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L'ARTE EUROPEA DI ROMA - L'ARTE PROVINCIALE

geografia



l'arte europea di roma


l'arte provinciale

Ciascuna delle varie parti dell'impero presenta aspetti e problemi particolari, e tutte concorrono a quel trapasso che segna la fine dell'antichità e dei suoi centri artistici mediterranei.

La produzione artistica delle province romane serviva innanzitutto agli occupanti romani di quelle province: funzionari amministrativi e fiscali e militari di stanza nelle guarnigioni e nei grandi accampamenti fissi. Ma in alcune province occidentali, romanizzate da più tempo, come la Spagna (occupata fin dal 218, ordinata in due province nel 197 a.C.), la Gallia meridionale (la Narbonense, 120 a.C.) e la riva sinistra del Reno (pacificata dall'inizio del I secolo d.C.), la classe superiore indigena, tranne alcune eccezioni, si allea al conquistatore per motivi economici. Essa si romanizza e si vale di una produzione artistica corrente nella tradizione ellenistico-romana per esprimere i suoi interessi, che appa­iono vivi soprattutto nel campo religioso e in quello mercantile. Per duecento anni, le tribù barbariche, che erano state sempre in lotta fra loro, conobbero, sotto il dominio e l'amministrazione romana, un'unità ed una pace che si accompagnò con un maggiore benessere materiale.



Dalla pax romana alle prime invasioni barbariche

Nel 167, con la rottura del fronte danubiano da parte dei Quadi e dei Marco­manni, che giunsero ad invadere il Veneto, si ebbe un primo allarme, senza seguito immediato. Più tardi i torbidi interni seguiti alla morte di Commodo (192 d.C.) portarono alla desolazione di Lione, che fu semidistrutta nel 197. Soltanto nel 234 si ebbero i primi accenni ad una ripresa della pressione offensiva delle tribù germaniche, e nel 252 il periodo di pace è rotto dalle invasioni dei Franchi e degli Alemanni. Dal 258 al 273, diversi comandanti militari della difesa del Reno si proclamarono autonomi sovrani di uno stato romano della Gallia, ed il paese rimase per questo tempo distaccato e isolato. Ristabilita l'unità, la vita non tornò mai più alla normalità. Non si ha più una produzione d'arte locale, ma solo monumenti ufficiali, di diretta emanazione imperiale, nei luoghi dove più a lungo fu stabilita la residenza.

L'arte provinciale

La produzione artistica di queste regioni d'età romana viene indi­cata col termine di "arte provinciale". Per spiegare le particolarità formali di questa produzione artistica sono state fatte varie proposte. La prima, di consi­derarla tutta insieme come arte delle regioni romane, "arte dei soldati", è apparsa insufficiente. Si è poi cercato di spiegare tutto con i diversi sostrati di cultura indigena, locale. Ma anche questa spiegazione, che veniva incontro al sentimento nazionale dei vari paesi, è lontana dal poter dare soluzioni soddisfacenti. I sostrati culturali - dei quali quello dell'area celtica era il più forte, con una propria tendenza artistica già fissata in un repertorio formale - affiorano talvolta e in modo esplicito, ma non entrano quali componenti determinanti nell'area europea di Roma.

Più recente è il tentativo di ricollegare le singole opere alla cultura artistica delle regioni, romane o romanizzate, dalle quali provenivano gli appartenenti alle legioni stanziate in queste province. L'origine di essi viene spesso indicata nelle iscrizioni delle lapidi funerarie che costituiscono la maggioranza dei documenti artistici che possediamo. In un secondo tempo, tuttavia, si formano dovunque delle officine artistiche locali che assumono aspetti e solu­zioni particolari. Accanto a quest'arte "provinciale", esistevano, nelle città romanizzate, opere d'arte importate che rappresentavano l'arte ufficiale, di Stato, o influenzate dai centri artistici dell'Oriente ellenistico. Ad Aquileia per esempio, l'ara con Pan e Sileno o l'ara con sacrificio a Priapo e scoprimento del lychnon dei misteri dionisiaci, dedicate da liberti d'origine greca, potevano esercitare una continua influenza sulla produzione locale. Inoltre, il ritratto ufficiale imperiale seguì sempre le caratteristiche fisionomiche e le varianti stilistiche della capitale.


italia settentrionale, illiria, norico, pannonia e dacia

Il problema dell'arte provinciale si pone in Italia subito al di là dell'Appennino tosco-emiliano e in tutta l'area dell'Italia settentrionale. Lo studio del problema della costituzione di una parti­colare forma "provinciale" deve dunque partire dall'area geografica e storica dell'Italia settentrionale, dove si presenta più precocemente che altrove. Anche qui si pone la questione del sostrato culturale precedente alla romanizzazione: sostrato etrusco, gallico, veneto, retico-alpino, ligure. Quasi nulla di questi sostrati sopravvisse alla romanizzazione, nulla del sostrato etrusco. L'organizzazione ro­mana cancellò del tutto la situazione precedente; rimasero, di essa, soltanto alcuni elementi reli­giosi, assorbiti nel sincretismo di un'interpretazione del tutto romana.

Colonie "romane" e colonie "latine"

L'Italia settentrionale fu più completamente romanizzata che non le regioni mediterranee del centro e del mezzogiorno d'Italia, dove si erano stabilite condizioni sociali e culturali più complesse e più sviluppate. La situazione era simile a quella dei paesi danubiani e della Gallia; solo che la colonizzazione vi fu più intensa e precoce. Due erano i tipi della colonizzazione: colonie "romane" e colonie "latine". Le prime avevano carattere militare ed erano costituite da cittadini romani organizzati in comunità con una certa autonomia e con magistrati propri, ma con l'obbligo di presidiare un punto strategicamente importante. Ai cittadini venivano assegnate in proprietà piccole parcelle di terra. Le colonie di tipo "latino", invece, erano formate inizialmente da appartenenti a popolazioni varie, che non avevano citt 818g63i adinanza romana e da un numero notevole di famiglie. Esse venivano a costituire nei territori conquistati comunità autonome alleate di Roma, verso la quale avevano solo l'obbligo di fornire un contingente di soldati e di osservare fedeltà nella politica estera. Furono queste colonie il vero strumento della romanizzazione. La prima di esse fu Rimini (Ariminium, nel 268 a.C.), posta all'estremità di quell'arco difensivo che delimitò l'Italia mediterranea da quella continentale. Cinquant'anni dopo furono fondate Piacenza e Cremona, in luogo strategicamente op­portuno, in mezzo al territorio da conquistare. Nello stesso anno Annibale valica le Alpi, scende in Italia e arresta l'espansione romana. Questa riprende solo una generazione più tardi (Bologna, 189 a.C.). Il territorio dell'Emilia, attraversato dalla via Emilia (da Rimini a Piacenza, 187 a.C.) viene distribuito in ampie parcelle e boni­ficato. Importanza particolare assume la fondazione, in territorio celtico e in posizione di dominio sulle vie di comunicazione verso l'Illiria ed il Norico, della colonia di latini e alleati italici ad Aquileia (181 a.C.). Essa può darci, con i suoi numerosi documenti artistici superstiti, un esempio tipico di come si presenta il problema artistico "provinciale" nelle regioni finitime. Aqui­leia appare determinante per il repertorio artistico del Norico e dell'Illiria, della Pannonia e della Dacia. Il mutamento avvenuto dopo la guerra sociale degli anni 90-89 aveva comportato la trasformazione delle vec­chie colonie latine in municipi e l'istituzione di nuove colonie latine, con un'ulteriore distribuzione dei terreni e la costituzione di città "quadrate". Nel 49 anche queste colonie autonome divennero municipi della repubblica romana e nel 42 venne soppresso l'ultimo comando militare, con cui cessa il carattere di "provincia" della Gallia Cisalpina. Dopo le guerre civili, si avrà, a suggellare l'avvenuta romanizzazione, l'insediamento dei veterani sulle terre ancora rimaste agli antichi abitanti.

Tutto ciò rende comprensibile come poco del precedente sostrato culturale abbia avuto la forza di influenzare la forma artistica della regione roma­nizzata.

L'"arte plebea"

La forma ellenistica aveva avuto la forza di imporsi a civiltà artistiche assai antiche e complesse. La forma ellenistico-romana annullò le forme artistiche delle civiltà barbariche europee, sino a che rimase salda. Solo al momento del suo disfaci­mento, nelle aree periferiche dell'impero risorgono forme d'arte nazionali, segno che alcuni elementi di sostrato erano rimasti in vita. Dobbiamo riconoscere come punto di partenza dell'arte provinciale l'arte "plebea", che abbiamo visto affermarsi come elemento caratteristico e permanente nella formazione e nello svi­luppo dell'arte romana. L'"arte plebea" era connessa con l'adattamento di forme ellenistiche ad una cultura artistica che ne ignorava la genesi formale e non ne comprendeva il significato organico. Caratteristica di tale incomprensione è la degradazione delle forme architettoniche da strutturali a ornamentali. Le forme particolari dell'architettura conservano nell'arte ellenistica il ri­cordo della loro origine funzionale, per cui l'elemento portante è sotto­posto alla sollecitazione di un peso e l'elemento ornamentale rivela sempre la sua premessa naturalistica. Tutto questo viene dimenticato nell'arte romana delle province e i singoli elementi architettonici possono assumere valori anche di solo ornamento, senza rapporto con la loro funzionalità statica. Lo stesso avviene per le forme anatomiche umane e per il panneggio. Le forme ana­tomiche perdono la loro funzione organica e possono essere violentate a piacere, divenire approssimative, oppure ornamentali ed essere sottoposte ad una deformazione a favore dell'espressione.

