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Arthur Schopenhauer
Arthur Schopenhauer (antihegeliano) nasce a Danzica
il 22 Febbraio del 1788. Decide di darsi agli studi poco dopo la
scomparsa del padre, morto suicida nel 1805. Si iscrive all'Università di
Gottinga dove ha per maestro lo scettico Schulze e dove studia "il sorprendente
Kant" e "il divino Platone". Nel 1811 si reca a Berlino, dove ascolta le
lezioni di Fichte, restandone disgustato. Nel 1813 si laurea in filosofia
all'Università di Jena con la dissertazione "Sulla
quadruplice radice del principio di ragion sufficiente"(quella di
Leibniz che Schopenhauer interpreta come principio di causalità). Nel salotto
della madre (donna di mondo) a Weimar incontra Goethe e l'orientalista Mayer
che lo introduce al pensiero indiano. Nel 1814 si trasferisce a Dresda dove,
nel 1818, porta a termine la sua opera fondamentale: "Il mondo come volontà e rappresentazione", che
avrà una misera fortuna e (nella sua prima edizione) finirà quasi tutta al
macero. Nel 1820 va a Berlino per intraprendere la carriera accademica e qui si
scontra con Hegel, il "Dio" dell'università. Dal '20 al '31, per ben
ventiquattro semestri, terrà lezioni contro Hegel: ma solo nel primo di questi
semestri riuscirà nel suo intento, poi non avrà più studenti. Nel 1831, per
sfuggire all'epidemia di peste scoppiata a Berlino, si stabilisce a
Francoforte, dove resta fino alla morte avvenuta il
Contro Hegel, Schopenhauer sostiene che la filosofia, dopo essere stata rimessa in onore da Kant (per Schopenhauer è il massimo), è divenuta strumento di interessi estranei, o di Stato o personali. La verità è l'ultima cosa a cui si pensa: la verità non è che la meretrice che si getta al collo di chi non la vuole. Oggi i governi fanno della filosofia un mezzo per i loro fini di stato, mentre i filosofi ne fanno solo un mestiere per guadagnare denaro (come i sofisti). E il più gran sofista dei suoi giorni S. lo vede in Hegel, "l'accademico mercenario", <<un ciarlatano di mente ottusa, insipido, nauseabondo, illetterato, che raggiunse il colmo dell'audacia scarabocchiando e scodellando i più pazzi e mistificanti non-sensi, prontamente accettati come sapienza immortale da tutti gli stolti>>. Fichte e Schelling rappresentano per S. la "tronfia vacuità" (vuoto più totale), Hegel la "mera ciarlataneria", che ha ordito la congiura del silenzio nei confronti della sua (di S.) filosofia. Il pensiero di Hegel è, per S., una "buffonata filosofica" che si riduce alla <<più vuota, insignificante chiacchierata di cui si sia mai contentata una testa di legno>>. Hegel è un <<ciarlatano pesante e stucchevole, che si esprime nel gergo più ripugnante e insieme insensato, che ricorda il delirio dei pazzi>>. Hegel è un SICARIO (che ammazza) DELLA VERITÀ che rende la filosofia serva dello stato e colpisce al cuore la libertà del pensiero.
La conoscenza è caratterizzata da un rapporto soggetto-oggetto.
Il criticismo critica il materialismo, il realismo(è attraverso il soggetto che cogliamo la realtà), l'idealismo (c'è il difetto opposto del realismo; non c'è oggetto senza soggetto. Dice che il mondop è una rappresentazione, ma questo non è una creazione del mondo).
