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PSICOLOGIA SOCIALE - I gruppi sono alla base della nostra vita sociale

psicologia



PSICOLOGIA SOCIALE


Come disciplina la psicologia sociale nasce negli Stati Uniti all'inizio del XX° secolo.

Dopo la II° Guerra Mondiale, i ricercatori furono interessati in una varietà di problematiche sociali, incluse le problematiche di genere e di pregiudizio razziale, e solo negli anni ottanta, tale disciplina raggiunse la propria maturità di teoria e di metodo.

Un primo contributo importante alla definizione di tale disciplina fu merito di Allport che, nel 1968, descrisse la Psicologia sociale come "lo studio scientifico delle modalità attraverso cui i pensieri, i sentimenti e i comportamenti degli individui sono influenzati dalla presenza reale o immaginaria, di altre persone".

Sempre Allport nel 1985, definirà la psicologia sociale come "lo studio scientifico di come i pensieri delle persone, i sentimenti e i comportamenti, sono influenzati dall'attualità, l'immaginazione, o la presenza implicita di altri".

Il centro della psicologia sociale è rappresentato quindi dall'influenza sociale. Ciò significa che i nostri pensieri, i nostri sentimenti ed il nostro comportamento sono influenzati dagli altri, anche quando siamo soli: ciò accade, ad esempio, quando guardiamo la televisione o quando seguiamo norme socioculturali interiorizzate (relazione tra il nostro comportamento e la società in cui viviamo). Ciò costituisce l'argomento principale della psicologia sociale, quindi i nostri gesti, pensieri, i nostri sentimenti, i comportamenti sono strettamente in correlazione con la società, con gli altri.



Possiamo, perciò, definire la psicologia sociale come: lo studio scientifico dei modi attraverso cui i pensieri, i sentimenti ed i comportamenti delle persone vengono influenzati dalla presenza reale o immaginaria degli altri .

Influenza sociale non significa solo i tentativi diretti di persuasione, in cui una persona cerca di modificare il comportamento di un'altra, questo in genere avviene con la pubblicità, oppure quando un amico tenta di convincerci a fare azioni che non vogliamo compiere, o quando il bullo della scuola intimorisce i compagni più deboli.

Dal punto di vista della psicologia sociale anche quando siamo soli siamo influenzati: in un certo senso, è come se ci portassimo dentro i nostri genitori, i nostri amici e gli insegnanti, ogni volta che cerchiamo di prendere decisioni che li dovrebbero rendere orgogliosi di noi.


La Psicologia sociale condivide questo interesse per il comportamento sociale con diverse altre discipline tra cui la sociologia, l'economia e le scienze politiche. Ognuna di queste materie si occupa dell'influenza dei fattori sociali e culturali sul comportamento umano, ma con notevoli differenze. Infatti, la psicologia sociale, in quanto branca della psicologia, trova le radici nell'interesse per gli individui umani, ponendo in rilievo i processi psicologici che hanno luogo nella loro mente e nel loro cuore.

In sintesi: per gli psicologi sociali, il livello di analisi è l'individuo nel contesto della situazione sociale.


C'è da ricordare come la psicologia sociale sia attigua alla psicologia della personalità. Poiché queste due discipline hanno molti elementi in comune, è senz'altro utile cercare di precisare le differenze nell'approccio e negli interessi. Gli psicologi della personalità rivolgono la loro attenzione, principalmente, sulle differenze individuali come spiegazioni del comportamento sociale. Gli psicologi sociali affermano, invece, che la spiegazione del comportamento, basata unicamente sui fattori di personalità, possa condurre a sottostimare l'importanza dell'influenza sociale.




La sociologia fornisce leggi e teorie generali sulla società, non sugli individui.

La Psicologia Sociale Studia i processi pscicologici che le persone condividono fra loro e

che le rendono sensibili all'influenza sociale.

La Psicologia della Personalità studia le caratteristiche che rendono ogni individuo unico e

diverso dagli altri.


In definitiva, la psicologia sociale è racchiusa fra la sociologia e la psicologia della personalità.

Con la sociologia condivide l'interesse per le influenze sociali sul comportamento, concentrandosi maggiormente sull'aspetto psicologico che rende le persone sensibili all'influenza sociale. Con la psicologia della personalità condivide il rilievo dato alla psicologia dell'individuo, ma invece di concentrarsi su cosa renda le persone differenti tra loro, sottolinea il processo psicologico che, condiviso dalla maggior parte di esse, le rende sensibili all'influenza sociale.

Per riassumere, la psicologia sociale può definirsi come lo studio scientifico dell'influenza sociale. Quest'ultima può essere meglio compresa attraverso l'esame delle motivazioni umane fondamentali che producono le visioni soggettive dell'ambiente.



GRUPPI

I gruppi sono alla base della nostra vita sociale


Abbiamo già detto che la psicologia soc 212g66c iale è la disciplina che si occupa dei rapporti fra l'individuo e la società , confina da una parte con la sociologia e, dall'altra, con la psicologia della personalità.

Secondo l'ottica della psicologia sociale, l'individuo e la società si trovano in una interrelazione reciproca: da questa affermazione deriva che così come l'individuo è profondamente influenzato dal contesto sociale in cui vive, allo stesso modo egli è in grado di influenzare il proprio ambiente.

Ma, come è possibile per un individuo mutare gli assetti sociali? Ciò accade perché esistono i gruppi.

Sono dei microcosmi che rappresentano una grande forza di cambiamento, da cui possono partire idee innovatrici (o anche eversive!), pratiche, che contribuiscono al progresso (o al regresso!) di intere civiltà. I gruppi non sono semplici aggregati di individui anonimi, ma sono organismi vivi e dinamici, con una loro traiettoria evolutiva: si costituiscono, crescono, muoiono.

Attraverso i gruppi la nostra specie ha potuto sopravvivere, progredire, costruire e anche distruggere grandi civiltà .

Cosa è il gruppo?

- Un insieme di persone che si trova nello stesso luogo e nello stesso momento, es. i passeggeri di un treno, è un gruppo? (NO, ma se il treno subisce un attentato i passeggeri diventano un gruppo di avversità)

- Un insieme di individui che viaggia nello stesso aereo o che guarda lo stesso film al cinema è un gruppo? (NO - Sono un aggregato o una audience, ma non un gruppo.)

- i gruppi statistici, o le categorie sociali, accumunati da criteri quali l'età, il sesso, .., non sono un gruppo.

I criteri principali sulla base dei quali si può parlare di gruppo nell'ottica della psicologia sociale sono: relazione tra i membri, perseguimento di uno scopo comune, consapevolezza, sentimenti associati all'appartenenza, struttura interna.

I criteri principali sulla base dei quali si può parlare di gruppo nell'ottica della psicologia sociale:


  • Relazione fra i membri: queste relazioni possono essere . dirette nel caso di piccoli gruppi che hanno interazioni frequenti e faccia - a - faccia, o indirette ma ugualmente pregnanti per il senso di appartenenza degli individui, come nel caso delle identità etniche, religiose, politiche, ecc.;
  • Perseguimento di uno scopo comune, che crea interdipendenza fra gli individui e azioni coordinate in vista degli obiettivi;
  • Consapevolezza dei membri di fare parte di quel determinato gruppo; cioè le persone hanno una percezione comune della loro identità e si definiscono come appartenenti a quel certo gruppo;

Le persone che si sentono parte di un gruppo sono definite anche dagli altri come appartenenti a quel determinato gruppo;


  • Presenza di sentimenti associati all'appartenenza, che generalmente sono di tipo positivo (soddisfazione, gratificazione, orgoglio, ecc.), ma che possono includere anche connotazioni  negative, soprattutto nelle fasi che precedono il ritiro e l'abbandono del gruppo;
  • Struttura interna (ruoli, norme, posizioni di potere).

Un gruppo è tanto più gruppo quanto più possiede queste caratteristiche.


Sintetizzando, potremmo definire il gruppo come una entità che esiste quando due o più persone se ne definiscono membri e quando la sua esistenza viene riconosciuta da almeno un'altra persona.


TIPI DI GRUPPO


Una prima distinzione riguarda la numerosità, riconosciamo i piccoli e grandi gruppi.

  • I piccoli gruppi (detti anche ristretti). L'esempio più tipico di piccolo gruppo è quello dei gruppi faccia - a - faccia, in cui tutti i membri hanno relazioni dirette e continuative fra di loro. Esempi di piccoli gruppi sono le classi scolastiche, i piccoli team di lavoro, le compagnie di amici nell'adolescenza, una compagnia teatrale, ecc.

  • I grandi gruppi (detti anche estesi). Si tratta di gruppi di dimensioni ampie, tali da non consentire l'interazione e la conoscenza diretta fra tutti i partecipanti, per quanto vi siano livelli di strutturazione interna (norme, leadership, ruoli), condivisione d'identità e aspetti di unione fra i membri. Esempi di grandi gruppi sono le organizzazioni sociali di vario tipo (religiose, politiche, etniche, professionali, militari, ecc).

Anche una folla è un grande gruppo, per quanto sia di tipo provvisorio e non strutturato.


  • Un'altra tipologia di gruppi si basa sul carattere di :    volontarietà (gruppi di amici, di volontariato sociale, gruppi culturali, ecc.) o di obbligatorietà (gruppi di lavoro) che sta alla base della loro costituzione.

Su questa base, ci sono degli autori che distinguono:

  • gruppi volontari (ad esempio, gruppo di cacciatori);
  • gruppi di fatto, cui si partecipa senza averlo scelto ma anche senza essere obbligati a farlo (ad esempio associazioni di un quartiere degradato che cercano di fronteggiare le emergenze ambientali);
  • gruppi imposti, cui l'individuo deve giocoforza partecipare (ad esempio il gruppo di terapia in una comunità per tossicodipendenti o un gruppo di lavoro).