I fenomeni della perdita di organicità strutturale e della tendenza all'"espres­sionismo", che nell'arte ufficiale, a Roma, si sono avvertiti a partire dall'età di Commodo, appaiono, come tendenza, nell'arte provinciale già nel I secolo.

Il monumento di Lucius Alfius ad Aquileia

Il monumento sepolcrale di Lucius Alfius ad Aquileia, decorato con fregio dorico, riprende una tipologia che è frequente nel I secolo a.C. Essa deriva da modelli ellenistici più grandiosi ed è tipica dell'ambiente municipale campano-­sannita, trova estensione nella valle padana, nell'Istria e nella Gallia Narbonense. Questo tipo di monumento è carat­teristico degli ambienti nei quali si diffuse una tarda cultura ellenistica che, par­tendo da centri di commercio della Grecia, si espande nell'ambiente "italico", sia in quello originario che in quello provinciale e poté, diffuso per le vie coloniali e commerciali, affermarsi nella Narbonense. Tipica dell'ambiente di Aquileia, l'evidenza data alla raffigurazione degli strumenti del lavoro del titolare del sepolcro. Siamo ancora nelle caratteristiche dell'arte plebea.

Le stele funerarie

La stele funeraria del quadrumviro Cnaeus Octavius Cornicla (al Maffeiano di Verona, ma proveniente da Aquileia) era stata ordinata da lui stesso, ancora vivente; esprime dunque l'intenzione del committente. Il tipo della iscrizione la riporta a non oltre il 50 o 1'80 d.C. Con questa datazione concorda anche l'esecuzione accurata e fine dei pilastrini sormontati da figure. Il busto del defunto vuole esprimere autorità ed energia; la testa è abbozzata con pochi tratti essenziali, lo sterno rigido come una corazza. Le grosse dita delle mani accrescono questa impressione di forza. La toga è resa con linee dure, parallele, e al disopra della mano destra si forma un'ingiustificata ondulazione. Ingiustificata dal punto di vista naturalistico, ma giustificabile da un intento ornamentale. Se cercassimo di trovare un'in­fluenza del sostrato veneto-alpino, non potremmo andare più in là di un generico gusto per il carattere ornamentale delle forme o, supponendo un sostrato celtico, il gusto per la linea ondulata, sinuosa, geometrizzante.

Nello stesso tempo era possibile, nell'am­bito di un'esecuzione "provinciale", scolpire una stele funeraria come quella di Ignatia Chila (Museo di Rimini), dove la figura della defunta ripete, incorniciata da steli di papiro, con buona comprensione dell'effetto della stoffa trasparente, un diffuso tipo ellenistico. Nonostante tali raffinatezze, questa stele, frammentaria, appartiene al tipo a diversi scomparti verticali, databili al I secolo d.C. per le petti­nature femminili del tipo Ottavia-Livia-Agrippina: esempio ne è la stele bolognese dei liberti della famiglia Alennia, che presenta una serie di normali ritratti che trovano numerosi confronti nei monumenti di Roma della stessa categoria. Ma la stele di Caius Salvius, da Modena, ripete lo stesso tipo con una diversità formale.

La perdita del naturalismo, la schematizzazione ornamentale sono caratteristiche in questa produzione. Il naturalismo ellenistico, con le sue qualità di correttezza formale, di plasticità, di eleganza mondana, era stato il prodotto della civiltà artistica greca. Tutta l'Europa continentale aveva una preferenza per l'espressione artistica non plastica, lineare, risolta in forme astratte, geometrizzanti. Le forme plastiche, naturalistiche, dell'ellenismo si attenuano non appena si attenua la partecipazione alla cultura delle classi superiori.

Le stele di questo tipo vengono datate nell'Italia settentrionale a non dopo la metà del I secolo, in base alle pettinature. Non è da escludersi la possi­bilità che si tratti, in molti casi, di una persistenza di modelli iconografici introdotti in età augustea insieme alla grande riorganizzazione regionale dell'Italia, e conser­vati nelle officine artigiane. L'ammissione di questo persistere di modelli iconografici porterebbe alla conseguenza di attenuare il valore ritrattistico di molte delle immagini sulle stele. La ritrattistica romana di alta qualità artistica e di sicura aderenza fisionomica, la troviamo soltanto per le classi economicamente e socialmente superiori. Ed anche presso di esse il desiderio di eternare le fattezze del defunto si attenua, tanto che troviamo alla fine del II e III secolo, a Roma, numerosi sarcofagi, che le officine di scultori preparavano per il commercio lasciando grezza la testa della figura principale perché ad essa potesse esser data la fisionomia del defunto, e che sono stati usati senza che quel ritratto fosse eseguito.

Nella scultura di Aquileia bisogna notare anche altre particolarità caratte­ristiche. La più interessante è la più difficile a ricondurre a una genesi storica. Nessuna scultura dell'arte ufficiale o della tradizione ellenistica, infatti, ci dà esempi di un'intensità di espressione come questa scultura provinciale.

Nella scultura "provinciale" troviamo la ricerca di un'intensa espressione con quasi un secolo di anticipo rispetto a Roma. Il che può essere spiegato solo con l'aderenza di questa produzione artistica alla vita reale, popolare, dei coloni e con la minore diffusione dei modelli ellenistici. Questa aderenza viene confermata dal trasparire di caratteristiche etniche.

La stele di Cornicla porta l'esempio di un intento di severità monu­mentale. Questo testimonia l'aderenza di sentimento all'umanità raffigurata, un'intensità popolare e priva di "maniera".

I centri di produzione

Siamo già nel III secolo col mosaico con scene di caccia di Oderzo: si tratta della semplice popolare caccia con l'aucupio della civetta. Altre volte si trovano nei rilievi veneti caratteri che sembrano desunti dalla bronzistica: capelli a ciocche rigide, derivanti dai modelli atletici dell'arte classica si incontrano in rilievi (stele di Padova) e in statue.

I piccoli bronzi, diffusi da artigiani itineranti, non possono essere raggruppati, se­condo le provenienze, in botteghe locali. L'industria artistica ellenistica aveva inse­gnato tecniche di montaggio mediante le quali venivano eseguite figure da applicarsi a mobili o vasellame (appliques) ma anche statuette eseguite a parti stac­cate, sicché uno stesso tronco poteva servire in vario modo applicandovi braccia e testa in diverso movimento. Statuette che ripetono tipologie classiche ed ellenistiche sono state prodotte a migliaia, diffuse in tutta Europa, anche oltre i confini dell'im­pero. Finimenti per cavalli da parata o pezzi dati come premio (baltei), con scene di battaglia composte secondo schemi ellenistici ripresi dall'età traianea in poi, hanno larga diffusione. Tra questa produzione di massa emergono alcuni prodotti che sono creazioni originali della cultura municipale: non si tratta di riduzioni a piccolo formato di tipi statuari, ma creazioni pensate nella misura stessa dell'esecuzione diretta.

Nell'Italia settentrionale, Brescia, AquiIeia, Velleia in Emilia ebbero certamente officine di bronzisti; ma senza dubbio frequenti e numerose furono le importazioni. Non sono prossime al gusto della scultura italico-provinciale le due figure di portatori d'acqua del Museo di Vienna (provenienti da Montorio Veronese), mentre la figura di prigioniero del Museo di Brescia (che con altro analogo doveva fiancheggiare un trofeo) sembra ripetere, semplificandolo, un modello urbano.

Il centro di Aquileia dovette esercitare grande influenza sulla produzione delle province finitime verso oriente. Ma deve a sua volta aver ricevuto attraverso l'Illi­ria spunti ed impulsi dalla Macedonia, la cui produzione artistica deve aver avuto, dal IV secolo a.C., una funzione importante. Tipiche forme di stele sormontate da due leoni o da sfingi, raffigurazioni di famiglie di defunti entro una spessa ghirlanda circolare, edicole funerarie a cuspidi, si ritrovano identiche fin nella Pannonia e nella Dacia, oltre che nell'Illirico e nel Norico. L'unica di queste regioni ad avere alcuni caratteri iconografici e ornamentali peculiari è il Norico, dove ad un'antica civiltà del ferro era succeduta un'intensa produzione metallurgica nella Carinzia, abitata da popolazione celtica. Vi sono tipiche vesti e larghi berretti a due punte nelle stele delle donne indigene. Il repertorio funerario ellenistico-romano viene (per esempio, Eros e Psiche in un sarcofago da Sirmium) racchiuso entro un'incorniciatura ad elementi ricurvi ("cornice norica") che risente del gusto celtico, e che continua dal I al IV secolo trovandosi ancora su sarcofagi con raffigurazioni cristiane.

