nascosti gli influssi
della lettura del russo Dostoevskij. È una narrazione in prima persona ed è
incentrato sulle vicende del "multanime" Tullio Hermil e della moglie
Giuliana. A lei, malata, Tullio si dedica in modo particolare con una sorta di
volontaristica pratica di "bontà", malgrado sia attratto e legato
all'amante Teresa Raffo. Ma proprio quando si libera da questo legame, crede di
scoprire gli indizi di una relazione della moglie con lo scrittore Filippo
Arborio poi confermati dalla notizia che Giuliana è incinta. Nei due coniugi
spunta un progetto delittuoso: sopprimere il nascituro, testimonianza di una
fugace colpa, ostacolo alla realizzazione del loro "sublime" amore. È
Tullio che, esponendo al freddo invernale il bambino, l'"innocente",
compie il delitto.
Trionfo della morte, romanzo del 1894, terzo del "Ciclo della rosa".
L'opera, articolata in sei "libri", ha una struttura narrativa
debole. È incentrata sul rapporto contraddittorio e ambiguo di Giorgio Aurispa
con l'amante Ippolita Sanzio e su questo tema di fondo si innestano o si
sovrappongono altri motivi e argomenti. Giorgio, in una confusa contaminazione
tra superomismo e velleità mistiche, aspira a realizzare una vita nuova, una
perfezione di vita spirituale che si fondi sull'autodominio e sull'autosufficienza,
e vive il rapporto con l'amante come limitazione, come ostacolo.
Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: l'opera poetica più notevole
e famosa. Doveva essere di cinque libri, quante sono le Pleiadi, invece è solo
di quattro.
Il primo libro, Maia, è composto nel 1903 e il sottotitolo (Laus vitae) ne chiarisce i motivi ispiratori: una vitalistica celebrazione dell'energia vitale, un naturalismo pagano impreziosito o sopraffatto dai riferimenti classici e mitologici.
Il secondo libro, Elettra, composto tra il 1899 e il 1902 celebra gli eroi della patria e dell'arte; nella terza parte sono cantate 25 "città del silenzio" e nella quarta parte è il famoso Canto augurale per la Nazione eletta che infiammò di entusiasmo i nazionalisti italiani.
Il terzo libro, Alcyone, pubblicato con il primo, contiene il meglio di D'Annunzio come poeta.
Il quarto libro, Merope, raccoglie canti celebrativi della conquista della Libia.
Notturno, raccolta di meditazioni e ricordi, in forma di prosa lirica, redatta nel 1916 durante il periodo di immobilità e di cecità. L'opera è caratterizzata da un momento di intimità e di ripiegamento su sé stesso.
Nella prima parte del libro predomina il ricordo dell'amico e compagno
di armi Giuseppe Miraglia, morto ancora giovane nel dicembre del 1915, cui farà
seguito il sentimento denso di commozione affettuosa per la madre inferma e
stanca, che morì di lì a poco, nel gennaio del 1917.
Tra pagine di esaltazione eroica, in cui il poeta lamenta l'inganno che la
morte gli ha teso, lasciandolo in vita al posto dei suoi più giovani compagni,
tra quelle di dolente rimpianto per gli amici scomparsi, troviamo appuntate le
sensazioni del poeta, le sue osservazioni sulla vita e sull'arte e
preziosissime riflessioni.
IL CICLO DEI ROMANZI
Sull'esempio dei romanzi ciclici dell'ottocento di Honorè de Balzac (La
commedia umana), di Zola (i Rougon-Macquart), di Verga (I vinti), D'Annunzio si
propose di scrivere un ciclo di romanzi, suddiviso in tre trilogie, ciascuna
denominata da un fiore (la rosa, il giglio, il melograno), simbolo delle tappe
evolutive del suo spirito dalla schiavitù delle passioni alla vittoria su di
esse, giacchè i protagonisti dei romanzi non sono che la proiezione sul piano
narrativo dello stesso D'Annunzio.
I romanzi della rosa, fiore simbolo della voluttà, della passione invincibile:
Il Piacere (1889) L'innocente (1892) Il trionfo della morte (1894)
I romanzi del giglio, fiore simbolo del superuomo, della passione che si
purifica. La seconda trilogia doveva ispirarsi al superuomo di Nietzsche. Il
superuomo non è più schiavo delle passioni ma si serve di esse per realizzare
pienamente la propria volontà di potenza. In verità Nietzsche non auspicava
l'avvento di un uomo superiore agli altri, al quale, in grazia delle qualità
eccezionali, fosse tutto permesso, ma l'avvento di un'umanità rinnovata la
quale, per poter sviluppare tutte le sue potenzialità, doveva liberarsi da ogni
soggezione alla trascendenza e alla morale tradizionale, fatta di ipocrisie e
finzioni. D'Annunzio ignorò o finse di ignorare il significato profondo del
niccianesino e lo adottò al suo temperamento sensuale, facendo del superuomo
l'individuo d'eccezione, destinato a dominare sugli altri. Nel superuomo
nicciano, così come lo immaginò D'Annunzio, s'intravede piuttosto il profilo
dei grandi dittatori sanguinari e deliranti del nostro secolo, col loro macabro
seguito di tragedie e di guerre.