Scrive S.: <<"Il mondo è una
mia RAPPRESENTAZIONE": ecco una verità valida per ogni essere vivente e
pensante. L'uomo sa con chiarezza (attraverso la filosofia di Kant) di non
conoscere né il sole né la terra, ma soltanto un occhio (cioè pensiero) che
vede il sole e una mano che sente il contatto di una terra; egli sa che il
mondo circostante non esiste se non come rappresentazio 747f54h ne, cioè sempre e
soltanto in relazione con un altro essere, con il percipiente, con lui
medesimo (soggetto conoscente)>>. Nessuna verità è, secondo S., più certa
e più assoluta di questa: <<tutto ciò che esiste per la conoscenza,
e cioè il mondo intero, non è altro che l'OGGETTO in rapporto al SOGGETTO;
in una parola è RAPPRESENTAZIONE>>; l'oggetto per il soggetto;
esiste la realtà in quanto rappresentata dal pensiero. Che il mondo sia una
nostra rappresentazione, che nessuno di noi possa uscire da se stesso e vedere
le cose per quello che sono, è la "verità" della filosofia moderna da Cartesio
in poi. Kant ha chiuso il problema dicendo che l'in sé non è conoscibile. Il
mondo è rappresentazione. E la rappresentazione ha due metà essenziali,
necessarie e inseparabili: l'OGGETTO e il SOGGETTO. Il soggetto è
ciò che tutto conosce, è la condizione, sempre sottintesa, di ogni FENOMENO,
di ogni oggetto: tutto ciò che esiste, non esiste che in funzione del soggetto.
L'OGGETTO, ciò che è conosciuto, è condizionato (come vedremo fra poco) dalle
forme a-priori dello spazio e del tempo (sono forme a priori
della sensibilità) e causalità sono le forme a priori dell'intelletto: ogni
cosa esiste NELLO spazio e NEL tempo. Soggetto e oggetto sono
dunque inseparabili: ciascuna delle due metà non ha senso né esistenza se non
in riferimento all'altra. Da ciò segue una radicale critica al MATERIALISMO
e al REALISMO da un lato, e all'IDEALISMO dall'altro, come
dottrine gnoseologiche. Il materialismo è in errore perché nega il
soggetto riducendolo a materia; così come il realismo, secondo cui la
realtà esterna si rispecchierebbe per quello che è nella nostra mente. Ed è in
errore anche l'idealismo (ad es. Fichte), perché nega l'oggetto
riducendolo al soggetto. Tuttavia l'idealismo, depurato da tutte le assurdità
(es. la "creazione" dell'oggetto) elaborate dai "filosofi dell'Università"
(primo fra tutti Hegel), è inconfutabile nel momento in cui sostiene che il
mondo è una mia rappresentazione. La verità è che <<non può in alcun modo
darsi un'esistenza assoluta (realtà indipendente dal soggetto che la possa
pensare) e in se stessa obiettiva (cioè oggettiva); essa è impensabile.
Tutto ciò che è obiettivo ha sempre ed essenzialmente, come tale, la sua
esistenza nella coscienza di un soggetto, ed è quindi la sua
rappresentazione: è condizionato dal soggetto e dalle sue forme
rappresentative>>. Tali forme a-priori della coscienza sono, per
S., il TEMPO, lo SPAZIO e
Non potremmo comprendere la realtà senza mettere in rapporto di causalità spazio e tempo. La realtà è basata sulla causalità, è reale ciò che produce effetto.
Differenza sul concetto di fenomeno di Kant. L'intelletto, anche se ordina e categorizza la realtà, purtroppo si ferma lì.
Il mondo, dunque, è una mia
rappresentazione. L'intelletto ordina e sistema, attraverso la categoria della
causalità, i dati delle intuizioni spazio-temporali, e coglie così i nessi tra
gli oggetti, le leggi del loro comportamento. [Vale tuttavia la pena di
rilevare una fondamentale differenza tra la gnoseologia kantiana e l'uso che S.
ne fa, "appiattendo", per così dire, l'ambito dell'intelletto su quello
della sensibilità. Infatti, secondo S., l'INTELLETTO opera già a
livello INTUITIVO (cioè sensibile), conferendo alle rappresentazioni
(attraverso le forme a-priori di spazio, tempo e causalità) il loro carattere OGGETTIVO.