In tutta questa area, le stele militari recano raffigurazioni di soldati in armi, in piedi o a cavallo; le stele civili recano ritratti individuali o di famiglia oppure raffigurazioni di arti e mestieri. Accanto a questi rilievi, altri hanno scopo e raffi­gurazioni inerenti al culto; ma la sfera civile e quella di culto si mescolano tra loro. Invece in Macedonia, in Tracia e in Moesia mancano le raffigurazioni di mestieri e sono isolate quelle militari; nelle stele con ritratti familiari si aggiunge l'immagine sacrale del "cavaliere trace"; questa ed altre raffigurazioni cultuali domi­nano gran parte delle stele, mentre il defunto è sempre raffigurato eroizzato nell'atto del banchetto funebre.

Con netto distacco dall'arte locale, le sculture d'importazione destinate agli edifici ufficiali ed a qualche residenza, presentano l'eco dell'arte di Roma con una certa persistenza delle tipologie classiche. Pittori provenienti da centri d'arte maggiori hanno lasciato traccia del loro passaggio con opere di alta qualità, come quelle provenienti da un edificio del Magdalensberg, che decoravano con personaggi del mito greco un ambiente di rappresentanza (Klagenfurt, Museo). Schemi compositivi dell'arte colta, circolanti anche in illustrazioni di testi letterari, si trovano su mosaici sepolcrali, come quello del fanciullo Aurelius Aurelianus (Museo di Spalato).

Il Palazzo di Diocleziano

Pannonia e Illiria acquistano un peso particolare nella vita politica di Roma a partire dal tempo di Settimio Severo e poi fino a Diocleziano, la cui tetrarchia aveva radice illirica. Il contributo illirico e pannonico al governo dell'impero durante il III secolo non rappresenta un'influenza "orienta]e", ma si mosse sempre nel segno di Roma come centro dell'Oc­cidente. La profonda romanizzazione di queste regioni si rispecchia nel carattere particolare dell'arte locale di queste province.

Simbolo del ruolo protagonista avuto dagli imperatori illirici, rimane l'enorme Palazzo di Diocleziano, costruito a partire dal 293 per ritirarvisi dopo l'abdicazione del 305, nella località di Split. Il centro storico della città è compreso entro il perimetro del palazzo.

Questo palazzo ripete l'organizzazione funzionale di un accampa­mento militare stabile delle legioni romane, cittadella e città allo stesso tempo.

La pianta del palazzo, leggermente trapezoidale, ha una fronte sul mare; i lati lunghi a est e ovest, il quarto lato appoggiato sull'alto del declivio in modo che la parte anteriore viene ad avere ampie sostruzioni. Sul mare si apre una modesta porta; ma porte grandiose fra torri ottagone si aprono una al centro di ciascuno degli altri lati, alle quali corrispondono vie che si incrociano al centro, mentre la strada nord­/sud ha, nella sua seconda parte, uno spazio a colonne (peristilio) che dà accesso, lateralmente, a un'area templare e, dal lato opposto, all'ottagonale mausoleo impe­riale (poi trasformato in cattedrale), mentre nella sua prosecuzione discende per una scala sotterranea sino alla porta sul mare. L'unione di santuario e residenza corrisponde al concetto di sacralità imperiale. Il motivo del co­lonnato con archivolto, che si trova nel peristilio, ha un precedente nel tempio del divo Adriano a Efeso. Gli appartamenti di rappresentanza e quelli privati occupa­vano la fronte sul mare, percorsa da un corridoio fenestrato, che si accentuava al centro e alle due estremità con logge tripartite ad archivolto centrale che le rendeva solenni e monumentali. Il palazzo deriva il suo impianto da quello di un accampamento, ma ha anche motivi propri delle ville rustiche delle province occidentali.

A iconografie medioevali fanno pensare le figurazioni di un sarcofago cristiano la cui edicola centrale con Buon Pastore e pavoni simbolici è fiancheggiata dalle immagini dei coniugi titolari del sepolcro, circondati da piccole figure di clienti o di beneficati, esempio della sostituzione di un concetto di proporzioni gerarchiche e sim­boliche in luogo di proporzioni naturalistiche e reali, che si vede affiorare nell'arte plebea del I secolo e che ha preso pieno possesso dell'arte colta e di opere sontuose come questo sarcofago, databile attorno al 320.

In tutta l'area delle province danubiane, dall'Illirico alla Pannonia e alla Dacia, troviamo caratteri non dissimili sia per repertorio iconografico che per aspetti stilistici. In questi si può scorgere un adattamento delle forme romano­-ellenistiche e romano-plebee che, spogliandosi di molte delle eleganze culturali, raggiungono aspetti pre-medioevali. Caso tipico sono le immagini votive della dea Nemesi, che si trovano frequentemente in Dacia (Museo di Alba Iulia, antica Apulum). Il gesto del discostarsi lo scollo della veste sul petto per sputarvi dentro in atto di scongiuro, evidente negli esemplari più classicheggianti, si riduce ad un gesto simile a quello iconograficamente fissato per chi parla (nell'arte cristiana per chi benedice) della destra con indice e medio distesi. Un esemplare come quello di Apulum (dal 158 capoluogo di una delle tre province daciche, dal 167 sede di un procurator quando le province furono unificate) va assegnato entro la seconda metà del II e gli inizi del III secolo. Caratteristica, per l'aspetto superstizioso di questo culto di Nemesi, è, in questo esemplare, l'iscrizione che afferma che il voto fu preso in seguito a un sogno.

Mentre nella Nemesi di Apulum abbiamo visto il trasformarsi autonomo delle forme ellenistico-romane, in altri documenti del Norico e dell'alta Pannonia, dove si era estesa l'area celtica, possiamo cogliere un riemergere del sostrato locale più antico, che porta a prediligere forme schematiche, di gusto pri­mitivo, quali erano diffuse nella civiltà di La Tène (stele di Aurelius Januarius a Budapest; stele di Aptomarus, dalla Carinzia, a Deutsch Altenburg). Dalla Ca­rinzia viene proprio il documento più evidente di. questo innesto di concezione romana su forme di tradizione celtica nella stele di Popaeius Senator, a Matrei. Essa trova il riscontro più esatto nelle immagini votive di legno trovate in un pozzo sacro a Montbouy (Orleans, Museo) o in quelle tro­vate nel santuario delle sorgenti della Senna. La stele di Popaeius è da collocarsi ancora in età prossima alla conquista romana del 15 a.C. Ma la concezione di una testa, simbolicamente ritrattistica, sopra un elemento inanimato e inerte, di forme geometriche, gli Italici e i Romani conobbero e ripe­terono anche in aree prive di contatto con elementi celtici e usarono ancora in età imperiale, come mostrano i cippi della necropoli di Taranto. Confrontando questi cippi con gli ex voto in pietra, di struttura del analoga, ma di forma plastica diversa, trovati nel san­tuario della Foresta di Halatte al Museo di Senlis, si ha una misura della diversità di sviluppo e delle affinità di fondo tra Celtici e Italici.


la gallia ed il reno

Nel quadro dell'arte romana provinciale, occupa una posizione particolare la provincia Narbonense, corrispondente a quei territori che nell'attuale nome di Provenza hanno conservato il ricordo di aver appartenuto alla "provincia" per antonomasia. Il suo centro, Narbo Martius (Narbona) fu la prima colonia di cittadini romani al di là delle Alpi. Fondata nel 118 a.C., essa risulterà la città più popolosa della Gallia al tempo di Tiberio.

Era stata Marsiglia a chiamare i Romani, in aiuto contro i Liguri, nel 154; dopodichè i Romani si erano ritirati restituendo i territori alla vecchia colonia focea. Ma furono chiamati ancora nel 125 contro i Voconti e i Salluvi. Nel 124-123, il console Sextius Calvinus prese la principale cittadella dei Salluvi a Entremont, un centro con mura e tracciato urbano regolare, d'in­fluenza greca. Nelle vicinanze fondò il forte romano di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence). L'anno successivo i Romani furono chiamati dagli Edui in difesa ancora contro i Salluvi e gli Allobrogi, in riscatto dei quali intervenne la tribù degli Arverni. Dopo che anche questi furono battuti, i territori conquistati fu­rono organizzati in provincia, la Narbonense.

In questi territori era penetrato un riflesso di cultura ellenica, diffusa dalla stazione commerciale greca di Marsiglia. Questa era in stretto contatto con Roma almeno fin dalla metà del III secolo, dai prodromi della seconda guerra punica.

Le tre fasi di Glanum

Il riflesso dell'arte ellenistica, intuibile nelle forme della scultura di età romana della Narbonense, è stato ora do­cumentato dagli scavi archeologici A Glanum (Saint-Rémy-de-Provence) è stato possibile distinguere il susseguirsi di tre fasi.

L'insediamento ellenistico si sviluppa in dipendenza di Marsiglia fino a circa il 100 a.C.; esso poi si andò romanizzando nello spazio di mezzo secolo e venne del tutto trasformato nella sua urbanistica e nel suo assetto monumentale dopo la presa di Marsiglia da parte di Cesare nel 49 a.C. Il definitivo possesso dei territori marsigliesi avvenne, posteriormente alla conquista di tutta la Gallia dall'Oceano al Reno (avvenuta dal 58 al 51), nel segno della lotta contro Pompeo, la cui base era in Spagna. A Marsiglia non rimase che una parvenza di autonomia municipale sotto il nome di città libera e federata. Il centro della provincia romana divenne Lugdunum (Lione), colonia di Italici con piena cittadinanza dal 43 a.C., sede di un presidio stabile e di una zecca monetale. A Lugdunum, Augusto fece compiere il primo censimento della Gallia e dette al paese un ordinamento definitivo.