Della seconda trilogia, D'Annunzio scrisse solo il primo, Le vergini delle
rocce (1896). Claudio Cantelmo, aristocratico e imperialista, seguace delle
dottrine del superuomo, concepisce il disegno di unirsi in matrimonio con una
delle principesse (Massimilla, Anatolia, Violante) di un'antica famiglia
borbonica del regno delle due Sicilie, i Capece-Montaga, ridottasi a vivere
nell'ultimo dei suoi feudi, Trigento, "paese di rocce". Scopo del
matrimonio è procreare il futuro sovrano, al quale un giorno il popolo,
disgustato della demagogia e dalla corruzione della vita politica, offrirà la
corona regale.
I romanzi del melograno, pomo dai molti granelli, simbolo dei frutti
che possono derivare dal dominio delle passioni. Dei tre romanzi previsti,
D'Annunzio scrisse solo il primo, Il fuoco (1900).
Il fuoco (così intitolato perché inteso come simbolo della creatività
dell'artefice), narra, sullo sfondo di Venezia, la storia dell'amore di Stelio
Éffrena per la Foscarina. E' un romanzo scopertamente autobiografico, perché vi
è adombrata la storia dell'amore del poeta per l'attrice Eleonora Duse.
Stelio è un poeta che sogna una nuova forma di arte drammatica, che risulti
dall'intima fusione della parola, del colore, del suono, dell'azione. E' la
stessa poetica di Wagner, che del romanzo è un personaggio. La Foscarina
dovrebbe essere l'interprete di questo nuovo dramma; ma Stelio s'innamora della
giovinetta Donatella Arvale. La Foscarina se ne accorge e ne è gelosa, ma dopo,
rassegnata, cede il posto alla rivale e si accomiata da Stelio.
IL MITO DI D'ANNUNZIO
D'Annunzio rappresentò nella vita italiana, con i suoi atteggiamenti,
innanzitutto un fatto di costume, incarnò i desideri di evasione dalla
monotonia quotidiana di ceti intellettuali e borghesi insoddisfatti della
realtà della vita nazionale nei decenni post-risorgimentali. Per questo gran
parte della sua vastissima opera, creata per esaltare e sostenere il mito che
di sé aveva costruito, appare oggi superata e priva di attualità.
Ebbe tuttavia almeno due meriti: sul piano culturale, si avvicinò di volta in
volta ad autori ed atteggiamenti del decadentismo europeo contribuendo a
diffonderne la conoscenza in Italia ed a sprovincializzare la nostra cultura.
Sul piano più intimamente poetico, accanto all'esteriorità di molti
atteggiamenti esibizionistici seppe almeno cogliere ed esprimere la comunione
dei sensi e dell'anima con la molteplicità della vita naturale, creando quella
dimensione "panica", di immedesimazione quasi fisica e sensuale
basata sulle immediate sensazioni, che in particolare nella raccolta Alcyone
segna il nascere di un atteggiamento nuovo per la nostra poesia.
Per esprimere questo atteggiamento raffinato e sensuale D'Annunzio si servì di
un linguaggio ostentatamente insolito ed artistico, basato sul recupero di
preziose voci arcaiche e sull'invenzione di neologismi capaci di stupire e
meravigliare; creò così un "culto della parola" ricercata soprattutto
per clamorose risonanze musicali (anch'egli si affidò molto alle onomatopee)
che spesso è solo espediente retorico, ma che sa anche diventare talora
esperienza linguistica originale e contribuisce, anche se in misura minore del
Pascoli, ad avviare il nuovo linguaggio poetico del '900 verso le svolte
successive.
L'ANNO MORIVA ASSAI DOLCEMENTE (libro 1,cap.1)
E' l'inizio del romanzo: l'ultimo giorno dell'anno che muore dolcemente con un
sole che spande "non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi
primaverile" sulla Roma elegante e aristocratica di fine 800. Dopo la
rapida carrellata l'attenzione si delimita alle stanze di Palazzi Zuccari dove
Andrea Sperelli attende una visita di Elena, ma l'incontro è subito differito
da una analessi che sposta l'azione a due anni prima, al momento della partenza
di Elena.
L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che
tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le
vie erano popolose come nelle domeniche di maggio. Su la piazza Barberini, su
la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e
dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti,
alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan né vasi i
fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di
cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in
guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la
Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra
forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione
diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare immagine di una religiosa o
amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno
rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel
caminetto e al piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in
maiolica di Castel Durante ornate di storiette mitologiche da Luzio Dolci,
antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto l figure erano scritti in
carattere corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio. La luce entrava temperata
dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a foglie e a
motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine
di pizzo si disegnava sul tappeto.
L'orologio della Trinità de'Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz'ora.
Andrea Sperelli si levò dal divano dov'era disteso e andò ad aprire una delle
finestre; poi diede alcuni passi nell'appartamento; poi aprì un libro, ne lesse
qualche riga, lo richuiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo
dubitante. L'ansia dell'aspettazione lo pungeva così acutamente ch'egli aveva
bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto
materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco,
mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo il ginepro. Il mucchio crollò; i
carboni sfavillavano rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il
tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano
e riapparivano; i tizzi fumigarono.
Allora scorse nello spirito dell'aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel
caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un'ora
d'intimità.
Ella aveva molt'arte nell'accumular gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva
le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po' indietro il capo ad
evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell'atto un po' faticoso, per i
movimenti de' muscoli e per l'ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte
le giunture, da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d'un pallor d'ombra
che richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le
estremità un po' correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi
direi arboreicome nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della
metamorfosi favoleggiata.