VITA DI GRUPPO: NECESSITA' O SCELTA?


La vita di gruppo, l'appartenenza al gruppo sembrerebbe, in primo luogo, una necessità più che una scelta.

La nostra costruzione come persone procede da un terreno di gruppo: dal piccolo gruppo familiare con le sue tradizioni, le sue modalità affettive e relazionali, ai gruppi ristretti dei compagni di gioco, di scuola, di squadra sportiva, di lavoro. fino ai grandi gruppi.

Per diverse specie animali, compresa la nostra, potremmo parlare di vivere in gruppo come di una necessità biologica.

La vita di numerose specie animali è in gran parte segnata dall'appartenenza di gruppo per motivi legati alla sopravvivenza.

I neonati dei mammiferi sono immaturi alla nascita e necessitano delle cure degli adulti per essere nutriti, curati, protetti e per giungere ad età in cui essi potranno provvedere da soli al proprio sostentamento ed alla propria autoconservazione.

Anche fra i mammiferi esistono specie con prole più o meno precoce: diverso è il caso di un capretto o di un vitello che possono reggersi in piedi e fare i primi passi pochi minuti dopo la nascita e quello di un piccolo di scimpanzé che comincia a staccarsi dalla madre e a muoversi autonomamente a diverse settimane dalla nascita.

La nostra specie si caratterizza per essere quella più lenta ad evolversi e a rendersi autonoma in tutto il regno animale.

Questa lenta crescita costituisce una debolezza della specie e genera una predisposizione alla vita sociale che permette il perpetuarsi della vita.

Da parte degli adulti avremo un istinto alla protezione che fa sì che i piccoli non vengano abbandonati e siano custoditi;

da parte dei piccoli avremo dei sistemi di segnalazione (pianto, sorriso, vocalizzi) che anno la funzione di richiamo (pianto), o quella di mantenere l'adulto vicino (sorriso sociale - sorriso selettivo).

Nella specie umana sono state inoltre osservate delle fasi cosiddette di pausa attività durante la suzione che permettono un primo abbozzo di sincronia, in quanto la madre interagisce con frasi o con gesti quando il bambino smette di succhiare, mentre si ferma quando il piccolo riprende a succhiare. Ciò rappresenta una prima base per il rapporto comunicativo e per la necessaria sincronizzazione tra gli interlocutori.

Insomma, fin dalla nascita si sono osservati dei sistemi comportamentali che predispongono i neonati della nostra specie alla vita sociale.

Dunque, ampi aspetti della nostra vita sono prodotti di gruppo: la lingua che parliamo, le regole della buona educazione, le convenzioni, le norme, l'alimentazione.



La nostra esistenza si svolge nella dinamica non sempre pacifica e senza conflitti fra la nostra identità personale, da un lato, che designa ciò che ciascuno di noi pensa e sente di essere come individuo, e la nostra identità sociale, dall'altro lato, che ci identifica come appartenenti a uno o più gruppi.


LA STRUTTURA DEI GRUPPI

In ogni gruppo esistono gerarchie, cioè posizioni diverse rispetto al potere. Questo è il sistema di status.

Nelle relazioni sociali di animali che vivono in gruppo sono presenti ugualmente delle gerarchie ( p. es.,ordine di beccata).

Le diverse posizioni di potere all'interno di un gruppo si abbozzano molto rapidamente, fin dalle prime interazioni.

Pensiamo ad esempio ad una attività di formazione in cui siano coinvolti dei professionisti che non si conoscono fra loro e che debbono svolgere un'attività di aggiornamento.

Già dopo poco tempo cominciano ad emergere alcune differenze di posizione fra i membri: alcuni parlano più di altri, alcuni sono più ascoltati di altri, alcuni cominciano ad essere più propositivi e a raccogliere maggiori consensi; mentre altri partecipanti restano più nell'ombra, sono più reticenti ad esprimersi e, dunque, appaiono più marginali.

Perché anche in un gruppo temporaneo e nascente si delineano fin dalle prime interazioni delle differenze di posizione?

A questo proposito vi sono pareri diversi.

Secondo la corrente etologica sono molto importanti alcuni dati percettivi di natura somatica (statura, muscolatura, espressione facciale, tono della voce, capacità di fissare una persona fino a che questa distolga per prima lo sguardo.)

In pratica, fin dalle prime interazioni di gruppo si svolgerebbe una specie di competizione, basata su questi indicatori, che abbozzerebbe una prima gerarchia di status che, in seguito, potrà essere confermata o meno.

Questa corrente viene detta etologica in quanto sono stati gli etologi a mettere in luce come i dati percettivi della dominanza fisica siano fondamentali per l'assegnazione di status per tutti gli animali che vivono in strutture di gruppo.

A volte vi sono altri indici somatici, diversi da quelli della dominanza, a stabilire una gerarchia di status (la bellezza, la gradevolezza fisica).

Al contrario, altri indicatori somatici possono essere degli ostacoli per il raggiungimento di uno status elevato (colore della pelle, handicap fisico).


Secondo i teorici degli stati d'aspettativa, vi sono delle aspettative che riguardano tutto il gruppo. Sulla base di ciò saranno valutati positivamente quei soggetti che presentano caratteristiche utili al raggiungimento delle finalità del gruppo.

In un gruppo di ragazzi che giocano a calcio si accorderà un interesse preciso a coloro che sembrano possedere più di altri capacità atletiche.


La differenziazione di status all'interno del gruppo ha alcune funzioni psicosociali importanti:

crea ordine e prevedibilità all'interno dei gruppi, cioè contribuisce a creare una certa stabilità nella struttura del gruppo;

coordina le forze dei membri in vista del raggiungimento degli obiettivi, in quanto prevede una distribuzione di compiti e funzioni;

contribuisce all'autovalutazione di ciascun membro.


I RUOLI NEL GRUPPO


I ruoli hanno la funzione di mantenere la coesione del gruppo.

  • Il leader, cioè colui che sta al vertice della gerarchia e riveste nel gruppo una funzione centrale.

Il leader è la persona che occupa nella gerarchia del gruppo la posizione più elevata, è la persona che può influenzare gli altri membri più di quanto essa ne sia influenzata.

Quali sono le caratteristiche di un leader?

Ci sono diverse teorie:

Approccio dei tratti: teoria della prima metà del 900, sottende l'idea che "leader si nasce e non si diventa".

Esisterebbero, cioè, degli individui che hanno delle propensioni naturali che li dispongono a funzioni di comando, mentre altri individui non sarebbero in possesso di queste caratteristiche. Questa teoria presenta il leader come il "grande uomo", caratterizzato da una costellazione di tratti personali (intelligenza, intuizione, capacità di tollerare le frustrazioni, iniziativa, responsabilità, fiducia in se stesso, socievolezza.).

  • Approccio situazionista: Questa teoria afferma che non esistono leader in assoluto, poiché ogni gruppo ha esigenze e richieste diverse. In questa teoria scompare la persona, mentre viene dato risalto ai vari fattori legati alla situazione, che permettono o meno ad un leader di emergere e mantenere la propria posizione. Questi fattori sono principalmente collegati alla natura del compito (il leader deve essere competente sugli obiettivi del gruppo)

Altre teorie hanno preso in considerazione il comportamento del leader, esso rappresenta lo stile particolare di esercitare il potere e ciò incide fortemente sulla vita del gruppo.

Alcuni autori hanno studiato di tre stili diversi di leader: .

Leadership Autocratica: è' fortemente centralizzata, da buoni risultati sulla produttività, ma cattivi esiti sul clima del gruppo, che diviene competitivo, aggressivo, marcato da scontento e da una forte dipendenza dal leader.

Leadership Permissiva: lascia fare ai membri quello che vogliono, ma dà risultati negativi sia sulla produttività (non essendo fornite direttive per raggiungere gli obiettivi), sia sul clima che appare piuttosto caotico.

Leadership Democratica: promuove la partecipazione dei componenti del gruppo alla realizzazione degli obiettivi, apparendo la più funzionale, permette l'instaurarsi di un clima positivo di gruppo, fatto di scambi comunicativi, di motivazione, di cooperazione.


Le teorie esposte fanno tutte riferimento, in modo più o meno esplicito, ad un leader maschio.

La leadership femminile si differenzia da quella maschile?


Secondo alcuni studi le donne - capo avrebbero un senso di potere più partecipativo, meno gerarchico, tenderebbero a creare ambienti di lavoro più supportivi e "caldi"; infine esse sarebbero più capaci di affrontare i conflitti di gruppo vedendoli come una possibile fonte di arricchimento e di valorizzazione delle differenze all'interno del gruppo.

Un limite della leadership femminile sarebbe la sua tendenza a centrarsi più sugli aspetti comunicativi e relazionali che non sui compiti.    Si auspica la prospettiva di giungere ad uno stile di leadership di tipo androgino, che riunisca gli aspetti positivi sia della leadership maschile che di quella femminile.


  • Il nuovo arrivato.

Riti di iniziazione.

Entrare in un nuovo gruppo costituisce un'esperienza che tutti compiamo molte volte nella vita (primi giorni di scuola, ingresso al lavoro, entrata in una squadra sportiva, in un gruppo clandestino, ecc.).

Gli studi antropologici ci hanno mostrato che nelle società tradizionali queste entrate erano corredate da riti d'iniziazione (riti puberali, riti di iniziazione sciamanica, riti d'iniziazione di una confraternita).

Nelle società occidentali contemporanee i riti d'iniziazione si sono molto ridotti (permangono nelle religioni monoteiste, oppure in alcuni passaggi di condizione come il matrimonio, l'ingresso al lavoro.).

