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Fino a metà del Settecento, la gravidanza era un momentaneo mutamento nel corpo femminile, era un evento che riguardava un solo soggetto, la donna. Per questo essa era stata per molti secoli identificata con la procreazione e solo grazie ad essa l'esistenza femminile trovava senso e giustificazione.
Il feto, prima d'essere messo al mondo, viene considerato una parte della donna o meglio delle sue viscere.Tale opinione fu condivisa per lunghissimo tempo da filosofi, teologi e legislatori, sebbene non si basassero su alcuna teoria scientifica e sebbene medici illustri dell'antichità come Ippocrate e Asclepiade fossero d'avviso contrario. Così, nel caso in cui si fosse dovuto scegliere tra la gestante e il concepito, mai si sarebbe messa sullo stesso piano la vita della donna con quella del feto, giacché per secoli fu inammissibile la comparazione tra un essere formato e uno non ancora considerato tale.
La donna era ritenuta solo un campo da seminare, ed era considerata l'unica responsabile in caso di sterilità della coppia. Questa però aveva pieno controllo in tutto ciò che riguardava la gravidanza: erano solo le donne ad impartire consigli, istruzioni e accorgimenti alle gestanti e alla sua creatura, erano loro che aiutavano a partorire ed abortire, con i saperi oralmente tramandati di donna in donna e strettamente legati alle conoscenze interfamigliari della vita quotidiana. L'aborto era spesso procurato dalla levatrice, a volte dalla donna stessa, molto raramente dai medici che, in quanto seguaci di Ippocrate, erano generalmente contrari all'aborto.
Poiché l'accorgersi di essere in cinta era incontestabilmente questione femminile, una donna che non avesse dato notizia della propria gravidanza, non poteva essere accusata di aver abortito giacché non v'era modo di provare l'avvenuto concepimento. Fino alla seconda metà del Settecento era sempre stato dato per scontato che la decisione di interrompere l 222i85c a gravidanza fosse di esclusiva pertinenza femminile, dal momento che ambiente sociale e istituzioni si disinteressavano di quanto avveniva tra il concepimento e il parto. Ciò non significa però che il frutto della nascita fosse socialmente economicamente e politicamente irrilevante; da sempre il bambino venuto alla luce diventa rilevante per il padre e per la comunità.
L'interruzione di quel processo naturale interno alla donna per lo più rimaneva una questione privata che si verificava in situazioni di povertà, come conseguenza indesiderata della prostituzione, dello stupro o risultato del tentativo di salvare la vita della madre, o laddove fosse praticata per violare interessi economici o come vendetta per privare il marito di una discendenza.
È stato sostenuto che l'aborto venisse usato come metodo di controllo delle nascite, accanto al coitus interruptus, all'infanticidio e all'abbandono di neonati, senza contare sia i frequenti aborti spontanei che gli interventi praticati per "normalizzare" le mestruazioni...
Mentre per noi oggi intervenire sull'andamento della gestazione a concepimento avvenuto è un qualcosa di definibile in termini "interruttivi", in passato si parlava di aborto solo da quando la massa informe nel grembo materno fosse divenuta un feto, dal momento che le perdite di sangue erano considerate semplici flussioni.
Il silenzio delle fonti storiche in un tema è un importante indice indiretto di come il tutto fosse, di fatto e culturalmente, di ambito femminile. Quel poco che sappiamo a partire dall'età tardo-antica e per buona parte del medioevo emerge da quanto scritto e raccolto da chierici e confessori anche se spesso in modo succinto e impreciso. Alcuni testi latini come La storia naturale di Plinio il Vecchio, erano ricchi di notizie su piante officinali e se molte indicazioni sono espressione di superstizioni, ve ne sono altre che hanno invece reale effetto farmacologico (cantano nel 1993 i Nirvana <<sit and drink pennyroyal tea, distill the life that's inside me>>, dove pennyroyal è un abortivo già conosciuto nell'antica Grecia). Le donne avevano famigliarità con erbe e droghe, come emerge dai miti di Medea e di Andromaca. In particolare quest'ultima, come racconta Euripide, divenuta dopo la caduta di Troia schiava e concubina di Neottolemo figlio di Achille, deve difendersi dall'accusa di<<filtrare i beveraggi e rendere sterile>> il ventre della moglie legittima.
2. L'aborto nel mondo greco
La pratica dell'aborto qui era largamente diffusa in tutte le classi sociali, moralmente accettata e giuridicamente lecita. Al fondo l'idea che il feto fosse semplicemente una parte del corpo materno, e la convinzione che esso si animasse solo al momento della nascita, dove per animazione s'intende l'unione tra anima e corpo. Gli stoici non erano favorevoli alle pratiche abortive, poiché ritenevano che la vita andasse vissuta seguendo l'andamento della natura: interrompere una gravidanza significava non rispettare un processo spontaneo ormai in sito. Le critiche contro questa pratica non furono però mai rilevanti, non vi erano leggi punitive ed il solo limite effettivo era connesso alla tutela dell'interesse maschile, giacché il ricorso alla pratica poteva ostacolare l'aspettativa dell'uomo (padre, marito o padrone) interessato alla discendenza.