Appena ella aveva compiuta l'opera, le legna conflagravano e rendevano un
sùbito bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo
entrante pe' vetri lottavano qualche tempo. L'odore del ginepro arso dava al
capo uno stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie di follia
infantile, alla vista della vampa. Aveva l'abitudine, un po' crudele, di
sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch'eran ne' vasi, alla fine d'ogni convegno
d'amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita, mettendosi i guanti
o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla
eguagliava la grazia dell'atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la
gonna ed avanzando prima un piede e poi l'altro perché l'amante chino legasse i
nastri della scarpa ancora disciolti.
Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva
guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le immagini del tempo lontano
rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar
quella soglia. Tra mezz'ora, certo, ella si sarebbe seduta in quella poltrona,
togliendosi il velo di su la faccia, un poco ansante, come una volta; ed
avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce di lei, forse anche il
riso di lei, dopo due anni.
Il giorno del grande commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille
ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data era
rimasta incancellabile nella memoria di Andrea. Egli ora, aspettando, poteva
evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza infallibile. La
visione del paesaggio momentaneo gli si apriva d'innanzi ora in una luce
ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono essere visibili
di lontano per un irradiamento che si prolunga dalle loro forme.
CHI E' ANDREA SPERELLI (libro I, cap.2)
Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare
sommerge miserarnente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe
di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione
una certa tradizion familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di arte.
A questa classe, ch'io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto
splendore nell'amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli.
L'urbanità, l'atticismo, l'amore delle delicatezze, la predilezione per gli
studii insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria
raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie. [ ... ]
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d'Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion
familiare. Egli era, in verità, l'ideal tipo del giovine signore italiano nel
XIX secolo, il legittimo campione d'una stirpe di gentiluomini e di artisti
eleganti, l'ultimo discendente d'una razza intellettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita
di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a' venti anni,
le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la
sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni
e costrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d'arte,
il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de' pregiudizii,
l'avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica,
sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e
insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso
suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa
passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace
coniugale. Finalmente s'era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il
figliuolo, viaggiando con lui per tutta l'Europa.
L'educazione d'Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su
i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era
soltanto corrotto dall'alta cultura ma anche dall'esperimento: e in lui la
curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal
principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond'egli era
dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma
l'espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un'altra forza,
della forza morale, che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere.
Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà,
delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il
circolo gli si restringeva sempre più d'intorno inesorabilmente sebben con
lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: "
Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte. Bisogna che la
vita d'un uomo d'intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.
" Anche, il padre ammoniva: "Bisogna conservare ad ogni costo intiera
la libertà, fin nell'ebbrezza. La regola dell'uomo d'intelletto, eccola: -
Habere, non haberi". Anche, diceva: "Il rimpianto è il vano
pascolo d'uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto
occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove
imaginazioni." Ma queste massime volontarie, che per l'ambiguità
loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano
appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza
volitiva era debolissima.
Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell'animo di Andrea: il
seme del sofisma. "Il sofisma " diceva quell'incauto educatore "
è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i
sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il
proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell'oscurare la verità. La
parola è una cosa profonda, in cui per l'uomo d'intelletto son nascoste
inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più
squisiti goditori dell'antichità. I sofisti fioriscono in maggior numero al
secolo di Pericle, al secolo gaudioso.
Un tal seme trovò nell'ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco
a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso
divenne un abito così aderente alla conscienza ch'egli giunse a non poter mai
essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero
dominio. Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno,
signore d'una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue
passioni e de' suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò
in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi, non
la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle
Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici,
il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l'Arco di Tito per la Fontanella
delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei
Barberini l'attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo
gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato
dai Caracci, come quello Farnese, una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani,
di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d'Alessandro
Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d'Oriente, il marmo bianco di
Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse
del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In
casa della marchesa d'Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane,
accanto alla domanda: " Che vorreste voi essere? >, egli aveva scritto
" Principe romano ".
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il suo home
nel palazzo Zuccari alla Trinità de' Monti, su quel dilettoso tepidario
cattolico dove l'ombra dell'obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò
tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze
furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d'invincibile
tristezza. Era una estate di San Martino, una primavera de' morti, grave e
soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d'oro come una città dell'Estremo
Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne'
mari australi.
Quel languore dell'aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere
la loro realità e divenire immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione
infinita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di
vacuità, di nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla mutazione
del clima, delle abitudini, degli usi. L'anima converte in fenomeni psichici le
impressioni dell'organismo mal definite, a quella guisa che il sogno trasforma
secondo la sua natura gli incidenti del sonno.
Certo egli ora entrava in un novello stadio. - Avrebbe alfin trovato la donna e
l'opera capaci d'impadronirsi del suo cuore e di divenire il suo scopo?
- Non aveva dentro di sé la sicurezza della forza né il presentimento della
gloria o della felicità. Tutto penetrato e imbevuto di arte, non aveva ancòra
prodotto nessuna opera notevole. Avido d'amore e di piacere, non aveva ancóra
interamente amato né aveva ancor mai goduto ingenuamente. Torturato da un
Ideale, non ne portava ancóra ben distinta in cima de' pensieri l'imagine.
Aborrendo dal dolore per natura e per educazione, era vulnerabile in ogni
parte, accessibile al dolore in ogni parte.
