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SHOPENHAUER
Vita: Arthur Shopenhauer (1788-1860) subì nella sua formazione la profonda influenza di Goethe, studiò prima a Gottinga e poi a Jena nel 1819 scrisse la sua opera principale: "Il mondo come volontà e rappresentazione", nel 1820 conseguì una libera docenza a Berlino, ove insegnò senza successo (per il predominio incontrastato di Hegel). Nel 1831 pubblicò un'opera sulle scienze naturali "La volontà nella natura" e nel 1841 una dedicata a problemi morali "I due problemi fondamentali dell'etica". L'ultima opera "Parerga e paralipomena, scritta nel 1851 con un linguaggio molto semplice gli procurò successo e fama in patria e all'estero. Per comprendere realmente la filosofia di S. È necessario capire come le sue teorie siano state influenzate dalle religioni orientali, che in quel periodo venivano divulgate anche in Europa.
Illusorietà del mondo fenomenico: Per S. Lo studio della realtà doveva partire, a differenza di quanto affermavano Fichte ed Hegel, dall'esperienza intesa non soltanto come esperienza esterna ma anche interiore, da queste basi poi si potrà ricercare un principio unificatore (ricerca spesso soddisfatta dalle varie religioni) colto unicamente dal filosofo tramite l'intuizione. L'opera "Il mondo come volontà e percezione" sintetizza le basi della filosofia shopenhaueriana: in primo luogo infatti il mondo è rappresentazione (ovvero molteplicità di fenomeni) ma esiste anche la volontà (principio esplicativo). Le rappresentazioni non sono le sensazioni, ma la sintesi dei dati dell'esperienza e delle forme a priori, questo concetto rimanda esplicitamente al criticismo Kant anche se per S. Le forme a priori sono solo tre (spazio, tempo, e causalità) e provengono dall'intelletto non distinto dall'intuizione. Da questi presupposti intuitivi (ben costituiti) si muove la ragione, che crea i suoi concetti, questi sono rappresentazioni secondarie e non avrebbero senso se non si riferissero all'esperienza. Da questo deriva che i concetti sono sterili, non costituiscono per l'uomo qualcosa di nuovo, e l'unica reale fonte di conoscenza rimane il mondo fenomenico (in fin dei conti è il ragionamento kantiano della "Critica della ragion pura"). In aggiunta e opposizione a Kant però, la realtà fenomenica di S,. È illusoria, (è Maja il velo ingannatore.). Lo studio della materia quindi potrà spiegare le condizioni che regolano la produzione di sensazioni e rappresentazioni, ma non potrà mai svelare ciò che si nasconde sotto il velo di Maja. Dietro il mondo fenomenico si nasconde infatti la "cosa in sé", per capire la quale è necessario per S. Fare riferimento ai profondi segreti che sono contenuti nell'interiorità umana. In primo luogo ciascuno scopre che l'uomo è scisso in organismo (essere intuito anche dagli altri nel mondo della rappresentazione) e volontà cieca (insieme di bisogni, sentimenti oscuri, e impulsi a conservare la vita, intuizioni che non possono essere comprese dagli altri). La volontà è influenzata dal tempo ma non in modo radicale, sfugge alle forme a priori, quindi è qualcosa di più profondo, non una verità scientifica, ma filosofica. Essa diventa la "cosa in se" di Kant che pur incomprensibile alla scienza è sentita interiormente da ogni uomo. Essendo poi indipendente dalle forme a priori, non è più individuale, ma è comune a tutti gli esseri viventi.
La natura: come Shelling S. Vede unità nel mondo naturale, che si articola in gradi diversi tramite l'oggettivazione della volontà (istinto di sopravvivenza). Il grado infimo è rappresentato dalla materia inorganica, mentre quello più alto dall'uomo, in cui la volontà, normalmente incosciente, diventa cosciente di sé. Quella di S. È una concezione della natura primo-romantica, concepita secondo un'ottica di tipo attivistico, secondo un evoluzionismo "volontaristico".
Pessimismo: per S. Alla base del mondo fenomenico vi è la lotta continua che si consuma tra gli esseri viventi, in cui si manifesta la volontà (Hobbes homo homini lupus). La volontà infatti, pur essendo il principio universale, si lacera nei particolarismi, questa sua limitazione si manifesta così con la mancanza, il dolore e il bisogno. Sotto questa ottica il piacere non rappresenta altro che uno stato negativo: il momentaneo appagamento del bisogno o la momentanea cessazione del dolore, se nella vita poi non si presenta né la felicità ne il dolore subentra la noia. La filosofia di S. In particolare polemizza contro l'ottimismo hegeliano a cui contrappone una visione del mondo in cui il dolore è una condizione universale, e in cui non esiste una forza che governi la storia, per S. Non esiste un fine per la storia dell'umanità, che non è guidata né dalla provvidenza né dalla ragione ,ma soltanto dal destino.
La liberazione dal dolore La liberazione dalla volontà cieca è per S. L'unica affermazione possibile di libertà: l'unico obiettivo quindi non può essere che trascendere l'esperienza liberandosi dalle illusioni, tramite tre vie: la moralità, l'arte e l'ascetismo.. La moralità è una conoscenza più profonda dell'intelletto e della ragione il suo principio fondamentale è la pietà grazie la quale l'uomo comprende intuitivamente l'unità di tutti gli esseri e libera il proprio animo dalla malvagità (l'azione negativa della pietà è la giustizia, quella positiva la carità). L'arte è la contemplazione delle cose nel loro carattere ideale ossia la contemplazione delle idee, termine platonico con cui S. Indica gli oggetti puri ed eterni sui quali si modellerebbero gli esseri individuali, esse non sono ricavate per astrazione dal mondo fenomenico (come i concetti) ma sono l'oggettivazione immediata della volontà (chi si eleva a questa contemplazione dimentica se stesso, non sa più chi è, sa solo che contempla). L'arte più elevata è per S. La musica (periodo romantico) di cui difende l'autonomia linguistica come linguaggio dell'irrazionale: così la musica si libera della parola e da sola spiega "l'in se del mondo". L'ascetismo è il più alto grado raggiungibile, rappresenta la massima riduzione della volontà di vivere, consiste nella negazione di ogni aspetto della realtà fenomenica per tanto è in grado di liberare l'uomo non temporaneamente dalle illusioni del velo di Maja. La negazione ascetica non è il suicidio che al contrario rappresenta la suprema affermazione di sé, ma è la distruzione della volontà individuale, il superamento di una volontà lacerata in cui la stessa volontà si trasforma in "noluntas". Questa ascesi molto simile al "nirvana" delle religioni orientali non corrisponde a quella cristiana, non è un "iter mentis in deum" ma l'annullamento della personalità
La crisi dell'io
La cultura dell'Ottocento è saldamente ancorata a una concezione forte dell'io, inteso come sostanza razionale e unitaria. Tale concezione si era formata gradualmente nel corso dell'epoca moderna, ma, nel XIX secolo, aveva compiuto un salto di qualità; mai come in questo secolo, infatti, il pensiero umano aveva considerato tanto potente la soggettività razionale, attribuendole - almeno in linea di principio - una pressoché assoluta capacità di dominio sulla propria coscienza, sul proprio corpo e sul mondo naturale. Già nel corso dell'Ottocento, tuttavia, non erano mancate autorevoli v 828g62i oci controcorrente, precorritrici della successiva evoluzione culturale, che rimasero non a caso isolate, incomprese 'e a volte perfino misconosciute fino all'ultimo trentennio del secolo. È infatti solo in questo periodo che I immagine forte dell'io comincia a vacillare sotto i colpi della filosofia di Nietzsche e della psicoanaiisi di Freud. Nella prima metà del Novecento, la crisi dell'io esplode diventando il nuovo leit-motiv della cultura europea.
I precursori: Schopenhauer, Kierkegaard e Leopardi
La filosofia dell'Ottocento è dominata dall'idealismo e dal positivismo. Per quanto antagoniste, queste due correnti fìlosofiche condividono una concezione forte dell'io. La filosofia ottocentesca, tuttavia, comprende anche due grandi voci controcorrente: Schopenhauer e Kierkegaard. L'attacco di Arthur Schopenhauer (1788-1860) all'io assoluto, teorizzato dall'idealismo tedesco e soprattutto da G.WT. Hegel (1770-1831), è frontale e radicalmente distruttivo. Schopenhauer, ne // mondo come volontà, e rappresentazione (1818) riduce il soggetto umano a semplice manifestazione di un principio metafìsico, impersonale e del tutto irrazionale: la volontà di vita. Da ciò scaturiscono due conseguenze: 1) la razionalità viene considerata come uno strumento dell'istinto di sopravvivenza; 2) l'agire del soggetto umano viene considerato come un prodotto dei bisogni e delle pulsioni naturali in cui si manifesta la volontà. Se è vero che in Schopenhauer è presente anche una valorizzazione dell'io - in quanto capace di seguire un diffi- cile cammino di liberazione dalla volontà -, è altrettanto vero che l'obiettivo finale di questa liberazione consiste nella rinuncia stessa all'io, nel suo annullamento attraverso un percorso che conduce all'ascesi. Meno drastica, ma non meno incisiva, è la critica condotta all'io dal filosofo danese Seren Kierkegaard (1813-1855) che, sulla base di una rigorosa analisi del vissuto esistenziale, mette a fuoco i limiti invalicabili della soggettività individuale: dal punto di vista della sua relazione con il mondo esterno, l'io si trova infatti costantemente di fronte alla possibilità di scegliere tra il bene e il male, con la consapevolezza del rischio di errore e annientamento insito m ogni scelta. Ancora più profondo e insuperabile è però il limite che l'io incontra nel suo rapporto con se stesso e che si manifesta nella disperazione. L'io, infatti, non può ne essere pienamente se stesso, cioè realizzarsi compiutamente come singola personalità, ne essere diverso da se stesso, cioè tentare di mutare la propria costituzione individuale: l'uomo, infatti, non ha in se stesso la propria origine, ma deriva e dipende da Dio. Pertanto, solo nel rapporto di fede con Dio il singolo può trovare la sua realizzazione. Il rapporto di fede si fonda dunque proprio sul riconoscimento della radicale insufficienza dell'io e presuppone che il credente rinunci a ogni garanzia fornita dalla razionalità.
^- Vedi sul manuale di filosofia i capitoli su Schopenhauer e Kierkegaard, in particolare di quest'ultimo II concetto dell'angoscia (1844), in cui, a partire dalla "
tematica del peccato originale, il filosofo esplora la dimensione dell'angoscia e della disperazione come costitutive dell'essenza dell'uomo.
Anche nella letteratura ottocentesca il tema della crisi della soggettività è prerogativa ancora di pochi. In particolare esso emerge in Giacomo Leopardi (1798-1837). Come per Schopenhauer, anche per Leopardi l'uomo vive in una situazione di ignoranza e di "inganno". Il principio sconosciuto e imperscrutabile che ha originato il cosmo, da un lato, pone l'uomo in una condizione di strutturale dolore, dall'altro, lo vincola alla vita suscitando in
lui continue illusioni prive di fondamento e destinate a risolversi nella delusione e nel pessimismo. Che la vita dell'uomo sia consegnata al dolore è per Leopardi conseguenza del conflitto che il soggetto sperimenta tra l'infinitezza delle sue aspirazioni e la finitezza insuperabile delle sue possibilità di realizzazione. L'uomo, infatti, non solo non è in grado di dominare la natura, ma è anzi succube del suo dominio che lo limita, lo condiziona, lo fa soffrire e può annientarlo in ogni momento. L'unica possibilità di riscatto del soggetto umano risiede, per Leopardi, nella capacità di comprendere lucidamente la propria condizione, rinunciando a ogni illusione. Ciò significa, paradossalmente, che la sola grandezza dell'uomo consiste nel riconoscere la propria miseria, la propria insuperabile nullità; e, infatti, l'unico vero rimedio alla sofferenza consiste per Leopardi nella morte, cioè nell'annullamento dell'io.
^- Vedi l'opera di Giacomo Leopardi, in particolare il Canto notturno di un pastore errante per l'Asia (1830): in questo canto il pastore, in cui si ritrova il poeta stesso, vaga in un'atmosfera irreale alla ricerca del senso del vivere e nel tentativo di penetrarne il mistero. In A se stesso (1830) e in // tramonto della luna (1833) la ; morte è cantata come unico rimedio al dolore della condizione umana.
Il contesto storico: la crisi economica e le conseguenze sociali
I presupposti storici della crisi della
soggettività borghese emergono nell'ultimo trentennio dell'Ottocento. Dal 1873
al
> Vedi sul manuale di storia il capitolo dedicato alla "grande depressione" e alla
Seconda rivoluzione industriale.
Ma l'attacco più forte alla saldezza della coscienza borghese venne indubbiamente dal movimento operaio, in seguito al grande rafforzamento sia dei
sindacati sia dei partiti socialisti. L'episodio della Comune di Parigi del
1871 è il primo caso di rivoluzione socialista della storia moderna. Nonostante i suoi indubbi limiti spaziali e temporali e il suo fallimento finale, l'evento ebbe una forte valenza simbolica per la società dell'epoca, aumentando l'inquietudine delle classi borghesi e alimentando la diffusione del mito rivoluzionario tra le classi proletarie. Nel trentennio successivo si formarono i grandi sindacati e i grandi partiti socialisti di ispirazione marxista in tutti i principali paesi europei. Il culmino di questo processo di espansione e organizzazione del movimento operaio fu la costituzione della Seconda Intemazionale socialista nel 1889. Schiacciata tra il potenziamento dell'alta borghesia da un lato e l'avanzata del proletariato dall'altro, la piccola borghesia avvertì sempre più profondamente un forte disagio sociale, che si ripercosse anche a livello individuale favorendo la messa in crisi dell'identità borghese.
^- Vedi sul manuale di storia il capitolo dedicato alla nascita e allo sviluppo dei
partiti socialisti.
La nuova poetica del decadentismo
In ambito letterario, la crisi della coscienza borghese ottocentesca si manifesta nel vasto e diversificato movimento del decadentismo, che si sviluppò a cavallo dei secoli XIX e XX. Per quanto riguarda il romanzo, un esempio emblematico è rappresentato da // ritratto di Dorian Gray (1891), di Oscar Wilde (1854-1900). In quest'opera la crisi dell'io borghese è parricolarmente evidente sia nella fuga del protagonista dalla dimensione sociale a favore di una vita dedicata totalmente al piacere estetico sia nel programmatico immoralismo, che lo porta ai crimini più efferati, sia, soprattutto, nel suicidio finale. Il ritratto - che invecchia e si corrompe mentre Dorian conserva la bellezza di un'illusoria giovinezza -, è il simbolo evidente della sua coscienza, di cui cerca in ogni modo di liberarsi; tale progetto è tuttavia destinato al fallimento poiché nel momento in cui Dorian Gray lo distrugge non fa altro che distruggere se stesso. Sempre nell'ambito del decadentismo, ma a livello poetico, è Giovanni Pascoli (1855-1912) una delle voci più significative nell'esprimere la crisi della^soggettività razionale. Il poeta viene identificato da Pascoli con un fanciullino; come tale egli rifiuta la razionalità oggettiva dell'adulto e si affida a una sensibilità infantile che non coglie le cose come sono, ma come le sente, in modo istintivo, immediato. Il poeta diventa così un "veggente" capace di intendere il linguaggio simbolico delle cose, che sogna a occhi aperti, mettendo sullo stesso piano reale e irreale; con il concetto di fanciullino Pascoli sembra riferirsi a qualcosa di analogo a ciò che il suo contemporaneo Freud denomina inconscio o Es, ed è portato a contrapporre, a una poesia dell'io cosciente, una poesia dell'inconscio. Sul piano formale, la poetica del fanciullino si traduce in una rottura con la tradizione e in una radicale innovazione linguistica. Se il poeta è un fanciullino, il linguaggio della poesia deve essere quello del fanciullo; questi percepisce la realtà in modo alogico, sconnesso, frammentario e dunque, analogamente, la poesia deve rinunciare alla sintassi per la parafassi e per l'analogia. Anche il lessico deve essere quello fanciullesco, semplice, elementare, dialettale, gergale, ricco di onomatopee. Il metro poetico, a sua volta, viene utilizzato per esprimere cantilene e il verso viene spezzettato per conferirgli un andamento singhiozzante. Il depotenziamento dell'io razionale non si manifesta dunque solo e tanto nel contenuto, ma soprattutto nella forma. Il linguaggio di Pascoli è infatti quello onirico proprio dell'inconscio, caratterizzato dall'autonomia e dalla superiorità del significante fonico rispetto al significato logico.
> Vedi, di Pascoli, la prosa IIfanciullino (1897), in cui il poeta esprime la poetica dell'inconscio, e la poesia Dialogo, da Myricae (1891), importante come esempio sia del linguaggio pascoliano sia della concezione visionaria e fanciullesca della natura.