Artefici principali dell'aborto erano le levatrici o le stesse gestanti. Quanto ai mezzi si menzionavano farmaci, accompagnati da cantilene magiche, violenti esercizi fisici e strumenti meccanici. Tutte queste modalità presentavano rischi notevoli e finanche mortali per la donna, rischi di cui erano ben consapevoli.
Un riferimento all'aborto è presente anche nella Politica di Aristotele. Egli sostiene che <<si deve fissare il massimo di procreazione e se alcune coppie sono feconde oltre tale limite, bisogna procurare l'aborto>>[1]. Il passaggio introduce però una distinzione molto importante perché si afferma che il ricorso ad esso, deve avvenire <<prima che nel feto si siano sviluppate la sensibilità e la vita, perché queste determinano la consapevolezza e la non consapevolezza dell'atto>> . La distinzione tra aborto lecito e illecito viene condizionata dunque dal momento in cui esso viene praticato. E tale momento, come risulta da altre opere aristoteliche e come già in Ippocrate, varia in base al sesso del nascituro poiché s'ipotizza un più rapido sviluppo del feto maschio (40 giorni, contro gli 80 necessari a quello femminile). Di due secoli dopo è una breve iscrizione di Delo, in cui tra le impurità si cita espressamente quella che segue l'aborto. Per essa si prevede un lungo periodo di quarantena, laddove per il parto sono sufficienti sette giorni. Ancor più duro e netto è il pressoché coevo regolamento del santuario di Dioniso a Filadelfia di Lidia, che sancisce il divieto d'accesso a coloro che abbiano fatto ricorso ad aborto e metodi contraccettivi. Nel II secolo d.c. Sorano di Efeso introduce la nozione di aborto terapeutico, praticato cioè nel caso in cui la gestazione metta in pericolo la vita della madre.
3. L'aborto nel mondo romano
Il primo cenno indiretto all'aborto si trova nella legge delle XII tavole (V secolo a.c.) secondo cui la madre poteva essere ripudiata dal marito per sottrazione di prole.
Anche se mancano testimonianze sufficientemente sicure, è certo che lo stoicismo, alquanto diffuso a Roma nella prima metà del I secolo a.c., influenzò la giurisprudenza romana, introducendo l'idea della non autonomia del feto rispetto al corpo della madre. Per il filosofo Epitteto (I secolo) ad esempio <<era sbagliato chiamar statua il rame in fusione, e l'uomo il feto>>. Interessante è la posizione del maestro di Epitteto, Musonio Rufo, che non riteneva l'aborto un atto rivolto contro il feto, ma lo condannava in quanto detrimento del bene comune, grave atto di empietà, offesa agli dei e al matrimonio, alla famiglia e alla natura, tanto da dichiararsi favorevole alle leggi contro l'aborto.
A Roma dunque l'aborto non fu considerato reato fino al periodo classico: il feto era giuridicamente mulieris portio vel viscerum (ossia veniva considerato parte del corpo o delle viscere della madre). La decisione di abortire però era in realtà di pertinenza femminile solo per le donne non sottoposte a potestà come le prostitute. Per le altre, non solo la pratica era causa di separazione matrimoniale, ma nel caso in cui la donna incinta fosse condannata alla pena capitale l'esecuzione era rimandata a dopo il parto.
L'argomento assunse una valenza morale negli scritti di Ovidio. Ferma e inequivocabile è la condanna per quelle donne che per le semplici preoccupazioni estetiche attentavano alla loro vita uccidendo con ferri o potenti veleni le creature che portavano, pur consce dei rischi che correvano e della riprovazione sociale.
Durissimo è anche il giudizio di Plinio il Vecchio: l'aborto è una devianza tipicamente femminile, elementi come questi rendono il genere umano inferiore alle belve. Pungente Giovenale: <<Le donne comuni, di modesto ceto, corron però il rischio del parto, e sopportano, sotto il peso del destino, tutti i disagi della nutrice; ma nei letti dorati difficilmente giace qualche puerpera. Tanto posson le tecniche e tanto i rimedi di colei che rende sterili e a pagamento s'assume di uccidere gli uomini nell'utero>>[3].
La prima sanzione esplicita del mondo romano fu un rescritto (databile tra il 193 e il 217) con cui vennero introdotte due sanzioni penali contro questa pratica: esilio temporaneo a carico delle divorziate o delle sposate che si fossero procurate l'aborto contro il volere del coniuge; lavori forzati in miniera e relegazione in un isola con <<parziale confisca dei beni>> per chi avesse somministrato infusi o filtri amorosi. Addirittura era prevista la pena capitale in caso di morte della donna. L'aborto venne classificato tra i crimina extraordinaria, puniti discrezionalmente al di fuori del sistema formulato e senza sanzioni prefissate.
4. L'aborto nel mondo ebraico
Il contrasto si sviluppa tra un mondo che vede nel feto solo un'appendice della madre con un altro, secondo cui l'embrione va inserito in un processo di vita voluto e messo in moto da Dio e ,perciò, da non interrompere. Diversamente da quanto avveniva in ambito greco e romano, infatti, aborto e infanticidio non erano accettati nel mondo ebraico.