Le prime esperienze di ingresso in un gruppo avvengono nell'infanzia.

Entrare per la prima volta in una scuola materna o cercare di essere accettato in un gruppo di coetanei che stanno giocando costituiscono le prime prove di abilità sociale.

Gli studi sui processi d'inserimento in un gruppo da parte dei bambini sono molto interessanti.

Tali osservazioni mettono in luce come il primo periodo di inserimento nella scuola materna sia contrassegnato da attesa ed incertezza: i nuovi arrivati osservano a distanza quello che fanno gli altri bambini. Questo periodo di osservazione a distanza ha una durata variabile da bambino a bambino.

Entrare in un gruppo è difficile perché il gruppo ha paura della rottura dell'equilibrio che si è creato al suo interno, con i suoi ruoli, le sue relazioni ecc., un nuovo arrivo può compromettere la stabilità del gruppo.

L'inserimento in un nuovo gruppo è quindi difficile e deve avvenire seguendo alcune accortezze: 1) osservare e scegliere il gruppo giusto. 2) un atteggiamento iniziale remissivo. 3) trovare un tutor che favorisca l'ingresso nel gruppo, cioè una persona che già appartiene al gruppo. 4) fare gruppo con gli altri nuovi arrivati.


  • Il capro espiatorio.    E' un ruolo scomodo ma molto utile alla vita di gruppo. Proprio sul capro espiatorio vengono proiettate dagli altri membri quelle caratteristiche che ognuno (pur possedendole) giudica indesiderabili per sé. Così per mezzo del capro espiatorio vengono risolte varie situazioni problematiche: sarà quest'ultimo, ad esempio, a rendersi ridicolo in una situazione nuova, a mostrarsi sempre un po' inadeguato, ad esplicitare timori ed esitazioni giudicate fuori luogo.

Il capro espiatorio, senza saperlo e ad insaputa anche degli altri membri,

assolve una funzione protettiva per il gruppo.


  • Il clown. Il buffone ha un ruolo nell'allentare le tensioni inevitabili di gruppo con lo strumento delle battute, degli scherzi, dell'ironia. Non di rado, ridendo e scherzando, il clown introduce nella vita di gruppo commenti critici su persone e situazioni che non potrebbero essere espressi direttamente se non a prezzo di crisi e di polemiche fra i membri.

LE NORME


Le norme sono scale di valori che definiscono ciò che è accettabile e non accettabile per i membri di un gruppo.

I membri sono legati fra loro da rapporti di status e di ruoli e dalle norme e valori comuni.

Le norme non sono solo regole di comportamento cui i membri del gruppo devono attenersi, ma possono essere anche riferite ad aspetti espressivi particolari, come il linguaggio, l'abbigliamento (scaout) , i segni corporei (tatuaggi, piercing, pettinature particolari, ecc), il culto di una certa musica, le stesse norme alimentari.


Per l'osservatore esterno, l'appartenenza ad un gruppo particolare viene svelata proprio dai segni esteriori distinguerà: per la divisa un gruppo di scout in uscita o i giovani punk-a-bestia per l'uso di piercing, catene, capelli pettinati nelle fogge più strane.


Le norme distinguono i gruppi sociali tra loro.

Se in un gruppo di volontariato le regole principali si riferiscono ai comportamenti di solidarietà, di presa in carico degli altri, di accettazione.   In una banda di giovani devianti i comportamenti normativi potranno essere quelli della trasgressione sociale più o meno grave: dalla pratica del furto nei supermercati, agli scippi, alla violenza, atti vandalismi.

Nei gruppi devianti le norme hanno un carattere coercitivo molto più forte rispetto ad altri gruppi sociali (nei gruppi terroristici chi tradisce viene bollato come infame).

Chi tradisce le regole e può essere eliminato fisicamente; nei gruppi di stampo mafioso il traditore viene punito con la morte (sasso in bocca).


Le norme possono essere esplicite o implicite.

Le norme esplicite si riferiscono a regole formali, a volte addirittura scritte in un regolamento.

Le norme implicite, invece, non sono scritte o espresse direttamente, nascono in genere in modo volontario all'interno del gruppo e da esso condivise e aiutano a rendere più forte l'identità del gruppo stesso.

Esistono le norme centrali (fondamentali per il gruppo la cui violazione mette in discussione l'identità stessa del gruppo) e  le norme periferiche (l'infrazione a tale norma non mette a rischio l'identità del gruppo).

I leader sono tenuti, più di altri, al rispetto delle norme centrali.

Nei gruppi naturali di adolescenti vi sono norme implicite che sanciscono l'identità del gruppo (stessa musica, giochi sportivi, corse motociclistiche).


Le norme consentono:

L'avanzamento del gruppo, cioè sono necessarie perché il gruppo raggiunga i propri obiettivi;

Il mantenimento del gruppo, cioè le norme permettono al gruppo di mantenersi unito nel tempo;

La costruzione della realtà sociale, cioè le norme assicurano che tutti i membri del gruppo abbiano la stessa concezione della realtà.






LA COMUNICAZIONE NEL GRUPPO


Nessun gruppo potrebbe esistere se non fosse al suo interno la comunicazione, perchè le norme, il sistema di status passa e si costituisce attraverso la comunicazione, senza la comunicazione le norme , lo status non sarebbero sufficiente al mantenimento dell'unità del gruppo. Con la comunicazione è possibile scambiare significati che vengono compresi da tutti.

Tutti i gruppi hanno la loro comunicazione.

Anche negli animali che vivono in gruppo esistono codici comunicativi interni (tracce odorose, comportamenti posturali).

Nella nostra specie la comunicazione ha un codice privilegiato: nel linguaggio verbale, che fornisce una gamma molto ampia di espressione di contenuti, anche se non è meno potente. Un altro canale è quello della comunicazione non verbale (il linguaggio del corpo) che comprende gesti, posture, sguardi, mimica facciale, prossimità fisica e orientamento spaziale, segnali che completano, arricchiscono e a volte contraddicono la stessa comunicazione verbale.

Per quanto riguarda quest'ultima è da segnalare che esiste anche un codice non verbale del verbale, fatto di pause, tono della voce, esitazioni, tremori, borbottii, che offrono all'ascoltatore una serie di indicatori da cui potrà dedurre che il suo interlocutore è, ad esempio, imbarazzato, aggressivo, annoiato, condiscendente, spaventato, ecc.

Senza comunicazione non può esistere un gruppo. Gli aspetti strutturali sono costruiti nel corso di comunicazioni verbali e non verbali.



I - AGGRESSIVITA' E VIOLENZA


La psicologia sociale volge la propria attività anche nel campo delle relazioni interpersonali, essa considera e studia le reazioni ed i comportamenti aggressivi.

L'aggressività è un atto intenzionalmente volto a fare del male o a procurare del dolore. Può essere esplicitata in maniera materiale o verbale, e può raggiungere o meno il suo obiettivo, ma è pur sempre aggressività: ciò che conta è l'intenzione, anche se questa non raggiunge lo scopo.

Berkowitz (1993) distingue una aggressività ostile da una aggressività strumentale.

L'aggressività ostile è il risultato della rabbia e, suo unico scopo, è di arrecare dolore o di infliggere un danno.

Nell'aggressività strumentale, l'intenzione di procurare del male ad un'altra persona rappresenta solo un mezzo per ottenere un altro scopo.

Noi utilizziamo con lo stesso significato i due termini di aggressività e violenza, ma alcuni autori pongono una distinzione netta nell'uso di queste due espressioni.

Erich Fromm (1979) parla di aggressività biologicamente adattativa o benigna, distinguendola dalla distruttività umana, maligna.

La prima è appannaggio comune a tutti gli animali: è un comportamento programmato filogeneticamente ad attaccare o a fuggire, quando vengono minacciati interessi vitali.

La seconda appartiene alla specie umana, non è biologicamente adattativa, né programmata filogeneticamente. Infine, non ha alcuno scopo e, se viene soddisfatta, procura voluttà.


Jean Bergeret (1992) opera una distinzione netta tra pulsioni violente ed aggressive.

L'aggressività ha sempre un oggetto preciso e definito da maltrattare, mentre la violenza si rivolge ad oggetti imprecisi. Scopo dell'aggressività è quello di distruggere e far soffrire l'oggetto, mentre la violenza si disinteressa della sorte dell'oggetto anche se lo distrugge.

Per Bergeret un soggetto violento diventa pericoloso solo quando viene attaccato, mentre l'aggressivo rimane sempre potenzialmente pericoloso: tale pericolosità è legata al piacere del nuocere.

Infine, il violento non premedita il suo comportamento.


Per altri ricercatori, tra i quali Konrad Lorenz e Sigmund Freud, la violenza si esprimerebbe anche in assenza di una occasione precisa: si parla, in questo caso, della cosiddetta violenza a vuoto che caratterizza gesti afinalizzati.

Il comportamento violento è, inoltre, differente a seconda che lo si valuti dagli effetti che produce (per es., un oggetto distrutto o una persona ferita o uccisa), o dall'intenzionalità del gesto.

Ancora, la considerazione del comportamento violento è diversa se si opera una ulteriore distinzione tra violenza offensiva e difensiva: da ciò derivano significati opposti riferiti alla stessa azione, definita in un caso criminale, nell'altro eroica.


La percezione e il concetto di violenza varia a seconda delle epoche storiche e a seconda del contesto sociale,mettendo a confronto diverse popolazioni, possiamo osservare che in alcune di esse il tasso di violenza è maggiore che in altre (esempio, gli eschimesi così come gli abitanti della Polinesia, presentano un modesto tasso di violenza, da quanto si sa, queste popolazioni, non hanno mai fatto ricorso alla forza per risolvere i loro conflitti all'interno del villaggio.)