Il pensiero critico di Nietzsche e la scoperta dell'inconscio
Dopo gli annunci di Schopenhauer e Kierkegaard, la crisi dell'io giunge a piena e radicale consapevolezza - proprio negli stessi anni in cui nasceva il decadentismo - nella filosofia di Friedrich Nietzsche (1844-1900). Mirando a una severa critica della morale convenzionale, nell'opera Genealogia della morale (1887) Nietzsche mette in dubbio che l'io possa avere una coscienza piena del significato delle proprie azioni sino a negare la libertà del volere. Già in questa fase emerge la tesi - di origine schopenhaueriana - secondo la quale il comportamento umano dipende da un istinto di conser- vazione che sfugge al controllo conoscitivo e pratico dell'io. Ridotto a una funzione di tale istinto, l'io perde non solo il suo carattere di sostanza, ma anche quello di unità: l'io, sostiene Nietzsche, è solo un palcoscenico sul quale si agita disordinatamente una molteplicità di impulsi e di motivazioni. Successivamente, Nietzsche chiarisce come l'io nasca e si formi per rispondere al bisogno di comunicazione legato alla condizione sociale. La coscienza viene intesa come una funzione dei rapporti sociali, in particolare dell'ordine gerarchico che controlla la società. Ma è soprattutto nell'ultima fase della sua produzione filosofica che Nietzsche sferra un attacco radicale all'io, sostenendo che il pensiero nasce in modo del tutto indipendente dalla coscienza individuale. Bisogna pertanto sostituire l'espressione "io penso" con "esso pensa" e, addirittura, si dovrebbe eliminare lo stesso pronome "esso", in quanto contiene pur sempre una forma di razionalizzazione di un processo che, per principio, sfugge alla razionalità. Può sembrare un clamoroso paradosso culturale che, pochi anni dopo, Sigmund Freud (1856-1939) arrivi a formulare tesi molto vicine a quelle di Nietzsche non solo senza mai averne letto - per scelta intenzionale - le opere, ma addirittura partendo da presupposti culturali antitetici e cioè da una cultura positivista e da una formazione medica. In realtà, ciò rappresenta un segno evidente che la crisi dell'io era ormai un fenomeno epocale, l'espressione di una situazione storico-culturale. Freud conferma infatti e approfondisce su un piano scientifico le intuizioni filosofiche di Schopenhauer e Nietzsche sulla dipendenza dell'io da un principio istintivo, inconscio e irrazionale. Tale principio è da Freud denominato Es - l'"esso" già temarizzato da Nietzsche - e caratterizzato come libido inconscia, cioè come un'energia sessuale polimorfa che agisce al di fuori della consapevolezza e del controllo dell'io razionale. Freud afFerma infatti esplicitamente che «l'Io non è più padrone nemmeno in casa propria». In questo modo, secondo lo psicoanalista viennese, la psicoanalisi ha inferro una terza e più profonda ferita narcisisrica alla coscienza umana, dopo quelle dell'eliocentrismo di Copernico e dell'evoluzionismo di Darwin. Se Copernico aveva infranto la credenza nella centralità cosmica dell'uomo come abitante della Terra e Darwin quella della superiorità della specie umana rispetto al mondo naturale, Freud ritiene di aver abbattuto la credenza nel dominio dell'io cosciente sul comportamento dell'uomo.
> Vedi, in particolare, di Freud, L'interpretazione dei sogni (1900), opera in cui
Fautore identifica i sogni come "via regia" per mettere in rilievo i contenuti dell'inconscio e le sue strutture profonde.
Le espressioni figurative del disagio esistenziale
Un grande interprete della crisi dell'io tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento fu il pittore norvegese Edvard Munch (1863-1944), esponente della corrente esistenziale del movimento simbolista e precursore dell'espressionismo. Munch si ispirò alla filosofia di Kierkegaard e ha il merito di aver contribuito alla sua diffusione al di fuori dei paesi scandinavi, all'interno dei quali era rimasta confinata per tutto l'Ottocento. Nei suoi quadri Munch esprime infatti i temi dell'esistenzialismo cristiano di Kierkegaard e, in particolare, quelli dell'angoscia e della disperazione in quanto sentimenti che manifestano la finitezza e la conflittualità interna dell'io.
> Vedi, in particolare, di Munch, i dipinti L'urlo (1893) e Ansietà (1894), in cui sono rappresentati i temi kierkegaardiani dell'angoscia e della disperazione.
Il Novecento e l'esplosione della crisi
II contesto storico
La prima meta del Novecento è segnata da due catastrofiche guerre mondiali, dalla Rivoluzione russa e dalla successiva guerra civile, dalla prima grande crisi economica di livello mondiale, da conflitti sociali violenti che spesso sfociarono in tentativi insurrezionali falliti o repressi, da genocidi tecnologicamente pianificati, da regimi dittatoriali e totalitari dimisi che facevano della violenza sistematica uno strumento quotidiano di governo. Gli effetti distruttivi di questi cruenti fenomeni storici toccarono livelli mai prima raggiunti in così poco tempo, sia in termini di vite umane sia in termini di beni materiali. In questo contesto storico il mito ottocentesco di un io razionale capace di esercitare un controllo sugli istinti attraverso la morale e la politica, e sulle forze della natura grazie alla scienza e alla tecnica, si frantumò definitivamente.
> Vedi sul manuale di storia i dati relativi alle vittime delle guerre mondiali, dell'Olocausto ebraico, del genocidio degli armeni, della Rivoluzione russa, e ricostruisci la situazione materiale e spirituale dell'Europa fra le due guerre.
La filosofia esistenzialista
In ambito filosofie» l'espressione più diretta e consapevole della crisi della civiltà occidentale fu l'esistenzialismo. Al suo interno fu Jean Paul Sartre (1905-1980) a teorizzare nel modo più radicale la crisi dell'io. Per Sartre «l'io non è un abitante della coscienza», in quanto l'io proprio è un elemento del mondo tanto quanto l'io di un altro uomo. Ciò significa che l'io non è sostanza o autocoscienza, e non è neppure un ente dotato di contenuti conoscitivi propri e di un'attività intuitiva interna, ma è costantemente teso a superare l'opacità del mondo esterno, che si pone come dato insuperabile e ineliminabile. Sartre connota tale completa apertura della coscienza come "nulla", in quanto assenza di una determinazione data e tensione verso il superamento dell'oggetto. Sul piano pratico ciò significa che l'io, a differenza degli altri enti mondani, è assolutamente libero, aperto a ogni possibilità. L'angoscia diviene pertanto il sentimento costitutivo dell'io, in quanto esprime al contempo la coscienza del suo nulla e della sua libertà incondizionata. Ma proprio perché fondata sul nulla, la libertà umana è destinata a sfociare nel fallimento. L'io progetta sì di farsi Dio, cioè di diventare fondamento di se stesso e del mondo, ma ciò è impossibile, perché l'io dipende dal mondo, ed è solo possibilità di negare il mondo, trascendendolo, ma non di produrlo. Dunque, conclude Sartre, «è la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli», tutte le imprese umane sono equivalenti e l'uomo è solo «una passione inutile».
> Vedi sul manuale di filosofia l'opera di Sanre, e in particolare L'essere e il nulla (1943), opera in cui emerge in modo netto l'immagine di un soggetto che è solo coscienza del mondo esterno, un ente mondano in mezzo ad altri; il soggetto, in quanto riflette qualcosa che non è coscienza, è di per sé nulla e possiede un potere nullificante che consiste nel negare la realtà come puro dato, per attribuirle i propri significati.
L'antieroe, protagonista del romanzo novecentesco
Nel primo Novecento il tema della crisi dell'io è il leitmotiv dei grandi romanzi europei: dalYUlisse (1922) di James Joyce (1882-1941) al Processo (1924) di Franz Kafka (1883-1924), da La coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo (1861-1928) all'Uomo senza qualità (1930) di Robert Musil (1880-1942). L'eroe del romanzo ottocentesco si trasforma in antieroe, l'inetto, l'escluso, l'uomo senza qualità, e, parallelamente, viene attuata una rivoluzione nella forma romanzesca: il narratore onnisciente viene sostituito dallo stream of consciousness (lett. "flusso di coscienza"), dalla mera registrazione dei mutevoli stati dell'io, che disarticola in tal modo la continuità spaziotemporale della narrazione. L'autore che, almeno sul piano del contenuto, ha forse espresso con più radicalità la dissoluzione dell'io - e con largo anticipo sugli altri - è Luigi Pirandello (1867-1936), in particolare nei due romanzi II fu. Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e contornila (1925). I personaggi di Pirandello sono uomini disgregati, dalla personalità alterata, maniacale, emblemi del caos dell'esistenza. Mattia Pascal rappresenta un caso di sdoppiamento della personalità, egli ha infatti abbandonato un io per costruirsene artificialmente un altro, ma è destinato a rimanere spaccato tra il suo io passato e quello presente, senza poter essere ne l'uno ne l'altro. Vitangelo Moscarda, protagomsta di Uno, nessuno e centomila, scopre l'inconsistenza del proprio io, il suo essere un flusso di percezioni mutevoli, un susseguirsi di frammenti in perenne mutamento, il frutto delle innumerevoli proiezioni del suo ambiente sociale. In altre parole, il soggetto si frantuma in una miriade di sensazioni, si sfarina nelle cose che riflette, in un libro, in un albero, in una nuvola.
L'astrattismo nelle arti figurative
Nelle arti figurative la crisi del soggetto razionale si manifesta soprattutto nell'astrattismo, corrente pittorica che rappresenta una delle più radicali innovazioni artistiche del Novecento; in particolare, ciò si evidenzia nella poetica di Kandinskij, fondatore di questa corrente. Per l'artista russo scopo della pittura non è più quello di imitare o trasfigurare la realtà esterna, ma quello di rappresentare l'universo intcriore della psiche umana, che non si configura come coscienza razionale, esprimibile in forme chiare e distinte, bensì - freudianamente - come Es, inconscio contenente forze misteriose e irrazionali. Il ricorso alla pittura "astratta" è l'unico modo per cogliere e riprodurre tali forze, il linguaggio astratto si configura come linguaggio dell'inconscio. In questo modo l'astrattismo porta alle estreme conseguenze quella tendenza artistica a valorizzare il significante a scapito del significato che è l'altra faccia - quella formale - della crisi sostanziale della concezione ottocentesca dell'io.
^ Vedi, di Vasilij Kandinskij (1866-1944), Primo acquerello astratto (1910), il dipinto che inaugura l'astrattismo moderno e il suo tentativo di rappresentare il linguaggio dell'inconscio, nel quale linee, figure e forme non hanno più nessun legame con la rappresentazione naturalistica della realtà.
SCHOPENHAUER E KIERKEGAARD
S. e K. furono due forti oppositori dell'idealismo e in particolare quello di Hegel ed entrambi
contestavano il principio ispiratore della filosofia di quest'ultimo : il
razionalismo. Sch. opponeva che la realtà fosse dominata da un principio
irrazionale ,
SCHOPENAUER
La filosofia per S. deve basarsi sull'esperienza ,non solo quella esterna ma anche quella interiore, e cercare in essa un principio unico cui ricondurre tutto il mondo dell'esperienza.
Il mondo è da un lato rappresentazione ossia un inesauribile insieme di fenomeni ,dall'altro è volontà, la quale costituisce il principio unico di tutta la realtà. Il mondo fenomenico è costituito da rappresentazioni intuitive concrete, che non sono semplici sensazioni, ma l'unione dei dati forniti dai sensi con le forme unificatrici a priori .Riprendendo il criticismo di Kant afferma che le forme a priori sono soltanto tre (spazio, tempo, causalità)le quali provengono dall'intelletto. Mentre l'intelletto coglie le rappres. mediante una funzione intuitiva ed immediata ,la funzione della ragione è quella di elaborare i concetti partendo dalle rappres. ben conosciute. A sua volta i concetti sono rappres. secondarie ricavate per astrazione dalle vere e proprie rappresentazioni e non hanno alcun valore se non riconducono a tali rappres. S. infine conclude che possiamo conoscere solo i fenomeni poiché esclude che la ragione possa condurci a qualcosa di nuovo rispetto al mondo delle rappres. ed arriva sostenere che la realtà è pura illusione.
Il mondo come volontà : Dal momento che il mondo fenomenico è illusorio ,non ha senso affermare che la vera realtà è nella materia =>rifiuta il materialismo .La via dunque per giungere alla vera realtà ,ossia la "cosa in sé" kantiana deriva dalla scoperta di un doppio aspetto dell'essere :l'organismo ,intuibile da chiunque nel mondo delle rappres. e la volontà che rappresenta l'insieme dei bisogni, impulsi che tendono a conservare la vita ed è l'aspetto più profondo e più reale dell'essere. Tale volontà per S. non ha un fondamento scientifico ma più che altro rappresenta "la verità filosofica" per eccellenza e cosa più importante essa costituisce la "cosa in sé" kantiana. In essa va cercata la realtà profonda di qualsiasi essere e inoltre essa si sottrae alle 3 forme a priori poiché risulta una sola in tutti i vari esseri ,non è sottoposta alla causalità e agisce liberamente, senza alcuna motivazione .
La natura : Come Schelling ,vede nel mondo naturale una profonda unità che parte dal grado più basso verso altri sempre più elevati, ma ciò che lo distacca da Sch. è l'identificazione di realtà e volontà che lo porta ad esaltare la forza inesauribile presente in ogni fenomeno. Il grado infimo è la natura inorganica in cui la volontà si manifesta pura causalità meccanica .Natura organica :il rapporto causale si manifesta come eccitazione ; essa si articola in gradi diversi che vanno dalla vita vegetale alla v. animale e quando la volontà dà luogo al formarsi del cervello allora appare l'intelletto e la volontà diventa volontà di conoscenza. L' uomo costituisce il grado più elevato dell'oggettivazione della volontà e in lui la volontà ,che di per sé è incosciente, diventa cosciente di sé.
Il pessimismo : caratteristica della filosofia della natura di S. è che gli esseri tematiche sono in continua lotta tra di loro. La volontà costituente il principio dell'universo si trova divisa in tante volontà individuali e continuamente si esprime come bisogno, mancanza ,dolore. Il dolore è costitutivo del mondo umano e rappresenta uno stato positivo della realtà ,mentre il piacere ,stato negativo della vita ,è il momentaneo appagamento del bisogno ,la mom. cessazione del dolore. La vita così si presenta insieme tremenda e incantevole e come un continuo oscillare fra il dolore e l'aspirazione a una liberazione da esso ;inoltre in contrasto con l'ottimismo di Hegel sostiene che il dolore è un fatto universale e diventa sempre più acuto con l'acuirsi della coscienza . Infine per lui la storia dell'umanità non ha alcun fine né è mossa dalla provvidenza ;non è dominata dalla Ragione ,come voleva Hegel, ma dal Destino che fa tendere la vita all'infinito.
Liberazione dal dolore : le vie di questa liberazione sono 3 :la moralità ,l'arte ,l'ascetismo. La moralità consiste in un sapere superiore di quello della ragione e dell'intelletto, il cui principio fondamentale è la pietà, riconoscere l'unità di tutti gli esseri. Tale pietà ha il potere di eliminare dall'animo umano la malvagità che rende gli uomini nemici tra di loro. L'arte è la contemplazione delle cose nel loro carattere ideale ,ossia delle idee ,che sono l'oggettivazione immediata dalla volontà. Contemplando le idee l'uomo "dimentica se stesso " e si libera seppur temporaneamente la sua volontà di vivere ;la musica ha il primato fra tutte le arti ed è vista quasi come una filosofia inconscia e dichiara S. che essa è il linguaggio dell'irrazionale .L'ascetismo rappresenta l'estrema attenuazione possibile della volontà di vivere e riesce a liberare definitivamente l'animo dalle illusioni del mondo empirico. Egli è contro il suicidio, un atto che non estingue la volontà di vivere ,ma determina la volontà di vivere la vita in condizioni diverse da quelle del momento del suicidio. Attraverso l'asc. l'uomo modifica radicalmente la volontà ,che si trasforma nel suo opposto ,la noluntas (annullamento della personalità). Inoltre S. riconosce alle religioni più ,come il cristianesimo delle origini e il buddismo, la capacità di condurre l'uomo alla negazione ascetica, ma in esse vi è però un pericolo :quello di perdere il loro carattere metafisico e diventare idolatrie .Infine l'eliminazione della volontà di vivere costituisce l'unico atto possibile per conquistare la libertà..
Arthur
Schopenhauer nasce a
Danzica il
L'attività speculativa schopenhaueriana assume forme decisamente nette già a partire dall'elaborazione del trattatello del 1813 Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, ciò che pur gli valse la laurea in Filosofia e che, in certo modo, costituisce la chiave di volta per la comprensione di tutto il suo sistema filosofico successivo. Il titolo dell'opera, come dichiarato dall'autore stesso, intende riferirsi a «un'espressione comune di più conoscenze date a priori», conoscenze che di seguito si tenterà di illustrare. Basterà qui ricordare la definizione che Wolff dà dello stesso principio di ragione sufficiente, definizione che Schopenhauer riprende in via provvisoria e che qui di seguito si riporta: «Niente è senza una ragione per la quale sia piuttosto che non sia», ovvero: niente è senza una ragione per cui sia. In buona sostanza, "principio di ragione sufficiente" indica sempre, qui e in Schopenhauer, il diritto a chiedere: «Perché?», ciò che poi a ben vedere risulta essere una delle facoltà forniteci a priori nell'intelletto, oltre che una delle prerogative principali delle scienze comunemente intese. Nell'approcciare ognuna delle seguenti classi di rappresentazione sarà sempre possibile, dunque, applicare tale principio, chiedendosi effettivamente ogni volta il perché, nello specifico, del divenire, del conoscere, dell'essere, dell'agire: a questo dunque intende riferirsi il filosofo adottando la definizione di "quadruplice radice", ovvero ad un insieme di conoscenze che effettivamente si differenziano l'una dall'altra in quanto all'oggetto conosciuto, ma ciononostante dimostrano, ad una più attenta analisi, di possedere un comune sostrato nella facoltà intelletto.
Principium rationis sufficientis fiendi
Principio di ragione sufficiente del divenire, noto anche come legge di causalità (modificazione reciproca degli stati della materia), che il filosofo inserisce, assieme a tempo e spazio, tra le forme date a priori nell'intelletto umano. Tutti gli oggetti che contribuiscono a creare il complesso della realtà sperimentale sono, rispetto al cominciare e cessare dei loro stati, legati tra loro per mezzo di tale principio; se subentra un nuovo stato di uno o più di questi oggetti "reali", bisogna che un altro lo abbia preceduto, e che ad esso faccia seguito uno nuovo, il tutto nella più perfetta necessità. Tali seguire e conseguire rappresentano ciò che più comunemente si usa indicare sotto il concetto di rapporto causa-effetto. Se ad esempio un qualsiasi corpo inizia un processo di combustione, è necessario che esso sia preceduto da:
uno stato di affinità con l'ossigeno;
uno stato di contatto con l'ossigeno;
uno stato di aumento della temperatura.