L'ebraismo, permeato dal desiderio di popolare la terra per difendere la propria sopravvivenza e la presenza divina, considerava la fecondità una benedizione del signore, come rivela chiaramente la Scrittura sacra, ricca di passi in cui Dio promette una discendenza numerosa come segno della sua benevolenza. Fondamentale, in ogni caso, era il rispetto per la santità della vita in quanto creata da Dio, e radicato un profondo orrore per il sangue e per il suo spargimento.
Secondo la tradizione ebraica la vita inizia prima del concepimento perché, traendo origine dal momento della creazione, si snoda lungo scansioni successive: attraverso il rapporto sessuale tra l'uomo e la donna e poi, attraverso il concepimento, si passa alla fase dell'embrione. Non mancano, infatti, riferimenti ad una chiamata alla vita che comincia prima della nascita: << Jahvè mi ha chiamato fin dal ventre di mia madre, quando ero ancora nel seno egli ha pronunciato il mio nome>>[4] Una vita allo stadio embrionale non è però assolutamente comparabile con quella di un essere umano già nato, giacché l'embrione/feto viene considerato alla stregua di una persona solo dopo che è venuto alla luce. Prima della nascita è invece visto come una parte delle membra della donna Sul piano legale (come nel mondo romano) il feto non ha personalità giuridica propria, né alcuna rilevanza autonoma.
Né la Scrittura né l'halakah (la tradizione giuridica) considerano il feto un essere vivente, con la conseguenza che l'aborto -seppur immorale e illecito- viene nettamente distinto dall'omicidio. Né è punibile come assassinio in quanto solo con il parto il concepito diviene persona. Si tratta di un primo, importante elemento di differenza con il cristianesimo. Se l'embrione non è collocabile sullo stesso piano della persona nata, interrompere la gravidanza non solo è lecito, ma addirittura doveroso quando sia in pericolo la salute o la vita della madre.
Quando nel III secolo a.c., probabilmente ad Alessandria, la Torah fu tradotta in greco, la cultura ebraica ne fu influenzata in quanto la parola ebraica ason venne resa non più con il significato di disgrazia, bensì con quello di formato. Venne introdotta dunque la distinzione tra feto formato e non, e questo implicò che il feto formato fosse un essere vivente: l'aborto dunque diveniva omicidio.
Nell'aprile 1977 l'Assemblea dei rabbini d'Italia sancì che nella legislazione ebraica l'aborto, pur essendo atto illecito, non fosse punibile alla stregua dell'omicidio. Nonostante questo però, l'atto abortivo poteva giustificarsi solamente qualora il feto rappresentasse un pericolo per la vita della madre. Ogni altra situazione (malformazioni, violenza, incesto, problemi psichici della madre) avrebbero costituito sempre un caso specifico da sottoporre all'esame di una competente autorità rabbinica. Inoltre, sebbene la legge ebraica consideri con attenzione i fattori sociali ed economici del singolo caso, questi da soli non sono in genere considerati sufficienti per consentire l'interruzione della gravidanza. Un importante elemento di decisione è comunque fornito dallo stadio di gestazione: nelle fasi iniziali il favore verso il ricorso all'aborto è maggiore.
5. L'aborto nel mondo cristiano
Come l'ebraismo, anche il nascente cristianesimo condanna l'aborto, in quanto non conforme ai suoi principi di rispetto per la vita e di amore verso il prossimo. Mentre le novità dell'ebraismo era stata quella di un Dio che raccomanda la fecondità al suo popolo, il cristianesimo considera il problema da una prospettiva completamente diversa. Per la prima volta, laddove la preoccupazione della tradizione classica riguardava gli interessi del padre, dello stato, occasionalmente della donna, nel cristianesimo ci si occupa del feto, parificando l'aborto all'omicidio.
Il documento più antico cristiano che condanna l'aborto è la Dottrina dei dodici apostoli (o Didaché), il primo ordinamento delle comunità cristiane primitive a noi noto, databile intorno all'anno 100 e strutturato intorno allo schema delle due vie, della vita e della morte. Se nella prima ci si limita a proibire la pratica, nell'altra emerge la motivazione del divieto: l'aborto è un peccato contro Dio perché viene distrutta una sua creatura. << Non ucciderai un figlio con l'aborto né lo sopprimerai dopo che è nato >>[5] si legge, coloro che lo praticano sono considerati assassini delle <<creature di Dio>>. Quest'impostazione viene poi seguita dalla Lettera di Barnaba che aggiunge la violazione dell'amore per il prossimo. <<Ama il prossimo tuo più della tua stessa vita; non uccidere il bimbo con l'aborto e non togliergli la vita appena nato>> . Il feto dunque è visto come il prossimo.