Gli studi condotti sui monumenti di Glanum, hanno contribuito a stabilire al 39-38 a.C. la data del tempio al dio Glan, alle Matres Glanicae e alla Valetudo, dedicato da Agrippa quando questi prese possesso della Gallia dopo il trattato di Brindisi fra Ottaviano e Antonio. Tra il 35 e il 25 si colloca la costruzione del Mausoleo dei Giuli. I capitelli del tetrapilo centrale di questo monumento appartengono al tipo dell'ellenismo italico; quelli della parte superiore, circolare come una tholos ellenistica, sono più ellenistici, ma non più tardi. Questo monumento come il neo-atticismo augusteo era rimasto un fatto artistico limitato al centro di Roma e all'arte aulica che diret­tamente ne emanava. A Glanum continua una tradizione ellenistica ed ellenistico-italica, qui affluita anche prima dell'occupazione romana. Ciò viene confermato anche dalla scoperta, in muri di riempimento o di fondazione di età romana, di alcuni capitelli con teste maschili e femminili tra volute oblique sopra fogliame, del tipo sorto in Magna Grecia e diffuso in Etruria nel III e nel II secolo (Foro di Paestum, tombe di Vulci e di Sovana). Questi capitelli di Glanum vanno datati alla prima metà del II secolo a.C. Le teste sono ornate del torques, il massiccio cerchio di collana gallico, e presentano una durezza e geometricità di esecuzione che, insieme alla trasformazione delle nervature del fogliame in rigide strigilature, palesano l'opera di artigiani locali. Un capitello a teste e volute si troverà ad Argentoratum (Strasburgo) con possibile datazione al III se­colo d.C.

Il Mausoleo dei Giuli a Saint-Rémy-de-Provence

Lo scultore che esegui i grandi pannelli del monumento dei Giuli, pur ap­partenendo alla stessa corrente d'arte, partecipa con maggiore sensibilità al gusto ellenistico. Le sue composizioni sono derivate da pitture e i modelli pittorici sono ellenistici. Non è impossibile che questi modelli ellenistici avessero ricevuto una mediazione medio-italica. Il Maestro di Glanum può collegarsi da un lato all'arte provinciale e dall'altro all'arte ellenistica che egli riflette. Per questo aspetto, la sua arte costituisce un prece­dente a quanto si verificherà a Roma alla fine del I secolo e nel II, con la ripresa ellenistica al di là della parentesi del classicismo augusteo. Lo vediamo, questo fatto, sia nello stile che nella scelta dei soggetti, che sono mitologici anziché civili. Spetterà al Maestro delle imprese di Traiano portare questa tradizione ed esperienza stilistica alle sue espressioni ed alla tematica storica.

Traducendo in scultura i suoi modelli pittorici, il Maestro di Glanum opera con un rilievo molto basso, che è sorretto e determinato da un solco corrispondente ad un preliminare disegno di contorno delle figure. Queste assumono un'eccezionale scioltezza di movimento ed una grande libertà spaziale, pittorica, pur con mezzi disegnativi lineari.

Questa particolare tecnica, corrispondente ad un particolare linguaggio formale, raggiunge anche modeste opere della provincia narbonense. Che vi si fosse creata una speciale tradizione lo dimostrano alcune grandi opere pubbliche come l'arco di Carpentras e l'arco di Orange. Quest'ultimo è stato datato al tempo di Tiberio per ragioni storiche e per indizi epigrafici, ma stilisticamente potrebbe es­sere anteriore. Già nei rilievi del monumento dei Giuli a Saint-Remy si poterono in­dicare apparenti "anticipi" rispetto ai modi della Colonna Traiana, che sono, in realtà, permanenze ellenistiche, le quali saranno riprese dalla scultura flavia e traianea. Inoltre, il distacco dalla tra­dizione del naturalismo nelle singole forme, anche se gli schemi compositivi sono ancora ellenistici, "anticipa" il tardo-antico nella scultura provinciale d'Occidente, cosi come, nel Lazio, lo anticipava l'"arte plebea". A proposito dell'arco di Orange, i rilievi si stagliano netti sul fondo senza esser racchiusi in una cornice; questo modo di eseguire il rilievo non ha raffronto né nella scultura greca né in quella romana. Ma esiste un raffronto nei rilievi di sarcofagi etrusco-ellenistici di Tarquinia, dove questa tecnica è derivata dall'uso di applicare rilievi in terra­cotta eseguiti a stampo su casse di legno. Ciò conferma che, non appena la tradizione ellenistica si allenta e si mescola a tendenze "incolte", si hanno come risultato forme che si avvicinano a quelle che caratterizzano la tarda antichità. Le forme tardo-antiche non vanno dunque fatte derivare da influenze formali esteriori, ma vanno riconosciute come sorte dall'interno stesso della civiltà imperiale.

La situazione della Narbonense

Tra i risultati più efficaci di questo riflesso di ellenismo nelle officine locali della Narbonense, bisogna collocare la drammatica statua funeraria di Medea che medita l'uccisione dei figli, al Museo di Arles. Non conosciamo altrove questa iconografia, ma è proba­bile che ci si trovi di fronte alla ricezione di un modello ellenistico, che l'artista narbonense ha reso, semplificandolo, più drammatico. La diffusione del tipo nell'ambiente locale è attestata da un coperchio di sarcofago in pietra del luogo (Museo di Marsiglia), dove Medea decora il timpano, mentre gli acroteri portano la rappresentazione di altri due episodi del mito greco: Ulisse ed Euriclea, Edipo e la Sfinge.

AI di là della particolare situazione della Narbonense nello spazio geografico della Gallia e delle province germaniche, fra l'Oceano, il Reno e il primo corso del Danubio, sono individuabili in età imperiale diversi centri di produzione artistica con caratteristiche diverse. Ma sarebbe difficile voler ricondurre queste diversità alla differente costituzione delle tribù galliche o germaniche, le quali occupavano quelle regioni formando una giustapposizione di popoli differenti per lingua e per costumi. La romanizzazione ne unificò la civiltà durante i due secoli nei quali i Romani riuscirono a mantenere la pace ponendo termine alle continue lotte tribali. Questo periodo di pace fu il più duraturo della storia antica dell'Occidente. Uno degli effetti più immediati di questi periodi di pace è l'unifi­cazione economica e culturale. Analogamente, nelle province romane d'Occidente si costituì un'ampia unità. Perciò, pur individuando e tenendo presenti varie of­ficine di scultura nell'ambito delle province, queste compongono tutte insieme (a parte la Narbonense) una larga unità culturale.

Il periodo di sicurezza generale aveva avuto termine in Italia con l'invasione dei Quadi e dei Marcomanni, del 167. Ma nella Gallia solo nel 253 si ha il primo allarme, al quale seguirà l'invasione del 276.

La civiltà di La Tène

L'arte della Gallia e della Renania di età romana rappresenta un fenomeno di particolare interesse. La prima caratteristica è il suo costituirsi sopra un terreno barbarico che (con eccezione della Narbonense) aveva avuto scarsi contatti con la produzione greca. Ciò non si verifica altrove, perché in Spagna, in Africa, nella penisola balcanica, il contatto con la cultura artistica greca era continuo. Si ha quindi, nelle province occidentali d'Europa e nelle Isole Britanniche, la sovrapposizione dell'arte romana ad un ambiente nel quale era diffusa un'arte limitata nelle sue manifestazioni, anche se in esse aveva raggiunto aspetti particolarmente raffinati. Quest'arte indigena si muoveva nell'ambito dell'ornamentazione (in metallo) e si manifestava in forme astratte, non naturalistiche, con una preferenza per la linea curva. Quest'arte propria dell'area celtica si era stabilizzata in Occidente nella civiltà di La Tène, che permane fino alla conquista romana allo stadio della progredita Età del Ferro. Accanto ai prodotti della metallotecnica, resi preziosi da inserzioni di smalti colorati, dovette esistere anche una scultura in legno. Di questa, pochi resti sono giunti a noi e già di età romana, come le statuette, le teste, gli animali e i pezzi anatomici di età tra Caligola e Claudio.

La scultura celtica in pietra che conosciamo è di età tarda, dei primi tempi della conquista romana; le uniche che la precedono sono le sculture di Entremont, la fortezza distrutta dai Romani nel 123. Si tratta di traduzione in pietra dell'uso di esporre, in alveoli praticati nelle pareti, le teste mozze dei nemici vinti. Queste t tes coupées di Entremont, se sono di concezione celtica, mostrano nella forma già l'influenza el­lenistica. Ma prima, la forma della figura umana appare schematica, derivata dalle figurazioni neolitiche.