Poiché, non appena questi stati della materia si verificano, deve immediatamente conseguirne la combustione, e però essa si manifesta solo adesso e non può dunque essere stata sempre presente, essa dev'essersi verificata solo ora: questo prodursi di un'alterazione nella condizione originaria della materia viene solitamente indicato con il termine modificazione. Dunque la legge di causalità sta in rapporto esclusivo con le modificazioni e ha sempre e solo a che fare con queste. Ogni effetto è, nel suo verificarsi, una modificazione e dà un'indicazione pressoché infallibile su un'altra modificazione ad essa precedente che, in relazione all'effetto stesso, rappresenta la causa ma che a sua volta, in relazione ad una terza modificazione anteriore ad entrambe, si chiama nuovamente effetto: questa concatenazione logica è ciò che si intende quando si fa riferimento alla catena causale. Le singole diverse determinazioni, che solo considerate assieme completano e costituiscono la causa, possono essere dette momenti causali o anche condizioni e perciò si può scomporre la causa in tali sue parti costituenti (ciò che poi auspicano di conseguire le scienze tutte comunemente intese). Tali modificazioni degli stati della sostanza (e non mai della sostanza stessa, che come si sa è perenne) divengono successivamente percepibili (dunque rappresentabili) in quanto affezioni che ineriscono agli organi costituenti il nostro apparato sensoriale che, inviando una serie di impulsi lungo la corteccia cerebrale, fornisce al nostro intelletto la capacità di rappresentazione della realtà oggettiva. Ciò stabilito, Schopenhauer è a questo punto libero di portare il filo logico delle sue riflessioni alle sue estreme conseguenze, attaccando direttamente Cartesio - che tenta di negare la necessità di trovare una causa per la stessa esistenza di Dio semplicemente attribuendogli il vago concetto dell'immensitas - e Spinoza che, nonostante sia allievo di Cartesio, non viene in chiaro con il pensiero del maestro e preferisce definire Dio come causa sui, la causa di tutte le cause, il che equivale a dire: una causa che si pone al di fuori della stessa catena causale; ovviamente una contradictio in adjecto. Dalla legge di causalità risultano inoltre due importanti corollari: la legge di inerzia e la legge di persistenza della sostanza. La prima afferma che ogni stato della materia, dunque tanto la quiete quanto il suo moto di qualsiasi tipo, persevera senza crescere né diminuire anche per tutta l'eternità del tempo e per tutta l'infinità dell'universo se non interviene una qualsiasi causa ad alterarlo o farlo cessare. La legge di permanenza della sostanza consegue invece dal fatto che la legge di causalità è applicabile solo e soltanto agli stati della materia, agli stati dei corpi, cioè alla loro quiete o al loro movimento, alla loro forma e qualità d'ogni genere, al nascere e al perire nel tempo dei fenomeni (e solo dei fenomeni), e nient'affatto all'esistenza del "portatore" di questi stati, la sostanza appunto: essa persiste, non può né nascere né perire, il suo quantuum non può cioè essere aumentato o diminuito (conoscenza di cui, afferma Schopenhauer, noi siamo dotati a priori). Dall'infinita catena delle cause e degli effetti rimangono perciò intatte due sole cose:
la materia informe, che non s'è cioè ancora manifestata in un fenomeno o un ente, e che è anzi l'unico medium per mezzo del quale la legge di causalità può esternarsi;
le forze naturali originarie, a cui - afferma il filosofo - è inutile tentare di dare una spiegazione causale, essendo tali forze il sostegno stesso su cui si fonda l'esistenza della medesima catena di causa ed effetto. Ovvero: è illogico, e denota mancanza di riflessione, chiedere il perché del diritto di chiedere perché.
Principium rationis sufficientis cognoscendi
Principio di ragione sufficiente del conoscere, noto come Ragione e definito come capacità di concatenazione o opposizione di concetti astratti (il che vuol dire lontani nel tempo e nello spazio) nella forma sintetica d'un giudizio, da cui discende necessariamente la relativa conferma della giustezza di esso per affinità ad una delle quattro verità:
Verità logica o formale, allorché un giudizio fonda la sua ragione su un altro giudizio ritenuto sempre valido, ovvero dimostra la sua esattezza rispetto a questo con l'adozione di un terzo, procedere nel qual modo viene poi definito sillogizzare. Un giudizio è dotato di verità logica o formale anche nel caso in cui manifesti accordo con una delle quattro note leggi del pensiero:
Principio di identità [es: "il triangolo è uno spazio delimitato da tre linee"];
Principio di non contraddizione [es: "nessun corpo è senza estensione"];
Principio del terzo escluso [es: "ogni giudizio è vero o non-vero"];
Principio di ragione sufficiente del conoscere [es: "se esprimo un giudizio, devo per necessità motivarlo" o, più sinteticamente, affirmanti incumbit probatio];
Verità empirica, in quanto una rappresentazione della prima categoria qui analizzata, cioè un'intuizione dovuta all'apparato sensibile, può a sua volta essere la ragione di un giudizio. Allora il giudizio assume una verità materiale e questa invero è verità empirica.
Verità trascendentale, essendo le forme della conoscenza intuitiva, forniteci a priori dall'intelletto (spazio, tempo e causalità = principium individuationis), requisiti essenziali di ogni esperienza, esse possono divenire ragione di un giudizio, che ha di nuovo verità materiale, e ciò non solo in seno alla mera esperienza, ma come risultato delle condizioni stesse che questa governano. Esempi di tali giudizi sono proposizioni come: «due linee rette non racchiudono uno spazio», «niente accade senza causa», «3 x 7 = 21», «la materia non nasce e non perisce».
Verità metalogica, che si prefigura allorché la ragione di un giudizio riposa nelle condizioni formali di ogni pensare insite nella Ragione. I giudizi di verità metalogica sono quattro, e sono stati chiamati leggi di ogni pensare. Essi sono i seguenti:
Un soggetto è uguale alla somma dei suoi predicati, per cui A = A;
Non si può negare e al contempo attribuire un predicato a un soggetto, ovvero A = -A = 0;
Di due predicati contraddittori opposti, uno dev'essere attribuito ad ogni soggetto;
La verità è il rapporto di un giudizio con qualcosa posto al di fuori di esso, che noi indichiamo come ragione sufficiente.
Che questi giudizi siano espressione della condizione di ogni pensare sano e lucido, afferma Schopenhauer, risulta chiaro dal fatto che pensare in contrasto con essi è così poco possibile come il pretendere di muovere le proprie membra in senso contrario rispetto alle relative articolazioni.
Principium rationis sufficientis essendi
Principio di ragione sufficiente dell'essere, costituito dalla parte formale delle rappresentazioni complete ed empiriche già viste nella prima classe, dunque dalle intuizioni date a priori delle forme del senso interno ed esterno, spazio e tempo. Esse sono di per sé, in quanto intuizioni pure, oggetti della facoltà di rappresentazione, ma differiscono dalla prima classe di oggetti empirici appunto per il grado di purezza e dunque per il fatto di non richiedere l'intervento della materia (e delle sue relative modificazioni di stato) affinché risultino intuibili; ovvero: se nella prima classe di rappresentazioni (intuitive, empiriche) le forme di spazio e tempo vengono intuite in quanto "riempite" dalla materia, in questa terza classe la facoltà rappresentativa rinuncia alla sostanza per divenire pura intuizione di rapporti spazio-temporali, che dunque si riduce qui a manifestazione di quei rapporti indissolubili che caratterizzano le interazioni fra queste due forme del conoscere. Più nel dettaglio, il principio di ragione dell'essere viene sviluppato da Schopenhauer nel modo seguente:
Ragione dell'essere nello spazio: nello spazio, dalla posizione di ogni parte di esso, diciamo di un dato corpo rispetto ad un altro, è assolutamente determinata la sua posizione anche rispetto ad ogni altro corpo possibile, sicché quest'ultima posizione sta alla prima nello stesso rapporto di una conseguenza con la sua ragione. Poiché ogni corpo (o linea o punto) è, quanto alla sua posizione, insieme determinato da tutti gli altri e determinante dei medesimi, è puro arbitrio considerare un qualsiasi corpo solo in quanto determina gli altri e non in quanto ne è determinato. La posizione di ciascuno di essi rispetto a qualunque altro ammette la domanda circa la sua posizione rispetto a un qualsiasi terzo, in forza della quale seconda posizione la prima è necessariamente quella che è;
Ragione dell'essere nel tempo: nel tempo ogni momento è condizionato dal precedente, in quanto esso ha una sola dimensione e dunque non può esservi una molteplicità di relazioni. Ogni momento è condizionato dal precedente, solo attraverso quello si può giungere al seguente; solo in quanto questo è stato, un altro adesso è. Su questa connessione delle parti del tempo si fonda ogni calcolo: ogni numero presuppone quelli precedenti come ragioni del suo essere, da cui discende ad esempio che al numero dieci posso giungere soltanto attraverso tutti i precedenti. Allo stesso modo la geometria è fondata sulla connessione della posizione delle parti dello spazio: essa sarebbe dunque, propriamente, la conoscenza intuitiva di tale connessione.
Principium rationis sufficientis agendi
Questa quarta classe di oggetti della facoltà di rappresentazione è particolarmente cara al sistema schopenhaueriano, in quanto ad esser preso qui in considerazione è un oggetto soltanto, immediatissimo, oggetto per il soggetto interno che, come tale, si prefigura come soggetto del volere. Schopenhauer parte da questa considerazione: ogni conoscenza presuppone imprescindibilmente un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto; la cosa si ripete anche passando nell'ambito dell'autocoscienza, sicché anche qui abbiamo un conoscente e un conosciuto: quest'ultimo è adesso solo ed esclusivamente Volontà. Discende da ciò che il soggetto conoscente conosca qui se stesso soltanto come soggetto volente, mai come soggetto di conoscenza, in base al principio che l'Io portatore di rappresentazioni, soggetto del conoscere, essendo condizione delle stesse rappresentazioni, non può divenire esso stesso rappresentazione e dunque oggetto. Tale principio è del resto già enunciato nei testi sacri dell'induismo, le Upanishad, con queste parole:
«Non lo si può vedere: vede tutto; e non lo si può udire: ode tutto; non lo si può conoscere: conosce tutto; e non lo si può comprendere: comprende tutto. Oltre a questo che vede, e ode, e conosce, e comprende, non v'è altro ente».
Il
soggetto del conoscere non può dunque mai essere conosciuto, mai può esso
divenire rappresentazione. Poiché tuttavia noi disponiamo non solo di una
conoscenza esterna (grazie all'intuizione sensibile), ma anche di
un'autoconoscenza interna, e però anche qui si dà come necessaria la copresenza
di conoscente e conosciuto, ad essere conosciuto è adesso il soggetto volente,
«Quando l'intelletto presenta un semplice oggetto dell'intuizione alla Volontà, questa comunica subito se tale oggetto le è gradito o sgradito; la stessa cosa accade dopo che l'intelletto ha penosamente almanaccato e soppesato numerosissimi dati per ricavare infine da essi, mediante difficili combinazioni, il risultato che più di ogni altro sembra adeguarsi agli interessi della Volontà; quest'ultima, che nel frattempo si è tranquillamente riposata, ora che il risultato è stato ottenuto, fa la sua comparsa come il sultano nel diwan, per comunicare, ancora una volta, soltanto il suo monotono giudizio di gradimento o non gradimento[...]».
Tutto
questo
Il Mondo come Volontà e Rappresentazione
E' la sua opera principale, pubblicata nel 1818. Il punto di partenza è fornito dalla kantiana distinzione tra Fenomeno - la realtà come ci appare: applicando le nostre forme di conoscenza (sensibilità, intelletto, ragione), possiamo organizzare e classificare, a livello mentale, le immagini che ci circondano; e Noumeno - la "Cosa in sé", la vera essenza delle cose che vediamo. Non appartiene al soggetto, ma è indipendente dall'uomo: una sorta di Iperuranio, dove le "Idee" degli oggetti vivono eterne e distanti. Schopenhauer modifica leggermente questo concetto, definendo fenomeno l'illusione, la parvenza, separata attraverso il "velo di Maya" dal Noumeno, la vera realtà che si nasconde e che il filosofo deve scoprire (bisogna ricordare che Kant considerava i fenomeni più o meno veritieri visto che erano legati ad una realtà, anche se inconoscibile). Ancora differentemente da Kant, Schopenhauer parla di fenomeno come rappresentazione che esiste solo dentro la coscienza, e non ne è scissa. All'interno della rappresentazione esistono due elementi inseparabili: il soggetto rappresentante e l'oggetto rappresentato. Essi sono dipendenti l'un dall'altro, e l'uno è causa e conseguenza dell'altro. Sono perciò errati sia il Materialismo (che nega il soggetto, riducendolo all'oggetto), sia l'Idealismo (che nega l'oggetto, riducendolo al soggetto). La rappresentazione, inoltre, si basa su tre forme a priori:
Spazio;
Tempo;
Causalità (le altre 11 categorie individuate da Kant sono, per Schopenhauer, riconducibili ad essa).
Queste
forme a priori sono come le sfaccettature di un vetro, attraverso cui la
visione delle cose sin deforma, ma non le cose stesse. Ne risulta che "la vita
è sogno", una sorta di incantesimo, e per avvalorare la sua teoria,
Schopenhauer cita i filosofi Veda, Platone, Pindaro, Sofocle, Shakespeare, Calderón de la Barca.
Sulla realtà vera l'uomo, in quanto animale metafisico - e che pertanto si stupisce della
propria esistenza - tende a interrogarsi, in diretta proporzione alla sua
intelligenza. Schopenhauer afferma che stracciare il velo di Maya, passare da
Fenomeno a Noumeno, sia possibile: l'uomo stesso non è solo rappresentazione,
ma è anche Cosa in sé (il corpo), cioè non solo ci vediamo dall'esterno, ma
viviamo dall'interno. La via per conoscerci come Cosa in sé è lasciarsi vivere:
lasciarsi andare e, intuitivamente, sentire in sé la vita. La ragione serve
solo per il fenomeno: per passare al Noumeno occorre abbandonarlo e lasciarsi
guidare dall'intuizione. Questa esperienza rende possibile la conoscenza
dell'essenza profonda del nostro Io, che è Volontà di vivere (Wille zum
leben). Questa volontà è l'impulso alla sopravvivenza, quella spinta
irresistibile che ci fa esistere: noi siamo, dunque, vita e Volontà di vivere,
e il nostro corpo la manifestazione esteriore dei nostri desideri interiori:
l'apparato digerente, ad esempio, è la manifestazione fenomenica della volontà
di nutrirsi. Il mondo è, dunque, volontà e rappresentazione.
inconscia, infatti è più un impulso, energia piuttosto che volontà cosciente;
unica, perché stando al di fuori dello spazio e del tempo si sottrae al principium individuationis;
eterna, cioè senza principio nè fine perché al di là del tempo;
incausata, perché oltre la categoria di causa;
senza scopo oltre se stessa.
Essa inoltre appartiene a tutti gli esseri viventi, ma solo l'uomo può averne consapevolezza. Dio è stato creato dagli uomini per "mascherare" la crudele verità sul mondo: la vita non ha senso, non esiste un fine, né un destino; tutti gli esseri viventi, siano essi vegetali o animali, non vivono con altro scopo che vivere e proseguire la specie. Tutto il mondo è investito dalla sofferenza: volere significa essere mancanti di qualcosa, perciò essere in uno stato di tensione. Quando un desiderio viene appagato sopraggiunge la noia, e il ciclo ricomincia, perché per ogni brama sedata ne scaturiscono altre; il piacere inoltre, non è che temporanea e fugace cessazione di dolore, dunque funzionale e dipendente da esso. Non può verificarsi il caso contrario perché un individuo può sperimentare una serie di dolori senza essere preceduti da piaceri, invece ogni piacere nasce alla fine di un particolare dolore. La vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. La legge che regola il mondo è quella del più forte: la lotta per la sopravvivenza spinge a crudeltà ed egoismi: il male, infatti, non appartiene al mondo, ma è il Principio che lo porta avanti. In questa prospettiva, ogni potere, ogni prerogativa è sottratta all'uomo: il libero arbitrio, l'esistenza (e la sopravvivenza post-mortem) dell'anima, l'amore.
La concezione dell'amore
L'amore rappresenta nella filosofia schopenhaueriana lo stimolo più forte dell'esistenza: dietro a Cupido si cela il Genio della specie, che desidera la perpetuazione della vita: l'amore è un potente mezzo usato dalla Natura ai fini dell'accoppiamento. L'incanto e il lato romantico sono maschere costruite dall'uomo per celare questa dura e triste verità: il desiderio sessuale è il motore dell'innamoramento, nient'altro.
Il rifiuto degli ottimismi
Ogni forma di ottimismo è in questa ottica falsa e illusoria:
Cosmico (Hegel): vedere nel mondo la perfezione di una sistema, l'organizzazione provvidenziale di un qualsivoglia Dio, Spirito, Sostanza o Ragione, è un'illusione consolatoria; le religioni sono "metafisiche per il popolo", o, come disse Marx, "l'oppio dei popoli".