Napoleon Chagnon (1968) che ha vissuto, invece, per circa venticinque anni presso gli Yanomano, una tribù della foresta amazzonica, ha descritto la presenza di un elevato tasso di violenza tra i componenti di questo popolo: forse presentano il livello di violenza più elevato al mondo.

In questa tribù la violenza è un elemento di successo.

Le donne scelgono per sposarsi, in ciò spinte dai padri, gli uomini più violenti ed, infatti, i maschi che hanno commesso omicidi hanno un numero di mogli che è più di due volte superiore rispetto a quelli che non presentano un comportamento violento.

In questo caso la violenza e l'aggressività vengono socialmente riconosciute come elementi positivi e gli Yanomano non prevedono alcun tipo di punizione per gli omicidi.

Appare, allora, esistere una correlazione tra violenza e cultura: se la cultura cambia anche cambiano anche i comportamenti violenti, potendo sia aumentare che scomparire.


Anche l'uso di sostanze alcoliche incide sui comportamenti aggressivi.

Il legame tra assunzione di alcol e il comportamento aggressivo è un dato molto conosciuto fra gli studiosi e compare negli individui che non sono stati provocati o che normalmente, quando sono sobri, non manifestano comportamenti violenti. Perché l'alcol accresce il comportamento aggressivo? L'alcol funziona da disinibitore, in altre parole riduce le inibizioni sociali. Pertanto, sotto l'influsso dell'alcol, emergono con più forza le tendenze primarie di una persona, cosicché chi è portato a mostrare affetto diventerà più espansivo e chi tende alla violenza diventerà aggressivo.


Altra causa che incide sulla condotta aggressiva è il contatto con altre persone che si comportano in maniera aggressiva (influenza dell'imitazione). Ciò è soprattutto vero nel caso dei bambini. I bambini, spesso, imparano a risolvere i conflitti con la violenza perché imitano gli adulti e i loro simili. Bisogna aggiungere che una grande percentuale di genitori che maltrattano i figli sono stati a loro volta maltrattati dai propri genitori

Ancora: la violenza vista alla televisione e nei film ha un effetto sulla promozione del comportamento aggressivo? Numerosi studi longitudinali indicano che maggiore è la quantità di violenza che gli individui vedono in televisione da bambini, maggiore è la violenza a cui ricorreranno una volta divenuti adolescenti e giovani adulti. La maggior parte delle ricerche suggerisce che guardare programmi violenti provoca realmente un comportamento aggressivo nei bambini. Ma l'effetto della violenza dei media sul comportamento aggressivo non si limita solo ai bambini. Numerosi studi dimostrano che la violenza dei media ha un impatto profondo anche sul comportamento adulto.

Inoltre, la costante esposizione alla violenza vista in televisione, tende ad infondere nelle persone una maggiore tolleranza verso la violenza reale. L'atto di guardare spettacoli violenti desensibilizza rispetto ad ulteriori atti di violenza.

Ma perché la violenza dei media porta all'aggressività chi la guarda?

Esistono quattro ragioni per cui l'esposizione alla violenza dei media può aumentare l'aggressività:

"Se lo fanno loro posso farlo anch'io". Guardare personaggi televisivi che esibiscono comportamenti violenti indebolisce le inibizioni precedentemente apprese contro il comportamento violento.

"Ma allora è così che si fa". Guardare la violenza scatena l'imitazione.

"Forse sto avvertendo delle sensazioni di aggressività". Guardare la violenza rende le sensazioni di rabbia più facilmente disponibili e può portare ad interpretare sensazioni di leggera irritazione come rabbia intensa.

"Un altro scontro brutale: cosa c'è sull'altro canale ". Guardare le finte carneficine sembra diminuire sia il nostro senso di orrore verso la violenza, sia la nostra commiserazione e compassione nei confronti delle vittime.



CAUSE BIOCHIMICHE E NEURONALI DELL'AGGRESSIVITA' E LORO INFLUENZA


Vengono invocate delle cause biochimiche e neuronali che sarebbero implicate nei comportamenti violenti considerando quei comportamenti aggressivi che vengono identificati come reati.

Scrive Wolfgang (1987): "Queste azioni sono di solito così gravi che la maggior parte delle società le hanno proibite mediante disposizioni giuridiche formali, oltre, naturalmente, ad aver sviluppato dei regolamenti per applicare delle sanzioni. Mediante la proibizione istituzionalizzata, tali comportamenti violenti sono stati identificati come reati e, come tali, sono soggetti alle sanzioni della legge. (Tra i reati individuali di violenza sono compresi i delitti personali come l'omicidio, la violenza carnale, la rapina, l'aggressione semplice o aggravata, nonché i reati contro la proprietà, quali l'incendio doloso e il vandalismo)"

La figura del violento, del criminale, nasce, quindi, insieme alla legge ed è identificato come colui che infrange una norma o un qualsiasi divieto.

Il termine "criminale", così come viene attualmente inteso, nasce nel diciannovesimo secolo

insieme alla disciplina della criminologia.

La criminologia, il cui termine fu coniato nel 1855 dall'italiano Raffaele Garofalo, rappresenta, tra l'altro, il primo tentativo di connessione tra il comportamento violento e criminale e la biologia.

Il primo criminologo che pose il problema della violenza in relazione ad alterazioni biologiche, fu Gian Battista Della Porta (1536 - 1615), nella sua opera "De Humana Physiognomonica".

La trattazione derivò da accurate osservazioni da lui condotte con i criminali ristretti nelle carceri di Napoli.

Nel diciottesimo secolo il medico francese J. O. de la Mettrie (1709 - 1750) intuì la possibilità di un rapporto tra l'assunzione di sostanze tossiche e le manifestazioni violente.

In questo senso l'alcool fa parte di quelle sostanze psicotrope che presentano la capacità di modificare il comportamento e di innescare un atteggiamento violento.

Oggi è riconosciuto che nel delirio di gelosia, sintomo molto frequente nella dipendenza alcoolica, il comportamento violento è abituale. L'eccessiva assunzione di alcool etilico altera, infatti, la percezione e l'ideazione, portando ad elaborare dati irreali: si accende, allora, nell'etilista la paura del tradimento da parte del partner che scatena un comportamento violento.

F. Joseph Gall (1758 - 1828), austriaco, portò ad una visione più scientifica della biologia della violenza. Egli sostenne l'ipotesi della presenza di precise localizzazioni encefaliche che chiamò "organi cerebrali".


In alcuni di questi "organi" il Gall sostenne che fossero rappresentate le pulsioni criminali, quali: pulsione all'omicidio, al furto, alla rapina, pulsioni sessuali.

Tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, una figura importante nell'ambito della ricerca criminologica fu quella di Cesare Lombroso

Nella sua opera "L'uomo delinquente" descrisse delle peculiarità anatomiche che sarebbero state presenti nei soggetti criminali.

Il Lombroso interpretò la violenza e la criminalità come l'espressione di un risveglio di istinti selvaggi e primitivi, associata alla presenza di determinate manifestazioni anatomiche quali, ad esempio, uno sviluppo abnorme del padiglione auricolare.

Queste ed altre stigmate somatiche sarebbero presenti, secondo il Lombroso, sia nei criminali, sia nei selvaggi, che nelle scimmie.

Nel 1897, nella quarta edizione de "L'uomo delinquente", Lombroso fece una descrizione psicologica del criminale, definendolo come un essere privo di senso morale, senza compassione, cinico, traditore, impulsivo, crudele. Identificò, inoltre, nei soggetti violenti, una assoluta mancanza di sentimento per la sofferenza degli altri.

Successivamente, il Lombroso, parlò dell'epilessia come causa preponderante della criminalità.

Egli operò una distinzione in gruppi dei soggetti violenti: delinquente costituzionale, pazzi criminali, epilettici, pazzi morali. Tutti questi gruppi erano caratterizzati dalla presenza di una "costituzione epilettoide".

Un altro gruppo era poi costituito dai delinquenti occasionali in cui vennero distinti: pseudocriminali, criminaloidi, epilettoidi . 

Oltre al Lombroso, anche Ferri e Garofalo, per rimanere tra gli italiani, si cimentarono nella costruzione di tipologie criminali.

La classificazione dei soggetti violenti doveva servire non soltanto per dimostrare l'applicabilità delle loro teorie ai differenti comportamenti criminali, ma anche per poter varare appropriate misure da prendere per le diverse categorie dei soggetti violenti.


In tempi recenti c'è stata una vivace rinascita dell'interesse per le tipologie criminali e sono stati presentati vari altri tentativi di classificazione dei criminali.

Una di queste classificazioni, proposta ed iniziata con una sperimentazione da Megargee e Bohn nel 1979, si avvale dell'uso di test.

La sperimentazione è stata eseguita su 1164 soggetti in un istituto federale, servendosi dell'MMPI (Minnesota Multiphasic Personality Inventory).

Questa ricerca, protrattasi per molti anni, ha portato ad individuare, tra la popolazione penitenziaria, dieci tipi differenti di soggetti violenti.

In anni ancor più vicini a noi, sono entrati in uso nuovi strumenti psicometrici. Tra essi il MCMI che presenta una tipologia psicologica e psicopatologica ed è servito per la costruzione dell'Asse II del DSM - III.

Questa tipologia che si basa sulla individuazione di diversi disturbi di personalità

(distinguendo personalità schizoide, di evitamento, antisociale, passiva, aggressiva, borderline), presenta un indubbio interesse per la comprensione eziologica e per il trattamento dei soggetti criminali

Riprendendo il discorso sui rapporti tra comportamento violento e biologia, sembra opportuno ricordare che le spiegazioni biologiche sono state spesso rigettate dai sociologi perché troppo deterministiche e perché implicanti un insieme di fattori organici che, da soli, controllerebbero l'insorgenza ed il perdurare del comportamento violento.