Sopra questa cultura indigena e di carattere "primitivo", si sovrappone l'arte romana, sia nella sua corrente di osservanza ellenistica e di arte "colta", sia nella sua corrente "plebea". In questa sovrapposizione di età imperiale, la corrente "colta" romana non produce nessuna corrente artistica vitale: ci si limita ad una grossolana imitazione di sculture importate da Roma o dai centri della Grecia e della costa asiatica. Invece la corrente romana celebrativa del ceto medio, l'arte "plebea", trova in questo ambiente l'occasione per manifestarsi e svolgersi più liberamente. Sorta nell'area artistica medio-italica con un apporto ellenistico mai assimilato, perché contrastante col fondo non-figurativo dell'ambiente primitivo italico, la corrente artistica "plebea" è quella che va ritenuta responsabile per la formazione dell'arte "provinciale" dell'Occidente o "dell'arte europea di Roma".

L'arte "provinciale" serviva ai bi­sogni delle stesse categorie sociali per le quali era sorta a Roma e nei municipi dell'Italia centrale l'arte plebea. I magistrati locali, i liberti, i commercianti, trovano nelle province la loro corrispondenza nei funzionari amministrativi e militari, nei commercianti romani o indigeni romanizzati, nei soldati. Perciò troviamo sulle stele funerarie immagini di soldati, scene di commercio e di mestiere artigiano, rappresentazioni di esazione d'imposte, ma anche scene familiari. Quest'arte plebea di Roma trasportata nella provincia non ri­mane uguale a se stessa, e nelle officine provinciali trova vari sviluppi. È prossima all'arte dell'Italia settentrionale nelle stele di Marcus Caelius, caduto nella foresta di Teutoburgo il 9 d.C. (Bonn, Landesmuseum). Ma poi assorbe sul posto qualche elemento proveniente da officine orientali ellenistiche, dalle quali dovettero provenire alcune maestranze di lapicidi venute al seguito di militari arruolati nelle legioni d'Oriente. Elabora elementi della tradizione artistica indigena, che qui e nelle Isole Britanniche è celtica. Le officine provinciali elaborano modi e tradizioni proprie, che vengono a costituire variazioni sul fondo del comune mestiere.

Il significato dell'arte provinciale

L'arte delle province europee rappresenta un elemento importante nel quadro del passaggio dall'antichità al Medioevo. Essa conferma che tale passaggio non è dovuto ad influenze esterne quanto a trasformazione dell'interno dello stesso mondo romano e roma­nizzato.

Fin dal I secolo dell'impero i caratteri di dell'arte provinciale appaiono formati, il che conferma che essa continua un filone già costituito in precedenza, a Roma e nella provincia italiana. Ma non sorge una coscienza formale che si ponga problemi e li svolga. Siamo di fronte ad una produzione artigiana variabile di volta in volta, da luogo a luogo, sopra un comune denominatore. Perciò i caratteri che troviamo nel I secolo non variano sino alla fine del III, quando le inva­sioni germaniche pongono termine all'attività delle officine di arte "colta". Viene allora a mancare l'apporto di queste officine locali, che mostrano un rapido imbar­barimento, che isolata­mente corrisponde a un risorgere di elementi formali del sostrato celtico e che spesso scade primitivismo, come lo si troverà ancora alla fine del VII secolo in stele funerarie della regione romana (stele di Niederdollen­dorf, Bonn, Museo).

L'Aquitania

Dei tre distretti della Gallia, l'Aquitania, che aveva avuto una particolare fioritura preromana, è quella che pro­duce opere più originali e nelle quali troviamo più spesso forme pre-medioevali: esempi sono la stele a pilastro di Mansuetus, maestro di ascia (Saint-Germain-en-Laye), la stele del capomastro e impresario, barbuto e calvo, del museo di Bordeaux, la sta­tuetta di un dio cacciatore da Touget al Museo di Saint-Germain, svincolata da modelli ellenistici.

Negli adattamenti delle iconografie del pantheon greco-romano, tra le quali predomina la figura di Mercurio, a confermare l'importanza della vita commerciale, si ha un riflesso "provinciale" dell'arte colta. Diana e Apollo mantengono intatta la loro iconografia ellenistica, e così pure Venere nuda, immagine insolita per l'artista barbarico. Anche nelle divinità locali assi­milate a quelle greco-romane, si ha il riflesso di tipologie colte, salvo per alcuni particolari, come la posa della figura seduta a gambe intrecciate di alcune divinità maschili celtiche. Per le divinità mi­nori, che non trovano riscontro nel pantheon classico, si creano immagini più ori­ginali, ed è qui che meglio si coglie una definizione stilistica nuova: così il dio boschereccio e cacciatore nel Museo di Saint-Germain, con arco e roncola, originariamente munito di corna.


L'officina di Bonn e l'arte cultuale

L'officina di Bonn crea monumenti dedicati alle Matronae Aufaniae, divinità locali. Questi monumenti furono trovati reimpiegati come materiale da costruire per isolare alcuni sarcofagi della necropoli romana e dell'età dei Franchi, nei quali si supponevano le spoglie di martiri cristiani, nel luogo dove fu poi elevata la cattedrale. Questi monumenti hanno, in parte, datazione epigrafica sicura tra il 138 e il 161, e risultano dedicati da alti ufficiali, da centurioni e da soldati della guarnigione romana e dalle loro mogli. Alcuni dei soldati ri­sultano essere stati combattenti delle guerre d'Oriente; altri si rivelano oriundi da territori di lingua greca, altri italici. La loro provenienza non influisce sullo stile delle sculture dedicate, che è unitario. Il culto continua a esser testimoniato da epigrafi poste da funzionari civili e amministrativi, sino all'anno 235.

L'officina è locale, ma non può dirsi di arte primitiva. I suoi prodotti sono di qualità elevata e si possono dire appartenenti ad un'arte colta, ma locale, che ha saputo assumere i caratteri epigrafici romani e creare una tipologia originale per queste divinità indigene. Nelle lun­ghe vesti a pieghe severe e negli ornati vegetali a grumi di foglie si ha un'anticipazione di forme dell'arte "gotica" medioevale. E lo stesso si può dire di sculture meno colte della Germania Superiore (torso da Nancy, a Strasburgo). Ancor più lontane dal gusto classico sono altre sculture cultuali provenienti dalla Gallia, come la statua di matrona fiancheggiata da due figure minori, conservata a Caen. Notevole è in tutte le province la partecipazione dei funzionari ro­mani al culto delle divinità locali. Nel Museo di Colonia si trova un altare con rilievo raffigurante un sacrificio, dedicato da Titus Flavius Constans, prefetto del pretorio fra il 165 e il 167 , alla dea Vagdavercustis. In Dacia saranno frequenti dediche a divinità dei culti esoterici e anche al serpente Glykon, frutto di un'impostura. Tra le più caratteristiche, la dedica di un quadrunviro della colonia Ulpia Traiana Sarmizegetusa agli "dei patrii" Malagbel e Bebellahamon, Benefal e Manavat, ai quali esso aveva costruito un tempio absidato (Museo di Deva in Transilvania).

Nel quadro delle raffigurazioni cultuali in Gallia assume particolare impor­tanza, iconografica e artistica, quella a tutto tondo di una divinità assimilata a Giove, che, a cavallo, abbatte un gigante anguipede e che doveva esser collocata al sommo di una colonna. Vi è un adattamento tra religione indigena e religione romana. Le variazioni maggiori si notano nella figura dell'anguipede, dove sembra aver più libero corso un gusto indigeno per il grottesco e per il fabulistico e mostruoso.

Lo stesso gusto si trova espresso nel gruppo di un leone che abbatte un gladiatore, da Chalon-sur-Saòne. Qui l'elmo del gladiatore serve a trasformare la testa umana in immagine mostruosa, e il leone precede i tanti leoni dei portali e dei pulpiti delle grandi chiese medioevali. Questo gusto per la rappresentazione della ferocia e del dolore si trova nelle t tes cou­pées di tradizione celtica e nelle figure di mostri antropofagi (la Tarasque), che la scultura di età romana ha conservato in Gallia e in Spagna. L'arte con­nessa al culto va dalle immagini ellenistico-romane provincializzate, alle espressioni connesse con il sostrato indigeno che, arricchito dell'esperienza formale romana, dà vita ad immagini nuove.

Il ritratto

L'arte ufficiale del ritratto imperiale è rappresentata, nelle pro­vince, da immagini importate o imitate da queste. Ma vi sono anche alcune eccezioni, tra la fine del II e gli inizi del III secolo. Una testa due volte più grande del vero, perciò da individuarsi come ritratto di un imperatore, proviene dalle vicinanze di Argentoratum (Strasburgo). Questa città subì gravissimi danni, nel 235, nelle lotte per la successione, ed a seguito di que­sti si formò una stratigrafia archeologica riconoscibile dalle tracce d'in­cendio e dalla distruzione dei monumenti. Ciò consente all'interno della città una distinzione cronologica delle sculture. La testa in questione, tuttavia, proviene dai dintorni. L'iconografia ufficiale risulta alterata dall'artista locale, sicché l'attribuzione del ritratto ad uno degli effimeri imperatori dell'anno 238, Pupieno, non appare soddisfacente per la divergenza con i ritratti accertati. L'attribuzione precedentemente ad Antonino Pio potrebbe essere iconograficamente più ammissibile. La scultura è interessante per il modo di semplificare i piani e di indicare i segni lineari delle rughe. Analoghe osservazioni si possono fare sul ritratto in bronzo nel quale si è riconosciuto Gordiano III (238-244) al Museo di Bonn.