Sociale (Rousseau): l'uomo non è buono per natura, e non sono state le leggi imposte dalla società a corromperlo; homo homini lupus, l'unica regola universale è questa, i rapporti umani sono sempre conflittuali perché mossi dal desiderio di sopraffazione reciproca. Riprendendo Hobbes, Schopenhauer afferma che se gli uomini vivono insieme in società è solo per convenienza.
Storico : la storia ci insegna solo che l'uomo è sempre uguale, non che egli muterà; la vita è segnata dal ciclo nascita-sofferenza-morte, non esiste alcun destino, né alcuna missione.
Le vie di liberazione dal dolore
Inizialmente,
Schopenhauer prende in esame il suicidio. In posizione
anti-stoica, il filosofo condanna questa pratica, perché non nega, ma afferma la
volontà, negando piuttosto la vita. Inoltre, attraverso il suicidio viene soppressa unicamente la
manifestazione fenomenica della Volontà di vivere, mentre
Mortificazione di sé (non cercare il piacere);
Castità (non perpetuare il dolore);
Inedia (lasciarsi morire di fame).
Questa è
al vera soluzione: l'estenuazione dell'organismo, che apre al Nirvana, un abbandono totale della ragione,
un'esperienza del Nulla. Per negare
Schopenhauer nasce a Danzica da buona famiglia, il padre è un ricco commerciante e la madre appassionata di letteratura. Laureatosi a Jena in filosofia, decide di insegnare a Berlino per contrastare la fortuna del suo grande antagonista, Hegel, a cui dedicherà appassionate polemiche. Constatato il fallimento del suo progetto berlinese (nessuno frequentava le sue lezioni), Schopenhauer si trasferisce a Francoforte, dover rimarrà per tutta la vita. Il successo lungamente inseguito arriva tardi, nel 1851, quando pubblicherà Paregra e Paralipomena, una raccolta di aforismi. Muore a Francoforte nel 1860.
Opere principali:La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente (sua tesi di laurea) (1813); Sulla vista e sui colori (1816); Il mondo come volontà e rappresentazione (1818); Sulla volontà della natura (1836); Paregra e Paralipomena (1851).
1. Il mondo come volontà e rappresentazione
Schopenhauer
parte dalla filosofia di Kant quando divide il mondo in due parti: da una parte
il mondo fenomenico, ciò che apprendiamo e ci appare dall'esperienza diretta
delle cose, e dall'altra la cosa in sé, che per Schopenhauer coincide con la volontà. Questa non è semplicemente un impulso, una caratteristica parziale del
carattere umano, bensì una vera e propria entità a sé, con una sua propria
valenza ontologica: la volontà è l'ente che da sempre sostiene il mondo e che
sempre lo sosterrà.
L'uomo viene a conoscenza della volontà attraverso la percezione immediata
della sua esistenza: l'uomo percepisce la volontà senza alcuno sforzo, la sente
in sé, ognuno di noi sente questo impulso nel proprio essere, ovvero l'impulso
della volontà di vivere e di continuare a farlo. La volontà è presente in tutti
gli esseri viventi, siano essi animali o piante, ma solo l'uomo è capace di rendersene
conto, perché munito di una ragione capace di intuire la volontà, ovvero la
cosa in sé. La volontà è un impulso irrazionale e caotico, "cieco e
irresistibile impeto". Curiosamente la volontà genera il mondo
fenomenico, il quale è notoriamente ordinato e razionale. Tutto si trova quindi
sospeso sopra il magma irrazionale della volontà, soprattutto questa
rappresentazione del mondo che percepiamo, specialmente nelle sue leggi fisiche
e materiali, come un meccanismo razionale, ordinato, determinato. Il paradosso
è questo: il mondo degli uomini, ordinato nelle sue leggi, è in realtà il
prodotto di un'entità, di un'energia irrazionale ed assoluta, che non ha alcun
scopo, diversamente a quanto credono gli uomini, che in tutto vedono e vogliono
vedere un fine (come invece sosteneva Schelling). La realtà, dal canto suo,
esiste, ma è come velata, nascosta dietro un velo di interpretazioni illusorie
(concetto già della filosofia indiana dei Veda). La vera realtà è quella della volontà, il mondo fenomenico, nella sua
empiricità, è una rappresentazione prodotta dalla volontà.
Tali rappresentazioni illusorie sono ciò che percepiamo immediatamente con i
sensi nella vita di tutti i giorni: la natura, le persone, i rapporti con gli
altri uomini, la struttura sociale, religiosa ed economica. E' innegabile che
siano reali, ma sono fenomeni comunque percepiti dalla mente degli uomini e
quindi soggetti alla soggettività delle percezioni.
"... tutto ciò che esiste per la conoscenza, cioè questo mondo intero,
è solamente oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce, in una
parola: una rappresentazione."
L'uomo, come scrive Schopenhauer, "non conosce né il Sole né la terra,
ma solo un occhio che vede un Sole, una mano, che sente una terra..."
Come verrà approfondito più avanti, l'unico oggetto che è veramente conosciuto
dall'uomo nella sua totalità e nella sua immediatezza e il proprio corpo. Dunque la realtà è passata al setaccio dei
sensi; la percezione del corpo, che ha qualità percettive sue proprie, costruisce
la rappresentazione del mondo. Il mondo percepito non è quindi il vero
oggetto nella totalità delle sue qualità (la cosa in sé), ma solo
un'interpretazione (la rappresentazione) che ne dà il corpo.
Infine, per chiarire, la volontà di Schopenhauer è un istinto innato e universale alla sopravvivenza, desiderio di vita ad oltranza, anche di fronte alla presa di coscienza del destino mortale. Essa tiene in vita l'uomo e tutti gli esseri viventi indipendentemente dalle loro singole volontà; come scrive Schopenhauer "miliardi di esseri, vegetali, animali, umani, non vivono che per vivere e per continuare a vivere"... Dunque la volontà (assoluta e comune a tutti gli esseri viventi) è indipendente dalle singole volontà, per gli uomini non esiste libertà di arbitrio, essi credono di perseguire proprie finalità e prendere decisioni in piena autonomia, in realtà chi decide per loro è la volontà con il suo cieco impulso alla vita e alla sopravvivenza, all'istinto di conservazione e di perpetuazione della specie (non esiste quindi amore, solo sessualità, una sessualità vista con vergogna, perché attraverso l'atto sessuale si crea un altro essere soggetto alla volontà, e quindi alla sofferenza eterna).
1b. La volontà si manifesta solo in me o in tutti gli esseri viventi?
Quale metodo applica Schopehauer per giustificare la sua tesi della rappresentazione? Se il mondo è la "mia" rappresentazione, allora tutto è solipsismo? Ovvero, tutto il mondo scaturisce solo da me e dalla mia volontà? In realtà Schopenhauer sostiene che la volontà si manifesta in tutti gli esseri viventi. Ma come può dimostrarlo? Quella di Schopehauer è un'ipotesi, una proposta. "Tuttavia è un'ipotesi che è confermata, secondo Schopenhauer, da una miriade di indizi" (E. Severino, La filosofia contemporanea). Il metodo di Schopenhauer non è deduttivo, ovvero non si avvale di una premessa e di una serie di affermazioni logiche conseguenti, ma è un metodo induttivo, ovvero parte dall'osservazione empirica di tutta una serie di fenomeni che servono da argomento alla formulazione della sua tesi. Schopenhauer era un sostenitore della semplificazione dei concetti e delle formulazioni, per questo tutta la sua filosofia parte dalla semplice osservazione empirica del mondo (che descrive fenomeno) e delle pulsioni interiori che si manifestano in tutti gli esseri viventi (e nella volontà Schopenhauer vedrà l'unica realtà effettiva).
2. Il corpo oggettivazione della volontà, l'origine del dolore esistenziale
Dunque
il mondo per Schopenhauer è una rappresentazione della mente filtrata dalle
qualità dei sensi. L'unico oggetto conosciuto nella sua realtà effettiva è il
corpo di ciascun uomo, perché vissuto immediatamente "sulla propria
pelle". E' nel profondo della mente, la quale è parte di questo corpo
percepito nella sua totalità, che l'uomo sente e viene a contatto con la
volontà. Ogni corpo percepisce e si identifica con la volontà di vivere, che è
quell'impulso irrazionale ed emotivo che si trova in tutti gli uomini, per
questo il corpo è lo strumento usato dalla volontà per oggettivarsi. Corpo e volontà vengono quindi a coincidere,
in quanto dove vi è un corpo vi è sempre una volontà ("la
volontà è la conoscenza a priori del corpo, il corpo conoscenza a priori della
volontà"). E' da questo rapporto
inscindibile che, secondo Schopenhauer, nasce il dolore esistenziale. La
volontà infatti ha come caratteristica necessaria l'infinità e l'assolutezza,
mentre il corpo, essendo soggetto alle leggi del mondo, non può che essere
limitato e mortale.
La volontà desidera continuamente e incessantemente: il corpo non potrà mai
soddisfare tale necessità, in quanto mortale e soggetto a deperimento. Il dolore nasce dalla presa di coscienza di
questo conflitto: l'uomo si rende conto di non poter fare a meno di desiderare,
senza un particolare scopo che non sia il desiderio in sé. "Ma
domandategli [all'uomo] perchè voglia o in generale perchè voglia
esistere; non saprà rispondere, anzi troverà assurda anche la sua stessa
domanda. E con ciò viene a confessare di non essere altro che una volontà..."
In
sostanza la volontà guida l'uomo, l'uomo è alla mercè dei suoi desideri.
I fini perseguiti da ogni essere vivente, le sue aspirazioni, non sono il
prodotto delle singole volontà degli esseri stessi ma sono il prodotto della
volontà assoluta, un'entità a sé, un gran magma caotico e in continua
ebollizione che trova sfogo attraverso i singori esseri viventi proprio come le
diverse bocche di un vulcano attingono alla medesima caldera. L'essenza della
vita è dunque la sofferenza, nonostante ciò Schopenhauer trova altre due
condizioni esistenziali derivanti dalla prima: il piacere e la noia.
Il dolore: è la condizione
basilare dell'uomo, il quale, essendo soggetto alla volontà, non può fare a
meno di desiderare e quindi essere insoddisfatto, è in questa insoddisfazione
che si scopre la causa del nostro dolore; Il piacere: il piacere è la condizione umana più fuggevole e breve
della nostra esistenza, essa esiste solo in quanto appagamento immediato della
volontà; La noia: è ciò che
segue al piacere, cioè la mancanza di una volontà impellente, è privazione di
dolore. "Dei sette giorni della settimana, sei sono di dolore e di
bisogno e il settimo è di noia." La vita è quindi vuota pantomima, un
eterno ripetersi di pulsioni che non possiamo controllare, un eterno aspirare a
finalità illusorie e in continuo mutamento, finalità che non sono nostre e alle
quali soggiaciamo perché impossibilitati a sfuggirne.
3. La nolontà e gli altri modi di rimediare ai danni della volontà
...
Ma siamo davvero impossibilitati a sfuggirne? Schopenhauer si domanda se esista
un modo per sfuggire alla schiavitù della volontà e liberarsi così del suo
peso, se infatti l'uomo si liberasse della volontà terrebbe a distanza, se non
annullerebbe del tutto, anche il dolore.
Esistono diversi modi per anullare o lenire l'effetto della volontà: L'arte. Con il mezzo artistico è
possibile un catarsi dell'essenza umana dalla tirannia della volontà, questo è
possibile tramite la contemplazione della bellezza celata nell'arte;
Schopenhauer individua nella tragedia e nella musica (soprattutto in questa
perché più immediata) le due forme artistiche per eccellenza. Il potere
dell'arte è solo di conforto e quindi momentaneo. Tutti possono essere geni
(cioè avere il genio di creare opere d'arte) e questo genio non si manifesta
mai costantemente; La morale.
Con la morale è possibile esercitare l'amore per l'altro (che per Schopenhauer
è compassione). L'amore per l'altro è comprensione che la realtà
dell'altro è la mia, in quanto la rappresentazione è cosa soggettiva io
percepisco una rappresentazione dell'altro che non è esattamente l'esistenza
stessa dell'altro ma è la mia rappresentazione della sua esistenza, in
questo modo è possibile vincere l'egoismo volontario. Il suicidio. L'annullamento della volontà di vivere può essere
raggiunta anche con il suicidio, ma Schopenhauer deplora il suicidio per due
motivi: il primo motivo è che il suicidio, non è dettato da un annullamento
della volontà bensì dall'insoddisfazione dell'individuo di una situazione particolare
che sta vivendo; il secondo motivo è che l'annullamento di una singola volontà
non intacca minimamente la volontà in sé, infatti la volontà continuerebbe a
vivere, perchè assoluta e infinita. Tuttavia la via che per eccellenza porta
all'annullamento della volontà è l'ascesi:
Per Schopenhauer annullare la volontà
significa entrare in uno stato di distacco ascetico che permette l'annullamento
del desiderio di gioia e di vita. Annullando la volontà si entra in uno
stato di quiete in cui ogni possibilità è indifferente, ogni sofferenza viene
privata della sua base; spenta ogni volontà si spegne ogni dolore. Questo stato di quiete viene definita da
Schopenhauer nolontà (o noluntas, contrapposta
alla voluntas), ovvero l'esperienza del nulla come fondamento ultimo del
tutto, accettato con assoluta serenità e indifferenza. Il rifiuto della volontà
è l'unico atto liberamente concesso all'uomo costretto nella sua sofferenza. Quest'ultimo
è un concetto che deve molto alla filosofia orientale e al buddhismo: l'annullamento
della volonta è il Nirvana, il "non bruciar più" nel
fuoco della volontà, il distacco dal ciclo della vita (
4. I quattro tipi di ragione sufficiente
Il
principio di ragione sufficiente è un problema storico della filosofia moderna,
e proviene, come spesso accade per le cose della logica, da Aristotele.
Aristotele aveva posto il problema della causa ontologica delle cose: trovando
la causa per la quale una cosa "è cio che è" e non altrimenti, anche
la sostanza della cosa sarebbe stata chiarita (La causa per Aristotele è da
intendersi come ragion d'essere, quella caratteristica che rende una
cosa certa e determinata e la priva di qualsiasi altro carattere accidentale). Successivamente,
Leibniz distinse due tipi di ragion d'essere:
la ragion d'essere di
Aristotele, che spiega la causa (la ragion d'essere) delle cose nella loro
necessità, ovvero il perchè una cosa è quella determinata cosa e non altrimenti
(ad es., la ragion d'essere di un monitor è la sua qualità di mostrare
visivamente il sistema operativo, quella del processore è di effettuare i
calcoli per il funzionamento dei programmi... queste sono tutte ragion d'essere
strettamente necessarie, se il monitor e il processore non avessero le qualità
che ho descritte non sarebbero più né monitor né processore, ma qualcosa
d'altro).
la ragion sufficiente, che
spiega la possibilità della cosa, ovvero spiega perchè una cosa può
essere o comportarsi in un certo modo (ad es. la ragion sufficiente
di un lettore CD è quella di riprodurre suoni digitali, è una possibilità che
non contrasta con altre qualità per le quali il lettore è stato creato, come
riprodurre anche filmanti). In
sostanza il concetto prende in considerazione la "ragione
sufficiente" di una cosa, ovvero "ciò
che basta" per definirne la sostanza anche se non ne costituisce la
ragione ultima e assoluta. Il primo tipo di ragione descrive un rapporto
necessario, il suo contrario implica sempre una contraddizione, il secondo tipo
di ragione descrive invece un rapporto potenziale, prendendo come causa
dell'essere una qualità che non è la principale ma comunque bastevole ad
indicare la cosa: in questo caso il contrario non implica una contraddizione. [contrario (riferito alla ragion
d'essere)=opposto univocamente, incompatibile; contradditorio (riferito alla ragion sufficiente)=opposto ma non
incompatibile, tutto ciò che è opposto ma non per questo ne costituisce
il suo contrario assoluto] Per Schopenhauer la ragione necessaria risiede
semplicemente nel fatto che una cosa esiste empiricamente, il fatto che una cosa esista, dunque, è già
bastevole come ragion d'essere (anche dal punto di vista aristotelico).
Schopenhauer distingue quattro tipi di ragion sufficiente:
. Ratio conoscendi: la
necessità logica, secondo le leggi strettamente necessarie della logica; . Ratio fiendi: la necessità fisica,
secondo le leggi strettamente causali della natura;
. Ratio essendi: la necessità matematica, secondo le leggi inconfutabili della matematica, del calcolo e della geometria; 4. Ratio agendi: la necessità morale, i motivi per i quali ciascun essere vivente, animale e non, agisce in un certo modo seguendo i dettami della propria natura. Questa legge è la meno necessaria delle quattro, essendo la più difficile da prevedere, in quanto comporta un attenta e approfondita conoscenza del carattere di ciascun individio, con tutte le sue variabili.
Se la vita è abbandono ad una cieca e schiavizzante volontà di vivere ecco che per Schopenhauer la filosofia hegeliana non racchiude in sé alcuna verità. Gli organismi sociali e politici, le istituzioni che sovrastano l'individuo, il divenire storico, non sono l'aspetto preminente della realtà: in sostanza l'uomo nella storia e nelle istituzioni, nelle sue battaglie per la libertà, non cambia nulla di ciò che è realmente il suo destino, ovvero la vita ad oltranza fino alla morte. L'uomo nasce in contrasto con gli altri uomini, guidati dalla volontà infinita, tutti gli uomini desiderano le stesse cose e per le stesse cose vengono frustrati. Le istituzioni nascono come necessità ordinatrice di tali istinti contrastanti e distruttivi. Non esiste alcuno spirito divino immanente che si manifesta nella storia dei popoli e delle civiltà, esiste solo la volontà e la sua legge, la realtà umana non è in sé di grande importanza, è solamente una rappresentazione, una proiezione della volontà. Schopenhauer inoltre non ammette una conoscenza totale proprio per il modo nel quale è strutturato il suo metodo di indagine: se la vita è rappresentazione soggettiva della realtà e l'unica entità che possiamo percepire nella sua totalità è la volontà (la quale lungi dall'essere razionale e totalmente irrazionale), allora la conoscenza assoluta e razionale della quale Hegel si fa portatore non ha alcuna validità. Infine Schopenhauer polemizza sul modo oscuro di scrivere di Hegel, promuovendo la chiarezza e l'espliticità dei concetti.