Per i riduzionisti biologici, infatti, qualsiasi espressione umana, sia anche il pensiero, si riduce a mera funzione cerebrale.

Secondo il riduzionismo culturale (sociologico), al contrario, l'uomo è espressione dell'ambiente in cui vive ed il cervello sarebbe solo uno "specchio" che riflette l'ambiente.

Le conseguenze di queste due posizioni opposte sono enormi.

Per i riduzionisti biologici la via principale per una modificazione del comportamento ( e quindi anche del comportamento violento ) passa attraverso una azione sul bagaglio genetico e sulle strutture cerebrali; per i riduzionisti culturali, al contrario, la possibilità di modifiche nel comportamento dipende dalle capacità di cambiare la famiglia o, più in generale, la società.

Attualmente, però, prevale una posizione più moderata e che tenta di unire queste due visioni.

Si sostiene che cervello e cultura non siano termini antagonisti, ma che possano essere i due poli di una stessa realtà. Si ritiene, cioè, che fattori biologici e sociologici interagiscano tra loro nel produrre e mantenere un comportamento violento. " Caratteristiche biologiche, per esempio, forniscono l'organismo di una gamma comportamentale potenziale, e non di tratti comportamentali o realizzazioni immutabili. Questi attributi somatici innati interagiscono con le influenze sociali in un processo di sviluppo ( di maturazione ) che si estrinseca in manifestazioni comportamentali, una forma delle quali può essere la condotta violenta.







II - VIOLENZA E BIOLOGIA


Prove considerevoli, sono state raccolte a sostegno dell'esistenza di legami tra fattori biologici e comportamento violento.

Shah e Roth hanno suddiviso le influenze biologiche in due gruppi:

a) fattori biologici <più direttamente collegati> al comportamento violento ( tumori cerebrali, processi distruttivi o infiammatori del sistema limbico, vari casi di epilessia e anormalità endocrine);

b) fattori biologici "più indirettamente collegati" al comportamento violento ( lesioni cerebrali perinatali, danno minimo cerebrale, anormalità cromosomiche, funzioni psicofisiologiche collegate a disturbi dell'apprendimento e a psicopatie ).

Potremmo dire che il comportamento dell'uomo è dentro il cervello.

Il cervello può essere modificabile per mutazione genetica o attraverso nuove esperienze in seguito a cambiamenti dell'ambiente.

Stellar ha dimostrato la presenza, nel cervello, di "centri di controllo dell'ira".

Sulla base di questa prospettiva ha allora senso parlare di "molecole della violenza" o di "cervello violento"

Il cervello può considerarsi suddiviso in aree, delle quali alcune presentano la proprietà della plasticità, mentre altre sono caratterizzate da una organizzazione innata.

Le aree cerebrali non plastiche, presiedono ai comportamenti innati, fissati dal codice genetico e legati, in generale, alla sopravvivenza della specie, quali, ad esempio, l'alimentazione. Nutrirsi, succhiare il seno materno fa parte di un comportamento alquanto complesso: se dovesse essere il frutto di un apprendimento ci sarebbe un altissimo rischio di morte.

Oltre a questi comportamenti innati c'è l' imprinting, scoperto da K. Lorenz, che è caratterizzato da una esperienza avvenuta in un momento preciso dello sviluppo, che in seguito si fissa come se fosse un comportamento innato.

Infine, esiste, un comportamento proprio delle aree cerebrali plastiche, per il quale il vincolo genetico è ancora meno rigido, potendosi rendere possibili delle modificazioni sulla base delle esperienze e dell'ambiente.

Dopo aver ribadito che non esiste un cervello che sia staccato dall'ambiente, e dunque continuamente plasmabile, per lo meno in alcune aree specifiche, entriamo "nella testa" per individuare, allo stato delle attuali conoscenze, quali strutture cerebrali e quali molecole siano in correlazione con il comportamento violento.















Encefalo e violenza.

Walter Hess introdusse la tecnica della stimolazione del cervello attraverso l'applicazione di elettrodi.

Gli esperimenti furono effettuati in animali liberi di muoversi; in prove effettuate su un gatto si dimostrò la possibilità di farlo passare da uno stato di quiete ad uno stato d'ira e di violenza

Particolare impressione destarono gli esperimenti di José Delgado su alcuni tori. Egli impiantò sottilissimi elettrodi in diverse aree dell'encefalo, attivandoli poi a distanza: ottenne, così, nell'animale, alternativamente, o un comportamento violento, di attacco, oppure una totale caduta dell'aggressività.


Nel 1965, Delgado, effettuò delle ricerche mediante radiostimolazione del nucleo ventrale posteromediale del talamo ottico o della sostanza grigia centrale di una scimmia. I risultati furono che l'animale presentava un comportamento violento solo contro un compagno che, per un precedente condizionamento, gli era divenuto antipatico.

Vernon Mark applicò la tecnica della stimolazione cerebrale nella specie umana. Riuscì a trovare in una donna aggressiva, una musicista, una zona cerebrale la cui stimolazione provocò un accesso di violenza che la portò a rompere la chitarra contro il muro.   Mark chiamò questa zona cerebrale la "sede dell'Io cattivo" .Un'altra tecnica usata per indurre la violenza fu quella dell'isolamento. Se si mette un topo in gabbia da solo per alcuni giorni, togliendogli anche gli stimoli ambientali quali luce e rumori, introducendo poi nella gabbia un altro topo, subito quest'ultimo viene aggredito ed ucciso.

Effetti analoghi ha prodotto il sovraffollamento.

Se si mettono in gabbia un numero sempre maggiore di topi, si arriva ad un limite oltre il quale si scatena un comportamento violento che porta alla morte di alcuni animali. Questo esperimento sembra suggerire delle analogie con la violenza che si scatena nelle metropoli sovraffollate.

Alcuni studi sul sonno hanno fatto emergere un altro risultato: se si depriva del sonno un uomo per alcuni giorni, si produce uno stato ansioso con facile irritabilità ed alta possibilità di scatenare reazioni violente da parte del soggetto.

Sembra che il sonno possa essere un regolatore del comportamento violento.

Tutte queste osservazioni, pur se non univoche, confermano la possibilità di facilitare reazioni violente agendo su determinate aree cerebrali: a questo punto si pone il problema di valutare se e in quale misura il cervello di un soggetto violento sia diverso da quello di un soggetto non violento e quali aree specifiche possano essere implicate nel comportamento violento.

Funkenstein (1955), Scott (1958), Buss (1961), nelle loro ricerche, sostennero che la violenza appare essere controllata dall'ipotalamo e dalla neocorteccia.

L'avvento della Tomografia a emissione di positroni (P.E.T.) sta permettendo lo studio del cervello nell'uomo, in vivo, anche in relazione al comportamento violento.

La P.E.T. è una metodica che consente indagini in vivo della biochimica e del metabolismo. Molto importanti sono stati i risultati ottenuti con particolare riferimento al settore neurologico.






Bulbo olfattorio

E' stato così denominato per la sua forma ed è localizzato alla base del cervello in corrispondenza del lobo frontale.

I neuroni in esso contenuti inviano fibre a vari nuclei e si riuniscono per formare il tratto olfattorio.

Il bulbo presenta diverse dimensioni a seconda della specie animale cui appartiene: nell'uomo risulta relativamente piccolo.


Ippocampo

Ricorda, nella forma, un cavalluccio marino.

E' situato sul pavimento del III ventricolo.

Embriologicamente e filogeneticamente, la formazione dell'ippocampo si continua, sulla parete dorsomediale dell'emisfero, con la formazione olfattoria laterale.




Setto

Si trova sotto il corpo calloso e separa i due ventricoli laterali di destra e di sinistra.

E' costituito da una lamina molto sottile di cellule e fibre.


Ipotalamo

E' situato nella faccia ventrale dell'encefalo. Nella sua parte sporgente, imbutiforme, si attacca l'ipofisi. L'ipotalamo si presenta ricco di nuclei e di funzioni sia per quanto riguarda la vita vegetativa che quella di relazione.

Di tutto questo complesso, però, soltanto un gruppo di neuroni situato nella zona ventro-mediale (nucleo ventro-mediale dell'ipotalamo), risulta collegato al manifestarsi del comportamento violento: vi si legano, in particolare, le manifestazioni di paura e di rabbia.


Amigdala

Il suo nome origina dal fatto che questa struttura assomiglia ad una mandorla.

Forma la punta e le pareti superomediale e superodorsale del corno inferiore del ventricolo laterale. E'situata in contiguità con l'ippocampo e risulta fusa con la coda del nucleo caudato e con il putamen.

Nei mammiferi si può suddividere in una serie di nuclei, che possono essere distinti in un gruppo corticomediale ed in un gruppo basolaterale.

Nell'uomo la porzione principale e meglio differenziata è quella basolaterale.

L'amigdala è correlata alla paura, che viene attivata per stimolazione.












III - VIOLENZA E BIOCHIMICA


Le funzioni delle diverse aree cerebrali implicate nell'insorgenza del comportamento violento, possono anche essere viste in termini biochimici, di recettori di membrana e di mediatori che li attivano.

Neurotrasmettitori.

Il neurotrasmettitore è un composto chimico che, liberato da una terminazione nervosa in seguito ad un potenziale d'azione, interagisce con specifici siti di legame che sono disposti o su un secondo neurone o su un effettore, modificando di conseguenza l'attività di quest'ultimo ( in senso eccitatorio o inibitorio ).