Questa soluzione di S. fa si che il problema gnoseologico sia, per certi versi,
ricondotto a termini pre-critici caratteristici dell'empirismo. L'oggetto del
quale Kant dimostra
Una volta lacerato il velo di Maya possiamo attingere alla cosa in sé, attraverso il corpo vissuto, non come organismo. Noi scopriamo che l'essenza del corpo vissuto è la volontà di vita che permea tutto l'universo, non ha nessun perché, nessun motivo, semplicemente permea di sé tutte le cose, anche l'uomo. Nell'uomo tutto questo genera tensione che è consapevole, che rende più sofferente l'esistenza dell'uomo, il più sofferente; e tanto più ne è consapevole più è sofferente.
La condizione di volontà, desiderio implicano tensione e quindi dolore. Il dolore è ontologicamente positivo. Il piacere è ontologicamente negativo e esiste solo in funzione derivata del dolore.
Nel momento di transito tra dolore e appagamento c'è la noia. Il piacere è un momento molto breve e serve per farti vivere ancora un po' ma così soffri.
Non c'è piacere senza dolore, ma il dolore è anche senza piacere. Il dolore riguarda ogni creatura, ma nell'uomo è di più. la volontà è cieca, non ha uno scopo. La volontà è la cosa in sé di Schopenhauer e deve essere mantenuta e l'individuo è lo strumento della cosa in sé; è l'essenza del mondo che deve mantenersi.
L'amore è pura fisicità, serve a creare esseri sofferenti. Gli uomini sono gli unici consapevoli della funzione dell'amore, sono quelli che mettono al mondo sofferenti e per questo ne fanno una colpa.
Il fatto che ci sia un Dio provvidente è una cosa priva di senso.
L'essenza del mondo è volontà insaziabile, cioè conflitto, lacerazione e quindi DOLORE. E <<man mano che la coscienza diviene più distinta, che la conoscenza si eleva, cresce anche il tormento, che raggiunge nell'uomo il grado più alto, e tanto più alto, quanto più l'uomo è intelligente: l'uomo di genio è quello che soffre di più>>. Inoltre volere significa desiderare, e desiderare significa trovarsi in uno stato di tensione continua, perché ogni tendere nasce da una privazione, da una scontentezza e un'insoddisfazione del proprio stato, da un soffrire; e nessuna soddisfazione è durevole, anzi, non è che il punto di partenza di un nuovo tendere, e di un nuovo soffrire, senza misura e senza tregua. Dice S.: <<nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole. bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento e la sua agonia>>. L'uomo, essendo l'oggettivazione più perfetta della volontà di vivere, è anche il più bisognoso degli esseri: egli non è che una "concrezione di bisogni". La realtà è che <<la vita non è che una lotta continua per l'esistenza, con la certezza di una disfatta finale>>. Di più: la vita è solo una "morte rinviata", e alla fine la morte deve vincere. E questo "veleggiare verso il naufragio" si traduce in un PENDOLO che oscilla continuamente tra NOIA e DOLORE. Vediamo come. La vita è bisogno e dolore, se il bisogno viene soddisfatto, allora si piomba nella sazietà e nella noia: <<il fine, in sostanza, è illusorio: col possesso, svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova, e, con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la tristezza, il vuoto, la noia>>. Per di più ciò che gli uomini chiamano godimento e gioia è nient'altro (come avevano sostenuto Pietro Verri e Giacomo Leopardi) che una CESSAZIONE di dolore, ossia lo scarico di una situazione preesistente di tensione, che ne rappresenta la condizione indispensabile. Infatti, perché ci sia PIACERE bisogna per forza che ci sia uno stato preesistente di dolore (ad es. il godimento del bere presuppone la sofferenza della sete). La stessa cosa non vale tuttavia per il dolore, che non può essere affatto ridotto a cessazione di piacere, poiché un individuo può sperimentare una catena di dolori, senza che questi siano preceduti da altrettanti piaceri; viceversa ogni piacere nasce solo come cessazione di una qualche preesistente tensione fisica o psichica: <<non v'è rosa senza spine, ma vi sono parecchie spine senza rose!