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Pascal

filosofia



Pascal

Pascal si colloca tra i primi e i più penetranti critici moderni della possibilità di una conoscenza puramente razionale del mondo e dell'uomo. Nel seicento, secolo che segna il trionfo del razionalismo Pascal rappresenta una delle principali voci critiche nei confronti di quella che gli appare come l'arroganza di una ragione noncurante della natura imperfetta e limitata dell'uomo.

Nel suo pensiero è forte l'influsso dei giansenisti: essi prendono spunto dalla tradizione agostiniana per sostenere che il peccato originale ha introdotto una debolezza essenziale nell'animo umano, sanabile solo con l'aiuto della grazia divina. Coerentemente con la visione di questa natura umana, Pascal afferma che il ragionamento puramente logico è incapace di penetrare i misteri dell'uomo, la cui esistenza è caratterizzata dalla contraddizione tra miseria e grandezza.

Per cogliere la natura contraddittoria dell'esperienza umana l'esprit de geometrie, tipico della ragione cartesiana, non serve. Adatto ad indagare il mondo fisico, esso va sostituito con l'intuizione, L'esprit de finesse, quando si tratta di cogliere le ragioni del cuore.

Pascal afferma che troppe cose, troppi principi essenziali non possono essere dimostrati razionalmente, ma ci appaiono come veri alla luce di un'intuizione che non ha nulla a che vedere con la logica: "I principi si sentono, le proposizioni si dimostrano" egli scrive. Il modello del ragionamento matematico, che tanto lo ha appassionato nei suoi studi geometrici, non può estendersi alla comprensione della condizione umana.



Nel riconoscere i limiti della ragione Pascal rivaluta le tesi dello scetticismo, ma il suo scopo non è affatto scettico, al contrario: egli mira a mostrare la necessità della fede. Senza di essa siamo persi e vano risulta ogni tentativo di trovare principi universali e validi per tutti e in ogni luogo, come peraltro testimonia la variabilità delle convinzioni umane: "Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità".

Dopo la caduta causata dal peccato originale, l'uomo è sprofondato in uno stato di profonda miseria da cui solo la grazia di Dio potrà salvarlo; egli però ha conservato il dono della coscienza, e questo lo eleva infinitamente rispetto al mondo inconsapevole: "L'uomo è solo una canna la più fragile della natura, ma è una canna che pensa". Fragilità e supremo privilegio del pensare, miseria e grandezza umana formano dunque un tutto inscindibile.

Il cristianesimo per Pascal è vero non perché non perché dimostrabile razionalmente, 242e48c ma in quanto è in grado di dare un senso alla nostra intuizione della contemporanea grandezza e miseria umana: solo i dogmi del peccato originale possono spiegare la coesistenza di tali aspetti antitetici nell'uomo.

Questa visione pessimistica del cristianesimo è in primo piano nella polemica con i gesuiti, i quali valorizzano la libera volontà dell'uomo rispetto al ruolo svolto dalla grazia divina nella salvezza; essi sotto valutato, secondo Pascal, gli effetti negativi del peccato originale che rende al contrario essenziale l'intervento divino perché l'uomo possa giungere alla vita eterna.

Un ruolo importante per Pascal lo ha il paradosso, e il paradosso è in fondo l'idea che proprio usando il pensiero l'uomo può convincersi della convenienza razionale della fede. Questo è il famoso argomento della scommessa: ammesso che Dio o esiste oppure non esiste, conviene comunque scommettere sulla sua esistenza, dato che se vinciamo guadagniamo la vita eterna, mentre se perdiamo, rinunciamo soltanto a dei piaceri finiti. Per quanto improbabile possa apparirci l'esistenza di Dio, è sempre vantaggioso scommettere un guadagno infinito contro un prezzo finito.

