Tertulliano considererà il feto un essere umano, sia pure dipendente dalla madre, dove la dipendenza non significa (come nel pensiero pagano o per la legge romana) che il feto ne sia una mera appendice: l'embrione prima e il feto poi, già esistono a livello di entità agli occhi di Dio. Se per i romani il feto è solo speranza di una vita e non può considerarsi uomo, gli scrittori cristiani sostengono invece che sia un entità autonoma, tanto che non si estende al feto il battesimo impartito alla madre. <<Se quel che in essa è concepito, appartenesse al corpo della madre, sì da reputarsi parte di lei>> scriverà Agostino, <<non si battezzerebbe l'infante la cui madre [.] fu battezzata quando lo portava in seno. Ora certo, quando anche lui viene battezzato, non lo riterrà assolutamente battezzato due volte>>[7].
Nel primo periodo i cristiani non separavano l'aborto dalla violenza in generale, paragonandolo costantemente ad altre forme di spargimento di sangue come la guerra, in applicazione del concetto biblico <<non far morire l'innocente e il giusto, perché io non assolvo il colpevole>>.
Dopo l'età costantiniana, con l'affermarsi della nozione di guerra giusta, il parallelo tra partecipazione bellica e aborto fu abbandonato. L'aborto è inoltre considerato omicidio con due aggravanti: uccide la vittima prima del battesimo (precludendole la vita eterna) e chiama in causa anche il suicidio, in quanto spesso le donne muoiono per tali iniziative.
Il principio che resta immutato nel tempo è dunque che il feto, essere indifeso, vada protetto da quanti intendano sopprimerlo, e che la sua soppressione debba essere parificata ad un omicidio. << A noi cristiani>>, scrive Tertulliano, <<una volta vietato l'omicidio, è vietato anche uccidere il concepito nell'utero mentre ancora il sangue vi si deliba in uomo. Impedire la nascita è affrettare l'omicidio, e non è diverso strappare l'anima o distruggerla mentre nasce. Chi lo diventerà è già uomo, così come il frutto è già nel seme>> . L'apologeta non dimentica però l'eventualità del rischio per la vita della madre, e considera l'ipotesi del feto messosi <<di traverso in uscita>>, per cui il parto diverrebbe possibile solo sacrificandola. Ebbene, definito il feto matricida, Tertulliano sostiene che in questi casi l'embriotomia è una necessaria crudelitas.
Un nuovo passaggio nella storia dell'atteggiamento cristiano si ebbe con Agostino, quando cominciò a prevalere l'idea dell'animazione ritardata, secondo cui l'infusione dell'anima nel corpo avverrebbe in un momento successivo al concepimento. Fu del resto in questo periodo che la riflessione teologica stabilì che non tutte le uccisioni dovessero ritenersi colpe, difesa personale, guerra e punizione dei crimini erano riconosciute come eccezioni e i loro artefici non si potevano classificare automaticamente come colpevoli. Per quanto in Agostino fosse forte la condanna per ogni forma di aborto, egli esita però a bollare come omicidio quello ai danni di un feto inanimato: <<non è omicida chi procura l'aborto prima dell'effusione dell'anima nel corpo>>[9]. La questione del momento dell'infusione accompagnerà per secoli il dibattito ecclesiastico. Poiché l'esistenza dell'essere umano dipende dal binomio anima e corpo, occorre stabilire da quando il feto abbia l'anima per qualificare il peccato di aborto. Prima che il feto sia animato, infatti, la sua soppressione è condannata in quanto s'interrompe il processo messo in moto da Dio, ma non è equiparabile all'omicidio, giacché la vittima non è ancora un essere umano. Durante l'età patristica i più sostennero l'animazione immediata, mentre la teoria dell'animazione ritardata prevalse successivamente.
L'aborto comincia ad essere oggetto di decisioni conciliari (canoni) solo verso l'inizio del IV secolo. Tra i concili, grande eco ebbero i canoni di Elvira e, soprattutto, di Ancira. Il concilio plenario di Elvira (300-303 circa), esaminò con particolare attenzione le questioni di carattere disciplinare e fu il primo a dettare norme in materia. Il canone 63 e il 64 che, pur non usando testualmente il termine aborto, intervengono in merito in modo indiretto: la donna battezzata che <<assente suo marito abbia concepito in adulterio e dopo il misfatto abbia ucciso il figlio>> era esclusa per sempre dalla comunità cristiana, mentre alla catecumena era permesso il battesimo solo in punto di morte. Il rigore di questa disciplina, tra le più dure di tutta la storia della Chiesa in materia d'aborto, sembra spiegabile alla luce del fatto che la donna si rendeva colpevole di due peccati che la Chiesa antica considerava capitali, l'omicidio e l'adulterio. Ad Ancira viene temperata la severità della disciplina di Elvira, e si previde una scomunica di dieci anni con pubbliche penitenze. Il concilio di Lerida (546), sebbene imponesse di piangere il misfatto per tutta la vita, stabiliva che chi avesse eliminato figli adulterini con infanticidio o aborto venisse riammesso nella comunione dei fedeli dopo sette anni. Il concilio Trullano (692) assimila l'aborto all'uccisione volontaria di un adulto. I canoni irlandesi intorno al 675 sembrano chiaramente rifarsi alla tradizione aristotelica nell'affermare che <<la pena per la distruzione di figli in stato liquido (liquoris materiae filii) nel grembo materno è di tre anni e mezzo>>[10], anche se dopo i 40 giorni, quando ormai l'aborto è omicidio, la pena non sarà la stessa di quella comminata per l'omicidio premeditato. Un altro penitenziale irlandese intorno all'anno 800 distingueva con maggior precisione tre fasi: il periodo iniziale, quello della formazione della carne e infine quello dell'infusione dell'anima.