Nel tumulto delle inclinazioni contraddittorie egli aveva smarrito ogni volontà
ed ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti;
il senso estetico aveva sostituito il senso morale. Ma codesto senso estetico
appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello
spirito un certo equilibrio; così che si poteva dire che la sua vita fosse una
continua lotta di forze contrarie chiusa ne' limiti d'un certo equilibrio. Gli
uomini d'intelletto, educati al culto della Bellezza conservano sempre, anche
nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezion della Bellezza
è, dirò così, l'asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro
passioni gravitano.
In questa presentazione di Andrea Sperelli si possono cogliere gli aspetti piú
tipici dell'"eroe decadente". Per molti aspetti simile al Dorian Gray
dì Oscar Wilde o al Des Esseintes di Huysmans, il protagonista del romanzo
rivela un distacco aristocratico e snobistico dalle masse, una raffinata
curiosità estetica, una predilezione per le cose insolite. La sua regola di
vita è tutta basata su una forma di esasperato estetismo: "il senso
estetico aveva sostituito il senso morale" e l'asse intorno al quale
"gravitano" tutte le sue passioni è soltanto "la concezione
della Bellezza". Il paragone fra due epoche storiche, o meglio fra due
periodi artistici del passato (la Roma dei Cesari e la Roma dei Papi) chiarisce
il gusto tutto decadente di Andrea Sperelli e la prospettiva dalla quale
vengono presentati gli ambienti in cui si svolge l'azione del romanzo. La città
di Roma non è mai colta nel suo vivere quotidiano e nella complessità del suo
tessuto sociale, ma come raccolta di opere d'arte. Anche quando l'azione si
sposterà da Roma alla villa al mare di Schifanoja gli ambienti delimiteranno
ancora una zona privilegiata, "quella aristocratica di Andrea Sperelli e
delle persone che lo circondano, unica zona che può essere attentamente
osservata, anzi contemplata, e descritta, e che sola sembra avere diritto
all'esistenza. Tutto il resto non esiste o si intravede come contrappunto
negativo, come una realtà degradata che di tanto in tanto colpisce
spiacevolmente per i suoi sfacciati suoni o per la sua brutalità" (Fazio
Alberti, 1978)
I morti di Dogali e la terza amante ideale (libro III, cap.3)
Il concerto incominciò con un Quartetto del Mendelssohn. La sala era già quasi
interamente occupata. L'uditorio componevasi, in massima parte, di dame
straniere; ed era un uditorio biondo, pieno di modestia negli abiti, pieno di
raccoglimento nelle attitudini, silenzioso e religioso come in un luogo pio.
L'onda della musica passava su teste immobili, coperte di cappelli scuri,
dilatandosi in una luce aurea, in una luce che fluiva dall'alto, temperata
dalle tendine gialle, schiarita dalle pareti bianche e nude. E la vecchia sala
dei Filarmonici, disadorna, dove appena rimaneva su l'egual candore qualche
traccia d'un fregio e dove le misere portiere azzurre stavan per cadere,
offriva imagine d'un luogo che fosse rimasto chiuso per un secolo e fosse stato
riaperto proprio in quel giorno. Ma quel color di vecchiezza, quell'aria di
povertà, quella nudità delle pareti aggiungevano non so che strano sapore allo
squisito diletto dell'udizione; e il diletto pareva più segreto, più alto, più
puro là dentro, per ragion d'un contrasto. Era il 2 di febbraio, un mercoledì:
in Montecitorio, il Parlamento dispu tava per il fatto di Dogali; le vie e le
piazze prossime rigurgitavano di popolo e di soldati.
I ricordi musicali di Schifanoja sorsero nello spirito de' due amanti; un
riflesso di quell'autunno illuminò i loro pensieri. Al suono del Minuetto
mendelssohniano si svolgeva la visione della villa maritima, della sala
profumata dai giardini sottoposti, dove negli intercolunnii del vestibolo si
levavano le cime dei cipressi, si scorgevano le vele di fiamma su un lembo di
mare sereno.
Di tratto in tratto Andrea, chinandosi un poco verso la senese, le chiedeva
piano: - Che pensate?
Ella rispondeva con un sorriso così tenue ch'egli appena giungeva a coglierlo.
- Vi ricordate del 23 settembre? - ella disse.
Andrea non aveva ben distinto nella memoria quel ricordo, ma assentì col capo.
L'Andante calmo e solenne, dominato da un'alta melodia patetica, dopo
estesi sviluppi aveva uno scoppio di dolore. Il Finale insisteva in una
certa monotonia ritmica, piena di stanchezza.
Ella disse:
- Ora viene il vostro Bach.
E ambedue, quando la musica ricominciò, provarono un bisogno istintivo di
riavvicinarsi. I loro gomiti si sfioravano. Alla fine d'ogni tempo,
Andrea si chinava verso di lei per legger nel programma ch'ella teneva spiegato
fra le mani; e, nell'atto, le premeva il braccio, sentiva l'odore delle viole,
le comunicava un brivido di delizia. L'Adagio aveva una elevazion di
canto così possente, saliva con tal volo alle sommità dell'estasi, con tal
piena sicurezza allargavasi nell'Infinito, che parve la voce d'una creatura
sopraumana la quale effondesse nel ritmo il giubilo d'una sua conquista
immortale. Tutti gli spiriti erano trascinati dall'onda irresistibile. Quando
la musica cessò, lo stesso fremito degli strumenti durò qualche minuto
nell'uditorio. Un susurro corse da un capo all'altro della sala. L'applauso
irruppe, dopo l'indugio, più vivo.