L'illuminismo

L'illuminismo è la flosofia del settecento europeo e si caratterizza per il progetto di illuminare e rischiarare le menti degli uomini, al fine di liberarli dalle tenebre dell'ignoranza e dalla superstizione. L'illuminismo ha radici nel pensiero empirista inglese e nella rivoluzione scientifica: la critica del principio di autorità, il rimando all'esperienza, la difesa dell'individuo, la libertà nel confronto delle idee danno origine a un'insieme di valori che, applicate all'intera organizzazione sociale, riproducono esiti rivoluzionari. Gli illuministi estendo all'organizzazione degli stati e della società quell'atteggiamento critico che è il nucleo dell'impresa scientifica e che viene sottolineato dal filone più radicale dell'empirismo. La fiducia nelle capacità della ragione di risolvere ogni problema dà vita a un'ideale di progresso e di riforma che non coinvolge soltanto il sapere, ma tutta la società. Gli illuministi ritengono che l'ignoranza e la superstizione siano diffuse tra il popolo anche perchè chi detiene il potere teme la presa di coscienza dei sudditi. Un ruolo di fondamentale importanza acquista così l'educazione, lo strumento di liberazione delle coscienze dalle opinioni indotte dalla vecchia cultura. L'attenzione per la dimensione educativa e l'idea che la diffusione della cultura possa esercitare un ruolo fondamentale nel progresso dell'umanità spiegano il grande rilievo assunto in questo periodo dalle enciclopedie e dai dizionari, veicoli di diffusione di un sapere destinato a un pubblico di vaste dimensioni. In Italia il pensiero illuminista si diffonde soprattutto in due realtà culturali: Napoli e Milano. A Napoli si caratterizza per l'importanza attribuita alla storia, all'organizzazione sociale e ai temi giuridico-economici. A Milano, dove è forte l'influenza francese, l'interesse degli illuministi è prevalentemente politico. Essi sostengono la necessità di applicare i lumi della ragione ai problemi della società, attraverso una serie di riforme da promuovere dall'alto, a opera di governanti illuminati. Principali figure del movimento lombardo sono i fratelli Pietro e Alessandro Verri, animatori dell'accademia dei pugni e della rivista "Il Caffè" e soprattutto Cesare Beccaria autore dell'opera dei delitti e delle pene. In questo saggio Beccaria propone una razionlizzazione in materia di leggi e di punizioni e avanza una serie di importanti obiezioni alla pena di morte. Per Beccaria le leggi si giustificano soltanto in relazione al loro contributo alla felicità collettiva; le pene per chi le infrange debbono perciò essere proporzionali al danno inflitto alla società. Inoltre esse si reggono su un contratto sociale tra stato e cittadini che non può certo prevedere la rinuncia di uno dei contraenti alla propria vita. Nello stesso spirito, Beccaria condanna la tortura, del tutto inutile come mezzo di prova. Nella sua visione razionalistica Beccaria abbandona l'idea religiosa secondo cui ciò che giustifica la pena e l'afflizione.


L'enciclopedia

La diffusione delle idee illuministe non è solo opera della battaglia culturale di studiosi isolati, ma frutto soprattutto della loro stretta collaborazione. L'esempio principale di tale atteggiamento collaborativi è un progetto editoriale, nato con ambizioni limitate, ma approdate ben presto ad un successo straordinario: L'enciclopedia. Opera collettiva in 17 volumi, pubblicata a Parigi è curata da Denis Diderot e da Jean-Baptiste Le Rond d'Alambert. Quest'ultimo nel celebre Discorso preliminare chiarisce gli scopi dell'Enciclopedia, alla quale collaborano molti grandi illuministi, tra cui Voltaire e Rousseau: tale opera intende offrire una summa del sapere scientifico e delle tecniche artigianali e industriali moderne, allo scopo di favorire la diffusione di una cultura pratica, che possa garantire il progresso dell'umanità. L'Enciclopedia mette quindi in primo piano quel rapporto tra riflessione filosofico-scientifica e sviluppo delle società che è una caratteristica essenziale della visione illuministica della cultura. Un ruolo essenziale nell'affermazione di questa impostazione è svolto da Diderot. E' merito suo, infatti se nell'enciclopedia trovano ampio spazio anche quelle arti e mestieri che la cultura tradizionale guarda con distacco, se non con disprezzo. Ma Diderot non solo è l'unico degli autori che s'impegna nella pubblicazione dell'Enciclopedia seguendone lo sviluppo dall'inizio alla fine, egli esercita anche una notevole influenza intellettuale attraverso la sua attività di filosofo, saggista e narratore.





Roussaeu

Pur appartenendo per molti versi al panorama culturale del­l'illuminismo, Rousseau è un pensatore atipico rispetto agli altri filosofi illuministi. Egli infatti mette in discussione l'idea che il progresso nelle scienze e nelle arti abbia contribuito a migliorare la vita morale e la libertà degli uomini, negando così i presupposti teorici che giustificano il progetto dell'Enci­clopedia. Per Rousseau, al contrario, è l'intera opera di civilizzazione che deve essere condannata. La società umana gli appare come una terribile degenerazione, che ha allontanato l'uomo dalla sua natura originaria, buona e priva di malizia, introdu­cendo tutti quei vizi che ora gli affliggono l'esistenza. «L'uomo è nato libero e ovunque è in catene»: tale massima riassume la condanna del mondo moderno. La libertà dell'uo­mo è quella che si realizza in un (ipotetico) stato di natura, dove ogni uomo è uguale, ha gli stessi diritti del suo simile ed è libero di dirigere la propria vita secondo volontà e inclina­zione. Nello stato di natura, l'uomo è intrinsecamente buono, ed è la società che lo corrompe (mito del buon selvaggio). I cattivi impulsi, le malvagità, persino gli orrori di cui l'uomo è capace sono il frutto del malefico influsso di una cattiva orga­nizzazione sociale basata sulla coercizione, la violenza e la menzogna tale da far deviare il naturale fluire dello svilup­po umano verso il bene. Questa concezione prevede anche l'esaltazione del sentimento naturale e spontaneo, che fa par­te della polemica arti-razionalista di Rousseau. Le «catene» che sottraggono all'uomo la libertà derivano dunque dalle istituzioni sociali e dallo Stato che, a partire dal riconoscimento della proprietà privata è all'origine della disuguaglianza e della sopraffazione. Rousseau propone di eliminare la disparità e la mancanza di libertà, che regnano incontrastate nel mondo umano, attra­verso un nuovo «contratto sociale», che sostituisca alla volon­tà del più forte la volontà generale, , ovvero quella che si muo­ve in direzione del benessere di tutti e non solo dei pochi. Ta­le volontà viene espressa dall'assemblea dei cittadini attraver­so un modello di democrazia diretta che non prevede la pos­sibilità di elezione di rappresentanti del corpo sociale. Va notato che se con queste idee Rousseau è all'origine dell'idea moderna di democrazia, la mancanza nel suo pensiero degli elementi chiave della tradizione liberale rende ambigua la concezione democratica da lui proposta. La volontà generale non coin­cide in realtà con la volontà dei singoli, che la prima anzi tra­valica in vista di un fine superiore; paradossalmente, la vera libertà dell'uomo consisterebbe nell'ubbidienza alla volontà generale. Lo Stato ha così il diritto di sottomettere i cittadini alla volontà generale, dato che questo atto di autorità coinci­derebbe con «il loro bene». Una visione di questo tipo si pre­sta all'obiezione «liberale»: chi stabilirà qual'è la volontà ge­nerale, che il singolo deve comunque seguire? Grande difen­sore della democrazia, Rousseau corre dunque il rischio di propugnare una versione totalitaria di essa. Sul piano religioso, Rousseau esalta la spontaneità del sentimento: la religione nasce da un bisogno naturale dell'uomo, possedendo nel sentire intuitivo e non nella ragione il suo fon­damento; le consolazioni che la fede può offrirci ci aiutano a su­perare le tristezze e le angosce esistenziali. La credenza in Dio è quindi il prodotto e non la causa del sentimento religioso. L'idea di una natura originariamente buona e poi corrotta da cattive istituzioni è alla base dell'importanza che Rousseau attribuisce all'educazione: l'educatore deve favo­rire soprattutto lo sviluppo spontaneo delle qualità del fan­ciullo, senza imporgli norme e nozioni in modo autoritario.