>> Di conseguenza, mentre il dolore, identificandosi con il desiderio, che è la struttura stessa della vita, è un dato primario e permanente, il piacere è solo una funzione derivata del dolore. E a questo punto, S. giunge a una delle più radicali forme di PESSIMISMO COSMICO: TUTTO SOFFRE. Poiché la volontà di vivere, che è un desiderio perennemente inappagato e sempre rinnovantesi, si manifesta in tutte le cose, il dolore non riguarda soltanto l'uomo, ma investe ogni creatura. E in questa vicenda irrazionale della vita cosmica, l'individuo appare soltanto uno strumento per la specie. Di conseguenza, al di là del breve sogno dell'esistenza individuale, l'unico fine della natura sembra essere quello di perpetuare la vita, e, con la vita, il dolore. Il fatto che alla natura interessi solo la sopravvivenza della specie, trova una sua manifestazione emblematica nell'AMORE. Il fine dell'amore, o lo scopo per cui esso è voluto dalla natura, è solo l'accoppiamento, che mira alla perpetuazione della vita. Manifestazione dell'essenza "biologica" dell'amore è la triste constatazione che la donna, dopo aver adempito alla procreazione e all'allevamento dei figli, perde ben presto avvenenza e attrattiva. Perciò non c'è amore senza sessualità. Ed è per questo che l'amore procreativo viene inconsapevolmente avvertito come "peccato" e "vergogna". Esso commette infatti il peggiore dei delitti: la perpetuazione di altre creature destinate a soffrire. E così nascono infiniti uomini "condannati alla vita", in cui l'infelicità è la regola.
La stria è sempre una tragedia, cieco caso, non c'è nessun senso, nessuna razionalità, nessuna provvidenza. Tutte le cose vengono intese come strumenti per la vita dell'uomo.
La polemica di S., trova uno dei suoi bersagli preferiti nell'OTTIMISMO COSMICO che circola in buona parte delle filosofie e delle religioni dell'Occidente, ossia in quello schema di pensiero che interpreta il mondo come un organismo perfetto, provvidenzialmente governato da un Dio oppure da una "ragione" immanente (Hegel). In realtà questa visione consolatrice, risulta, per S., palesemente falsa, poiché la vita è un'esplosione di forze sostanzialmente irrazionali, ed il mondo, anziché essere il regno della logica e dell'armonia, è il teatro dell'illogicità e della sopraffazione. Contestando le religioni, che egli definisce "metafisiche per il popolo", e i sistemi positivistici e provvidenzialistici, S. perviene ad abbozzare le linee di un ateismo filosofico che sarà ripreso in forma originale da Nietzsche.
A) Un'altra "menzogna" contro cui si scaglia S. è l'OTTIMISMO SOCIALE, cioè la tesi della bontà e socievolezza dell'uomo. Se non si vuol continuare a confondere le proprie illusioni da adolescenti con la realtà, si deve ammettere, secondo S., che la regola di fatto dei rapporti umani è sostanzialmente il conflitto e il tentativo di sopraffazione reciproco. L'uomo è una belva feroce. Di più: <<l'uomo è l'unico animale che faccia soffrire gli altri al solo scopo di far soffrire. Gli altri animali lo fanno unicamente per soddisfare la loro fame, o nel furore della lotta>>.
B) Un altro aspetto della dottrina di S. che lo contrappone radicalmente all'intera cultura dell'Ottocento, è la polemica contro ogni forma di STORICISMO (ottimismo storico). Contro idealismo, materialismo storico ed evoluzionismo positivistico e i loro dogmi storicistici, S. è il primo "disertore" dell'Europa e della sua fede nella storia. Dallo studio degli avvenimenti del passato, egli dice, risulta evidente la costante uniformità e ripetitività della storia, nella quale non cambia l'essenza delle cose, ma solo la loro facciata accidentale e superficiale. La vita è dolore e la storia è cieco caso: il progresso è un'illusione. La storia non è (come pretende Hegel) razionalità e progresso; ogni finalismo e qualsiasi ottimismo sono ingiustificati. La storia è "DESTINO", è il tragico ripetersi della stessa vicenda in forme diverse.