Solo dopo il 1100 comincia la formazione della legge canonica poiché si avvertiva in maniera sempre più pressante in Occidente la necessità di una disciplina uniforme e ordinata. In questo quadro si colloca l'opera del monaco Graziano, che tentò di codificare i numerosi canoni precedenti, spesso discordanti fra loro, in un testo unitario (non a caso intitolato Concordantia discordantium canonum).
Per quanto riguarda la contraccezione, anch'essa condannata dalla Chiesa, mentre l'esplicita condanna dell'aborto risale, come si è visto, all'inizio del II secolo con la Didaché, il primo riferimento alla contraccezione si trova poco più tardi nella Tradizione apostolica attribuita ad Ippolito. La contraccezione era ritenuta violazione della sanità delle nozze, mentre la condanna dell'aborto derivava dal concetto cristiano della santità della vita umana e rientrava nella condanna della violenza. Coloro che consideravano omicidio l'aborto solo dopo la formazione del feto, accostavano le pratiche contraccettive agli interventi nei primi mesi di gravidanza. Infatti, intorno al mille i cristiani erano chiamati ad avere rapporti solo all'interno del matrimonio e al solo scopo di procreare.
Dopo il '200 le pene ecclesiastiche si vanno arricchendo. Ad esempio, il concilio Insulano della fine del XIII secolo non prevede solo la scomunica, ma parla di sanzioni terrene. D'altro canto però, molti canonisti indagano con sempre maggiore precisione il rapporto tra il fatto oggettivo che viene compiuto e la motivazione individuale che spinge il singolo a compiere l'azione. Il diritto canonico era attento alla rei veritas, molto più di quanto non facesse il diritto civile.
Interessante è accennare brevemente alle legislazioni di alcuni regni barbarici. La legge salica del V secolo, una delle prime raccolte barbariche a carattere prevalentemente penale emanata sotto il re merovingio Guntram (567-593), segna il passaggio dalla vendetta diretta alla composizione pecuniaria. Nella sezione dedicata ai maleficia v'è un passaggio probabilmente contro la contraccezione: verrà giudicata colpevole e multata la donna che commette un maleficium che le impedisca di avere figli. Nel regno dei Visigoti il codice del re Leovigildo alla fine del VI secolo (569-586) puniva l'aborto con la pena di morte per chi avesse elargito la pozione velenosa. Quanto alla donna, se costei era schiava le andavano inflitti duecento colpi di flagello, se era libera doveva essere ridotta in schiavitù. I codici germanici del primo Medioevo proteggevano il feto, e lo facevano molto più di quanto non avessero fatto le legislazioni precedenti. Una legge alemanna (600 circa) prescriveva che <<se qualcuno dà un abortivo ad una donna, deve essere multato di 24 soldi se il feto è maschio; se è femmina con 12. Se non si può dire il genere e non è ancora formato (iam non fuit formatus in lineamenta corporis) è multato di 12 soldi>>[11]. In questo caso, il riferimento al sesso fornisce una precisa indicazione della fase di maturazione del feto, anche se si conferma il minore valore del feto femminile. Le leggi bavare e ostrogote consideravano aspetti più legati al controllo delle nascite. Secondo la legge bavara (VII secolo) <<se una donna dà una ad un'altra una pozione (potio) così che lei abortisce, se è una schiava ella riceverà 200 frustate>> . La legge visigota prevedeva la stessa disciplina senza precisare che fosse una donna a dare la pozione, dando probabilmente per acquisto che le azioni connesse con i maleficia non potessero che essere muliebri. Le leggi inglesi, nei secoli successivi, risultano molto rigorose, come quelle promulgate da Edoardo I (1271-1307) che parificano all'omicidio non solo l'aborto ma anche la contraccezione.
A conclusione delle riflessioni sull'impostazione legislativa, si può affermare che emergono sostanzialmente tre fattispecie: l'aborto di feto non animato (punito con esilio o pena straordinaria), l'aborto di feto animato (pena di morte in quanto omicidio), e l'aborto per denaro (punito con la pena di morte indipendentemente dallo stadio dello sviluppo).
Importante è sottolineare un altro aspetto che derivò da tutto questo, ossia il fatto che diritto canonico e civile, rimasti per più di mille anni distinti, nel Duecento convergono attraverso l'opera dei glossatori, e trovano un unità intorno alla distinzione tra feti non formati e feti formati. Da quando nel feto al corpo si unisce l'anima, interrompere volontariamente la gravidanza è omicidio. Il punto nodale sta dunque nello stabilire quando si verifichi questa infusione: secondo il celebre Bartolo da Sassoferrato, il maggiore giureconsulto italiano del Trecento, il tempo dell'animazione sarà stabilito dalla scienza.
6. L'aborto nel mondo islamico
L'islam proibisce l'aborto in quanto intervento che pone termine ad una vita. L'unica eccezione è il caso in cui la pratica si renda necessaria per salvare la madre.