La produzione delle sculture funerarie dei mi­litari, dei mercanti e dei funzionari, s'innesta alla corrente plebea di Roma, mentre la produzione delle sculture di soggetto religioso e ufficiale, quando non imita il modello ellenistico-romano, produce opere di notevole impegno e di carattere originale.

Anche le raffigurazioni di ispirazione mitologica antica assumono aspetti che le ricollegano più con le sculture dell'Europa medioevale che non con l'antichità. La stele del Museo di Briançon, con la corsa di Eroti su carri nel fregio, nella parte supe­riore, con Andromeda fra il mostro e il suo liberatore, assume spazieggiature da lunetta rinascimentale. Altri esempi sono il rilievo con fatiche di Ercole da Vaison, narrato con ingenuità espressiva, o l'Hygieia di Epinal, che assume l'aspetto di una farmacista nella sua apoteca.

Altri esempi di un'arte più complessa e meno istintiva di quella dei monumenti funerari in pietra, li troviamo nei bronzi. Si trattava di prodotti di officine rette da maestri artigiani di maggiore esperienza, ed è probabile che i maestri fonditori provenissero dall'Italia settentrionale, perché gli aspetti formali appaiono unitari. Il ritratto di un capo indigeno, al Museo di Berna, ce ne offre un buon esempio. Anche il ritratto dell'eroe nazionale Vercingetorige sulla monetazione rientra in questo quadro. Ma più intensa di espressione è la testa femminile di Avenches, in bronzo dorato, applicata originariamente a un trofeo; essa rientra nel filone delle rappresentazioni dolenti di prigionieri barbari.

A Orleans si sono trovati numerosi bronzetti primitivi da riconnettersi con le sculture in legno locali. Ma si hanno anche esempi di forme ellenistiche semplificate in un geometrismo robusto, che ricorda le teste del capitello di Glanum e che continua anche in età imperiale, come mostra l'ex voto dedicato da Esumopas, proveniente dalla regione dell'Eure: questa testa in bronzo non reca al collo il torques gallico e presenta una tipica geometrizzazione delle forme ellenistiche.


treviri, residenza imperiale

Treviri, nella provincia belgica, acquistò importanza alla fine del II secolo come punto di difesa contro la pressione delle tribù germa­niche. Gli imperatori gallici del III secolo la scelsero come residenza sino a che Claudio Gotico non ebbe ricondotto le province occidentali a riconoscere la loro dipendenza da Roma. Franchi e Alemanni la invasero nel 275-276, ma nel 287 Treviri fu scelta da Diocleziano come capitale della parte occidentale dell'impero quadripartito. Era residenza imperiale al tempo delle lotte fra Costan­tino e Massenzio. Qui fu celebrato il matrimonio di Costantino con Fausta, figlia di Massimiano, che si era rifugiato da lui e che da lui si fece riconoscere Augusto. Lo splendore urba­nistico della città si accrebbe sotto Valentiniano I e sotto Graziano. Dopo l'invasione dell'usurpatore Massimo nel 383, Graziano si rifugia a Lione; nel 402 Stilicone trasporta la corte a Ravenna e la prefettura della Gallia ad Arles. Treviri decade.

La Porta Nigra a Treviri

In questo ambiente di corte, l'arte delle province non trova eco. I monumenti architettonici, come la Porta Nigra, l'Aula Palatina (detta Basilica), le chiese gemine costruite da Costantino, i resti degli edifici di Graziano, sono opere grandiose che cercano di stare alla pari con quelle di Roma. Dagli scavi di una delle chiese costantiniane, costruita nel 326 sulle rovine di una precedente residenza, provengono i resti di affreschi che consentono di prospettare una rico­struzione del soffitto a cassettoni, e che sono un documento di pittura decorativa costantiniana. Busti di figure allegoriche nimbate si alternano con rettan­goli nei quali sono raffigurati putti alati che reggono corone di fiori. Un indizio per il signi­ficato di questa decorazione nel senso di un'esaltazione di gioia e di felicità si può ricavare dal confronto con un medaglione aureo di Costantino dove putti simili, con ghirlande, sono accompagnati dalla legenda Gaudium Augusti Nostri. Importante per la definizione dello stile costantiniano è l'osservare la tagliente definizione delle forme, non più dissolte in un accostamento di chiari e scuri a macchia, ma realizzate con solidità di rilievo, con densità corporea entro precise incorniciature sullo sfondo azzurro infinito. I pochi fram­menti della decorazione parietale sono sufficienti ad indicare che le pareti erano decorate a finti pilastri al di sopra di uno zoccolo imitante il marmo. Tra i pilastri, pannelli con figure grandi al vero. Vi è una ripresa di modi simili alla prima fase del II stile pompeiano, cioè una ripresa di tipo classicistico; anche le teste femminili del soffitto hanno una larghezza e solidità classica.

Le vetrerie di Colonia

Tra le manifestazioni di artigianato raffinato, destinato ad avere larga diffu­sione nel Il, III e IV secolo, ci sono le officine vetrarie di Colonia. Con la scoperta che la massa di vetro poteva esser lavorata e modellata soffiandovi aria attraverso un tubo, la lavorazione del vetro divenne una produzione di massa che passò dalle officine egiziane e fenicie all'Italia (specialmente Aquileia) ed alla Gallia, e che a Colonia ebbe particolare sviluppo a partire dal tempo di Augusto. Caratteristiche della fabbrica di Colonia sono i recipienti decorati con fili di pasta vitrea di vario colore sovrapposti alla parete del vaso (decorazione "a serpentina") o con altre applicazioni. Questo tipo di decorazione inizia nel Il secolo ma ha particolare sviluppo nel III. Nel IV secolo si arriva al virtuosismo delle tazze intagliate in modo che il recipiente appaia circondato da una rete discosta diversi millimetti dal corpo del vaso. Questi vetri, detti diatreta, erano celebrati nell'antichità per la loro preziosità. Anche la produzione vetraria assume nel IV secolo un carattere d'élite.


la penisola iberica

L'arte dell'età romana nella penisola iberica si presenta in modo diverso da quello delle altre province continentali dell'Occidente. Mentre le altre province avevano raggiunto, al momento dell'occupazione romana, un carattere di associazione tribale ancora barbarico e chiuso, i popoli della penisola iberica avevano già avuto antichi e larghi contatti con i Greci e con i Fenici dell'Occidente (Punici), ed avevano sviluppato una cultura artistica propria, ad alto livello, sia pure sotto l'impulso dell'elle­nismo. Creatori di quest'arte iberica erano stati i popoli dell'Andalusia e del sud-est spagnolo, mentre quelli della parte settentrionale erano rimasti a un livello più rurale e nell'ambito della cultura artistica dei popoli celtici. Un altro elemento che aveva influito sul livello culturale generale era stato il fatto che mercenari iberici avevano servito in Sicilia ed in Grecia sotto i Cartaginesi. Terzo elemento, i Romani si insediarono assai presto nella Spagna orientale: la prima costituzione in provincia della Hispania Citerior è del 197. La parte sud-occidentale della penisola (Hispania Ulterior) era già stata romanizzata fin dal tempo della seconda guerra punica (218-201); servì poi da base per la conquista della parte nord-occidentale (Lusitania) e per la lotta fra Cesare e Pompeo (era la regione dove si trovavano le miniere d'argento e di rame). Nel riordinamento compiuto da Augusto fra il 27 e il 19 a.C., il Sud prese il nome di Baetica e fu eretto a provincia affidata a un proconsole di rango senatorio; la Lusitania, staccata dall'Hispania Ulterior, divenne provincia governata da un legato, e l'Occidente, Hispania Citerior, rimase nel precedente assetto fino al tempo di Diocleziano, che alla fine del III secolo ne staccò l'Asturia e altri territori e ne mutò il nome in Tarraconensis.

Per tutti questi motivi, la classe superiore iberica ha assorbito le forme dell'arte ufficiale romana non dando spazio alla formazione di un'"arte provinciale". Essa aveva dietro di sé una propria cultura arti­stica largamente intrisa di ellenismo. Di questa cultura artistica iberica si distinguono gli echi nella scultura d'età romana, come una libera e originale rielaborazione dell'arte ufficiale romana.

Tra i più antichi documenti di quest'arte, ci sono i frammenti prove­nienti da Osuna, nella provincia di Siviglia, facenti parte in origine di un monumento per le vittorie di Cesare contro i Pompeiani, eretto nella Colonia Julia Genetiva Urbanorum Urso. Dovrebbero perciò datare at­torno al 45 a.C. Tra questi frammenti il più caratterizzato è il rilievo con un militare suonatore di corno (Madrid, Museo Nazionale). Lo si può considerare un tipico prodotto di quest'arte romano-iberica, con elementi ellenistici (lo svolazzo del pan­neggio e l'impostazione della figura) ed altri elementi derivanti dalla tradi­zione celebrativa dell'arte "plebea" e municipale romana, con appiattimenti del rilievo e incisi con gusto disegnativo, che appaiono caratteristiche locali. Nella stessa direzione troviamo alcune stele funerarie con raffigurazione di mestieri, anche se meno frequenti che non nelle province centro-europee. Fram­menti di tali stele, dai dintorni di Cordova, con la raffigurazione di un uomo che versa olive, documentano l'abbon­danza di tale prodotto nella Baetica.