I due si guardarono, con gli occhi alterati, come se si distaccassero dopo un
amplesso d'insostenibile piacere. La musica continuava; la luce della sala
diveniva più discreta; un tepor dilettoso addolciva l'aria; intiepidite, le
violette di Donna Maria esalavano un profumo più forte. Andrea aveva quasi
l'illusione d'essere solo con lei, poiché non vedeva d'innanzi a sé persone
ch'egli conoscesse.
Ma s'ingannava. In un intervallo, volgendosi, vide Elena Muti diritta in fondo
alla sala, accompagnata dalla principessa di Ferentino. Sùbito, il suo sguardo
incontrò quel di lei. Da lontano, egli salutò. Gli parve di scorgere su le
labbra di Elena un sorriso singolare.
- Chi salutate? - chiese Donna Maria, anche volgendosi. - Chi sono
quelle signore?
- Lady Heathfield e la principessa di Ferentino.
Ella credé sentire nella voce di lui un turbamento.
- Qual è la Ferentino?
- La bionda.
- L'altra è molto bella.
Andrea tacque.
- Ma è una inglese? - ella soggiunse.
- No; è una romana; è la vedova del duca di Scerni, passata a Lord Heathfield
in seconde nozze.
- E' molto bella.
Andrea domandò, con premura:
- Ora, che soneranno?
- Il Quartetto del Brahms, in do minore.
- Lo conoscete?
- No.
- Il secondo tempo è meraviglioso.
Per celare la sua inquietudine, egli parlava.
- Quando vi vedrò, ancóra?
- Non so.
- Domani?
Ella titubò. Pareva che le fosse discesa pel volto una lieve ombra. Rispose:
- Domani, se ci sarà sole, verrò con Delfina su la piazza di Spagna, verso
mezzogiorno.
- E se il sole mancasse?
- Sabato sera, andrò dalla contessa Starnina...
La musica ricominciava. Il primo tempo esprimeva un lottar cupo
e virile, pieno di vigore. La Romanza esprimeva un ricordarsi desioso ma
assai triste, e quindi un sollevarsi lento, incerto, debole, verso un'alba
assai lontana. Una chiara frase melodica si svolgeva con profonde modulazioni.
Era un sentimento assai diverso da quel che animava l'Adagio del Bach;
era più umano, più terreno, più elegiaco. Passava in quella musica un soffio di
Ludovico Beethoven.
Andrea fu invaso da una così terribile ansia che temé di tradirsi. Tutta la
dolcezza di prima gli si convertì in amarezza. Egli non aveva la conscienza
esatta di questo suo nuovo sofferire; non sapeva raccogliersi né dominarsi;
ondeggiava perduto fra la duplice attrazion feminile e il fascino della musica,
da nessuna delle tre forze penetrato; provava, dentro, un'impressione
indefinibile, come d'un vuoto in cui risonassero di continuo grandi urti con
un'eco dolorosa; e il suo pensiero si spezzava in mille frammenti, si
sconnetteva, si disfaceva; e le due imagini feminili si sovrapponevano, si
confondevano, si distruggevano a vicenda, senza ch'egli potesse giungere a
separarle, senza ch'egli potesse giungere a definire il suo sentimento verso
l'una, il suo sentimento verso l'altra. E a fior di questa torbida sofferenza interiore
si muoveva l'inquietudine prodotta dalla immediata realità, dalle
preoccupazioni, dirò così, pratiche. Non gli sfuggiva un leggero cambiamento
nell'attitudine di Donna Maria verso di lui; e credeva sentire lo sguardo di
Elena assiduo e fisso; e non giungeva a trovare un modo di contenersi, non
sapeva se dovesse accompagnar Donna Maria nell'uscir dalla sala o se dovesse
avvicinarsi a Elena, né sapeva se quel caso gli avrebbe giovato o nociuto
presso l'una e l'altra.
- Io vado - disse Donna Maria levandosi, dopo la Romanza. - Non
aspettate la fine?
- No; debbo essere a casa per le cinque. -Ricordatevi, domattina...
Ella gli tese la mano. Forse pel calore dell'aria chiusa, una lieve fiamma le
avvivava la pallidezza. Un mantello di velluto, d'un color cupo di piombo,
orlato d'una larga zona di chinchilla, le copriva tutta la persona; e
tra la pelliccia cinerea le violette morivano squisitamente. Nell'uscire, ella
camminava con sovrana eleganza, mentre qualcuna delle signore sedute volgevasi
a guardarla. E per la prima volta Andrea vide in lei, nella donna spirituale,
nella pura madonna senese, la dama di mondo.