Montesquieu

Nelle celebri lettere persiane Montesquieu difende la socievolezza naturale dell'uomo contro le tesi di Hobbes, abbozzando una denuncia del dispotismo, che troverà la sua migliore espressione nel suo capolavoro Lo spirito delle leggi. In quest'opera Montesquieu cerca di fondare una scienza della società, e di individuare i principi che regolano il diritto. Le leggi infatti non sono frutto del caso, ma sono fondate su ragioni che tocca al filosofo indagare. A ogni forma di governo corrisponde una legislazione, che impone un dato ordine alla vita politica, civile, militare, religiosa. Governo e leggi dipendono anche da fattori esterni, quali il clima e la geografia di un paese, e da fattori interni, legati alla natura el popolo come i costumi, il commercio, l'uso della moneta le credenze religiose. Montesquieu si chiede quale forma dello stato garantisca la maggiore libertà del cittadino. Egli distingue due forme di governo possibili: monarchia e repubblicana, ciascuna delle quali ha meriti e demeriti, e si oppone alla terza, il dispotismo. Per evitare il pericolo dell'assolutismo occorre che i principali poteri dello stato non siano esercitati dalla stessa persona o gruppo di persone si tratta della prima formulazione della teoria della separazione dei poteri in esecutivo, legislativo e giudiziario, che rappresenta una tappa decisiva del pensiero liberale moderno.






Vico

Vico sviluppa la sua polemica contro il razionalismo cartesia­no, difendendo la fantasia e la memoria e rivendicando il valore della retorica e dell'eloquenza in polemica con l'idea che esista un unico metodo per la ricerca e lo studio. Per Vico le scienze morali e politiche presuppongono il libero arbitrio dell'uomo, e risultano quindi incompatibili con la cer­tezza assoluta propugnata dal metodo cartesiano. Vico sottolinea così i limiti della natura umana, contro l'em­pia pretesa della fisica a priori di Cartesio di descrivere il mondo dal punto di vista di Dio. Egli critica lo stesso cogito cartesiano: è vero che ciascuno di noi ha una coscienza imme­diata di se stesso, ma non per questo ha «scienza» del proprio pensiero, perché non sa come il pensiero si produce. Nella sua opposizione al cartesianesimo, Vico finisce con l'ac­cogliere posizioni addirittura reazionarie per quanto riguarda la scienza della natura: egli rifiuta il principio di inerzia e le leggi del moto della nuova fisica, in polemica con l'atomismo e la riduzione della materia a pura estensione. Egli afferma invece una visione del mondo legata al neoplatonismo e al pensiero ermetico rinascimentale, secondo cui la natura è composta da «punti metafisici» o centri di forza immateriali.

Per Vico, mentre non è possibile conoscere le leggi della na­tura noi siamo in grado di cono­scere le norme che governano le istituzioni, il linguaggio, i mi­ti, dato che di esse siamo noi gli autori. Propugnando «l'iden­tità del vero con il fatto» (verum ipsum factum), Vico indivi­dua nella storia umana il campo di una conoscenza completa e adeguata.