Anche i ritratti, quando non sono di officina urbana di Roma (come il busto femminile della fine del II secolo al Museo di Boston), hanno qualità pari ai migliori prodotti dell'arte municipale italiana e caratteristiche somatiche o di acconciatura che li qualificano come prodotti locali: ritratto femminile in terracotta del Museo di Siviglia, dalla Baetica; ritratto del Museo di Merida, dalla Lusitania; ritratto del Museo di Barcellona, dalla Tarraco­nense. Questi tre ritratti, in marmo, in terracotta e in bronzo, sono databili alla seconda metà del I secolo, e tutti e tre possono notarsi per una particolare capacità di caratterizzazione di un tipo somatico mediante mezzi plastici di somma­ria semplicità.

Anche le piccole plastiche in bronzo applicate a oggetti di uso (vasellami, finimenti da cavalli) trovano in Spagna una caratterizzazione che le fa distinguere da quelle delle altre province. Le miniere di rame devono aver favorito il costituirsi di officine locali o di artigianato itinerante. Questi bronzetti si caratterizzano per vivacità di composizione e sempli­cità nei dettagli; ciò che conta è l'insieme, mai il particolare (reggi-briglia con Amazzonomachia, dove è ripresa la tradizionale iconografia dell'Amazzone tirata giù dal ca­vallo, risalente al V secolo a.C. nell'arte greca; frammentaria scena di caccia, con una figura a cavallo seguita da un uomo a piedi e da un cane, che mostra una naturalezza di impianto del tutto parti­colare: sono entrambi pezzi databili tra la fine del II e la prima metà del III secolo).

Nel nord della penisola, si trovano più frequentemente residui del sostrato etnologico, in parte celtico, che era sempre stato meno esposto a contatti ellenici e punici. Le stele conservano una decorazione a intaglio, con preferenza per una terminazione a disco, che deriva dalla tradizione della lavorazione del legno. Queste forme e questa tecnica sono accompagnate da raffigurazioni in rilievo, intagliate, a rilievo piatto e a contorno lineare, che si ricollegano più alla tradizione celtica di La Tène che alla scultura romana. Anche i soggetti (di caccia, di guerra, o il defunto eroizzato a banchetto) rientrano in quell'area culturale. Tali stele si susseguono dal II al IV secolo.

La pittura ed i mosaici

Nella penisola iberica non si sono conservati apprezzabili documenti della pit­tura d'età romana. I mosaici che sono stati rinvenuti, appartenenti al I, II e III secolo, non mostrano caratteristiche particolari: appartengono alla media produzione che adopera schemi iconografici ("cartoni") diffusi in tutto l'impero. Tali modelli provengono sia da Roma che dai centri della costa africana; ma si può intravedere una prevalenza di modelli romani sino a tutto il II secolo; mentre dal III in poi prevalgono quelli africani. A Merida e ad Italica vi sono mosaici in bianco e nero paralleli a quelli contemporanei di Ostia, mentre nelle province centro-europee il mosaico bianco e nero è sconosciuto. Anche per questo lato l'artigianato artistico della penisola iberica si dimostra in contatto con Roma.

Nel IV secolo si hanno mosaici sepolcrali che trovano i loro paralleli in Africa (necropoli di Tabarka, Tunisia). Alla fine del IV secolo anche nel­la penisola iberica avviene quel fenomeno di disgregazione che è caratteristico per tutte le aree periferiche del mondo romano. Elementi iconografici recepiti da altre aree si mescolano a forme spontanee di arte popolare, sicché prodotti di zone diverse finiscono per assomi­gliarsi. Ma nella penisola iberica questo disgregamento degli schemi iconografici tra­dizionali assume un aspetto particolare: si possono ricordare a questo proposito il mosaico del dominus Dulcitius (Museo di Navarra) e quello firmato" ex officina Anniponi" (Museo di Merida). Il primo dalla Tarraconense e il secondo dalla Lusitania, provengono entrambi da ville di grandi proprietari agricoli. Quello del dominus Dulcitius, mostra il signore nominato dall'iscrizione a caccia, tra schematiche forme vegetali. L'icono­grafia è presa da uno dei piatti d'argento con raffigurazione di sovrani a cavallo intenti alla caccia, che sono una caratteristica della produzione sassanide del IV secolo.

Il mosaico trovato nei dintorni di Merida, dell'officina di un Anniponus, mostra la deformazione periferica di modelli ellenistico-romani, con l'adattamento di elementi iconografici tradizionali fram­misti ad elementi ornamentali locali. Le figure sono tratte dal repertorio dei sarcofagi con Dioniso, Arianna giacente e il corteggio bacchico. Ma le immagini non hanno coerenza tra loro e vengono in tramezzate da rosette, mentre gli originari elementi vegetali sono ridotti ad uno svolgi­mento filiforme e il Dioniso ha preso le vesti e gli atteggiamenti di un cittadino; eppure, l'artigiano esecutore doveva andar fiero del suo prodotto, se ha voluto apporvi la firma. È questo un tratto tipico di queste tardissime produzioni perife­riche, e ne abbiamo un parallelo nel mosaico a due scene, una di Dioniso e l'altra con Fedra e Ippolito, da Sheik Zoueda in Egitto.

Il mosaico di Anniponus documenta come nella periferia occidentale la tradizione della forma antica si perda anche quando rimane memoria dell'iconografia ellenistica. Viene a perdersi ogni rigore, ogni disci­plina di stile. Nelle province periferiche, con la fine del IV e con l'inizio del V secolo, la produzione artistica, oltre che farsi rara, non supera il livello di un artigianato popolare, che, mentre non conserva nessuna connessione formale con l'antico, non riesce nemmeno ad avviare una sua tradizione diversa.

A Centcelles, nella Tarraconense, un grandioso mausoleo conserva resti di mo­saici di carattere aulico e di arte paleocristiana romana. Lo si è supposto sepolcro di Costanzo I, ucciso in Spagna nel 350. Ma sulla Spagna si estenderà presto il regno visigotico: Ataulfo, successore di Alarico, valica nel 414 i Pirenei ed entra a Barcellona. I Visigoti recano i ricordi di forme artistiche siriache, ma anche scito-sarmatiche, ed assorbono l'arte locale.


le isole britanniche

L'arte d'età romana nelle Isole Britanniche produce opere di carattere ufficiale con impronta provinciale, ed opere che sono caratteristiche per le cul­ture periferiche nelle quali l'iconografia antica si conserva in aspetti dissociati e privi di coerenza stilistica. Accanto fiorisce un artigianato di tradizione locale e di patrimonio formale celtico, reso più esperto dalle tecniche romane, ma pressoché intatto.

La degenerazione della forma classica avviene per un processo interno e senza influenze esteriori. Invece l'arte ufficiale prodotta per le commissioni dei funzionari più elevati segue le fasi dell'arte dei centri continentali.

Le Isole Britanniche non furono facili da governare: la società oligarchica tribale oppose resistenza alla perdita dell'indipendenza, e i suoi capi o re locali conservarono il più possibile di autonomia nei loro usi e nella loro mentalità. I Romani dovettero sempre mantenere nell'isola ingenti forze militari. Lo sbarco di Cesare nel 55 a.C. fu considerato impresa straordinaria; esso servì a proteggere i confini della Gallia e ad aprire nuove vie di commercio, ma si limitò a toccare solo un angolo del paese, a sud-est. La conquista fu operata nel 43 d.C. per iniziativa di Claudio, e da allora quattro legioni vennero dislocate stabilmente.

Il Vallo di Adriano

Sotto Vespasiano, l'occupazione raggiunse i golfi della Clyde e del Forth, dove sorgerà il muro di difesa contro il nord al tempo di Antonino Pio. Ma già al tempo di Adriano era stato necessario arroccare la difesa su una linea più arretrata, quella del golfo di Solway, già rag­giunto sotto Claudio. Fra il 287 e il 296 vi fu un decennio di autonomia; la secessione fu vinta da uno dei tetrarchi, Costanzo Cloro (il padre di Costantino), che riportò l'isola all'obbedienza del governo centrale; vi si crearono quattro e poi cinque province minori. Un medaglione coniato a Treviri mostra nel rovescio la città di Londra personificata in una figura femmi­nile che, con un ginocchio piegato e le braccia tese, riceve dinanzi alla porta della città l'imperatore Costanzo a cavallo, mentre una grande nave galleggia sul Tamigi.

La scultura di carattere provinciale delle Isole Britanniche è con­nessa con quella della Gallia, sia come repertorio che come forma. Una statua di figura seduta del Museo di Carlisle, proveniente dalla regione attorno al golfo di Solway, ha la stessa impostazione massiccia e monu­mentale, lo stesso carattere quasi pre-medioevale che si riscontra nelle statue galliche. Un capitello classico, nel quale sono inseriti busti di divinità gallo-romane, corrisponde anche nello stile a ciò che troviamo nella Gallia centro-settentrionale.