Sono già state identificate oltre quaranta sostanze endogene che presentano i requisiti richiesti per svolgere le funzioni di neurotrasmettitore. Tra queste sostanze identificate, ne ricorderemo alcune e, precisamente, quelle che vengono definite


"neurotrasmettitori canonici" ( Samanin, 1989 ).

I neurotrasmettitori canonici del Sistema Nervoso Centrale sono rappresentati da:

1. Acetilcolina ( ACh );

2. Noradrenalina ( NA );

3. Adrenalina ( A );

4. Dopamina ( DA );

5. Serotonina ( 5 - HT );

6. Istamina ( H );

7. Acido - gamma - aminobutirrico ( GABA );

8. Acido Glutammico ( GLU );

9. Glicina ( GLY ).

Una sostanza, per essere definita neurotrasmettitore, deve rispondere ad alcuni requisiti specifici. Tali requisiti possono essere così sintetizzati:


1) La sostanza deve essere localizzata all'interno dei neuroni, non genericamente diffusa nell'assoplasma o nel citoplasma.

2) In vicinanza del sito d'azione del trasmettitore devono essere presenti dei precursori e dei sistemi enzimatici che ne determinano la sintesi

3) Devono esistere dei meccanismi specifici di inattivazione che pongono termine all'azione del trasmettitore sui recettori in un tempo fisiologicamente ragionevole.

4) La stimolazione del neurone deve provocare la liberazione del trasmettitore in quantità fisiologicamente significativa e la liberazione deve essere calcio-dipendente

5) In vicinanza delle strutture presinaptiche devono esistere dei recettori specifici che interagiscono con il trasmettitore

6) L'interazione della sostanza chimica con il suo recettore deve produrre delle variazioni della permeabilità della membrana a determinati ioni con conseguenti effetti neuronali di tipo eccitatorio o inibitorio

7) L'applicazione esogena della sostanza deve riprodurre gli effetti della sostanza liberata dalla terminazione presinaptica

8) Farmaci antagonisti devono bloccare ugualmente le azioni del trasmettitore applicato all'esterno o liberato dalle terminazioni nervose ( Samanin, 1989 ).


Tra tutti i neurotrasmettitori, quello maggiormente studiato riguardo alle possibili interazioni con il comportamento violento, è la serotonina .


In conclusione, appare chiaro che una diminuita funzione serotoninergica è stata costantemente dimostrata essere in alta correlazione con la violenza impulsiva. E' stato proposto che il sistema serotoninergico potrebbe modulare l'aggressività attraverso una inibizione delle risposte comportamentali agli stimoli ambientali.

Infatti, negli animali è stato dimostrato che diminuiti livelli di serotonina provocano una aumentata irritabilità ed eccitabilità, suggerendo una disinibizione di quelle aree cerebrali che modulano queste risposte.

I livelli di serotonina centrale possono essere aumentati sia con l'uso di medicinali che con una dieta serotoninergica

Sebbene vi siano, quindi, delle evidenze che livelli aumentati di serotonina possano ridurre il comportamento violento, la relazione non è semplicemente lineare. La violenza è lontana dall'essere un semplice concetto psicologico unidimensionale, e questo rende tali dati più difficili da interpretare.


Alterazioni metaboliche e violenza

Nello studio di Virkkunen è stato riscontrato anche un basso livello di glucosio nel sangue, questo risultato sembra supportare l'ipotesi che uno scarso controllo degli impulsi nei criminali violenti possa essere associato anche con una tendenza all'ipoglicemia.

Nel 1943 Hill e Sargant pubblicarono un caso di matricidio, causato dall'ipoglicemia, in un uomo "emotivamente immaturo, che alla nascita aveva subìto un lieve danno cerebrale" .

Gli Autori determinarono una relazione temporale tra l'improvvisa ipoglicemia, e l'attacco di violenza omicida.

Un altro caso, riguarda un uomo rispettabile che era diabetico. Una sera assunse l'abituale dose di insulina, ma dimenticò di mangiare poiché aveva un appuntamento. el parcheggiare l'auto NN


N




Nel parcheggiare l'auto cominciò a litigare con un poliziotto, aggredendolo.

Poi si mise a guidare l'auto all'interno del parcheggio in maniera incontrollata, cercando di investire un altro poliziotto. Quando fu arrestato l'uomo presentava un grave stato di aggressività e di confusione e gli venne riscontrato un livello di zucchero nel sangue al di sotto dei 40 mgms%.

Appena gli fu praticata una endovena di glucosio, l'aggressività e la confusione scomparvero .Altri ormoni sembrano in gioco nell'insorgenza della violenza.

Aumentati livelli di testosterone aumentano sia gli impulsi sessuali che il comportamento violento.

Il ruolo svolto dagli ormoni sessuali maschili nella genesi della violenza è anche stato oggetto di tentativi terapeutici. Si ricorda, a questo proposito, l'uso della castrazione come un trattamento degli impulsi aggressivi negli psicopatici di sesso maschile. Questa forma di trattamento è in uso soprattutto nei Paesi Scandinavi.

Nel sesso femminile il fattore metabolico che contribuisce maggiormente è, probabilmente, la tensione dovuta alla sindrome premestruale.

L'aggressività e i comportamenti violenti sembrano essere correlati all'uso degli steroidi anabolizzanti ( AS ).






Studi effettuati sugli animali hanno confermato l'effetto che la somministrazione esogena di AS ha sull'insorgenza dell'aggressività. Lo studio in soggetti umani ha individuato un collegamento tra uso di AS e omicidio o tentato omicidio.

Ideazione ed atteggiamenti di tipo suicida si manifestano in soggetti che fanno uso di Steroidi Anabolizzanti associati ad elevati livelli d'ansia, alterazioni del tono dell'umore e agitazione psicomotoria. Comunque, la precisa natura di tali associazioni non è completamente chiarita e richiede ulteriori ricerche.



IV - VIOLENZA E LESIONI TRAUMATICHE CEREBRALI


Negli Stati Uniti le lesioni traumatiche cerebrali (comunemente definite come traumi cranici) sono responsabili di 400.000 nuovi ricoveri all'anno (Hillbrand, 1994).


Principali sindromi affettive conseguenti a trauma cranico

Disturbo esplosivo di personalità (Explosive Aggressive Disorder, or Episodic Dyscontrol).

Questo tipo di disturbo viene generalmente descritto come una manifestazione di attacchi episodici di violenza dovuti ad un disturbo cerebrale elettrofisiologico.

La sindrome può realizzarsi senza una precedente storia di lesioni traumatiche o di altri danni cerebrali acquisiti; comunque, quando un episodio di rabbia è susseguente ad un trauma cranico viene comunemente ritenuto in associazione con un danno della porzione mediale del lobo temporale, che contiene le strutture del sistema limbico che regolano le emozioni.

Le manifestazioni cliniche del Disturbo esplosivo di personalità variano per severità e per forma. I comportamenti più aggressivi possono manifestarsi improvvisamente, spesso senza una causa scatenante, sono primitivi e poco organizzati e risultano genericamente diretti verso gli oggetti o le persone più vicini.

L'atto in se stesso può essere distruttivo per gli oggetti, gli animali, o le persone che sono presenti, ma l'aggressione ad una persona è, generalmente, secondaria agli sforzi fatti da parte della stessa persona nel tentativo di calmare il soggetto durante l'episodio di aggressività.

In questi casi, la manifestazione violenta rappresenta, probabilmente, un disperato tentativo di sfuggire al controllo, piuttosto che un assalto premeditato verso una particolare persona.

Gli accessi di violenza sono tipicamente di breve durata e possono essere seguiti da sentimenti di dispiacere e di rimorso quando l'aggressore si rende conto di ciò che ha fatto. Alcuni soggetti presentano, in seguito, una totale amnesia per l'episodio, mentre altri ne hanno un ricordo vago e simile a un sogno, altri ancora conservano una chiara consapevolezza dell'accesso di violenza ma si dicono incapaci di fermarlo: questi ultimi sono, spesso, i soggetti che esprimono un maggior rimorso dopo il comportamento violento.  Più comune, è il tipo di anomalia post-traumatica del lobo temporale che non genera una immediata violenza fisica, ma causa, invece, un improvviso cambiamento dell'umore.

Alcuni soggetti con lesioni cerebrali descrivono modificazioni dell'umore che avvengono senza un apparente stimolo esterno e che producono un marcato cambiamento nel comportamento, nell'atteggiamento e nella tolleranza alla frustrazione.

Queste modificazioni del carattere possono rendere il soggetto più vulnerabile, anche alle provocazioni più lievi, portando ad un accesso di rabbia che lascia in seguito l'individuo depresso e pieno di rimorsi


La violenza in relazione a lesioni del lobo frontale

I lobi frontali, nell'uomo, sono stati tradizionalmente ritenuti la sede dell'astrazione, del giudizio, della pianificazione, dell'autoregolazione: le così dette funzioni esecutive del cervello.

Il comportamento violento può comparire in seguito ad un danno del lobo frontale, dovuto a lesioni cerebrali.

In gran parte dei traumi cranici conseguenti a brusca accellerazione o decellerazione risulta implicato quasi sempre il lobo frontale: ciò porta ad un danneggiamento dei meccanismi che inibiscono o regolano le risposte comportamentali ed emotive. Una conseguenza di questo è un diminuito controllo sull'umore o provoca la insorgenza di rapidi cambiamenti nel comportamento. Ciò implica che stimoli esterni più bassi inducono un comportamento violento dell'individuo.

Nel caso di lesione frontale l'agente provocatorio esterno è generalmente abbastanza manifesto e, a differenza di quanto accade nelle lesioni temporali, la risposta violenta è, di solito, diretta verso quella sorgente. Raramente, però, la violenza è grave e distruttiva.