Partendo dall'osservazione che nell'individuo dapprima si svi­luppa il senso (la sensibilità), poi la fantasia, e in ultimo la ra­gione, Vico ipotizza che lo stesso avvenga per le civiltà uma­ne. Proiettando lo schema dello sviluppo psicologico dell'indi­viduo sul piano della storia umana, egli afferma che si hanno tre stadi storici nello sviluppo delle nazioni: l'età degli dei, do­ve dominano i miti religiosi primitivi; l'età degli eroi, caratterizzata dal dominio signorile (che trova espressione nei poemi omerici); infine l'età degli uomini, caratterizzata dalla comparsa della filosofia e del diritto. Vico nega quindi la tesi di una sapienza più profonda, goduta dall'umanità primitiva, ma d'altra parte critica la «boria» del pensiero razionalistico. Secondo Vico, le nazioni, una volta compiuto il proprio ciclo, possono ricadere in uno stadio precedente, ricominciando daccapo il tragitto verso la civilizzazione, dando vita a corsi e ricorsi storici. Civiltà e razionalità risultano dunque conquiste precarie, mai garantite e suscettibili di venir perdute dagli uomini, anche se non necessariamente ogni civiltà dovrà decadere. Polemica nei confronti dell'ala più radicale del pensiero illuminista è anche la tesi di Vico, secondo cui all'origine del cammino che conduce gli uomini alla civiltà vi sia il sentimen­to religioso: senza religione non si dà società.























Kant

Scopo principale della filosofia di Kant è quello di elaborare una visione del cosmo e dell'uomo che sia compatibile con la grande rivoluzione scientifica che, tra Sei e Settecento, ha modificato la concezione dell'universo prima e la questione del rapporto tra individuo e società poi. Egli ritiene che la ragione umana, pienamente dispiegata, possa aprire la strada a un progresso conoscitivo e pratico ta­le da segnare una frattura con il passato, ma solo a patto che sia rettamente compresa e utilizzata. Da questo punto di vista Kant è considerato l'espressione più alta del pensiero illumi­nista; non a caso il suo obiettivo polemico sono le superstizio­ni da un lato e l'uso distorto e poco rigoroso della ragione dall'altro. L'intento di Kant non è però solo critico e distruttivo; egli ha invece una proposta innovativa, di grandissima importanza, che permetterebbe a suo parere la giustificazione della scien­za moderna. Cartesio aveva dato una svolta alla filosofia, po­nendo al centro della scena il problema della fondazione del­la conoscenza; secondo i suoi critici, soprattutto empiristi, l'impostazione cartesiana non consentiva però di affermare che la nostra conoscenza del mondo avrebbe potuto condurci all'individuazione di leggi universali e necessarie (Hume). Kant offre allora una formula che gli appare capace di conci­liare tali obiezioni con la natura delle leggi scientifiche. Secondo Kant, l'universo ha un ordine razionale che la nostra mente può investigare, non perché essa riflette passivamente la struttura delle cose, ma in quanto, in qualche misura alme­no, il cosmo è il prodotto dell'attività della mente stessa.  La ragione è di casa nel cosmo, perché il cosmo è, in una certa misura, il prodotto dell'attività ordinatrice dell'intelletto. Ciò non significa che ci creiamo una realtà a capriccio: la filosofia trascendentale inaugurata da Kant spiega anzi come tale attività di ordinamento del mondo si fondi sulle condizioni a priori che rendono possibile ogni tipo di esperienza. Spazio, tempo e causalità formano la trama di ogni potenziale cosmo organizzato, di cui un soggetto possa avere esperienza. Tali condizioni risultano dunque forme della soggettività: esse però non sono arbitrarie, e descrivono anzi i caratteri oggetti­vi che il nostro mondo, in quanto oggetto comune di espe­rienza, deve soddisfare.

Scopo della filosofia sarà in primo luogo esaminare tale attivi­tà di costituzione del mondo da parte della mente, traendo le conseguenze che essa comporta per la conoscenza. Contro i visionari della filosofia, Kant propone l'indagine critica come essenza del pensiero. Il rigore concettuale e il riconoscimento dei limiti della ragione costituiscono la premessa per l'uso di questa indispensabile facoltà umana. Al rigorismo teoretico di Kant si aggiunge poi il suo rigori smo etico: la ragione come principio dell'autonomia morale dell'individuo mette capo a una concezione della morale e del dovere che non concede nulla alla ricerca del piacere o dell'utile e si collega piuttosto all'esistenza di una sfera di li­bertà che si colloca al di là del determinismo dei fenomeni della natura.