Se tutto è volontà, Dio non esiste, anzi, non è nemmeno concepibile. Dio non è che una rappresentazione del bene assoluto, un desiderio umano di affermare un principio ordinatore superiore. La volontà è ben lontana da rappresentare il concetto divino: dove Dio (il Dio cristiano) è ordine, volontà di benevolenza, desiderio di consolazione e finalità, la volontà è assenza di ogni fine, di ogni desiderio di ordine e di bene, essa è solamente un caos vitale che vuole e difende la vita ciecamente e senza alcun progetto, un istinto senza scopo.
SCHOPENHAUER
Arthur Schopenhauer nasce a Danzica nel 1788 da un ricco commerciante e da una scrittrice di romanzi. Quando Danzica cessa di essere "città libera" e viene inglobata nella Prussia, suo padre, fervente repubblicano, trasferisce la famiglia ad Amburgo, altra città libera dell' Hansa. La giovinezza di Arthur è costellata di viaggi, nei quali il padre vede uno strumento di istruzione e di preparazione professionale del commercio: egli soggiorna per due anni a Le Havre, in Francia (1797-99), visita Praga (1800), compie con i genitori un lungo viaggio attraverso l' Olanda, Inghilterra, Francia, Svizzera, Austria, Prussia. Dopo la morte del padre, suicida nel 1805, gli succede per breve tempo nell' attività commerciale, ma poi decide di dedicarsi agli studi. La madre, intanto, trasferitasi a Weimar, apre un salotto letterario,frequentato anche da Goethe, con cui il giovane Arthur avrà qualche incontro. Pur vivendo per qualche tempo anch' egli a Weimar, abita in una casa diversa da quella della madre, di cui non approva la condotta emancipata. Al compimento del ventunesimo anno riceve parte dell' eredità paterna, che gli consente di vivere di rendita. Frequenta l' università di Gottinga, dove Jacobi lo introduce alla lettura di Platone e di Kant, che costituiscono le due fonti filosofiche più influenti sulla sua formazione, almeno per quanto riguarda il pensiero occidentale. Rilevantissima fu, infatti, l' influenza esercitata su Schopenhauer dalla lettura delle Upanishad, i testi sacri della sapienza indiana, incentrati soprattutto sulla dottrina dell' Uno-tutto, cioè sull' unità sostanziale che soggiace alla molteplicità dei fenomeni. A Berlino segue anche le lezioni di Schleiermaker e di Fichte, che trova insopportabile. Durante un nuovo soggiorno a Weimar, scrive la quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813), che egli considererà sempre come un lavoro fondamentale, indispensabile per la comprensione delle opere successive. Separatosi definitivamente dalla madre, dal 1814 al 1818 vive a Dresda. Qui scrive dapprima un' opera su La vista e i colori (1816), in cui si risente l' influenza di Goethe e poi, nel 1818, il mondo come volontà e rappresentazione, pubblicato l' anno successivo. Visita l' Italia nel 1819 (Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli) e nel 1822 (Milano, Firenze, Trento). Frattanto, ottenuta la libera docenza, si trasferisce a Berlino, dove tiene lezioni all'università nelle stesse ore di quelle di Hegel, per fargli concorrenza: il risultato é che si trova senza allievi. Nel frattempo arrivano le prime, poco favorevoli, recensioni del Mondo , mentre le copie dell'opera, rimaste invendute, vanno al macero. Schopenhauer decide di porvi rimedio non riscrivendo il libro, ma lavorando ad una serie di aggiunte, che saranno raccolte con il titolo di Supplementi e pubblicate come secondo volume nella seconda edizione del Mondo (1844). Nel 1831 Schopenhauer si trasferisce a Francoforte per sfuggire all'epidemia di colera che travaglia Berlino (e che costerà la vita ad Hegel). Un decennio dopo la morte di Hegel, quando l'hegelismo accusa i primi scossoni, Schopenhauer comincia a ottenere qualche consenso e a guadagnare qualche discepolo. Ma la grande fama gli arriverà soltanto nel 1851 con i Parerga e paralipomena, in due volumi, che raccolgono vari saggi, tra cui i famosi Aforismi sulla saggezza della vita e La filosofia delle università, aspra requisitoria contro gli ambienti filosofici accademici della Germania. Ora Schopenhauer riesce a vendere bene anche il Mondo e ne ottiene una terza edizione (1859). Nel 1860 Schopenhauer muore di polmonite.
A fondamento della dottrina schopenhaueriana
della conoscenza vi è la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé. Alla
prospettiva di Kant Schopenhauer apporta però sostanziali correzioni e,
soprattutto, ne intende in maniera originale il significato generale. Per Kant
il fenomeno, cioè il mondo della natura, rappresenta l' unico oggetto della
conoscenza umana, condizionata dalle forme a priori della sensibilità e dell'
intelletto: pertanto esso coincide con la realtà stessa dal momento che
soltanto nel mondo fenomenico l' uomo può organizzare la propria esistenza. Il
fenomeno è sinonimo di "apparenza", poiché la cosa in sé, che è al di
là del mondo fenomenico, sfugge alla conoscenza umana; ma in esso non è
"parvenza", cioè realtà ingannevole al di sotto della quale si nasconde
la realtà vera. Lo stesso noumenco (la cosa in sé) che nella prima edizione
della Critica della ragion pura appare ancora come un indefinibile X
soggiacente al fenomeno, nella seconda edizione viene risolto in un
"concetto limite", indispensabile per la definizione teorica della
nozione stessa di fenomeno, ma privo di ogni realtà sostanziale. Per
Schopenhauer, invece il fenomeno - anche per lui risultato delle forme a priori
della conoscenza umana - è soltanto una parvenza che, simile al "velo di
Maya" di cui parla la filosofia indiana, copre la realtà vera, che è
quella cosa in sé. Riprendendo una tradizione filosofico-letteraria che va da
Pindaro a Shakespeare e Calderon de
Il mondo della rappresentazione per Schopenhauer è un velo illusorio che occulta la vera realtà, la cosa in sè che sta a monte del mondo fenomenico. Ma come si può attingere questa realtà autentica? Di sicuro non attraverso la conoscenza intellettiva e razionale, dal momento che essa, fondata sulle forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità, non può uscire dalla sfera della rappresentazione, e quindi del fenomeno. Se l'uomo fosse una pura testa alata d'angelo , ovvero se non fosse altro che soggetto sottostante alle forme a priori del conoscere, non sarebbe mai possibile pervenire al noumeno. Ma così non é. Oltre ad essere un soggetto conoscente, l'uomo è anche soggetto corporeo. Ora, il corpo ha una duplice valenza: da un lato, esso è soltanto un oggetto tra gli oggetti, sebbene più immediato degli altri: in questo senso esso non sfugge alle leggi della rappresentazione e ricade pienamente nel mondo fenomenico. D'altra parte, però, il corpo è anche la sede in cui si manifesta una forza assolutamente irriducibile alla rappresentazione, una forza primigenia che non è un oggetto tra gli oggetti e che sfugge ad ogni determinazione causale da parte delle altre cose: sotto questo aspetto il corpo è espressione di volontà . Tramite l'esperienza corporea l'uomo può così giungere alla cosa in sé, al fondamento noumenico che sta alla base di ogni manifestazione fenomenica della realtà, precedentemente e indipendentemente da ogni rappresentazione secondo le forme a priori della conoscenza. La cosa in sé, che Kant aveva dichiarato inconoscibile e che gli idealisti avevano eliminato come contradditoria, è dunque volontà . I caratteri fondamentali di questa volontà noumenica sono l'unità e l'irrazionalità. La volontà è una, dato che, non essendo determinata dalle forme a priori della conoscenza, sfugge alle condizioni dello spazio e del tempo e, quindi, al principio di individuazione: solo il fenomeno si rifrange in una pluralità di individui, mentre la cosa in sé è unica. Se un solo uomo riuscisse per assurdo ad annientare completamente la volontà che è in lui, verrebbe soppressa la volontà in generale, e il mondo intero sparirebbe. Per le stesse ragioni la volontà è irrazionale: infatti la ragione esiste solamente nel mondo della rappresentazione, del quale è l'espressione più elevata, essendo la facoltà dei concetti, cioè delle rappresentazioni più complesse, sintesi delle rappresentazioni immediate della sensibilità o dell'intelletto. La volontà è quindi un'aspirazione senza fine e senza scopo, un tendere che non conduce a nessun ordine e a nessuna acquisizione definitiva. Essa è una forza cieca e inconscia, puro istinto, pura volontà di vivere . Se da una parte il mondo è la rappresentazione che scaturisce dal rapporto tra soggetto e oggetto, dall'altra esso è l' oggettivazione della volontà . La volontà infinita che costituisce la cosa in sé, infatti, si oggettiva (ovvero si realizza) in una serie progressiva di gradi. Al livello più basso vi sono le forze stesse della natura: la gravità, l'impenetrabilità, la solidità, la fluidità, l'elettricità, il magnetismo, le proprietà chimiche e tutte le altre proprietà delle cose. Queste forze non possono però essere considerate come entità fisiche connesse da rapporti causali, come fa generalmente la scienza: al contrario, esse sono forze metafisiche che agiscono in completa indipendenza da quella legge della causalità che vale solo nel mondo dei fenomeni. Nei successivi gradi della vita animale e vegetale, la volontà si oggettiva nelle diverse specie, con tutte le caratteristiche e tutte le forme di impulso vitale che sono ad esse proprie. L'ultimo grado di oggettivazione è costituito dall'uomo, in cui la volontà si realizza nei singoli individui umani, forniti ciascuno di uno specifico volere che, sul piano fenomenico, si esprime come volontà razionale. Le oggettivazioni della volontà che precedono l'ultimo grado (il mondo fenomenico in cui la volontà si frantuma nella pluralità degli individui) si sottraggono ai rapporti di spazio, tempo e causalità, e quindi anche al principio di individuazione. Esse sono perciò paragonabili alle idee di Platone in quanto al pari di esse costituiscono le entità universali in cui si sostanzia la vera realtà, rispetto alla quale il mondo fenomenico non è che una pallida immagine e una illusoria moltiplicazione: per Schopenhauer però le idee non sono ancora la realtà vera, cioè la cosa in sé, ma soltanto il termine intermedio tra quest'ultima (che è la volontà infinita) e la parvenza del mondo fenomenico. La dottrina platonica delle idee e quella kantiana della distinzione tra fenomeno e cose in sé convergono quindi, a parere di Schopenhauer, verso un'unica verità fondamentale: il mondo che noi conosciamo tramite l'esperienza sensibile e la conoscenza intellettuale-razionale è pura illusione e ci rimanda necessariamente a qualche cosa che sta al di là di esso.
IL PESSIMISMO
La concezione della cosa in sé come volontà porta Schopenhauer ad un radicale pessimismo. Dal momento che la volontà è irrazionale, ciò che noi consideriamo nel mondo ordine e armonia è soltanto illusione. L'ordine della società civile e politica non è che il fragile rivestimento di un'accozzaglia di pulsioni ed egoismi, che non tardano a manifestarsi con effetti prorompenti appena venga meno la forza coercitiva che li trattiene. La storia, ben lontana dall'essere quella progressiva esplicazione del razionale che appariva ad Hegel, è una sequela di irrazionalità e di follie. La stessa ragione, in cui il pensiero illuministico aveva ravvisato lo strumento della trasformazione del mondo, spesso non è che il mezzo per giustificare, dando loro un'apparenza logica, i ciechi impulsi e gli sfrenati egoismi degli uomini. Viceversa, una più onesta considerazione della realtà vede a fondamento di essa un'aspirazione senza scopo che porta ad una eterna ed inconsulta tensione, ad un bisogno che non può mai avere posa duratura. La volontà, in quanto è desiderio di qualcosa che deve ancora essere raggiunto, é privazione, e quindi dolore e sofferenza. Ma quando per avventura l'oggetto della volontà venga conseguito, la soddisfazione non è che momentanea e si traduce subito in noia . Infatti, quando sia placato il bisogno, e con esso la volontà che lo sostiene, la vita, che non è altro che volontà, appare come svuotamento di se stessa e priva di senso. Così l'esistenza è una penosa altalena tra due mali, la privazione e la noia. L'esistenza dell'uomo è caratterizzata dall'infelicità e Schopenhauer dice: Se ad un Dio si deve questo mondo, non ci terrei ad essere quel Dio: l'infelicità che vi regna mi strazierebbe il cuore .
NEGAZIONE DELLA VOLONTA'
L'oggettivazione della volontà nel mondo fenomenico è principio di sofferenza e di dolore. La liberazione da questi mali deve quindi necessariamente passare attraverso la negazione del mondo fenomenico, in cui la nostra individualità è legata alla catena dei bisogni e delle soddisfazioni. Bisogna dunque attingere una forma di conoscenza che non obbedisca più al principio di ragion sufficiente, il quale, attraverso le forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità, determina necessariamente la dimensione individuale dell'uomo. Questo scopo è conseguito mediante l' arte che è per Schopenhauer conoscenza delle idee . Nell'esperienza artistica infatti il soggetto riesce a svincolare l'oggetto dalle condizioni spaziali, temporali e causali che lo individualizzano e riesce a contemplarlo come una specie universale, come un'essenza, come l'immediata oggettività della volontà. L'artista appare, così, quale soggetto assoluto di una conoscenza pura, precedente al processo di fenomenizzazione. Anche le idee sono rappresentazioni, ma in esse l'elemento rappresentativo si riduce al fatto primario e universale del necessario rapporto tra soggetto e oggetto. In esse la relazione tra le due componenti della conoscenza non è ancora (o non è più, dal momento che con l'arte si ripercorre al contrario il processo conoscitivo) determinata dalle forme a priori. Nell'arte, tra soggetto e oggetto non vi è dunque alcuna mediazione, ma il secondo occupa interamente la coscienza del primo, oppure, il che è lo stesso, il primo si perde nel secondo. Naturalmente ciò comporta, da parte dell'artista, la capacità di negare anche la sua propria individualità, liberandosi di tutti gli interessi e di tutte le volontà particolari che lo legano alla determinatezza fenomenica: egli deve diventare un puro contemplatore disinteressato. Questa capacità di liberarsi dall'individualità per contemplare l'universale non solo per un attimo, ma per tutto il tempo necessario alla riproduzione dell'esperienza artistica nell'opera d'arte, è ciò che contraddistingue il genio dall'uomo prosaico. L'arte, tuttavia, costituisce solamente il primo gradino del processo di negazione della volontà da parte dell'individuo. Essa è pur sempre qualcosa di temporaneo, in quanto legata al momento della contemplazione dell'idea, sia attraverso l'opera creatrice dell'artista, sia attraverso la fruizione dell'opera d'arte da parte dello spettatore. Una più duratura liberazione dai mali della volontà può derivare dalla morale , la quale rappresenta la naturale continuazione dell'attività artistica. La virtù , infatti, nasce sempre da una forma di conoscenza. Attraverso la virtù, però, la conoscenza va al di là delle manifestazioni fenomeniche della volontà, che costituiscono l'esperienza ordinaria, e attinge la vera natura della volontà stessa, rendendo l'uomo consapevole delle dolorose conseguenze cui essa conduce. La conoscenza cessa così di acconsentire all'impulso vitale fondamentale e di fungere da 'motivo' (inteso come 'ciò che muove') dell'azione umana, ma diventa piuttosto un quietivo della volontà : essa si traduce in un atteggiamento di negazione del volere, in modo da sortire immediatamente anche un effetto sulla vita pratica dell'uomo. Per far questo, bisogna estendere dal piano conoscitivo a quello pratico quella sospensione del 'principio di individuazione' che è già stata realizzata dalla contemplazione artistica. In questo modo, l'uomo non considererà più se stesso come un individuo contrapposto ad altri individui, cioè come espressione di bisogni e interessi che lo portano necessariamente al conflitto con il suo vicino. Al contrario, egli opererà in modo da far convergere in un'unica realtà il proprio io e quello degli altri, eliminando ogni conflittualità tra gli individui. Questo obiettivo viene conseguito dapprima in negativo, limitandosi a non compiere azioni che possano ledere la volontà degli altri: è questo il diritto , che si realizza esteriormente nell'ambito dello Stato. Successivamente il superamento della contrapposizione inter-individuale deve essere conseguito anche mediante un agire in positivo, cioè attraverso un atteggiamento fattivamente caritatevole nei confronti del prossimo: in ciò consiste la compassione , che può nascere solamente nella sfera dell'interiorità dell'uomo. Ma diritto e compassione si limitano a negare la volontà individuale, eliminando il conflitto tra uomo e uomo. Un più alto grado del processo di liberazione dai mali della vita richiede invece una negazione della volontà di vivere in se stessa. A questo scopo è infatti finalizzata l' ascesi , intesa come sistematica mortificazione dei bisogni della vita sensibile (in primis dell'impulso sessuale) in modo da ridurre il più possibile non solo il nostro consapevole consenso alla volontà, ma la stessa oggettivazione della volontà noumenica nel mondo fenomenico. L'ideale a cui ogni procedura ascetica deve tendere è la completa negazione della volontà, ovvero, il che è lo stesso, l'affermazione della nolontà , della non volontà. L'esito finale del processo di negazione della volontà deve quindi portare al nulla. Con questo termine Schopenhauer non indica alcunchè di positivo, come potrebbe essere l'estasi in cui il mistico si perde nella totalità del divino, dato che il contenuto estatico sfugge a ogni comunicazione inter-personale, e quindi si colloca al di là del piano della filosofia. Il nulla esprime esclusivamente la completa negazione della volontà di vivere, la quale porta con sé anche la negazione del mondo come oggettivazione di questa volontà. Nella formulazione del concetto di nulla Schopenhauer è stato indubbiamente influenzato dalla nozione di Nirvana, che è centrale nel pensiero delle Upanishad. Tuttavia, nella concezione indiana il Nirvana appare ancora come qualcosa di positivo: un nulla-tutto in cui l'individuo si perde, risolvendo completamente in esso la sua specificità. In quanto tale, per Schopenhauer il Nirvana degli indiani è ancora un'illusione. Il nulla deve essere qualcosa di assolutamente negativo, la pura e semplice 'nolontà' , senza alcun riempimento sostitutivo del vuoto a cui essa porta. Per questo motivo Schopenhauer porta come modello più appropriato le vite dei santi, che si sono completamente liberati dal condizionamento della volontà. Ma nella tradizione cristiana il vuoto lasciato dalla negazione del mondo si riempie positivamente dalla comunione tra il santo e la divinità. Attraverso l'ascesi il misticismo cristiano giunge alla totale affermazione di Dio; quello di Schopenhauer è invece un misticismo ateo che rifiuta il mondo per giungere alla pura negatività. In questo senso la sola speranza che l' uomo, almeno in quanto individuo, ha di conseguire il nulla é la morte , la quale dissipa l'illusione che separa la coscienza individuale dall'universale e dà la certezza della fine temporale dell'individuo. Paradossalmente, dunque, la morte costituisce l'unica nota di speranza nella pessimistica concezione schopenhaueriana della realtà.