Invece, le più comuni manifestazioni sono rappresentate da: urlare, piangere, battere i pugni e lanciare gli oggetti inanimati che sono a portata di mano; l'impressione generale è quella di un comportamento violento larvato. Il rimorso è raro e lo stato affettivo del soggetto può passare bruscamente dalla rabbia alla calma.



Violenza premorbosa ed antisocialità


E' necessario cercare di chiarire, a questo punto, la relazione che corre tra la presenza di un comportamento violento, il danno cerebrale e la personalità premorbosa.

I cosiddetti tratti di personalità post-concussiva (tratti che compaiono dopo un danno cerebrale) includono irritabilità, impulsività, labilità emotiva, difficoltà nel sostenere una motivazione, comportamento socialmente inadeguato e inconsapevolezza dell'impatto personale sugli altri.

Tipicamente, queste osservazioni cliniche sono attribuite agli effetti del trauma cranico in se stesso e si pensa abbiano la loro origine in un danno delle funzioni esecutive del lobo frontale.

Comunque, i clinici e i ricercatori hanno cominciato a valutare l'ipotesi che queste tendenze impulsive, e talvolta violente, e le caratteristiche di personalità sopradescritte possano, in effetti, essere presenti già prima del trauma.

In questi casi, una lesione frontale può semplicemente disinibire o esacerbare un modello comportamentale già precedentemente esistente.

Uno stile cognitivo spesso antisociale e labile dal punto di vista emotivo e comportamentale non può, in definitiva, considerarsi esclusivamente attribuibile agli effetti di un danno cerebrale.

Difficoltà di controllo possono, pertanto, caratterizzare il pensiero ed il comportamento di quegli individui che più facilmente vanno incontro a lesioni traumatiche cerebrali e possono essere un fattore predisponente ai danni traumatici .

Berman e Siegal, per esempio, hanno dimostrato che delinquenti maschi con precedenti penali, presentavano delle difficoltà nella comprensione, manipolazione e utilizzazione di materiale concettuale


I prigionieri violenti di un penitenziario maschile hanno maggiore difficoltà, rispetto a quelli non violenti, nelle valutazioni cognitive, del linguaggio, della percezione e delle abilità psicomotorie. Inoltre, questi criminali violenti, presentavano un gran numero di anomalie elettroencefalografiche, una diminuita memoria verbale e un aumento delle perseverazioni, se confrontati con criminali non violenti.

Questi studiosi sottolineano che il tipo di disturbo comportamentale descritto nei soggetti criminali più violenti, è simile a quello descritto in soggetti con un danno organico acquisito del lobo frontale.

Si potrebbe, quindi, asserire che, spesso, tratti impulsivi preesistenti o difficoltà comportamentali possono passare inosservati e possano venire riconosciuti e descritti solo dopo un trauma cranico.





V - VIOLENZA E LATERALIZZAZIONE CEREBRALE


Il cervello umano è strutturato secondo quattro livelli di organizzazione.

La parte filogeneticamente più antica del cervello rappresenta il primo livello di organizzazione: è una struttura che è presente anche nei rettili, per cui viene definita cervello dei rettili. Questa parte del cervello controlla funzioni essenziali del corpo, quali il respiro, le pulsazioni cardiache e le reazioni di allarme.

Il sistema limbico, che è la struttura cerebrale maggiormente evoluta nei mammiferi e che viene spesso indicata come cervello dei mammiferi. Il sistema limbico gioca un ruolo essenziale nel regolare funzioni quali: temperatura, pressione del sangue, battito cardiaco, livelli di zucchero nel sangue.Al di sopra di questa struttura c'è il cervello propriamente detto con il suo strato superiore che è rappresentato dalla corteccia cerebrale.Questa struttura è tipicamente umana in quanto responsabile della maggior parte delle attività caratteristiche che ci distinguono dagli altri animali, come il pensiero ed il linguaggio.

Il quarto livello dell'organizzazione cerebrale è formato dalle strutture lateralizzate del cervello: ciò permette un'organizzazione cerebrale per cui ciascun emisfero ha un ruolo specifico. L'emisfero sinistro è maggiormente implicato nell'elaborazione del materiale verbale, mentre l'emisfero destro è maggiormente implicato nell'elaborazione del materiale visuo-spaziale.

E' bene ricordare che le donne, il sesso meno aggressivo e con una maggiore componente verbale, sono altresì il sesso meno lateralizzato.


Asimmetria cerebrale e violenza

L'interesse scientifico riguardo alla relazione tra la asimmetria cerebrale e la violenza risale, almeno, ai lavori del Lombroso. Nei suoi lavori, egli identifica, tra le altre, due stigmate del comportamento violento e criminale correlate alla asimmetria cerebrale (la asimmetria facciale anomala e la asimmetria emisferica).




Preferenza di lato

Per preferenza di lato si intende l'uso preferenziale di uno degli arti e degli organi di senso: circa il 90% della popolazione presenta una preferenza di lato per la parte destra.



Come ridurre l'aggressività.

La punizione rappresenta un deterrente per il comportamento aggressivo?

In condizioni ideali, gli studi e le ricerche relative indicano che la punizione può servire da deterrente. Per condizioni ideali si intende una punizione che sia veloce e praticamente certa; la punizione deve, cioè, seguire immediatamente l'atto di violenza commesso, e le possibilità di fuga debbono essere estremamente ridotte.    Sulla base di quanto fin qui detto si può affermare che la coerenza e la certezza della punizione hanno effetti efficaci sul comportamento violento e servono realmente come deterrenti.

A ciò va aggiunto che, invece, la severità della pena (ad esempio pena di morte) non ha un effetto deterrente nei confronti del crimine violento.

certezza

Punizione

severità



Come affrontare la rabbia


Se la violenza genera altra violenza, occorre chiedersi se non dobbiamo addirittura soffocare i nostri sentimenti di rabbia. Freud non era certo nel torto quando indicava nella rabbia repressa qualcosa di potenzialmente pericoloso per l'individuo. Le ricerche fanno pensare che la soppressione di emozioni forti può condurre alla malattia mentale. Si pone, quindi, il dilemma di cosa fare con i nostri sentimenti repressi. Esiste una differenza importante fra l'essere arrabbiati ed esprimere la rabbia in maniera violenta e distruttiva. Avvertire rabbia, nelle circostanze appropriate, è qualcosa di normale e di non dannoso.

E certamente è possibile esprimerla in maniera non violenta, ad esempio affermando chiaramente di essere arrabbiati, allo stesso tempo, dal momento che l'oggetto della nostra rabbia non subisce danno, una simile risposta non mette in moto quei processi che ci porterebbero a deridere o a svalutare il nostro bersaglio.

Un modo efficace per ridurre l'aggressività di una persona arrabbiata nei nostri confronti, è quello di chiedere scusa. Possiamo, allora, concludere dicendo che la rabbia, di per sé, non è qualcosa di sbagliato, appartiene alla natura umana. Il vero problema è quando viene espressa in modi violenti.

Un modo di ridurre la violenza è insegnare alle persone come comunicare la loro rabbia in maniera costruttiva, come arrivare a dei compromessi quando sorgono conflitti, come mostrarsi più sensibili ai bisogni ed ai desideri dell'altro.

L'empatia, la comprensione dell'altro, rappresenta uno strumento valido a disinnescare l'aggressività: nel momento in cui io comprendo l'altro, lo umanizzo, scopro un modo idoneo a controllare comportamenti violenti.




LA VIOLENZA DOMESTICA


La diffusione della violenza domestica

L'aggressività è meno frequente fra le donne rispetto al sesso maschile. Quando le donne commettono degli atti violenti, tendono ad avvertire un maggiore senso di colpa o ansia, rispetto ai maschi.

I mariti hanno molte più probabilità di uccidere le mogli!

Per quanto riguarda la diffusione della violenza domestica, o violenza interpersonale intima, le vittime molto spesso non sporgono denuncia - querela poiché si sentono in colpa, temono ripercussioni sui figli, hanno paura, per sfiducia nelle forze dell'ordine, o perché ritengono che quanto accaduto sia una questione privata e che, comunque, vada tenuta nascosta. Attualmente in alcuni paesi, fra cui l'Italia, la legislazione contro i maltrattamenti prevede la procedibilità d'ufficio.

Tipologie della violenza domestica

Il fenomeno della violenza domestica è caratterizzato da una serie distinta di azioni fisiche, sessuali, di coercizione economica e psicologica che hanno luogo all'interno di una relazione intima attuale o passata. Tutte rappresentano condotte che comportano un danno sia di natura fisica, sia di ordine psicologico/esistenziale.

La violenza psicologica comprende una serie di atteggiamenti intimidatori, minacciosi e denigratori, o tattiche di isolamento da parte del partner. Essa comprende: ricatti, insulti verbali, svalutazioni ripetute, denigrazioni, rifiuto, isolamento, terrore, limitazione dell'espressione personale.

In certi casi il maltrattamento psicologico è così pesante che si ha un vero e proprio lavaggio del cervello. Le donne esposte a tali abusi perdono la stima di sé e sviluppano seri danni sotto il profilo psicologico.

La violenza fisica si realizza con qualsiasi mezzo teso a far male o a spaventare la vittima e nella maggior parte dei casi procura lesioni. Dunque, per maltrattamento fisico si intende un danno fisico provocato non accidentalmente e con mezzi differenti (mani, piedi, oggetti).

Rientrano in questa categoria: schiaffi, calci, pugni, morsi, bruciature, strangolamento. L'aggressione fisica non si configura solo in quei comportamenti che ledono fisicamente, ma comprende anche ogni contatto fisico teso a spaventare e a rendere in uno stato di soggezione e di controllo la vittima.