La critica della ragion pura

Nella prima parte della sua vita Kant aderisce a una visione tradizionale della filosofia, seppur caratterizzata da una certa diffidenza nei confronti della metafisica ortodossa. La sua for­mazione è ispirata alla versione delle teorie di Leibniz; un'influenza decisiva per il suo pensiero gli viene tuttavia dalla conoscenza degli empiri­sti inglesi. Kant accetta infatti la loro critica alla tradizione metafisica e prende atto della dimostrazione di Hume che sulla base della sola osservazione empirica non è possibile fondare logicamente la nostra credenza in leggi universali e necessarie. Dato che a parere di Kant tali leggi esistono e sono state individuate dalla scienza newtoniana, il suo problema è quello di spiegare come quest'ultima sia possibile. Il nucleo teorico essenziale della filosofia kantiana si trova nella Critica della ragion pura. Quest'opera è suddivisa in due parti: la logica trascendentale (che a sua volta si divide in este­tica e analitica) e la dialettica trascendentale. La logica tra­scendentale tratta del buon uso della facoltà di pensare, quel­lo che è in grado di produrre la conoscenza scientifica e filo­sofica, mentre la dialettica parla del suo uso cattivo, quello che conduce alle fantasie metafisiche. Il punto di partenza della Critica, la domanda intorno a cui ruota l'intero impianto dell'opera, è: come è possibile la cono­scenza scientifica? (e anche: «può esistere una metafisica scientifica?»). Per Kant, ciò equivale a chiedersi: come sono possibili i giudizi sintetici a priori? Per comprendere quest'ul­tima domanda occorre aver presente la duplice distinzione operata da Kant tra giudizi analitici e giudizi sintetici, da un lato, e tra giudizi a priori e a posteriori, dall'altro. Per il filosofo tedesco, esprimere un giudizio significa attribui­re una certa proprietà (o concetto) a un dato individuo (o soggetto): ora, un giudizio è analitico se la proprietà che attri­buisco non aggiunge nulla alla definizione del soggetto in questione (come quando dico che un uomo alto è un uomo); un giudizio è sintetico quando la proprietà dice qualcosa di più rispetto a quanto è contenuto nella definizione del sogget­to (come quando dico che un certo uomo è calvo). La distin­zione tra analitico e sintetico è quindi di tipo logico, dato che riguarda i rapporti tra i concetti che fanno parte di un giudi­zio. La distinzione tra a priori e a posteriori è, invece, di tipo epistemologico, poiché riguarda il modo in cui possiamo veni­re a sapere la verità o la falsità di un giudizio: qualora possiamo stabilire che un certo giudizio è vero senza ricorrere all'e­sperienza, come quando diciamo che « 2 + 2 = 4», diciamo che esso è a priori; se invece dobbiamo ricorrere all'esperien­za (come quando affermiamo che vi sono 4 persone in una danza) allora è a posteriori.

E' facile comprendere che un giudizio come «un uomo alto è sintesi a un uomo» è sia analitico sia a priori, così come «c'è un uomo calvo in questa stanza» è sintetico a posteriori. Kant ritiene tuttavia che esistano giudizi che sono sintetici a priori: in quanto sintetici essi ci permettono di ampliare le nostre cono­scenze; in quanto a priori, tuttavia, essi non sono derivati dal­l'esperienza, ma possono essere conosciuti per via razionale. Secondo Kant, essi sono sì sintetici, ma si può dimostrare che siano anche a priori e pertanto certi. Più in generale, per Kant i giudizi fondamentali delle scienze, matematiche e fisiche, sono proprio sintetici a priori: leggi ma­tematiche, come il teorema di Pitagora, o fisiche, come il principio d'inerzia, hanno la caratteristica di essere universali e necessarie; esse aumentano la nostra conoscenza, eppure possiamo dimostrarne la verità senza guardare all'esperienza.

La rivoluzione copernicana

Ma come possiamo noi, che abbiamo comunque un'esperien­za limitata del mondo, coglierne aspetti universali e necessa­ri? Siamo così tornati alla domanda fondamentale della Criti­ca della ragion pura e alla sua risposta: la rivoluzione coperni­cana attuata da Kant.Anche sulla base delle critiche degli empiristi alla metafisica tradizionale, Kant rinuncia alla pretesa di trovare la fonte del­l'universale nella realtà in sé, indipendentemente dall'attività conoscitiva dell'uomo, e si concentra invece sul modo in cui la mente agisce sul mondo (dando ordine al caos delle perce­zioni). Come il sole diviene il centro dell'universo copernica­no, così il soggetto l'attività di una mente razionale, le sue operazioni cognitive, la sua attiva opera di costituzione dell'e­sperienza diviene il centro della filosofia. Kant si esprime attraverso questa massima: «I concetti senza intuizioni sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche». Le intuizioni sono le percezioni sensibili degli oggetti che si trovano nello spazio e nel tempo; i concetti appaiono il risul­tato della sintesi delle percezioni operata dall'intelletto. Per Kant essi debbono cooperare perché vi possa essere vera co­noscenza. Da un lato infatti non è possibile pervenire a un vero sapere limitandosi a imporre astrattamente i nostri con­cetti all'esperienza; ma d'altra parte nemmeno una mera rac­colta di dati od osservazioni non guidata da alcuna concettua­lizzazione o teoria potrà mai divenire conoscenza. Nel primo caso non avremmo nulla di diverso dai sogni di un visionario, un girare a vuoto del linguaggio privo di ogni ap­plicazione alla realtà. Di questo genere sono per Kant i siste­mi metafisici succedutisi nel corso dei secoli, senza produrre vera conoscenza, ma soltanto un'infinita e improduttiva guer­ra tra filosofi.