Il Quartetto entrava nel terzo tempo. Poiché la luce diurna diminuiva,
furono alzate le tendine gialle, come in una chiesa. Altre signore abbandonarono
la sala. Sorgeva qua e là qualche bisbiglio. Cominciavano nell'uditorio la
stanchezza e la disattenzione, che son proprie della fine d'ogni concerto. Per
uno di quei singolari fenomeni d'elasticità e di volubilità repentini, Andrea
provò un senso di sollievo, quasi gaio. Egli perse ogni preoccupazion
sentimentale e passionale, d'un tratto; e l'avventura di piacere apparve sola
alla sua vanità, alla sua viziosità, lucidamente. Egli pensò che Donna Maria,
concedendogli quei convegni innocui, già aveva messo il piede su la dolce china
in fondo a cui è il peccato inevitabile anche per le anime più vigili: pensò
che forse un po' di gelosia avrebbe potuto spingere Elena a ricadergli nelle
braccia, e che quindi forse l'una avventura avrebbe aiutata l'altra; pensò che
forse appunto un vago timore, un presentimento geloso avevano affrettato
l'assenso di Donna Maria al prossimo convegno. Egli era dunque su la via di una
duplice conquista; e sorrise notando che in ambedue le imprese la difficoltà si
presentava sotto un medesimo aspetto. Egli doveva convertire in amanti due
sorelle, cioè due che volevano presso di lui far profession di sorelle. Altre
simiglianze fra i due casi egli notò, sorridendo. - Quella voce! Com'erano
strani nella voce di Donna Maria gli accenti d'Elena! - Gli balenò un pensiero
folle. - Quella voce poteva esser per lui l'elemento d'un'opera d'imaginazione:
in virtù d'una tale affinità egli poteva fondere le due bellezze per possederne
una terza imaginaria, più complessa, più perfetta, più vera perché
ideale...
Il terzo tempo, eseguito con impeccabile stile, finiva tra gli applausi.
Andrea si levò; si avvicinò a Elena.
- Oh, Ugenta, dove siete stato fino ad ora? - gli disse la principessa
di Ferentino.
- Au pays du Tendre?
- E quell'incognita? - gli disse Elena, con un'aria leggera, odorando un mazzo
di viole tirato fuori dal manicotto di martora.
- E' una grande amica di mia cugina: Donna Maria Ferres y Capdevila, moglie del
nuovo ministro di Guatemala - rispose Andrea, senza turbarsi. - Una bella
creatura, assai fine. Era da Francesca, a Schifanoja, in settembre.
- E Francesca? - interruppe Elena. - Non sapete quando tornerà?
- Ho notizie sue, da San Remo, recenti. Ferdinando migliora. Ma temo ch'ella
dovrà trattenersi là qualche altro mese, forse più. Che peccato!
Il Quartetto entrava nell'ultimo tempo, molto breve. Elena e la Ferentino avevano occupato due sedie, in fondo, lungo la parete, sotto il pallido specchio dove si rifletteva la sala malinconica. Elena ascoltava, con la testa china, facendo scorrere tra le sue mani le estremità d'un lucido boa di martora.
- Accompagnateci - ella disse, quando il concerto fu finito, allo
Sperelli.
Montando in carrozza, dopo la Ferentino, ella disse:
- Montate anche voi. Lasciamo Eva al palazzo Fiano. Vi poso poi dove volete.
- Grazie.
Lo Sperelli accettò. Uscendo nel Corso, la carrozza fu costretta a
procedere con lentezza perché tutta la via era ingombra di gente in tumulto.
Dalla piazza di Montecitorio, dalla piazza Colonna venivano clamori e si propagavano
come uno strepito di flutti, aumentavano, cadevano, risorgevano, misti agli
squilli delle trombe militari. La sedizione ingrossava, nella sera cinerea e
fredda; l'orrore della strage lontana faceva urlare la plebe; uomini in corsa,
agitando gran fasci di fogli, fendevano la calca; emergeva distinto su i
clamori il nome d'Africa.
Per quattrocento bruti, morti brutalmente! - mormorò Andrea, ritirandosi dopo
aver osservato allo sportello.
- Ma che dite? - esclamò la Ferentino.
Su l'angolo del palazzo Chigi il tumulto sembrava una zuffa. La carrozza fu
costretta a fermarsi. Elena si chinò per guardare; il suo volto fuor dell'ombra
illuminandosi al riflesso del fanale e alla luce del crepuscolo apparve d'una
bianchezza quasi funeraria, d'una bianchezza gelida e un po' livida, che
risvegliò in Andrea il ricordo vago d'una testa veduta - non sapeva più quando,
non sapeva più dove - in una galleria, in una cappella.
- Eccoci - disse la principessa, poiché la carrozza era giunta finalmente al
palazzo Fiano. - Addio dunque. Ci ritroveremo stasera dall'Angelieri. Addio,
Ugenta. Venite domani a colazione da me? Troverete anche Elena, e la Viti e mio
cugino.
- L'ora?
- Mezz'ora dopo mezzogiorno.
- Va bene. Grazie.
La principessa discese. Il servo aspettava un ordine.
- Dove volete ch'io vi porti? - domandò Elena allo Sperelli che le si era già
seduto accanto, nel posto dell'amica.
- Far, far away...
- Su via, dite: a casa
vostra?
E senza aspettare altra risposta, ella ordinò:
- Trinità de' Monti, palazzo Zuccari.
Il servo richiuse lo sportello. La carrozza si mosse al trotto, voltò per la
via Frattina, lasciando dietro di sé la folla, le grida, i romori.
- Oh, Elena, dopo tanto... - proruppe Andrea, chinandosi a guardare la
desiderata che s'era raccolta nell'ombra, in fondo, come schiva d'un contatto.
Il chiaror d'una vetrina, al passaggio, traversò l'ombra; ed egli vide che
Elena sorrideva, bianca, d'un sorriso attirante.