Con Calderon, S. sostiene che <<il delitto maggiore dell'uomo è l'esser nato>>. Di conseguenza, si potrebbe pensare che il sistema di S. metta capo ad una filosofia del "suicidio universale". Invece S. rifiuta e condanna il SUICIDIO (non è una soluzione, è contro la propria condizione di vita, che alimenta la volontà di vita universale) per due motivi di fondo: 1) perché il suicidio, lungi dall'essere negazione della volontà, è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa, in quanto il suicidio vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate; per cui anziché negare veramente la volontà, egli nega piuttosto la vita; 2) perché il suicidio sopprime unicamente l'individuo, ossia UNA manifestazione fenomenica della volontà di vivere, lasciando intatta la cosa in sé, che pur morendo in un individuo rinasce in mille altri. Di conseguenza, secondo S., la vera risposta al dolore del mondo non consiste nell'eliminazione, tramite il suicidio, di una vita o più vite, ma nella LIBERAZIONE della stessa volontà di vivere. Dalla presa di coscienza del dolore e dal disinganno di fronte alle illusioni dell'esistere, nascono le varie "tappe" della liberazione, che S. articola in tre momenti essenziali: l'arte, la morale, l'ascesi.
A) L'ARTE. Il mondo come fenomeno è
rappresentazione, ma nella sua essenza è volontà cieca e irrefrenabile,
perennemente insoddisfatta. Ma quando l'uomo, inabissandosi nel proprio intimo,
arriva a capire questo (che la realtà è volontà e che egli stesso è volontà)
allora egli è pronto per la sua redenzione: e questa può darsi solo col CESSARE
DI VOLERE. Il primo momento di questo cammino è quello dell'ARTE.
Nell'esperienza estetica, infatti, l'individuo si stacca dalle catene della
volontà, si allontana dai suoi desideri, annulla i propri bisogni: non guarda
gli oggetti per quel che possano essergli utili o nocivi. Qui l'uomo si annienta
come volontà, e si trasforma in "PURO OCCHIO DEL MONDO" (puro soggetto
contemplativo), si immerge nell'oggetto e dimentica se stesso e il suo dolore.
E questo puro occhio del mondo è libero e disinteressato (l'unico
sguardo veramente libero è disinteressato), non vede più oggetti che sono per
me utili o nocivi, ma scorge IDEE, essenze, modelli delle
cose (Platone), al di fuori dello spazio, del tempo e della causalità. Il
soggetto, nell'esperienza estetica, coglie le idee esterne, contempla gli
aspetti universali della realtà, l'essenza immutabile dei fenomeni.
L'arte esprime, oggettiva, l'essenza delle cose, e proprio per questo ci
aiuta a distaccarci dalla volontà. Nell'arte noi non siamo più consapevoli di
noi stessi, ma solo degli oggetti intuiti. L'intuizione estetica è
l'annullamento temporaneo della volontà, e quindi del dolore; in essa l'uomo più
che vivere, contempla la vita, elevandosi al di sopra della volontà, del
dolore e del tempo. Fra le varie arti (dall'architettura alla scultura, dalla
pittura alla poesia) spicca
L'oggetto in quanto artistico viene visto per la sua bellezza e non più per la sua utilità.
L'arte è il primo tentativo di liberazione dal dolore attraverso la contemplazione estetica, quando ci si distacca dal mondo e ci pone al di fuori del processo di volontà. Gli oggetti d'arte vengono contemplati non perché dannosi o utili ma nella loro forma artistica.