La comprensione dell'inutilità della metafisica tradizionale Kant la attribuisce a Hume: questi lo avrebbe «svegliato dal sonno dogmatico», provocato da quel razionalismo (dogmati­co, appunto) secondo cui la ragione legifererebbe liberamen­te sullo statuto della realtà, indipendentemente da ogni vinco­lo posto dall'esperienza. D'altra parte neppure l'empirismo (inteso come l'idea che tutta la conoscenza derivi dai sensi) si trova, per Kant, in una posizione migliore. La percezione che abbiamo degli oggetti non è ricezione passiva di sensazioni da parte della mente, ma risultato del passaggio attraverso la griglia dei nostri concetti.

Per Kant, conoscere è «condizionare», imporre al dato bruto (le impressioni) le categorie dell'intelletto, ovvero unificare il «molteplice» dell'esperienza attraverso l'azione della mente. Spazio, tempo, causalità sono le categorie principali (ma non le sole), grazie alle quali la natura variegata dei fenomeni as­sume un ordine che ce li rende comprensibili. Ciò che conosciamo è dunque la realtà così come è organiz­zata dal nostro apparato categoriale Ma com'è la realtà in sé, indipendentemente dal modo in cui noi la categorizziamo? Per Kant questa domanda è illegittima. Egli non nega che esi­stano cose al di là della nostra conoscenza, ma di queste cose in sé non si può dir nulla. Ciò significa che non esiste conoscenza scientifica delle cose come sono in se stesse - i noumeni indipendentemente dal­l'azione della mente che le concepisce, ma solo dei fenomeni, degli oggetti così come ci appaiono una volta che essi siano stati «categorizzati» (ovvero concepiti attraverso il filtro di una data concettualizzazione) nella percezione o nel pensiero. Coerentemente con questi presupposti, nell'estetica e nell'ana­litica trascendentali, Kant studia il modo con cui l'intelletto giunge a conoscere il mondo dei fenomeni, mentre nella dia lettica vengono descritti i vani sforzi della ragione di andare oltre i limiti dell'esperienza possibile, mostrando che nella mi­sura in cui la metafisica vuole occuparsi non dei fenomeni, ma delle cose in sé, essa dimostra di non poter essere vera scienza (vero sapere). L'estetica trascendentale si occupa in particolare della cono­scenza sensibile, quella che riguarda gli oggetti percepiti nello spazio e nel tempo. La tesi di Kant è che spazio e tempo non esistono fuori dal soggetto, ma sono forme a priori della sensibilità dell'intuizio­ne): il modo particolare in cui la mente dà ordine al caos percettivo. Ciò non significa che tali forme siano arbitrarie, dato che in tutti gli esseri capaci di esperienza, quest'ultima deve essere di tipo spaziale e temporale. Un oggetto interiore do­vrà avere un'estensione nel tempo, così come un oggetto esteriore dovrà avere una collocazione nello spazio. Grazie alle dottrine dell'estetica trascendentale siamo così in grado di spiegare la natura sintetica a priori della matematica: l'aritmetica, basata sulla successione dei numeri, si regge per Kant sull'intuizione a priori del tempo; la geometria su quella dello spazio.

I fenomeni che conosciamo nella percezione sono poi oggetto dei giudizi dell'intelletto. Nell'analitica trascendentale Kant spiega come la formulazione di tali giudizi preveda l'applica­zione delle categorie del pensiero ai fenomeni dell'esperienza

La deduzione trascendentale

Per giustificare la sua tavola delle categorie, Kant non si ap­pella al principio di autorità, ma alla deduzione trascenden­tale. Trascendentale in Kant significa: «relativo alle condizioni di ogni possibile esperienza»; operare la deduzione trascen­dentale di una categoria significa così mostrare che quest'ulti­ma risulta essenziale perché sia possibile un certo tipo di esperienza. In questa prospettiva si spiega anche la natura universale e necessaria dei principi fondamentali della fisica newtoniana la loro verità esprime l'esistenza di una categorizzazione del cosmo di cui si rende protagonista l'intelletto. Quando parliamo di «mente» o «soggetto» in Kant, non bisogna pensare a un soggetto individuale e concreto; la mente o il soggetto di Kant sono delle forme astratte: esse esprimono le condizioni di ogni possibile esperienza da parte di un sog­getto individuale e vengono talvolta designate con il nome di io trascendentale.

L'attività dell'intelletto consiste dunque per Kant nell'applica­re le categorie agli oggetti dell'esperienza. Quest'ultima è in grado, se ben indirizzata, di giungere a una effettiva cono­scenza del mondo dei fenomeni. Tuttavia nella mente umana esiste una tendenza irresistibile a tentare di andare oltre il mondo dei fenomeni, applicando le categorie al di là dei con­fini della possibile esperienza. Tale facoltà del pensiero è det­ta da Kant ragione (con un senso negativo): essa è la madre di tutti i sistemi metafisici e conduce inevitabilmente a un vi­colo cieco.