Alla base è il passo del Corano (23, 12-14) che elenca sette tappe dell'evoluzione embrionale nel ventre materno: << Noi creammo l'uomo d'argilla finissima, poi ne facemmo una goccia di sperma in ricettacolo sicuro. Poi la goccia di sperma trasformammo in grumo di sangue, e il grumo di sangue trasformammo in massa molle, e la massa molle trasformammo in ossa, e vestimmo l'ossa di carne e produciamo ancora una creazione nuova>>[13], dove per creazione nuova è stata per solito intesa come il momento dell'animazione a partire dal quale il feto necessita di una maggiore tutela. Anche per gli islamici, l'aborto prima dell'animazione, nonostante le diverse opinioni, è generalmente tollerato. Dopo l'animazione invece, a partire dal centoventesimo giorno dopo il concepimento, l'interruzione della gravidanza è sempre omicidio, e sempre in base all'animazione o meno viene stabilito il prezzo per risarcire il danno procurato dall'aborto. La sola eccezione anche qui è data dall'aborto terapeutico. Quando il feto è animato, ha diritto alla vita tanto quanto la madre, ma laddove si debba scegliere fra i due, la shari'a (la legge islamica) riconosce maggiore valore alla madre, in quanto esistenza già sviluppata, eventuale fonte di ulteriore vita e pilastro della famiglia. Un tema recentemente dibattuto a causa degli stupri etnici verificatisi in Bosnia e Kosovo è stato quello dell'aborto a seguito di violenza sessuale. Da molte parti ci si è espressi a favore di aborti tempestivi. Importante è sottolineare però che la donna non può comunque mai decidere autonomamente senza il benestare del padre o del marito, come emerge anche da un episodio del film Il cerchio di Jafar Panahi.
7. Le conseguenze delle scoperte scientifiche sulla riflessione teologica
Le scoperte scientifiche non potevano che avere ripercussioni sul modo in cui la Chiesa andava affrontando temi come concepimento, parto e aborto. Si pensi solo all'impatto sul problema riguardante il momento dell'animazione. Da quando infatti vi è la certezza che l'embrione presenti i suoi componenti fin dall'inizio, ogni disquisizione circa l'infusione dell'anima, comunque si veda la questione, perde di significato.
Nel Seicento, comincia a diffondersi una corrente di pensiero riconducibile a medici esperti in filosofia, corrente parallela e distinta rispetto all'autorità papale, sebbene per certi versi confluente nei risultati. Il titolo del primo lavoro, espressione di questa nuova linea di pensiero, ne riassume bene il contenuto, Un libro sulla formazione del feto nel quale si mostra che l'anima razionale è infusa il terzo giorno, scritto nel 1620 da Thomas Fienus.
L'anno sucessivo Paolo Zacchia contestava la principale interpretazione di Aristotele, che vedeva il feto progredire dall'animazione vegetale a quella animale, fino all'animazione razionale: una <<metamorfosi delle anime>> bollata come <<cosa immaginaria>> (non esistevano infatti prove che l'anima razionale venisse instillata dopo 40 giorni, né era probante l'idea che fosse il movimento del feto a rivelarne la presenza). Viceversa, una corretta visione tomistica prevedeva vi fosse una singola anima umana dall'inizio dell'esistenza del feto, che l'anima razionale venisse <<infusa nel primo momento del concepimento>>. La teoria non ebbe effetto immediato sui teologi che si occupavano di aborto. Zacchia, riconobbe che l'opinione più "mite" dei canoni poteva essere eseguita come punizione per un aborto compiuto prima del quarantesimo giorno, mentre una <<grande ingiuria>> era compiuta in caso di uccisione di un embrione più sviluppato. Alfonso de'Liguori (1696-1787), il moralista più importante del Settecento, nella sua Teologia moralis sosteneva la distinzione tra feto animatus e feto inanimatus. Egli inoltre affermava che solo l'interruzione della gravidanza fatta malitiose o in cattiva fede fosse da condannarsi, mentre un'interruzione poteva essere attuata in casi gravi, in sostanza per salvare la madre. A suo avviso l'aborto sottintende qualcosa che lo avvicina all'omicidio giacché, se anche non elimina una vita umana in atto, ne impedisce a tutti gli effetti il sorgere, essendo l'embrione non certo una parte della madre, ma un "abbozzo" di individuo umano.
Molte altre furono le implicazioni delle scoperte scientifiche sulla posizione della Chiesa in tema di nascita e aborto. Si affermò ad esempio la legittimità del cesareo post mortem per garantire la salvezza spirituale al feto. A questo fine si inventò uno strumento, che oggi può sembrare eccessivo, da inserire nel corpo della donna onde battezzare il feto. La nuova chiarezza scientifica ha, inoltre, ridefinito il legame tra medico e sacerdote. Tuttavia, per il cristianesimo, diagnosi e terapia sono infatti valide e applicabili nella misura, in cui non contrastino con le indicazioni morali giacché, come ribadiscono i teologi, religione e scienza debbono dialogare.