B) L'ETICA DELLA PIETÀ. L'etica non è un passo definitivo; non si pone al di fuori della volontà, ma ci permette di oltrepassare la volontà individuale. L'unica possibilità di annullare il dolore è quella di annullare la volontà, che è l'ultimo passaggio. A differenza della contemplazione estetica, che è un estraniarsi trasformato DALLA realtà, la morale implica un impegno NEL mondo a favore del prossimo. Questo impegno permette di distaccarsi dalla propria volontà, dalla volontà di vita. Infatti, l'etica è un tentativo di superare l'egoismo (propria volontà) e di vincere quella lotta incessante degli uomini fra loro che costituisce l'ingiustizia e che rappresenta una delle maggiori fonti di dolore. Il momento del dolore è determinato dalla volontà che porta la lotta per la vita. Pur riconoscendo, con Kant, che il "disinteresse" forma il cuore della moralità, S., contro Kant, sostiene che l'etica non sgorga da un imperativo categorico dettato dalla ragione, ma da un SENTIMENTO di "PIETÀ" (secondo la tradizione inglese) attraverso il quale sentiamo come NOSTRE le sofferenze degli ALTRI. L'etica è fondata sul sentimento di condivisione. Di conseguenza, la pietà non nasce da un ragionamento astratto, ma da un'esperienza vissuta, mediante la quale, squarciando i veli del nostro egoismo, giungiamo a identificarci col tormento del prossimo. La pietà è l'amore disinteressato verso esseri che portano la nostra stessa croce e vivono il nostro medesimo tragico destino; essa è dunque, propriamente COMPASSIONE (PATIRE-CON, SENTIRE-INSIEME), un sentire l'altrui dolore attraverso la comprensione del nostro. Anche qui quello che faccio lo faccio disinteressatamente e mi pongo fuori dalla mia volontà. L'amore disinteressato, dettato dalla pietà, è l'elemento centrale dell'etica. La compassione è dunque la vera pietà (CHARITAS cristiana). Tramite la pietà, sperimentiamo quell'UNITÀ METAFISICA di tutti gli esseri (mi unifico con il mondo stesso, mi sento parte di una totalità), che la filosofia teorizza, e che i testi delle "Upanishad" esprimono con la sacra formula "Tat twan asi" ("questo vivente sei tu", sei identico al tutto), facendoci capire come il tormentatore e il tormentato, distinti fenomenicamente, siano noumenicamente (cioè nella loro essenza), una stessa realtà. Solo per un sogno illusorio il malvagio si crede separato dagli altri e dal loro dolore. In realtà l'ingiusto, il violento, che opprime l'altro uomo, è lo strumento passivo della volontà che lo domina. Anche lui agisce secondala prospettiva della volontà. Nel momento in cui agisco per la pietà, mi libero della volontà in me e mi libero da essa. L'egoismo punta sull'individuale proprio perché esegue un comando anonimo: quello della volontà. Viceversa, ai suoi massimi livelli, la pietà consiste nell'assumere su di sé il dolore cosmico (sentire con tutto il resto). In ogni caso, però, anche la pietà, cioè il compatire, è pur sempre un PATIRE (non vado oltre il dolore, lo patisco con gli altri, non sono nolente) un rimanere invischiati all'interno della vita. Vincere nell'esistenza la volontà di vivere, significa creare un'esistenza che sia l'occasione per una negazione della volontà, progettare la propria NON-VITA, cioè non - volontà, codificare il rifiuto di sé al mondo: è questa l'ASCESI. Solo negando la volontà posso negare il dolore.
C) L'ASCESI. L'ascesi, che nasce dall'orrore
dell'uomo per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di un mondo
riconosciuto pieno di dolore, è l'esperienza per la quale l'individuo, cessando
di volere la vita ed il volere stesso, si propone di estirpare il
proprio desiderio di esistere, di godere, di volere. Essa è <<il
deliberato infrangimento della volontà (cioè mi propongo come scopo di non
volere), mediante l'astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole (La
volontà è ricerca di appagamento, ma questo crea dolore. Se cerco lo spiacevole
vado contro la mia volontà ( nolente, non vita)),
l'espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata
mortificazione della volontà. Il primo passo dell'ascesi è
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