Nella dialettica trascendentale Kant prende in esame le «illu­sioni» generate dalla ragione quando essa tenta di esaminare tre idee o concetti generalissimi: la natura di tali concetti con­siste nel riferirsi non al mondo dei fenomeni, di ciò che è con­dizionato dall'intelletto, ma all'incondizionato, alle cose in sé, come sono indipendentemente da ogni possibile esperienza. Quando ciò avviene, le ruote del pensiero girano a vuoto, il ragionamento non conduce a nessun punto fermo e da ciò derivano giudizi contraddittori: le antinomie. Le idee che suscitano antinomie sono tre venerabili concetti della metafisica tradizionale: l'anima, il mondo e Dio. Tali idee sono oggetto rispettivamente della psicologia, della co­smologia e della teologia razionali ed è con un gesto di gran­de rottura rispetto alla tradizione precedente che Kant nega la possibilità di sviluppare coerentemente queste discipline. Se esaminiamo per es. l'idea di mondo (inteso come totalità di tutto ciò che esiste), ci troviamo di fronte a qualcosa di cui non è possibile avere esperienza (noi conosciamo solo parti (lei tutto); se cerchiamo inoltre di applicarvi il concetto di causa possiamo dimostrare tesi antitetiche, come quella se­condo cui il mondo ha avuto e non ha avuto origine nel tem­po. Lo stesso può dirsi per le idee di anima e di Dio. Il risultato è che di tali idee non è possibile avere una conoscenza scientifica: una metafisica scientifica appare a Kant impossibi­le. Le «idee» della ragione possono avere solo un uso regola­tivo esse ci spingono ad andare sempre oltre la nostra cono­scenza inevitabilmente limitata e parziale, perseguendo un ideale di completezza destinato comunque a non realizzarsi. Lo scopo della filosofia consisterà allora nella critica della ra­gione, nell'attività che evidenza i limiti del pensiero e vigila affinché vuote speculazioni non vengano scambiate per real­tà.

La Critica della ragion pratica

La critica della ragion pura si conclude con una nota di pessimi­smo sui poteri dell'intelletto riguardo alla conoscibilità del mon­do soprasensibile. Nonostante rimanga sempre fe­dele a questa conclusione, nella Critica della ragion pratica Kant prende in esame un problema, quello della morale e della liber­tà, che apre inaspettate prospettive alla sua posizione. Secondo Kant l'azione morale è governata da una serie di im­perativi, cioè di giudizi su ciò che deve essere fatto. Essi sono di due tipi: ipotetici e categorici. I primi hanno una forma con­dizionale: «se vuoi questo, allora fai quello». Di questa forma sono gli imperativi collegati a un'etica di tipo utilitaristico finalizzati cioè a promuovere quei comporta­menti che sono maggiormente utili o producono la maggiore felicità individuale o collettiva. Per Kant, però, tali imperativi non colgono l'essenza della morale che è il dovere per il do­vere. Solo gli imperativi categorici, ovvero incondizionati che non contengono dei «se» sono in grado di farlo: essi in­fatti hanno la forma del puro «tu devi». Secondo Kant è un fatto che troviamo in noi stessi una conce­zione del dovere come qualcosa di incondizionato e non ridu­cibile all'utile, alla convenienza (in ciò sembra forte l'influen­za di Rousseau). Ma tale fatto presuppone l'esistenza della li­bertà: non esiste un vero dovere, se non si è liberi di sceglie­re. Ciò crea un grosso problema, in quanto nel mondo della fisica, come descritto dalla scienza newtoniana, una simile li­bertà del volere non sembra trovar posto. Tutto ciò che av­viene ha una causa che lo determina e l'azione volontaria sembra impossibile. Se l'autonomia del soggetto morale è una precondizione per­ché il dovere morale possa essere compiuto, tale autonomia sembra urtare contro il determinismo del mondo fisico. Avendo però Kant distinto tra fenomeni e noumeni, egli ha ora a disposizione una (rischiosa) soluzione: nel mondo dei fenomeni sembra non esistere spazio per la libertà, ma è pos­sibile attribuire quest'ultima alla realtà soprasensibile che sta al di là delle apparenze. L'uomo in quanto ente fisico e soggetto morale abita, per così dire, in entrambi i mondi: il corpo in quello fenomenico, la volontà in quello sovrasensibile. Naturalmente non è possibile avere conoscenza di questa realtà (la conoscenza è solo dei fenomeni): possiamo però in­trodurre dei postulati della ragion pratica, delle proposizioni non dimostrate, che dobbiamo però assumere se vogliamo giustificare la nostra adesione all'imperativo categorico. Tali postulati sono quelli della libertà del volere dell'immortalità dell'anima dell'esistenza di Dio

I postulati della ragion pratica mostrano con chiarezza come Kant fondi le credenze religiose sulla morale (e non vicever­sa), con un'impostazione che nega valore conoscitivo alla teo­logia razionale. La «religione nei limiti della semplice ragio­ne» diviene dunque il progetto della realizzazione di una mo­ralità universale (perché fondata sulla natura di tutti gli uomi­ni), che intende i precetti etici non come gli ordini arbitrari di un Dio incomprensibile, ma come la realizzazione dell'istanza morale presente in ognuno.