L'ARTE E
" L'arte si deve
necessariamente considerare come il grado più alto, come l'evoluzione più
perfetta di quanto esiste; ci offre infatti essenzialmente la stessa cosa che
il mondo visibile; ma più concentrata, più perfetta, con scelta e con
riflessione: possiamo quindi, nel vero senso della parola, chiamarla il fiore
della vita. Se il mondo come rappresentazione non è che volontà divenuta
visibile, l'arte è precisamente tale visibilità resa più chiara; la camera
oscura che abbraccia meglio e con una sola occhiata; è lo spettacolo nello spettacolo,
la scena nella scena. "
L'arte ha per Schopenhauer un doppio valore. Valore teoretico . La ragione, la
quale ci consente di raggiungere le alte vette ed astrazioni della matematica e
della fisica, grazie alla quale abbracciamo gli infiniti spazi cosmici ed
oltre, è tuttavia prigioniera del principium individuationis, non può
squarciare il velo di Maya e fornirci una conoscenza concettuale di ciò che vi
è al di là. Dunque il requisito per tale conoscenza è l'evasione, pur
momentanea dalla volontà. Questa condizione è realizzata nella contemplazione,
nel rapimento estetico visto che in questa particolare condizione ci liberiamo
momentaneamente degli impulsi della volontà è ciò che l'arte rappresenta, il
puro dato sensibile diventa simbolo, metafora della pura idea che vi soggiace.
È evidente che, essendo la ragione esclusa da tale processo conoscitivo, ed
essendo i concetti e le parole, i mezzi attraverso cui essa opera, non è
possibile esprimere con i linguaggi tradizionali ciò che risiede oltre il mondo
dominato dalla volontà. Il linguaggio dell'arte è invece un linguaggio
allegorico, che si esprime per metafore, immagini delle idee. Tutte le arti
sono rappresentazione dei diversi gradi di oggettivazione della volontà dai più
bassi del mondo inorganico fino al più alto: l'uomo. Tuttavia come ribadisce lo
stesso Schopenhauer negli ultimi periodi del §52 lo stesso mondo come
rappresentazione visto dall'asceta che è riuscito a svincolarsi dalla volontà è
una visione rasserenante di quest'ultima e delle sue oggettivazioni sensibili
ed ideali. L'arte non fa che rendere ciò che nel mondo è già visibile (agli
occhi dell'asceta) più chiaro ancora, concentrato nella purezza e perfezione
dell'idea. Valore catartico . Partendo dall'assunto che il mondo mosso dalla
volontà è dominato dalla guerra, dagli egoismi e dal dolore e che nessun essere
(dal sasso, all'animale, all'uomo) ne è libero, bensì tutti sono ugualmente
destinati alla sofferenza in modo proporzionale al grado di consapevolezza, la
contemplazione estetica, in quanto consente all'uomo di liberarsi
momentaneamente dalla volontà sottrae allo stesso tempo l'uomo alla sofferenza,
al ciclo di dolore (desiderio), piacere (appagamento) e noia (assenza di
desiderio) che contraddistingue la sua condizione. La musica occupa una
posizione eccentrica rispetto alle altre arti. Infatti non è solo
rappresentazione, immagine, allegoria di un'idea, ma è l'allegoria, l'immagine,
la rappresentazione della volontà medesima di cui è oggettivazione al pari
delle idee. Ad essa vengono dedicati il §52, ultimo del libro terzo "Il mondo
come rappresentazione" nel capitolo "L'idea platonica: l'oggetto dell'arte" e
nel capitolo 39 dei "Supplementi al libro terzo" intitolato "Sulla metafisica
della musica". Essendo l'immagine stessa della volontà ci consente di cogliere
l'in sé di ogni fenomeno, la forma pura privata della materia (in abstracto).
Ma cos'è la volontà se non impulso cieco e irrazionale, passione, sentimento? E
proprio questo è il linguaggio della musica: il sentimento, contrapposto al
concetto della ragione. Questo esprime la musica quando "parla": ci racconta la
vita più intima e segreta della volontà, attraverso i gradi della sua
oggettivazione, dal mondo inorganico all'uomo, dalla forza bruta ai più
delicati moti e sentimenti dell'animo umano. Schema che visualizza la
concezione schopenhaueriana della musica come immediata oggettivazione della
Volontà al pari delle idee rispetto alle quali si trova allo stesso livello.
Così come poi le idee sono ordinate secondo una precisa gerarchia di
consapevolezza che culmina nell'uomo (l'essere che, in quanto dotato di ragione
è fra tutti il più consapevole) e si moltiplicano attraverso le dimensioni
spazio-temporali e causali originando tutti i fenomeni esistenti, così la musica
stessa è ordinata in una gerarchia di suoni di altezza crescente che sono in
diretto parallelismo con le varie idee ed i fenomeni in cui esse si oggettivano
e particolarizzano La musica nella sua struttura raccoglie perciò l'intero
mondo. Di conseguenza Schopenhauer procede nella sua analisi metafisica della
musica (che ripercorreremo nella pagine seguenti), instaurando una serie di
parallelismi e analogie fra mondo e musica. Infatti al pari delle idee la
musica è immediata oggettivazione e copia della medesima volontà e differisce
perciò dalle idee solo nella forma. Al pari delle altre arti la musica è in
grado di sottrarci momentaneamente alla sofferenza, ma non solo. Vista la sua
natura è in grado di influire sulla volontà, riproducendo in noi gli infiniti
moti di quest'ultima (ruolo che vedremo affidato alla melodia), il suo
incessante ciclo di insoddisfazione e appagamento. Non è tuttavia da ritenere
che per questo motivo perda il suo potere catartico. Infatti non è in grado di
farci soffrire veramente essendo solo pura, distaccata, rappresentazione. Come
tutte le arti anche la musica esige che "la volontà resti fuori dal gioco e che
noi ci limitiamo ad essere puro soggetto conoscente" " Quando, invece,
nella realtà con i suoi orrori, è la volontà stessa ad essere sollecitata ed
angosciata, non abbiamo più a che fare con suoni e rapporti numerici, ma siamo
noi in persona adesso la corda tesa, pizzicata e vibrante ".
IL COMICO
1. Le fonti. La teoria della comicità e dell'arguzia si trova nel § 13 dell'opera principale di Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). Il Mondo, tuttavia, non ebbe il successo sperato, e Schopenhauer mette mano a una riedizione dell'opera solo nel '44. La mole del libro cresce sensibilmente: Schopenhauer l'arricchisce di molti supplementi. Tra questi vi è anche un approfondimento della teoria del ridicolo (Supplementi, cap. VIII), volto più a chiarire che a correggere le pagine del 1818. Nel corso delle nostre considerazioni ci rifaremo, senza ulteriori indicazioni, alle pagine del Mondo e dei Supplementi.
2. Una premessa necessaria: intelletto e ragione nella filosofia di Schopenhauer. Le riflessioni di Schopenhauer sul riso si collocano nel primo libro de Il mondo come volontà e rappresentazione, e costituiscono una breve digressione volta a far luce su uno dei nodi centrali della sua filosofia: il rapporto tra intelletto e ragione. Di qui la necessità di premettere alle nostre considerazioni una breve esposizione del senso che Schopenhauer attribuisce a queste due facoltà che, a partire almeno dalla Critica della ragion pura, diventano centro di interpretazioni contrastanti.
Per Schopenhauer come per Kant, l'intelletto ha una funzione trascendentale: permette di passare dall'ambito delle sensazioni alla sfera degli oggetti della nostra esperienza. Il rimando a Kant, tuttavia, non deve impedirci di cogliere una differenza sostanziale: per Schopenhauer, e non certo per Kant, l'intelletto fa tutt'uno con l'intuizione e non deve essere inteso alla luce della forma logica del giudizio. L'esperienza non assume validità obiettiva grazie alle categorie della logica trascendentale: se dalle sensazioni come modificazioni della nostra corporeità risaliamo agli oggetti non è perché i dati sensibili vengono connessi nell'unità di un giudizio, ma è solo in virtù dell'interpretazione tanto irriflessa, quanto istintiva che ci costringe a pensare alla causa dei nostri stati psicologici. L'intelletto non è allora, per Schopenhauer, la kantiana facoltà di pensare i fenomeni, ma è ciò che permette all'uomo e agli altri animali di orientarsi nel mondo e di intuirlo come una concatenazione di eventi causalisticamente connessi. Diversamente stanno le cose per la ragione. La ragione è, per Schopenhauer, la facoltà che ci permette di risalire dalla rappresentazione al concetto e di cogliere le relazioni che tra i concetti sussistono. L'uomo non si limita a operare nell'esperienza, ma riflette anche sull'esperienza: la ragione ci permette di riflettere sulla realtà, di raccogliere nell'unità di una rappresentazione di secondo grado (di una rappresentazione di rappresentazioni) una molteplicità di rappresentazioni individuali tra loro per qualche aspetto simili.E tuttavia, nella natura mediata del concetto, Schopenhauer non coglie soltanto la definizione logica del pensiero razionale, ma anche la sua più generale collocazione metafisica:
come dalla luce diretta del Sole si passa a quella riflessa della Luna, così ora passeremo dalla rappresentazione intuitiva che si afferma e garantisce da sé, alla riflessione, ai concetti astratti della ragione (Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit., p. 75)
- così scrive Schopenhauer, e di
quest'immagine che apre le sue considerazioni sulla ragione non si può rendere
conto solo richiamandosi alla tesi di sapore empiristico secondo la quale il
piano concettuale non fa che rispecchiare in forma attenuata la ricchezza del
mondo intuitivo. Dietro quell'immagine vi è altro: il Sole è calore, luce,
vitalità, mentre
Questa separazione ha il suo suggello nella paura della morte che è così tipica dell'uomo e che dipende dalla sua razionalità: solo perché la ragione strappa l'uomo dalla sua immediata e vitale adesione al mondo, solo perché lo toglie dall'attimo presente in cui è la vita, per disporlo nella prospettiva della storia, solo per questo può insinuare nel suo animo la paura per ciò che ancora non è, ma verrà - la morte.
3. Il riso come rivincita della vita: la teoria schopenhaueriana del ridicolo. Sullo sfondo metafisico che abbiamo delineato si colloca la dottrina schopenhaueriana del ridicolo. Si tratta di una teoria molto semplice che tuttavia pretende di avere validità universale:
Il riso - osserva Schopenhauer -
proviene sempre da un'incongruenza subitamente constatata fra un concetto e
l'oggetto reale cui quel concetto, in un modo o nell'altro, ci fa pensare; e
non è appunto se non l'espressione di questa incongruenza (ivi, p. 109).
È facile suggerire degli esempi che mostrino concretamente il senso di questa
definizione. Di un predicatore noiosi può dire "Bav è il buon pastore di
cui
4. Lo spirito della storia e lo spirito della terra. Le nostre considerazioni sulla teoria schopenhaueriana del ridicolo potrebbero chiudersi già qui. e tuttavia è forse opportuna una breve digressione volta a far luce su un passo del Mondo in cui Schopenhauer tocca, seppure di sfuggita, l'argomento del riso. Si tratta di un passo molto impegnativo dal punto di vista metafisico: Schopenhauer intende infatti liberarsi con poche parole delle concezioni razionalistiche della storia, ed in particolare di quella hegeliana, tutta volta a cercare nella concatenazione degli eventi il dipanarsi necessario dello Spirito. Ora, la prima mossa in questa direzione consiste, per Schopenhauer, nel sottolineare come la storia non sia affatto il processo necessario in cui lo Spirito si rivela, ma sia piuttosto il regno del caso:Se, per ipotesi, ci fosse dato di gettare uno sguardo luminoso nel regno della possibilità e sulla completa catena delle cause e degli effetti, lo Spirito della Terra sorgerebbe, e ci mostrerebbe in un quadro gli uomini più eminenti, i luminari del mondo e gli eroi che furono rapiti dal destino prima che l'ora delle rispettive missioni fosse suonata. Ci mostrerebbe quindi i grandi avvenimenti che avrebbero cambiato aspetto alla storia del mondo, e arrecato ere di luce e di suprema civiltà, se il caso più cieco e l'accidente più futile non li avessero soffocati sul nascere (ivi, p. 271).Ora, di fronte a questo spettacolo, noi uomini abituati a comprenderci come frutto della storia non potremmo probabilmente sottrarci ad un senso di raccapriccio, e ci dispereremmo per le crudeli scelte operate dal caso. E tuttavia all'uomo che piange il mancato progresso dell'umanità e lamenta l'assenza di una Ragione nella storia, lo Spirito della terra potrebbe rispondere con un sorriso (ivi, p. 271), poiché a chi ha compreso che i fenomeni nel loro mutevole esserci altro non sono che manifestazioni di un'identica volontà, non può che apparire ridicola la pretesa razionalistica di scorgere nel fluire del tempo il progresso della storia degli uomini.
IL MONDO COME VOLONTA' E RAPPRESENTAZIONE
Primo libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Gnoseologia. Schopenhauer aveva
definito nella Quadruplice che le categorie kantiane potevano essere ridotte
alla sola causalità, unita alle forme di spazio e tempo. La gnoseologia esposta
nel Mondo riprende i concetti di fenomeno e noumeno. Ma per Kant il rapporto
fra fenomeno e noumeno è adeguato, in quanto il fenomeno è il reale modo di
conoscere il noumeno; al contrario, per Schopenhauer il rapporto è inadeguato,
in quanto il fenomeno è pura apparenza. Infatti,
Secondo libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Mondo come volontà e come rappresentazione. Se il soggetto conoscente guarda all'esterno, non vede che il mondo come rappresentazione, e si ferma all'aspetto fenomenico; ma c'è un modo per raggiungere l'ambito noumenico dell'essere, ed è il guardare in sé stessi. Visto che non è possibile raggiungere il noumeno degli oggetti, ma lo stesso soggetto è un noumeno, guardando in sé lo si può trovare. L'analisi del proprio corpo è illuminante: il corpo può essere visto come fenomeno, ma anche come manifestazione di un'altra realtà: la volontà. Il corpo è oggettivazione della volontà, dunque il noumeno dell'uomo è la volontà. Guardando in sé, si scopre un'altra dimensione dell'uomo e del mondo: la volontà. Il mondo come rappresentazione ha come principio l'Io penso, come volontà l'Io voglio.
Caratteri, assolutezza ed
oggettivazioni della volontà. La scienza non può arrivare a spiegare le forze
naturali, e questo lo può fare la metafisica, che sarà empirica e procederà per
analogia.
Terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Caratteri di metafisica ed etica. Se la volontà è il principio del mondo, la metafisica si identifica con l'etica, il piano teoretico porta al piano pratico immediatamente. L'etica come la metafisica dev'essere descrittiva. Per capire il comportamento della volontà bisogna definire la libertà della volontà.
Rapporto di volontà ed intelletto. La volontà, che è in genere inconscia, nell'uomo produce il fenomeno coscienza, divisibile in intelletto (capacità di intuire il nesso causale) e ragione (capacità di pensare in modo astratto); quindi l'intelletto è al servizio della volontà, non viceversa, e il comportamento morale non sarà sottomesso all'intelletto ma alla volontà stessa.Estetica. L'intelletto si pone allo stesso livello della volontà nell'esperienza estetica. L'arte è una forma di conoscenza: attraverso essa, visto che si guarda la bello disinteressato, cioè che non ha alcuna utilità nel mondo fenomenico, si attraversa il mondo fenomenico per mirare le idee della volontà, le oggettivazioni pure. Come l'oggetto della rappresentazione diventa l'idea, così il soggetto, da soggetto immerso in un ambiente fenomenico, si eleva ad universale e in un ambito noumenico. L'arte non è uno schermo alla volontà come gli altri fenomeni, ma uno specchio della volontà, che appare come idea, o nella musica, come sé stessa. Con l'arte ci si libera dal dominio della volontà.
Quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione
Libertà e liberazione. L'etica è possibile solo se esiste la libertà; per Schopenhauer la libertà è assenza di necessità, e questo lo si ha quando l'intelletto, l'uomo si eleva dal mondo fenomenico al mondo noumenico, in cui non vige il determinismo imposto dalla volontà. Quindi l'etica è il processo di liberazione dell'uomo dal dominio della volontà. Un primo momento di liberazione è durante l'esperienza estetica, in cui l'uomo, posto alla pari della volontà, è nel mondo noumenico. Ma solo l'etica permette una permanenza stabile in tale ambito.Scelta di carattere intelligibile. L'azione è sicuramente determinata dal carattere empirico dell'individuo, in quanto si dà nel mondo fenomenico; ma l'uomo ha la possibilità di scegliere il proprio carattere intelligibile, di scegliere il proprio comportamento etico una volta per tutte. Per liberarsi dal dominio della volontà, o ci si pone al suo stesso livello, ci si identifica con essa, e si afferma la vita e la volontà, cosicché si posa stare nell'ambito noumenico dove non esiste la necessità, o si nega la volontà, poiché la volontà non è altro che dolore. L'uomo può quindi scegliere la direzione del proprio comportamento, alla quale adeguerà le sue proprie azioni.Fonti dell'etica e sue caratteristiche. L'etica non nasce da un imperativo categorico dettato dalla ragione, ma da un sentimento di compassione, dal patire le sofferenze altrui come proprie; non appena si sente la sofferenza altrui (non basta sapere che c'è), si sente l'unità noumenica della realtà. La morale ha come virtù la giustizia che è un freno all'egoismo, ed è una virtù negativa ("non fare il male"), mentre la carità è positiva ("allevia il male"). Con la pietà si vince l'egoismo, ma non ci si libera totalmente della vita e dunque della volontà.Ascesi. La morale della compassione porta all'ascetismo, un insieme di pratiche che mortificano la volontà, che fanno capire come la volontà sia causa di sofferenza e sia l'essenza del mondo, cosa che fa desiderare la mortificazione della volontà. La voluntas, quando si autoriconosce, ha coscienza di sé, tende a farsi noluntas, a negarsi, e l'asceta tende a quello che, per persone normali, parrebbe il nulla, ma in verità è il tutto, mentre nulla è il mondo fenomenico. l'asceta nega la volontà, non vuole il nulla, ma vuole trasformare la volontà in non-volontà.
Pessimismo
Dolore, piacere, noia. Volontà è desiderare, e si desidera quello che non si ha; quindi volere è soffrire, alla base della volontà c'è la sofferenza, e la volontà provoca la sofferenza; se si appaga un desiderio, altri rimangono inappagati, e inoltre la fine del desiderio appagandolo, non dà la felicità, ma la mancanza di dolore, cessazione del dolore. Quindi non esiste il piacere ma la cessazione del dolore, e il piacere esiste se c'è il dolore, mentre il dolore non presuppone il piacere per necessità. Quando non c'è più desiderio subentra la noia; la noia è l'assenza di tensione, e come assenza alla fine dà dolore.Pessimismo cosmico. Il dolore nell'universo si dà per la mancanza e per la sopraffazione nei confronti degli altri; il dolore è di tutti, ma l'uomo soffre di più perché ne è più cosciente.
Eros. L'eros è tanto forte perché è uno strumento della volontà per giungere alla riproduzione; quindi l'uomo, credendo di fare una cosa umana che lo realizza, è strumento della volontà; l'amore è sentito come un peccato poiché produce altri individui destinati a soffrire.
Critiche
Alla filosofia di Stato. Chi è pagato non può pensare liberamente.
All'ottimismo cosmico. Il mondo non è un organismo perfetto governato dall'assoluto, ma un'esplosione di forze irrazionali.All'ottimismo sociale. Naturalmente, i rapporti fra gli uomini sarebbero di sopraffazione; gli uomini vivono insieme per limitare il bellum omnium contra omnes .All'ottimismo storico. La storia non è scienza, poiché cataloga gli individui, non usa concetti; studiando l'uomo, si capisce che questo non muta essenzialmente.
FRASI SIGNIFICATIVE
"Chiunque noi siamo, e qualunque cosa possediamo il dolore ch'è essenza della vita non si lascia rimuovere"
"L'infelicità è per il nostro animo il calore che lo mantiene tenero"
"La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro. Leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare."
"L'amore autentico è sempre compassione; e ogni amore che non sia compassione è egoismo"
L'uomo è l'unico animale che provoca sofferenza agli altri senza altro scopo che la sofferenza come tale"
"Il giudizio universale è il mondo stesso"
"La vita umana è un continuo oscillare fra il dolore e la noia"
Ogni giubilo eccessivo nasce sempre dall'illusione di aver trovato nella vita qualcosa che è impossibile trovarvi, e cioè la pacificazione definitiva del tormento"
"Nella monogamia l'uomo ha troppo sul momento e troppo poco nel tempo; per al donna è il contrario"
"Il perpetuarsi dell'esistenza dell'uomo non è che una prova della sua lussuria"
"Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, affonda sempre le sue radici nell'istinto sessuale. [...] Se la passione del Petrarca fosse stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito"
"La malinconia attira, il tedio respinge"
"La vera vita del pensiero dura soltanto fino al confine delle parole: oltre il pensiero muore"
"Ciò che ha valore non viene stimato, e ciò che è stimato non ha alcun valore"
"Dei mali della vita ci si consola con al morte, e della morte con i mali della vita. Una gradevole situazione"
"Si può essere saggio solo alla condizione di vivere in un mondo di stolti"
"...alla fine tutti quanti siamo e restiamo soli"
"Io non ho scritto per gli imbecilli. Per questo il mio pubblico è ristretto"
"È la cattiveria il collante che tiene insieme gli uomini. Chi non ne ha abbastanza si distacca"
"Il filosofo non deve mai dimenticare che la sua è un'arte e non una scienza"
"Gli uomini completamente privi di genio sono incapaci di sopportare la solitudine"
"Se noi potessimo mai non essere, già adesso non saremmo"
"Alla natura sta a cuore solo la nostra esistenza, non il nostro benessere"
"Più si invecchia, meno quel che si vede, si fa e si vive lascia traccia nello spirito: non fa più alcuna impressione, siamo ormai insensibili"
"Più ristretto è il nostro campo di azione, di visuale e di relazioni, e più siamo felici"
Veniamo adescati alla vita dall'illusorio istinto del piacere: e veniamo mantenuti in vita dall'altrettanto illusoria paura della morte"
"Ogni sera siamo più poveri di un giorno"
"Dal punto di vista della giovinezza la vita è infinita; dal punto di vista della vecchiaia è un brevissimo passato"
"Si può dire quello che si vuole! Il momento più felice di chi è felice è quando si addormenta, come il momento più infelice di chi è infelice è quando si risveglia"
"A parte poche eccezioni, al mondo tutti, uomini e animali, lavorano con tutte le forze, con ogni sforzo, dal mattino alla sera solo per continuare ad esistere: e non vale assolutamente la pena di continuare ad esistere; inoltre dopo un certo tempo tutti finiscono. È un affare che non copre le spese"
"Per non diventare molto infelici il mezzo più sicuro è di non pretendere di essere molto felici"
"Tutti gli uomini vogliono vivere, ma nessuno sa perché vive"
"L'amicizia, l'amore e l'affetto degli uomini li si ottiene solo dimostrando loro amicizia, amore e affetto. [...] Per sapere quanta felicità può ricevere una persona nella sua vita, basta sapere quanta ne può dare"
"La solitudine rende oggettivi; la compagnia rende sempre soggettivi"
"Il giustificato sprezzo degli uomini ci porta a rifugiarci nella solitudine. Ma il deserto di questa a lungo andare dà angoscia al cuore. Per sfuggire al suo peso, dunque, bisogna portarsela in società. Bisogna cioè imparare ad essere soli anche in compagnia, a non comunicare agli altri tutto ciò che si pensa, (a non) prendere alla lettera quello che dicono, al contrario, ad aspettarsi molto poco da loro, sia moralmente che intellettualmente"
"La malvagità, si dice, la si sconta nell'altro mondo; ma la stupidità in questo"
"Ciò che rende gli uomini socievoli è la loro incapacità di sopportare la solitudine e se stessi. [...] Tutti i pezzenti sono socievoli, da far pietà"
"Il denaro è la felicità umana in abstracto; perciò chi non è più capace di goderla in concreto si attacca al denaro con tutto il suo cuore"
"Dopo che ogni sofferenza fu bandita nell'Inferno, per il Paradiso non restò altro che la noia: ciò dimostra che la nostra vita non ha altre componenti che la sofferenza e la noia"
"Se ad un Dio si deve questo mondo, non ci terrei ad essere quel Dio: l'infelicità che vi regna mi strazierebbe il cuore "
"Chi ama
"Il grande dolore che ci provoca la morte di un buon conoscente e amico deriva dalla consapevolezza che in ogni individuo c'è qualcosa che è solo suo, che va perduto per sempre"
"Chiunque ami un altro essere quasi come se stesso, sia il figlio, la moglie o un amico, se questo essere gli sopravvive muore solo a metà: chi invece non ha amato altri che se stesso vuota il calice della morte fino in fondo"
"Che cosa si può pretendere da un mondo in cui quasi tutti vivono soltanto perché non hanno il coraggio di suicidarsi!"
"Ciò che rende gli uomini socevoli è la loro incapacità di sopportare la solitudine e, in questa, se stessi. "
"Il suicida è uno che, anziché cessar di vivere, sopprime solo la manifestazione di questa volontà: egli non ha rinunciato alla volontà di vita, ma solo alla vita. "
"La salute non è tutto, ma senza salute tutto è niente "
"Le religioni sono come le lucciole: per splendere hanno bisogno delle tenebre. "
"L'intelligenza è invisibile per l'uomo che non ne possiede. "
"Noi ci consoliamo delle sofferenze della vita pensando alla morte, e della morte pensando alle sofferenze della vita"
Per non diventare molto infelici il mezzo più sicuro è di non pretendere di essere molto felici.
Arthur
Schopenhauer rientra a pieno titolo nel filone di quei pensatori che si pongono
in netta rottura con il sistema hegeliano e, insieme a tutti gli avversari del
panlogismo di Hegel, tende a far prevalere l'irrazionalità della realtà: per
Schopenhauer, come per Kierkegaard, Hegel è l'idolo polemico in antitesi col
quale costruire la propria filosofia; diverso sarà, invece, il discorso di
Nietzsche, il quale intraprenderà una lotta contro l'intera filosofia
occidentale sviluppatasi da duemila anni a questa parte, e il bersaglio su cui
si riverseranno le sferzate di Nietzsche sarà non Hegel, ma Platone, il
fondatore del pensiero occidentale; ecco perchè, tra l'altro, quella
nietzscheana può essere etichettata come "polemica inattuale". Tra i
pensatori di questo periodo serpeggia l'aspirazione alla concretezza e, per
addurre un esempio significativo, Schopenhauer insiste sul fatto che " l'uomo
non è un angelo ", cioè non è puro spirito disincarnato, ma è
essenzialmente un corpo e la natura di tale corpo consiste, soprattutto, nella
volontà, nei desideri, negli istinti e nelle passioni, quelle cose, cioè, che
Freud avrebbe più tardi definito come "pulsioni"; da notare che la
rivendicazione che Schopenhauer fa della concretezza (e che trova conferma
anche nella celebre espressione di Feuerbach: " l'uomo è ciò che mangia
") è in antitesi all'astrattezza hegeliana, come pure alla ragione, tanto
cara ai Positivisti. Schopenhauer ha un periodo di produzione filosofica
piuttosto lungo, che nel complesso dura una quarantina d'anni: la sua opera
principale, Il mondo come volontà e rappresentazione , risale al 1819 e
negli anni a venire continuerà a comporre opere che però non introdurranno
notevoli modifiche al suo pensiero. La data di pubblicazione del Mondo è
particolarmente significativa perchè si colloca nell'era del dominio del
pensiero hegeliano: ed è sintomatico il fatto che le idee di Schopenhauer hanno
fatto breccia presso il pubblico solo dopo la morte di Hegel, tant'è che la
prima edizione de Il mondo (composta quando Hegel era ancora in vita)
andò al macero e Schopenhauer potè fare un'amara constatazione: " Io
non ho scritto per gli imbecilli. Per questo il mio pubblico è ristretto
" . Si può, tra l'altro, ricordare come Schopenhauer desiderasse tenere le
sue lezioni universitarie in contemporanea ad Hegel, ma tuttavia non potè farlo
per il semplice motivo che non aveva studenti: tutti, infatti, andavano ad
ascoltare con entusiasmo Hegel, non tenendo in alcuna considerazione
Schopenhauer, che si ritrovava così perentoriamente a tenere lezione a nessuno.
Solo con la morte di Hegel, avvenuta nel 1831, il pensiero di Schopenhauer
cominciò a dilagare e Nietzsche stesso, nelle sue prime opere, si dichiarerà
suo seguace; non solo, perfino Wagner rimase incantato dalla filosofia
schopenhaueriana ed è importante ricordare l'interpretazione del De Sanctis in
cui mette a confronto il pessimismo di Schopenhauer con quello di Leopardi.
Sempre a dimostrazione del fatto che il successo di Schopenhauer arrivò solo
dopo la morte di Hegel, si può anche ricordare come nel Novecento alcuni
pensatori marxisti della "Scuola di Francoforte" opereranno una sintesi
tra il pensiero marxista e quello schopenhaueriano; fatta questa carrellata di
successi di Schopenhauer, si può in sostanza dire che Il mondo cominciò
a riscuotere successo dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, quando
comincerà ad essere letto come una valida alternativa all'hegelismo. Infatti,
la filosofia di Schopenhauer altro non è se non un tentativo di schierarsi
contro Hegel e al fianco di Kant, dando di quest'ultimo un'interpretazione
opposta a quella data dall'idealismo. Fino agli anni '50 dell'Ottocento, anche
Kierkegaard contribuisce alla lotta contro Hegel, aprendo spiragli verso
l'anti-hegelismo ma anche verso le filosofie esistenzialistiche che fioriranno
nel Novecento; ma Kierkegaard, ancora più di Schopenhauer, non avrà tempo di
assistere al proprio successo perchè lo coglierà una morte prematura. Entrando
nel senso del discorso schopenhaueriano, egli si pone in contrapposizione
all'interpretazione che di Kant ha dato l'idealismo (i cui tre eroi sono
Fichte, Schelling e Hegel, tutti e tre cordialmente odiati da Schopenhauer): se
l'interpretazione idealista, infatti, si è limitata ad eliminare quella
"cosa in sè" ammessa da Kant ma da lui stesso riconosciuta
inconoscibile (seppur ineliminabile), la posizione di Schopenhauer spinge in
direzione opposta, in quanto si risolve nel recupero della "cosa in
sè" , tanto odiata dagli idealisti. Essa per Schopenhauer non solo esiste
(come era in fondo anche per Kant), ma è addirittura attingibile e, dunque,
conoscibile; è però bene fare subito una precisazione: una volta conosciuta, la
"cosa in sè" non si rivelerà essere il principio della realtà come lo
intendevano Hegel e Fichte, ovvero come principio essenzialmente razionale. Al
contrario, la "cosa in sè" sarà sì il principio che governa la
realtà, ma esulerà da ogni forma di razionalità e, anzi, sarà addirittura una
sorta di principio maligno. Ed è per questo che si può essere indotti a leggere
il discorso schopenhaueriano come un capovolgimento parodistico del
neoplatonismo: dall'Uno deriva la molteplicità delle cose, ma, essendo l'Uno
radicalmente negativo, anche ciò che da esso deriva non potrà essere positivo.
In maniera analoga, il pensiero di Schopenhauer può essere inteso come
stravolgimento speculare di quello di Bruno e di Spinoza: tutto ciò che ci
circonda è manifestazione di un'unica realtà, ma quest'ultima è totalmente
negativa. Per questa marcata convinzione che la realtà sia governata da un
principio negativo, si può parlare di pandemonismo schopenhaueriano, in
antitesi con il panlogismo hegeliano. E' curioso il fatto che una volta un
editore che doveva pubblicare
GRIGLIA RIASSUNTIVA
opere principali
Morto il padre per suicidio (1805) ereditò una fortuna
cospicua, che gli permise di vivere di rendita, studiando: prima al ginnasio
(di Gotha, e poi di Weimar), poi all'università
di Gottinga (1809/11), dove conobbe G.E.Schulze, che lo introdusse a Kante a
Platone, e Berlino (1811/13), dove seguì Schleiermacher, Fichte e il filologo
F.A.Wolf.Per la guerra, raggiunse a Weimar la madre, che (romanziera) vi teneva
un salotto letterario, cui veniva anche Goethe, e si laureò a Jena nello stesso
1813, con una tesi Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden
Grunde, apprezzata da Goethe. Ivi conobbe anche l'orientalista Friedrich
Mayer, estimatore delle Upanishad.Ruppe ben presto con la madre, Johanna
Henriette, che aveva accolto in casa un amante, nel 1814.Si trasferì così a
Dresda e qui pubblicò Die Welt als Wille und Vorstellung, suo
capolavoro, scritto nel 1818 e pubblicato nel 1819. Dopo un viaggio in Italia,
ottenne la libera docenza a Berlino nel 1820, discutendo con Hegel, col quale
venne a diverbio; e a Berlino rimase, frustrato per la concorrenza hegeliana,
per cui le sue lezioni erano disertate, fino al 1831, quando vi si diffuse
un'epidemia di colera.Allora si trasferì a Francoforte, dove rimase fino alla
morte, sopraggiunta nel 1860. Di tale periodo sono La volontà della natura (1836),
I due problemi fondamentali dell'etica (1841) e il brillante e popolare Parerga
et paralipomena (1851). Tali opere gli guadagnarono riconoscimenti pubblici
e maggior successo delle opere precedenti.Come scrive Abbagnano "nessun
successo immediato arrise all'opera di Schopenhauer, che dovette aspettare più
di vent'anni per pubblicare la seconda edizione del Mondo come volontà e
rappresentazione, edizione che egli arricchì di un secondo volume di note e
supplementi. (...) Soltanto dopo il
la critica all'idealismo
Schopenhauer critica in generale "i tre grandi ciarlatani" idealisti, e in particolare Hegel, "sicario della verità", la cui filosofia è mercenaria, al servizio dello Stato:"Hegel, insediato dall'alto, dalle forze al potere, fu un ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo, illetterato, che raggiunse il colmo dell'audacia scodellando i più pazzi e mistificanti non sensi"il suo pensiero è "una buffonata filosofica".