8. Rivoluzione francese e Stati nazionali: nuove definizioni e nuovi protagonisti dell'aborto
Fino allo spartiacque rivoluzionario, i diversi legislatori non avevano elaborato alcuna costruzione autonoma in materia di aborto, limitandosi solamente a seguire l'impostazione tradizionale definita dalle indicazioni religiose. Guerre, pestilenze e scoperte geografiche determinarono una serie di mutamenti d'ordine demografico tutt'altro che neutrali. Secondo l'economista Colin Clark, la popolazione europea fu in grado di recuperare solo nel Cinquecento le perdite verificatesi per le guerre e le pandemie dei secoli precedenti, tra le quali la tristemente famosa peste nera. Successivamente la Germania perse tra il 20 e il 40% della popolazione nella guerra dei Trent'anni (1618-1648), e qualcosa di simile, anche se in scala ridotta, avvenne in Italia sempre a causa delle guerre, e in Spagna per l'emigrazione verso le Americhe. Contestualmente in Francia si verificò una ripresa demografica, a cui seguirà una diminuzione per gli eventi che accompagnarono e seguirono la Rivoluzione francese. Già nel Seicento il medico Bernardino Ramazzini scrive che è il numero degli abitanti ciò che <<rende più sicuro e forte il paese>>, e che l'uomo <<è il più prezioso tesoro di un sovrano, rappresenta il principio della ricchezza nazionale>>[14]. Il giacobino Giuseppe Compagnoni, arriverà addirittura ad auspicare la poligamia in chiave demografico-patriottica come mezzo per dare più figli alla Repubblica. Il filosofo, romanziere e saggista francese Denis Diderot scriverà che <<uno Stato è tanto più potente quanto più è popolato, e quanto più numerose sono le braccia impiegate nel lavoro e nella difesa>> . Del resto già nel secolo prima il grande statista ed economista Jean-Baptiste Colbert lamentava che preti e suore << non solo evitano il lavoro, ma addirittura privano lo Stato di tutti quei figli che avrebbero potuto produrre per essere impiegati in funzioni utili e necessarie>> .
Ogni nascita diviene così un evento politicamente rilevante, ciascuna vita un bene prezioso e la tutela della salute del singolo un interesse pubblico: i dati sulla mortalità intrauterina, perinatale e puerperale diventano quasi drammi nazionali.
A partire da Rousseau, l'inscindibile binomio vedrà la maternità dipinta in termini di gioia e dolore, qualcosa che se implica e richiede la sofferenza e il sacrificio della donna, costituisce al contempo la sola via di felicità e appagamento che natura e società le offrono. Figura necessariamente votata all'eroismo, la madre deve essere disposta a rinunciare a tutto e a sacrificare perfino se stessa affinché il figlio nasca e cresca. I doveri inerenti alle missione materna iniziano subito, già nelle prime fasi alla donna saranno richiesti precisi comportamenti (come seguire un regime alimentare adatto al suo stato, rispettare precise indicazioni igieniche e salutiste, e così via). << La donna gravida non è più semplicemente moglie del cittadino, ma in un certo modo proprietà dello stato>>.
Poiché le statistiche che riguardano la mortalità divennero "drammi nazionali", in quell'epoca le levatrici divennero capri espiatori delle quali si diffidava per il solo fatto di essere donne. È proprio verso la fine del settecento che questa figura viene completamente rinnovata: alla donna matura spesso di umili origini, formata sulla tradizione e sull'esperienza, si sostituisce la nuova levatrice, giovane e istruita in scuole moderne. Tale cambiamento non avviene senza traumi a livello sociale, come Pirandello racconta nella novella Donna Mimma, quando il fenomeno investirà la Sicilia dei primi del Novecento:
<<Ma è lei sola a esercitare, da circa trentacinque anni, quest'ufficio nel paesello. O, per meglio dire, era lei sola, fino a ieri. Ora è venuta dal Continente una smorfiosetta di vent'anni, Piemontesa; gonna corta, gialla, giacchetto verde; [.] Diplomata dalla R. Università di Torino. Roba da farsi la croce a due mani, Signore Iddio, una ragazza ancora senza mondo, mattersi a una simile professione! [.] Ma che esperienza poi, che esperienza può aver lei, se ancora. in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. S'hanno da vedere di queste cose ai giorni nostri?>>[17].
Da fine Settecento l'autonomia della levatrice verrà limitata, in quanto comincerà a dover rendere conto del suo operato al medico, rigorosamente di sesso maschile: le saranno infatti proibite alcune operazioni manuali e l'uso del ferri e di nuovi strumenti ostetrici come la leva o il forcipe (utilizzato per facilitare l'estrazione del feto vivo), il primo parto cesareo riuscito, sembra sia stato eseguito nei primi anni del Cinquecento dal castraporci svizzero Jacob Nufer sulla moglie, ma sarà solo nella seconda metà del Settecento che la pratica comincia a divenire frequente. Le donne quindi, non scompaiono dalla scena, ma vi restano delegittimate, confinate al ruolo di semplici assistenti e collaboratrici: un punto fermo dell'arte medica sino alla seconda metà del Novecento.