Ma qual è il contenuto degli imperativi categorici? Per Kant formalismo non spetta alla ragion pratica determinare il contenuto speci­fico di singole massime, ovvero di concrete singole norme di azione che mirano a risultati specifici. Ciò che l'indagine etica mostra è piuttosto la forma di tutte le possibili norme etiche, il carattere comune che esse devono condividere. Tale forma è espressa da principi quali: «Agisci in modo che la massima della tua azione possa sempre valere come principio di una legislazione universale», o: «Agisci in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona che in quella di ogni altra, sempre come fine e mai come mezzo».






































Voltaire

Lo sfondo filosofico del pensiero di Volteire è la tradizione emperistica britannica, da lui intradotta in Francia; da essa trae alimento teorico la sua critica corrosiva, che non risparmia le istituzioni sociali, culturali e religiose del tempo, così come i sistemi filosofici elaborati nel seicento soprattutto da Cartesio e Leibniz. La filosofia inglese guida Volteire anche in campo politico: il modello del mondo da lui adottato è quello di Newton, mentre la su difesa dei diritti dell'individuo e della tolleranza è ispirata al liberismo di Locke. Volteire si appella alla ragione, ma la sua ragione non è quella del razionalismo, che si muove con principi a priori e idee innate; essa è piuttosto quella di Newton, che adduce prove di quanto afferma appellandosi all'esperienza: "non si deve iniziare inventando dei principi con i quali tentare poi di spiegare tutto".

È la ragione che mostra come le religioni si con­traddicano tra loro e credano in cose impossibili; ma è la stes­sa ragione che mostra l'inconsistenza dei sistemi metafisici tanto cari ai filosofi. La ragione, infine, è lo strumento princi­pe da adottare in vista della liberazione dalla superstizione, dal pregiudizio e dall'ingiustizia. Essa è la guida alla tolleran­za nei riguardi delle idee e delle aspirazioni altrui: il grande veicolo del progresso dell'umanità. L'anima empirista di Voltaire si manifesta anche nella straor­dinaria lucidità e nell'intransigente ironia con cui esamina le dottrine tradizionali dei campi più svariati, mostrando come esse non si basino su prove o argomentazioni razionali, ma solo sulla passiva accettazione delle opinioni correnti e dei pregiudizi del passato. Sul piano teologico ciò comporta una spietata critica di tutte le religioni rivelate, cristianesimo compreso. Voltaire tuttavia non giunge agli esiti materialisti e laici di alcuni illuministi, come d'Holbach o Lamettrie; egli aderisce invece al punto di vista del deismo, accettando l'idea di un Dio garante dell'ordine della natura e difendendo l'esistenza di una morale razionale, che l'uso attento della ragione può mettere a disposizione di ogni uomo «esiste una sola morale, come vi è una sola geometria». Strumento particolarmente efficace per la critica della società si rivela la storia, disciplina alla quale Voltaire si accosta in modo innovativo rispetto ai suoi contemporanei. Invece di concentrarsi sulle vite dei re e sulle grandi battaglie, egli dedica infatti la sua attenzione alle arti, ai costumi e al carattere dei popoli. Voltaire mostra dunque una concezione laica della storia, intesa non come la realizzazione del disegno della provvidenza, ma quale luogo in cui l'uomo realizza la propria umanità

La Bibbia diviene così un libro che offre preziose informazioni sugli usi e costumi degli antichi; la sua cronologia viene però negata e posta in ridicolo - con grave scandalo dei benpensanti - mettendone in luce le molte incongruenze (di irresistibile umorismo sono per es. le osservazioni sulla lunghezza secolare della vita dei patriarchi). Per Voltaire la presenza dell'uomo sulla terra risale a tempi molto più antichi di quelli biblici. Egli ha anche una visione meno provinciale degli av­venimenti: la storia non può che essere storia universale. Per tale ragione egli non tratta solo delle popolazioni più vicine a noi europei, ma prende in considerazione i Caldei, i Persiani e soprattutto i Cinesi

Per quanto riguarda la visione dell'uomo, Voltaire critica sia visione Hobbes che Leibniz: Hobbes ha una concezione troppo pessi­mista dell'uomo, inteso come intimamente brutale e bisogno­so di essere trattenuto nei suoi impulsi violenti da un sovrano dispotico; Leibniz pecca invece di eccesso di ottimismo: la tesi secondo cui il nostro sarebbe il migliore dei mondi possibili

Attaccando l'ottimismo leibniziano, Voltaire non solo pole­mizza con una certa tradizione religiosa, ma mette in discus­sione un caposaldo dell'immagine tradizionale dell'uomo, l'antropocentrismo: è ridicolo illudersi che tutti gli avveni­menti del cosmo ruotino intorno ai destini di una creatura tanto misera e limitata qual è l'uomo. Ugualmente egli si fa beffe della convinzione del popolo ebraico prima e dei cristia­ni poi secondo cui l'intera vicenda storica del mondo non è altro che lo sfondo delle proprie vicissitudini storiche.

Voltaire, con cautela, condivide la fiducia nel propria degli altri illuministi: se è vero che la storia è fatta di grandi realizzazioni ma anche di errori e fallimenti e che l'uo­mo non riuscirà mai a sfuggire ai limiti della propria natura, è però auspicabile sperare che a poco a poco la ragione e la tecnica possano creare le condizioni per migliorare le sue condizioni di vita.




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