Noi non conosciamo le cose in sé stesse ("vediamo non il sole né la terra"), ma in quanto sono rapportate al soggetto, dipendenti dal soggetto, "interne" ad esso (conosciamo "l'occhio che vede il sole, la mano che sente il contatto con la terra"), e il soggetto filtra la realtà con le tre categorie (una sorta di a-priori, che il soggetto pone mediante l'intelletto, analogamente a Kant, con la differenza che per Sch. le categorie hanno una matrice fisiologica, piuttosto che trascendentale)
la causalità a sua volta, in quanto principio di ragion sufficiente, assume quattro forme, ossia |
causa fiendi (cioè del divenire; regola i rapporti causali); |
Essa è perciò fenomeno, nel senso di apparenza, in parentela stretta col sogno, analogamente a Pindaro ("l'uomo è il sogno di un'ombra"), Sofocle, Shakespeare ("noi siamo di tale stoffa, come quella di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è chiusa in un sonno"), Calderòn, o, con espressione di derivazione indiana, "velo di Maya".
" è Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi nê che esista, nê che non esista; perchê ella rassomiglia al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua; o anche rassomiglia alla corda gettata a terra che egli prende per un serpente (Il mondo come volontà ..., paragrafo 3)
ma c'è il modo per giungere alla realtà in sé stessa:
Ne posso essere certo in quanto
a)ho accesso diretto alla mia
volontà, che sperimento essere la mia più intima essenza, facente tutt'uno con
il moto del mio corpo (che posso infatti conoscere o oggettivandolo, o
dall'interno, come mosso dalla volontà).
Io sono volontà, Wille zum Leben, impulso prepotente;
b)per analogia estendo questo a tutto il reale:
osservando nei fenomeni naturali "l'impeto violento e irresistibile con cui le acque si precipitano negli abissi, ... l'ansia con cui il ferro vola verso la calamita, la violenza con cui i poli elettrici tendono a riunirsi ...[riconosciamo] quell'identica essenza che in noi persegue i suoi fini al lume della conoscenza, ma che qui non ha che impulsi ciechi, sordi, unilaterali e invariabili" (§ 23 Il mondo come volontà e rappresentzione)
Come ricorda Abbagnano:
"essendo al di là del fenomeno,
...unica...
In secondo luogo,
...eterna...
Essendo oltre la forma del tempo,
...assurda e cieca.
Essendo al di là della categoria
di causa, e quindi di ciò che Schopenhauer denomina "principio di
ragione",
Vi è in Schopenhauer un rifiuto di ogni ottimismo:
"Ogni volere scaturisce da
bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine
l'appagamento; tuttavia per un desiderio che venga appagato, ne rimangono
almeno dieci insoddisfatti; inoltre la brama dura a lungo, le esigenze vanno
all'infinito; l'appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa
soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a
un desiderio nuovo: quello è un errore riconosciuto, questo un errore non
ancora conosciuto. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare
appagamento durevole... bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata
al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo
tormento" (op.cit., paragrafo 38).
La realtà è una '"arena di esseri tormentati e angosciati, i quali
esistono solo a patto di divorarsi l'un laltro, dove perciò ogni animale
carnivoro è il sepolcro vivente di mille altri e la propria autoconservazione è
una catena di morti strazianti"
"Se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i
lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le prigioni, le
stanze di tortura, i recinti degli schiavi, i campi di battaglia e i tribunali,
aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria, dove ci si appiatta per
nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar
l'occhio nella torre della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch'egli con
l'intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibles.
Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo mondo reale?
E nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono. Quando invece gli toccò di
descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una difficoltà
insuperabile: appunto perchê il nostro mondo non offre materiale per un'impresa
siffatta" (op.cit., paragrafo 59)
"A diciassette anni, ancora privo di ogni cultura, fui colpito dalla
miseria della vita così profondamente come Buddha nella sua gioventù, quando
vide per la prima volta la malattia, la vecchiaia, il dolore e la morte. La
verità che del mondo mi parlava chiaro e tondo, ebbe presto il sopravvento sui
dogmi ebraici che mi erano stati inculcati; e la mia conclusione fu che questo
mondo non poteva essere l'opera di un ente assolutamente buono... "
"Verrà un tempo in cui la dottrina di un Dio come creatore sarà
considerata in metafisica, come ora, in astronomia, si considera la dottrina
degli epicicli"
"Dei mali della vita ci si consola con al morte, e della morte con i mali della
vita. Una gradevole situazione"
"Noi ci consoliamo delle sofferenze della vita pensando alla morte, e della
morte pensando alle sofferenze della vita"
"...alla fine tutti quanti siamo e restiamo soli"
"Alla natura sta a cuore solo la nostra esistenza, non il nostro benessere"
"Ogni sera siamo più poveri di un giorno"
"Dal punto di vista della giovinezza la vita è infinita; dal punto di vista
della vecchiaia è un brevissimo passato"
"Si può dire quello che si vuole! Il momento più felice di chi è felice è
quando si addormenta, come il momento più infelice di chi è infelice è quando
si risveglia"
"A parte poche eccezioni, al mondo tutti, uomini e animali, lavorano con tutte
le forze, con ogni sforzo, dal mattino alla sera solo per continuare ad
esistere: e non vale assolutamente la pena di continuare ad esistere; inoltre
dopo un certo tempo tutti finiscono. È un affare che non copre le spese"
"Se è stato un Dio a creare questo mondo, non vorrei essere lui: la sofferenza
nel mondo mi spezzerebbe il cuore"
"Chi ama
in realtà la storia ci inganna
facendoci credere che le cose cambino sostanzialmente, mentre ha ragione
l'Ecclesiaste: non vi è nulla di nuovo sotto il sole in ogni tempo fu, è e
sarà sempre la stessa cosa (Il mondo come volontà e rappresentazione,
II, 38)
"Mentre la storia ci insegna che in ogni tempo avviene qualcosa di
diverso, la filosofia si sforza di innalzarci alla concezione che in ogni tempo
fu, è, e sarà sempre la stessa cosa" (Supplementi, capitolo 38)
"Ogni giubilo eccessivo nasce
sempre dall'illusione di aver trovato nella vita qualcosa che è impossibile
trovarvi, e cioè la pacificazione definitiva del tormento"
"chi considera bene .. scorge il mondo come un inferno, che supera quello
di Dante in questo, che ognuno è diavolo per l'altro."
"l'uomo è l'unico animale che faccia soffrire gli altri al solo scopo di
far soffrire"
"Ciò che rende gli uomini socievoli è la loro incapacità di sopportare la
solitudine e se stessi. [...] Tutti i pezzenti sono socievoli, da far pietà"
"Vi è dunque, nel cuore di ogni uomo, una belva, che attende solo il
momento propizio per scatenarsi ed infuriare contro gli altri" (Parerga,
2, 114)
"Come l'uomo si comporti con l'uomo, è mostrato, ad esempio, dalla schiavitù
dei negri. Ma non v'è bisogno di andare così lontani: entrare nelle filande o
in altre fabbriche all'età di cinque anni, e d'allora in poi sedervi prima per
dieci, poi per dodici, infine per quattordici ore al giorno, ed eseguire lo
stesso lavoro meccanico, significa pagar caro il piacere di respirare. Eppure
questo è il destino di milioni, e molti altri milioni ne hanno uno
analogo"
"la vita è un continuo oscillare tra dolore e noia"
Schopenhauer rifiuta il suicidio come via alla liberazione per due motivi : |
1) perchè "il suicidio, lungi dall'essere negazione della volontà, è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa" in quanto il suicida "vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate" (ivi, paragrafo 69), per cui anzichê negare veramente la volontà egli nega piuttosto la vita; |
2) perchê il suicidio sopprime unicamente l'individuo, ossia una manifestazione fenomenica della Volontà di vivere, lasciando intatta la cosa in sé, che pur morendo in un individuo rinasce in mille altri, simile al sole che, appena tramontato da un lato, risorge dall'altro." (Abbagnano) |
Essa ha come momenti principali
a)l'arte: "mentre la
conoscenza, e quindi la scienza, è continuamente irretita nelle forme dello
spazio e del tempo, ed asservita ai bisogni della volontà, l'arte, secondo
Schopenhauer, è conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle idee,
ossia alle forme pure o ai modelli eterni delle cose." (Abbagnano)
"Mentre per l'uomo comune, il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna che illumina la strada, per l'uomo geniale è il sole che rivela il mondo".
b) la compassione, che rompe la catena di egoismi che mette ogni individuo contro l'altro, causando inutile e assurda sofferenza.
"L'amore autentico è sempre compassione; e ogni amore che non sia compassione è egoismo"
c) l'ascesi
essa nasce dall'"orrore" dell'uomo "per l'essere di cui è manifestazione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di un mondo riconosciuto pieno di dolore" (ivi, paragrafo 68), è l'esperienza per la quale l'individuo, cessando di volere la vita ed il volere stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere: "Con la parola ascesi... io intendo, nel senso più stretto, il deliberato infrangimento della volontà, mediante l'astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l'espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà" (ivi).
comporta la perfetta castità, la rinuncia ai piaceri, l'umiltà, il digiuno, la
povertà, il sacrificio e l'automacerazione
Fino ad arivare alla noluntas
"il deliberato infrangimento della volontà,... per la continuata mortificazione della volontà"
"Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà - dice Schopenhauer alla fine della sua opera - è certamente il nulla per tutti coloro che sono ancora pieni della volontà. Ma per gli altri, in cui la volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è, esso, il nulla" (ivi, paragrafo 71).
Secondo Abbagnano "dell'Illuminismo lo interessano il filone materialistica e quello dell'ideologia, da cui eredita la tendenza a considerare la vita psichica e sensoriale in termini di fisiologia del sistema nervoso. Inoltre da Voltaire desume lo spirito ironico e brillante e la tendenza demistificatrice nei confronti delle credenze tramandate. Dal Romanticismo Schopenhauer trae alcuni temi di fondo del suo pensiero, come ad esempio l'irrazionalismo, la grande importanza attribuita all'arte e alla musica, e, soprattutto, il tema dell'infinito, cioè la tesi della presenza, nel mondo, di un Principio assoluto di cui le varie realtà sono manifestazioni transeunti. Altro motivo indubbiamente romantico è quello del dolore. Tuttavia mentre il Romanticismo, sul piano filosofico, mostra una tendenza globalmente ottimistica, che si concretizza in un tentativo di dialettizzare o riscattare il negativo tramite il positivo (Dio, lo Spirito, la storia, il progresso eccetera) Schopenhauer appare decisamente orientato verso il pessimismo, di cui è uno dei maggiori teorici. Decisiva importanza, anche se indiretta, gioca pure l'idealismo, vera "bestia nera" e "idolo polemico" dello schopenhauerismo."
Schopenhauer e Freud.
Freud, buon lettore di Schopenhauer, è stato cattivo lettore di Nietzsche. In una lettera a Lothar Eickel del 1931 scrive:"Nello sforzo di capire un filosofo, ho sempre pensato che sarebbe stato inevitabile impegnarsi nelle sue idee e sottoporsi alla sua guida durante il proprio lavoro. Per questo ho rifiutato lo studio di Nietzsche, anche se mi era chiaro che potevano essere trovate in lui concezioni molto simili a quelle della psicoanalisi". Questo non ha impedito a Freud di prelevare da Nietzsche del materiale linguistico, come ad esempio l'espressione "Es" per designare l'inconscio: "Adeguandoci all'uso linguistico di Nietzsche e seguendo un suggerimento di Georg Croddeck chiameremo d'ora in poi l'inconscio "Es". Questo pronome impersonale sembra particolarmente adatto a esprimere il carattere precipuo di questa provincia psichica, la sua estraneità all'Io. Super-io, Io ed Es sono dunque i tre regni, territori, province, in cui noi scomponiamo l'apparato psichico della persona e delle cui reciproche relazioni ci occuperemo in quanto segue" (Introduzione alla psicoanalisi nuova serie di lezioni, in Opere, uol. 11, p. 184).La geografia di Freud è profondamente schopenhaueriana. Nella separazione di inconscio e coscienza risuona il mondo come volontà e rappresentazione. Come Nietzsche, anche Freud sta dalla parte della rappresentazione, ma perché in essa vede non la liberazione delle pulsioni, ma la salvaguardia dalle pulsioni. In termini nietzschiani, l'intenzione di Freud non è la liberazione del dionisiaco, ma la liberazione dal dionisiaco, quindi "ascesi" e "rinuncia" schopenhaueriana. Sollevata la maschera della "cura" delle pulsioni, ciò che riappare è il trionfo della "morale" e le dimissioni dell'"estetica": "In ogni tempo - scrive infatti Freud - si è assegnato alla morale il massimo valore come se tutti se ne aspettassero importanti conseguenze. Ed è vero che la morale, come è facile riconoscere, tocca il punto più vulnerabile di ogni civiltà. Perciò essa va intesa come un esperimento terapeutico, come uno sforzo per raggiungere, attraverso un imperativo del Super-ío, ciò che finora non fu raggiunto attraverso nessun'altra opera di civiltà" (il disagio della civiltà, in Opere, vol. 10, p. 627). L'opera di civiltà passa attraverso il prosciugamento dello Zuiderzee, il mare interno bonificato lungo le coste olandesi: "L'intenzione degli sforzi terapeutici della psicoanalisi è in definitiva di rafforzare l'Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell'Es. Dove era l'Es, deve subentrare l'lo. E un'opera della civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuíderzee" (Introduzione alla psicoanalisi, cit., p. 190).Accolta l'ipotesi di Schopenhauer, secondo cui noi siamo vissuti dalla natura che, come cieca pulsione, dirige ciò che facciamo e ciò che ci accade, Freud evita Goethe e Nietzsche per dar credito alla maschera, fino a trasformarla nel vero volto dell'individuo da contrapporre a quel senza-volto della natura che Goethe aveva così descritto: "Natura! Da essa siamo circondati e avvinti - né ci è dato uscirne e penetrarvi più a fondo. Senza farsi pregare e senza avvertire, ci rapisce nel vortice della sua danza e si lascia andare con noi, finché siamo stanchi e le cadiamo dalle braccia. [... ] Il suo spettacolo è sempre nuovo, perché essa crea sempre nuovi spettatori. La vita è la sua invenzione più bella e la morte è il suo artificio per avere molta vita. Essa avvolge l'uomo nell'oscurità e lo sprona eternamente verso la luce [... 1 Non conosce né passato né futuro. Il presente è la sua eternità" (La natura, in Teoria della natura, pp. 138~141).Come il dionisiaco di Nietzsche, così la natura di Goethe ospita l'individuo come finzione. Scoperto l'inganno, Schopenhauer propone la rinuncia per non assecondare il gioco della volontà. Goethe e Nietzsche, invece, accettano il gioco e depongono ogni morale che sempre tende a instaurare un'individualità egoica, un "soggetto" da contrapporre all'incessante "poieticità" della natura, alla sua ininterrotta creazione. Di fronte a queste due vie, Freud tenta l'ipotesi più ardita: non la rinuncia ad assecondare il gioco (Schopenhauer) e neppure l'accettazione del gioco (Goethe e Nietzsche), ma la scoperta delle regole del gioco che obbliga la natura a cedere il "suo segreto".Da Eraclito a Goethe, la natura ama nascondersi: "physis krúptesthai phileei" (Eraclito, fr. 123). Con Freud l'itinerario che si dischiude porta a scoprire il nascondimento segreto. L'ipotesi è illuministica, la categoria che la presiede è il progresso della civiltà sulla natura, la metafora che fa da sfondo è il colonialismo: "Dov'era l'Es, deve subentrare l'Io", Assoluta fiducia nella ragione e nella sua opera di colonizzazione. La morale che ne scaturisce non è più quella degli asceti, ma quella deiconquistatori. L'inconscio non è eterna creatività di forme, "spettacolo per sempre nuovi spettatori", ma landa da civilizzare, terra disponibile per le opere della ragione.Il pessimismo di Schopenhauer, da cui Freud era partito per smascherare la trama delle motivazioni che l'individuo conscio dà del proprio pensare ed agire, si risolve nell'ottimismo della ragione che, scoperto il segreto della natura, non è più rappresentazione illusoria, ma struttura d'ordine che trasforma il caos in cosmo, la natura in cultura.Con Freud nasce una morale del tutto nuova, regolata non più dall'ascesi, ma dal lavoro, dall'opera di civiltà. Il suo dover-essere non ha in vista un altro mondo, ma la colonizzazione di questo mondo, il suo ordinamento. La ragione umana, che era rappresentazione finché la natura conservava il suo segreto, ora diventa la verità del , "mondo" che è stato strappato alla "natura". Espansione del cosmo e riduzione del caos. Freud non ha scoperto L'inconscio, che se mai ha scoperto Schopenhauer; Freud ha scoperto le regole per aver ragione dell'inconscio; la sua "psicologia" è una celebrazione della potenza della ragione. Per Schopenhauer, l'ultima illusione.
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