Sempre così sorridendo, ella si tolse dal collo con un gesto agile il lungo boa
di martora e lo gittò intorno al collo di lui, in guisa d'un laccio. Pareva
facesse per gioco. Ma con quel morbido laccio, profumato del profumo medesimo
che Andrea aveva sentito nella volpe azzurra, ella attirò il giovine; gli
offerse le labbra, senza parlare.
Ambedue le bocche si ricordarono delle antiche mescolanze, di quelle
congiunzioni terribili e soavi che duravano fino all'ambascia e davano al cuore
la sensazione illusoria come d'un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse.
Per prolungare il sorso, contenevano il respiro. La carrozza dalla via dei Due
Macelli salì per la via del Tritone, voltò nella via Sistina, si fermò al
palazzo Zuccari.
Rapidamente, Elena respinse il giovine. Gli disse, con la voce un po' velata:
- Discendi. Addio.
- Quando verrai?
- Chi sa!
Il servo aprì lo sportello. Andrea discese. La carrozza voltò di nuovo, per
riprendere la via Sistina. Andrea, tutto ancor vibrante, con gli occhi ancor
fluttuanti in una nebbia torpida, guardava se apparisse dietro il vetro il
volto di Elena; ma non vide nulla. La carrozza si allontanò.
Risalendo le scale, egli pensava: - Alfine, ella si converte! - Gli rimaneva
nel capo quasi un vapore d'ebrezza, gli rimaneva nella bocca il gusto del
bacio, gli rimaneva nella pupilla il balen del sorriso con cui Elena gli aveva
gittato al collo quella specie di serpe rilucente e aulente. - E Donna Maria? -
Egli, certo, doveva alla senese l'inaspettata voluttà. Senz'alcun dubbio, in
fondo all'atto strano e fantastico di Elena era un principio di gelosia.
Temendo forse ch'egli le sfuggisse, ella aveva voluto legarlo, adescarlo,
accendergli di nuovo la sete. - Mi ama? Non mi ama? - E che importava a lui
saperlo? Che gli giovava? Ormai l'incanto era rotto. Nessun prodigio mai
avrebbe potuto risuscitare sol una minima parte della felicità morta. Conveniva
a lui occuparsi della carne che era ancóra divina.
Si compiacque a lungo nel considerar l'avventura. Si compiacque, in ispecie,
della maniera elegante e singolare con cui Elena aveva dato sapore al capriccio.
E l'imagine del boa suscitò l'imagine della treccia di Donna Maria, suscitò in
confuso tutti gli amorosi sogni da lui sognati intorno a quella vasta
capellatura vergine che un tempo faceva languir d'amore le educande nel
monastero fiorentino. Di nuovo, egli mescolò i due desiderii; vagheggiò la
duplicità del godimento; travide la terza Amante ideale.
Entrava in una disposizione di spirito riflessiva. Vestendosi per il pranzo,
ripensava: - Ieri, una grande scena di passione, quasi con lacrime; oggi una
piccola scena muta di sensualità. E a me pareva ieri d'essere sincero nel
sentimento, come io era dianzi sincero nella sensazione. Inoltre, oggi stesso,
un'ora prima del bacio d'Elena, io avevo avuto un alto momento lirico accanto a
Donna Maria. Di tutto questo non riman traccia. Domani certo, ricomincerò. Io
sono camaleontico, chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo
verso l'unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia
legge è in una parola: NUNC. Sia fatta la volontà della legge.
Rise di sé medesimo. E da quell'ora ebbe principio la nuova fase della sua
miseria morale.
I1 brano è caratterizzato dal netto contrasto tra quello che succede
all'esterno (manifestazioni davanti al Parlamento in seguito ai fatti di Dogali
dove pochi giorni prima sono stati uccisi più di cinquecento soldati italiani)
e il mondo di Andrea Sperelli. Il contrasto tra l'esterno della folla
manifestante e l'interno della sala dei Filarmonici dove Andrea Sperelli è ad
un concerto insieme a Maria Ferres, rende " più segreto, più alto, più
puro " il godimento dell'esteta e quando in strada la folla costringe la
carrozza a rallentare Andrea Sperelli è solo infastidito dalla " plebe
" che fa tanto clamore " per quattrocento bruti, morti brutalmente
". La distanza tra i due mondi è ulteriormente accentuata dalle pagine
seguenti dove Andrea continua, chiusa la fastidiosa parentesi, a meditare su
Elena e su Maria e intravede la possibilità della " terza amante Ideale
" che unisca in sé la sensualità raffinata di Elena e la pura spiritualità
di Maria. (Fazio Alberti, 1978)
(Grazie alla scheda compilata dagli allievi
dell' ISTITUTO
RICCATI - TREVISO )
CRONOLOGIA
1863 Nasce a Pescara il 12 marzo.
1874 Viene iscritto al collegio Cicognini di Prato, dove resta sino al
completamento degli studi liceali (1881).
1879 Pubblica una raccolta in versi, Primo vere, che esce in seconda edizione
l'anno seguente; Giuseppe Chiarini scrive che l'Italia ha un suo nuovo poeta.
1882 Pubblica le raccolte poetiche Canto novo e Intermezzo. Lo
"scandalo" della sua relazione con la duchessina Maria Hardouin di
Gallese si conclude col matrimonio.