La violenza economica riflette una serie di atteggiamenti volti ad impedire che la vittima diventi o possa diventare indipendente economicamente. Tra questi atteggiamenti rientrano: impedire la ricerca di un lavoro, la privazione o il controllo dello stipendio, il controllo della gestione della vita quotidiana, ecc.

Per violenza sessuale si intendono atteggiamenti legati alla sfera sessuale, quali le molestie sessuali e l'aggressione sessuale, la costrizione ad avere rapporti intimi con terzi, a prostituirsi, la costrizione ad agire o subire comportamenti sessuali non desiderati.

Lo stalking è un insieme di comportamenti diretti a controllare e limitare la libertà della persona messi in atto dal partner o ex partner e che assumono vere e proprie forme di persecuzione (per es., comunicazioni ripetute e non volute attraverso il telefono, per sms, e-mail, messaggi lasciati sul parabrezza dell'auto, seguire e spiare, recapitare regali, far trovare animali morti, eseguire atti vandalici sulle proprietà della vittima.).



Tipologie dei maltrattanti.


Non tutti i maltrattanti sono uguali.

Fra i fattori di rischio dell'uomo maltrattante od omicida, sono state evidenziate le seguenti caratteristiche ricorrenti:

scarsa assertività;

bassa autostima;

scarse competenze sociali,

abuso di sostanze,

scarsa capacità di autocontrollo,

dipendenza,

violenza subita o assistita da bambini o da adolescenti,

precedenti comportamenti violenti,

disturbo antisociale di personalità.


Fattori di rischio dell'uxoricidio

L'esito più grave dei maltrattamenti è la morte della vittima, o direttamente causata, o come conseguenza delle ripetute violenze psicologiche e fisiche.

Parte degli omicidi potrebbe essere prevenuta, gli stessi parenti, amici, colleghi, molte volte, già prima dell'omicidio, erano a conoscenza di gravi problemi di coppia, di minacce, di violenze che si consumavano da tempo e della paura manifestata dalla vittima.

E' ovvio che non tutti gli uxoricidi sono morti annunciate, Ciò che è possibile fare, però, è identificare i fattori di rischio che possono portare all'uxoricidio e mettere a punto delle strategie atte a tutelare la potenziale vittima e, contemporaneamente, ad aiutare il reo modificandone il comportamento tramite interventi psicoterapeutici o, dove ce ne sia la necessità, stabilire l'uso di una farmacoterapia.

I possibili fattori di rischio associati all'uxoricidio sono stati sintetizzati in quattro punti:

caratteristiche del reo

caratteristiche della vittima

caratteristiche della relazione

caratteristiche del contesto in cui vivevano uxoricida e vittima.


1. Caratteristiche del reo Socialmente svantaggiato nel senso che hanno problemi economici, sono disoccupati o immigrati.

Vittime di abuso infantile il maltrattante, da piccolo, può avere subito o assistito ad abuso nel nucleo familiare d'origine.

Precedenti comportamenti violenti all'interno della relazione E' raro che vi siano casi di uxoricidio non preceduti da minacce, aggressioni fisiche o sessuali. Coloro che uccidono la partner hanno alle spalle numerose relazioni fallite.

Proprietà. Rappresenta il desiderio di un controllo esclusivo nei confronti della partner e un senso di diritto nell'esercitarlo. I maltrattanti possono manifestare la presenza di questo atteggiamento impedendo alla partner di svolgere attività fuori casa, di uscire con gli amici, di lavorare, di comprarsi ciò che desiderano, diventando gelosi per qualsiasi attenzione reale o immaginata verso altri uomini o da parte di altri uomini. La gelosia e il senso di possesso permangono anche dopo la cessazione della relazione.

Nei casi in cui all'omicidio segue il suicidio, siamo in presenza di un soggetto che, come scrivono Palermo e Ferracuti ,"si arrende ad una condizione di disperazione e frustrazione profonde. Si sente incapace di sopravvivere alla perdita di quello che considera un legame affettivo vitale, e i sentimenti di inadeguatezza, ambivalenza e incompletezza divengono preponderanti su tutti gli altri. Si uccide dopo aver ucciso l'estensione di se stesso - il partner che lo ha rifiutato - essenziale per il suo Mondo.

Possesso di armi Una maggiore disponibilità di armi aumenta la probabilità che l'assassino le usi durante l'aggressione.

Precedenti penali Gli studi internazionali suggeriscono che oltre la metà degli autori di uxoricidio hanno precedenti penali, molto spesso per reati legati al contesto della violenza domestica, ma anche ad altre azioni criminose non violente o allo spaccio e detenzione di sostanze stupefacenti.   Disturbi di salute mentale e disturbi di personalità. Gli uxoricidi possono essere affetti da disturbi della personalità ed, in alcuni casi, anche da veri e propri disturbi mentali di tipo psicopatologico. I disturbi più frequenti sono: depressione, disturbo dipendente di personalità, disturbo borderline, disturbo passivo - aggressivo, disturbo antisociale.

Abuso di sostanze Spesso gli uxoricidi hanno problemi legati all'abuso di sostanze. Le ricerche indicano che circa il 50% hanno un passato di alcolismo o problemi legati al bere, mentre circa il 15% hanno un passato di abuso di sostanze. Infine, è stato evidenziato che circa il 20-30% degli uxoricidi erano sotto l'effetto dell'alcol al momento di compiere il delitto, e l'8-11% era sotto l'influenza di stupefacenti.

Caratteristiche della vittima.


Per avere un quadro completo degli uxoricidi vanno ricordate anche le caratteristiche delle vittime. Questi fattori sono stati identificati come fattori di vulnerabilità, in quanto la loro presenza potrebbe incrementare il rischio da parte della vittima di essere uccisa, in uno dei seguenti modi:

Aumentando la probabilità che la donna instauri una relazione con un uomo ad alto rischio di commettere uxoricidio;

Impedendole di percepire i rischi che corre nell'avere quella relazione;

Diminuendo la possibilità che la donna stessa possa intraprendere delle azioni protettive una volta che è chiaro anche a lei il rischio che sta correndo.

In particolare si evidenziano i seguenti fattori di vulnerabilità Svantaggio sociale. Lo status di immigrata può aumentare il rischio di essere uccisa, in quanto le immigrate potrebbero essere senza permesso di soggiorno, o non conoscere a sufficienza la lingua, o provenire da culture in cui è la norma, per la donna, soccombere senza reagire.

Precedenti relazioni violente Una donna che si trova in una relazione ove subisce maltrattamenti e che poi viene uccisa, spesso ha avuto storie di abuso anche nelle relazioni precedenti.

Problemi di salute mentale

Abuso di sostanze Alcune vittime di uxoricidio presentavano problemi legati all'abuso di sostanze.


Caratteristiche legate alla relazione vittima - omicida.


Tipo di relazione. Il rischio di uxoricidio fra le donne più giovani è maggiore e lo diventa ancora di più quanto più grande è la differenza di età fra l'uomo e la donna. Alcuni studi canadesi ed americani dimostrano, inoltre, che le donne che vivono un rapporto di convivenza sono a maggior rischio di essere uccise rispetto a quelle sposate.

Per quanto riguarda l'Italia è emerso, invece, che il rischio di venire uccise è maggiore per le donne sposate rispetto a quelle conviventi, quasi ad intendere che gli ex mariti percepiscono un maggior diritto di proprietà, e ciò può indurli a perseguitare di più le ex mogli, rispetto a quello che fanno gli ex fidanzati o gli ex conviventi.

Violenza all'interno della coppia I dati emersi da alcuni studi mostrano che nel 50-75% dei casi di uxoricidio c'erano stati precedenti per maltrattamento e che tali violenze erano aumentate nel periodo che ha preceduto l'omicidio.

Separazione La separazione (intesa come cessazione della relazione) rappresenta un forte fattore di rischio dell'uxoricidio.

Stalking (persecuzione) Nei casi dove era già avvenuta la separazione, molti uxoricidi si erano resi responsabili, precedentemente, anche di comportamenti di persecuzione e di controllo.

Bambini La presenza di bambini nati da quella relazione o da una relazione precedente può essere associata ad un maggior rischio di uxoricidio. Parecchi studi hanno indicato che circa il 50% delle vittime di uxoricidio avevano avuto bambini da una relazione precedente.



4. Caratteristiche del contesto in cui vivevano vittima e uxoricida.


Problemi legati alla responsività e adeguatezza della rete dei servizi e della rete sociale/familiare Nella maggior parte dei casi di uxoricidio, i familiari, gli amici, i colleghi di lavoro o i vicini erano a conoscenza dei problemi fra la vittima e l'omicida già prima del delitto. In molti di questi casi, anche se le persone erano a conoscenza delle minacce o delle violenze, non hanno fatto molto per intervenire, non prendendo iniziative.

Problemi legati alla mancanza di servizi sul territorio o difficoltà di accesso E' molto frequente trovare casi di uxoricidio dove vittima e autore erano già noti ai servizi disponibili sul territorio, come i servizi sociali, le forze dell'ordine, il pronto soccorso. Nelle situazioni in cui queste risorse mancano, o non sono distribuite in maniera omogenea sul territorio, a farne le spese sono le donne che poi vengono uccise, forse anche perché non hanno potuto contare su una rete funzionale di servizi che le tutelasse.

Problemi legati alla capacità di coordinamento delle risorse sul territorio I casi di uxoricidio hanno evidenziato che la vittima spesso si era già rivolta a delle strutture, alla polizia, ai servizi sociali, ma che il caso è stato trattato senza alcun coordinamento e comunicazione fra i vari servizi.































































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