Tale orientamento politico, così attento al dato demografico ossia alle nascite, influenzerà in modo positivo la società del tempo, per quanto riguarda l'istruzione, l'igiene, l'alimentazione, il lavoro femminile, i censimenti: tutto ciò sarà il presupposto del sorgere di quello stato sociale che si prenderà cura della salute del cittadino <<dalla culla alla bara>>. Ciò che muterà nel tempo, sarà il conflitto tra madre e feto: nella prima fase che va dalla Rivoluzione francese alla seconda metà del Novecento, sarà il feto ad essere maggiormente tutelato; nella successiva fase, invece, che maturerà nella seconda metà del Novecento, la soluzione del conflitto -sempre politico, grazie anche al nuovo suffragio femminile- vedrà la donna come termine privilegiato della relazione. Nella legge 194 della Costituzione italiana, promulgato il 18 maggio 1978, si nota chiaramente come ora si tuteli maggiormente la donna anziché il nascituro.
-Per l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, la donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito, si rivolga ad un consultorio pubblico;
-L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
L'obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo.
-Chiunque cagiona l'interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro ad otto anni. Si considera come non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l'inganno. La stessa pena si applica a chiunque provochi l'interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna. Detta pena è diminuita fino alla metà se da tali lesioni deriva l'acceleramento del parto. Se dai fatti previsti dal primo e dal secondo comma deriva la morte della donna si applica la reclusione da otto a sedici anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da sei a dodici anni; se la lesione personale è grave quest'ultima pena è diminuita. Le pene stabilite dai commi precedenti sono aumentate se la donna è minore degli anni diciotto.
9. Una questione ancora aperta
Come è assolutamente evidente da giornali, radio e televisioni, il dibattito intorno all' aborto non s'è affatto sopito. Pur nel clima politico e sociale molto cambiato rispetto agli anni caldi, il tema costituisce ancora oggetto di dibattito. E se rispetto al passato vi sono oggi punti fermi, come la tutela giuridica per il feto o la concezione dell'aborto non come mezzo per il controllo delle nascite, la questione si è però arricchita di nuovi elementi. Rilevante è il fatto che attualmente non sia più solo la Chiesa a lanciare condanne contro l'aborto.
Un nodo problematico, nient'affatto risolto, è appunto quello di come classificare l'aborto. Definirlo come diritto della donna è infatti una posizione su cui concordano in molti e, del resto, il modo in cui il dibattito giuridico e dottrinale è condotto porta questa soluzione. Ad animare il dibattito s'è recentemente inserita la questione delle nuove modalità con cui poter abortire, in particolare la discussione s'è fatta accesa attorno alla cosiddetta pillola del giorno dopo, che rende l'utero inadatto all'annidamento dell'uovo fecondato. Più precisamente è già in commercio il sulprostone, che viene somministrato per via intramuscolare per interrompere la gravidanza dopo la decima settimana. Aumenta la contrazioni uterine e favorisce la dilatazione del collo dell'utero. Oltre a questa troviamo il dinoprostone che viene data per via vaginale: essa provoca contrazioni uterine e dilata la cervice. Il metotrexate, anche utilizzato per la cura dei tumori, inibisce l'utilizzo dell'acido folico, essenziale per la sintesi del DNA. Somministrato in opportuni dosaggi, come agisce sui tumori, può agire sull'embrione che ha un'alta sintesi di materiale genetico. Pertanto un ridotto utilizzo dell'acido folico comporta l'incapacità di duplicare il materiale genetico e ciò porta alla morte dell'embrione. Un'altra molecola che non è ancora entrata in commercio, è il misoprostone. Questa viene utilizzata nella cura dell'ulcera gastrica in quanto stimola la secrezione di muco e di bicarbonati e aumenta il flusso ematico della mucosa. Tutte queste molecole si possono anche combinare tra loro e così si ha maggiore efficacia. La pillola si può usare come contraccettivo e subito dopo un rapporto come contraccettivo post-coitale. Tale pratica da alcuni viene considera un grande pericolo, in quanto c'è il timore che per questa via, l'aborto possa diventare un fatto assolutamente banale e scontato, eseguibile senza alcuna seria riflessione d'ordine morale.
Se in molti paesi l'aborto oggi è ammesso, in altri è persino obbligatorio. Tra i casi più eclatanti, vi è la Cina, in cui un regime di controllo delle nascite è imposto dallo Stato. Ogni coppia può avere un solo figlio ed essendo molto forte il desiderio di avere un figlio di sesso maschile, spesso succedeva che la madre, dopo essersi sottoposta ad un'ecografia, decidesse di abortire. Il governo cinese ha recentemente vietato l'ecografia in gravidanza, sia per porre un freno all'abuso di metodi abortivi, sia limitare il pericoloso squilibrio demografico di genere.
La storia dell'aborto in Occidente ha mostrato come il modo di affrontare la questione sia cambiato in relazione ai mutamenti della scienza e alle necessità dello stato, in un continuo rapporto dialettico con la legge morale ispirata dalla tradizione cristiana. Ma come tutte le grandi tematiche che chiamano in causa la vita e la morte, anche intorno all'aborto il dibattito è destinato a non sopirsi mai.
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