Un interesse particolare assumono le sculture provenienti dai dintorni di Colchester, nell'Essex, l'antica Camoludunum, dal nome del dio gallico della guerra Camulos. Questa città era stata la capitale del principale dinasta del sud-est della Britannia, Cunobellinus, successore del re Cassivellaunus, incontrato da Cesare. Sulle sue monete, coniate attorno al 40 d.C., vi è l'emblema della sfinge. E sfingi antropofaghe (che tengono tra le zampe anteriori una testa umana) si trovano su monumenti funerari della regione. Sfingi e leoni sulle stele e sui monumenti sepolcrali, partiti dal repertorio di Aqui­leia, sono giunti sino a questo estremo Settentrione appena deformati, costituendo un'arte europea, l'arte europea di Roma, che affonda le sue radici nell'antichità classica.

Così una stele, sempre di Colchester, sormontata da piccoli leoni acco­vacciati e da una sfinge, ci mostra un soldato romano a cavallo che ha atterrato un Barbaro nudo e barbuto, armato di spada. L'iscrizione ci dà il nome del cavaliere, Rufus Sita, e ci dice che era un Trace. Ma nell'iconografia non vi è nulla del repertorio consueto alle stele di età romana in Tracia; essa rientra nell'iconografia delle stele della Gallia e del Reno, e vi è soltanto una certa legnosità nel ripetere lo schema di origine classica.

I rilievi del vallo di Antonino Pio

Questa durezza meccanica nel ripetere gli schemi consueti al repertorio celebrativo romano, la ritroviamo anche nei rilievi che accompagnano le iscrizioni del vallo di Antonino Pio in Scozia. Queste iscrizioni rendono conto del tratto di muro che era stato eseguito dai singoli reparti legionari (distance slabs). Queste iscri­zioni si sono ritrovate in numero di 17 e solo alcune hanno una decorazione a rilievo. In quella di Bridgeness si ha a sinistra, entro una cornice a pilastrini, un cavaliere con corazza ed elmo, scudo e lancia che sovrasta quattro barbari Caledo­niani nudi, uno dei quali decapitato, due armati di scudo e spiedo. Il rilievo ha qualche attinenza con quello della stele di Rufus Sita. Segue l'iscrizione entro cornice ornata da due scudi amazzonici a semiluna terminanti in teste di grifo o aquila. Si ha quindi a destra un altro rilievo, con scena di sacrificio che si svolge dinanzi ad un edificio a edicola, mentre il sacrificante versa il contenuto di una patera sull'altare. È una scena comune nel repertorio romano, composta con le figure principali rigidamente fron­tali e con la convenzione degli animali resi in piccolo formato. Abbiamo, in questa scena di lustratio del vallo antonino, co­struito fra il 142 e il 145, la riprova che l'arte delle province occidentali si ricollega alla corrente dell'arte plebea di Roma e che questa corrente contiene già precocemente in sé il linguaggio formale tardo-antico.

Gli scultori del vallo antonino giungono ad imbarbarimenti dei modelli tradizionali, come si può vedere in un'altra di queste iscrizioni, trovata presso Castlehill. Qui vediamo, a sinistra, una Vittoria alata che porge una corona a un cavaliere elmato (il cavallo è piccolissimo e di forme lineari); sotto, due informi figure di prigionieri. Nel rilievo di destra, un'aquila vista di fronte, grossolana, sta sopra al segno zodiacale del capricorno, che era l'emblema della II legione. Sotto, un prigioniero nudo seduto. Anche le cornici hanno perduto ogni senso strutturale e ogni grazia.

Le fattorie rurali

Un aspetto particolare della presenza romana in Britannia è lo sviluppo della fattoria rurale; non villa di diletto ma im­pianto aziendale agricolo. L'economia antica delle Isole Britanniche rimase sempre agricola, non divenne mai mari­nara. Di queste ville rustiche alcune appartengono a funzionari civili o militari che, ritiratisi dal servizio, erano rimasti nel paese; ma la grande maggioranza dovette appartenere a Britanni, che si erano elevati a posizioni di riguardo. Entro il giro di un generazione dalla conquista, la tecnica edilizia romana era stata adottata diffusamente, ed avveniva un'importazione di merce di lusso.

Il tesoro di Middenhall

Sorprendente è la quantità e la bellezza delle argenterie di età romana che si sono trovate in Britannia. Notevole è il tesoro di Middenhall, scoperto nel 1942 nelle vicinanze di una piccola villa romana, costituito di 34 pezzi di argenteria di alta qualità: un grande piatto rotondo con Oceano al centro, due vassoi piccoli con satiri e ninfe, quattro bacili con largo orlo decorato con figure di animali e teste umane di carattere generico, un bacile più profondo, con orlo a decorazione vegetale e coperchio con centauri, cinghiali, leoni e teste sormontate da una figuretta fusa in ar­gento e forse dorata, rappresentante un tritone. Per quanto il coperchio sia de­corato con motivi di conchiglie, non sembra che la figuretta che serve da maniglia sia adattata allo spazio sul quale riposa. Può darsi che sia stata sostituita in antico; cosi la pertinenza del coperchio a questo bacile non è del tutto certa. Gli ornati dell'orlo erano destinati a ricevere un riempimento a niello, e decorato a niello con motivi geometrici al centro e nell'orlo è un altro grande piatto rotondo. Vi sono altri piccoli bacili, due calici, cinque cucchiai con iscrizioni cristiane.

L'analisi delle forme e i confronti con altri tesori di argenterie portano a concludere una datazione fra il 350 e l'età di Valentiniano I, cioè l'ultimo quarto del IV secolo. La Britannia fu abbandonata nel 407 a seguito dell'occupazione delle Fiandre e del basso corso del Reno fino al mare da parte di Franchi e Bur­gundi. Nello scorcio del secolo questo "tesoro" deve essere stato nascosto sot­terra dal suo proprietario.

Questi pezzi d'argenteria, tranne il piatto a decorazione geometrica a niello, appaiono di fattura occidentale e romana, con il contributo iconografico e forse manuale dell'artigianato di lingua greca.

Non è possibile stabilire se questi oggetti sono stati eseguiti a Roma, Milano o Treviri, oppu­re a Costantinopoli, Antiochia o Alessandria. Il repertorio dei due bacili con bordo ornato di animali è di tipo ellenistico nell'atteggiamento naturalistico delle bestie e negli alberelli che separano qualche gruppo dall'altro. Ma le quattro grandi teste umane, due femminili e due maschili, che si inseriscono nella decorazione, non hanno alcun rapporto né compositivo né di soggetto con il resto. Tranne una, di un uomo barbuto con capelli a frangia sulla fronte e lunghi sulla nuca, sono tipi generici e classicistici, come lo sono anche le più grandi teste che decorano il centro interno della coppa, l'una velata, forse di Cerere, l'altra con elmo, pro­babilmente Virtus. La testa barbuta ricorda i ritratti ateniesi che vanno dall'età di Gallieno all'età di Costantino. In quell'ambiente di gusto clas­sicistico possono cercarsi le origini dei modelli, adoperati anche molto tempo dopo la loro costituzione e senza deformazioni. Il lavoro a sbalzo doveva essere eseguito ribattendo la lamina d'argento sopra modelli plastici in legno, i cui contorni venivano poi ritoccati e il cui modellato era definito lavorando la la­mina dal dritto sopra un supporto di pece che riempiva il rilievo ma consentiva piccole modificazioni. Il bordo analogo nel repertorio, che decora il coperchio dell'altro bacile, presenta una certa deformazione dei modelli. Questa è avvertibile nelle grandi teste (di Pan, di Satiro) inserite tra il fregio di animali; ma anche questi hanno perduto molto della loro eleganza e fluidità di forme. Inoltre, le singole figure di animali debbono esser tratte da repertori diversi, perché le pro­porzioni reciproche non sono rispettate. Ma queste non hanno importanza per l'artigiano tardo­antico, il cui unico interesse era di riempire una superficie con elementi variati, che formassero un gioco di chiari e di ombre sul piano di fondo. L'elemento figura­tivo scade d'importanza rispetto a quello geometrico.

I mosaici nelle ville

La sopravvivenza di temi e di modelli iconografici classici, alterati nella forma, si nota anche nei mosaici delle ville rustiche della Bri­tannia della metà del IV secolo. Il più tipico esempio di questi mosaici è quello di una villa a Low Ham, nel Somerset, con storie di Didone ed Enea. La composizione dell'ottagono centrale con Venere ed Eroti ha attinenza con mosaici della Tunisia e dell'Algeria, e fa prospettare la possibilità che il cartone sia di origine africana. Anche la composizione della scena di Venere tra Didone, Ascanio ed Enea potrebbe confermare questa supposizione. Ma forse il modello ha subito qualche alterazione nel pannello con le navi, di un tipo più nordico che mediterraneo. Rimane interessante questa eco virgiliana; ma il dare pre­ferenza a soggetti letterari è tipico di questo tempo, quando le raffigurazioni mitologiche potevano apparire disadatte a un ambiente che nelle supreme gerarchie si diceva cristiano.




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