1889 Il Piacere.
1891 Dal matrimonio con Maria Hardouin nascono tre figli. Si trasferisce a
Napoli: collabora al "Corriere di Napoli"; inizia una relazione con
Maria Anguissola, principessa Gravina.
1892 Pubblica il romanzo L'Innocente e la raccolta di liriche Elegie
Romane.
1893 Pubblica la raccolta di liriche Poema Paradisiaco.
1894 Pubblica il romanzo Trionfo della morte.
1895 Collabora con la rivista "Il Convito", che lo mette in contatto
con il gruppo antidemocratico dei simbolisti europei. Scrive la Vergine delle
rocce, ispirato da un viaggio in Grecia sullo yacht di Scarfoglio.
1897 Inizia la frequentazione con Eleonora Duse. Partecipa alle elezioni, e
viene eletto deputato, con un programma di chiara impostazione
nazionalistica.
1898 Vive a Settignano (Firenze) nella villa "La Capponcina "; la
Duse, con la quale ha una relazione amorosa, risiede lì vicino.
1899 L'opera teatrale La Gioconda, interpretata dalla Duse, ottiene un grande
successo.
1900 Il romanzo Il Fuoco suscita scandalo per le spregiudicate rivelazioni
sugli amori con la Duse.
1903 Pubblica i primi tre libri delle Laudi (Maia, Elettra, Alcyone).
1904 Successo dell'opera teatrale La figlia di Jorio. Continua a produrre per
il teatro (1905 La fiaccola sotto il moggio, 1908 La Nave), coltiva più
relazioni amorose, si circonda di lussi di ogni genere e si dà a spese smodate.
Ad un certo punto, non potendo più tenere a bada i creditori, è costretto ad
abbandonare l'Italia (ma egli parlerà di "volontario esilio").
1910 Vive a Parigi e ad Arcachon (in riva all'Atlantico); scrive in francese Le
martyre de Saint Sébastien.
1913 Compone le Canzoni per la gesta d'Oltremare ad esaltazione dell'impresa
libica (costituiranno il quarto volume delle Laudi intitolato Merope. Le nuove
amanti sono una russa ed una pittrice americana.
1915 Ritorna in Italia e partecipa attivamente alla propaganda interventista.
Durante il primo anno di guerra rimane ferito ad un occhio durante un
atterraggio di fortuna.
1916 Con gli occhi bendati e servendosi di strisce di carta contenenti una sola
riga, inizia a scrivere il Notturno.
1918 In febbraio compie la cosiddetta "beffa di Buccari", in agosto
sorvola Vienna lanciando manifestini.
1919 A capo di volontari, occupa militarmente Fiume, in opposizione al governo
italiano: la abbandonera' in seguito all'intervento dell'esercito
italiano.
1921 Si stabilisce a Villa Cargnacco, sul lago di Garda, che trasforma nel
"Vittoriale degli Italiani".
1924 Pubblica il primo dei due volumi de Le Faville del maglio; il secondo
verra' pubblicato nel 1928.
1937 Viene nominato presidente dell'Accademia d'Italia da Benito Mussolini, e
celebra la conquista dell'abissinia con i versi e le prose di Teneo te
Africa.
1938 Muore di emorragia celebrale il primo marzo.
D'Annunzio
Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e
rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special
classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in
generazione una certa tradizion familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di
arte.
A questa classe, ch'io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto
splendore nell'amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli.
L'urbanità, l'atticismo, l'amore delle delicatezze, la predilezione per gli
studi insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria
raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie. [.]
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d'Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion
familiare. Egli era, in verità, l'ideal tipo del giovine signore italiano nel
XIX secolo, il legittimo campione d'una stirpe di gentiluomini e di artisti
eleganti, l'ultimo discendente d'una razza intellettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita
di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a' venti anni,
le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la
sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni
e costrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d'arte,
il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de' pregiudizii,
l'avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica,
sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e
insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso
suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa
passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace
coniugale. Finalmente s'era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il
figliuolo, viaggiando con lui per tutta l'Europa.
L'educazione d'Andrea era dunque, per cosi dire, viva, cioè fatta non tanto su
i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto
corrotto dall'alta cultura ma anche dall'esperimento: e in lui la curiosità
diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli
fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond'egli era dotato, non si
stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l'espansion di quella
sua forza era la distruzione in lui di un'altra forza, della forza morale, che
il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la
sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del
suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si
restringeva sempre più d'intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.»
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: "Bisogna
fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte. Bisogna che la vita d'un uomo
d'intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.»
«Anche, il padre ammoniva: "Bisogna conservare ad ogni costo intiera la
libertà, fin nell'ebrezza. La regola dell'uomo d'intelletto, eccola: - Habere,
non haberi."
Anche, diceva: "Il rimpianto è il vano pascolo d'uno spirito disoccupato.
Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove
sensazioni e con nuove imaginazioni."
Ma queste massime volontarie, che per l'ambiguità loro potevano anche essere
interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura
involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima. [.]
Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore
d'una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue
passioni e de' suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò
in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non
la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle
Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici,
il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l'Arco di Tito per la Fontanella
delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei
Barberini l'attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo
gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato
dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani,
di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d'Alessandro
Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d'Oriente, il marmo bianco di
Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse
del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In
casa della marchesa d'Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane,
accanto alla domanda: "Che vorreste voi essere?" egli aveva scritto
"Principe romano".
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