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COMMENTO AL CAPITALE - Dall'economia politica all'antropologia storica

economia



COMMENTO AL CAPITALE


(K. Marx)

Dall'economia politica all'antropologia storica



Premessa

Il grande merito di Marx è stato quello di aver subordinato la filosofia alla politica; il grande torto quello d'aver subordinato la politica all'economia. Tuttavia, nel momento in cui riuscì a mettere a nudo i limiti di fondo, ontologici, dell'economia politica borghese, attraverso Il Capitale, Marx aveva aperto la strada, senza volerlo, alla fine del primato dell'economia sulla politica.

Infatti, proprio il fallimento della rivoluzione socialista in Europa occidentale aveva dimostrato che la fine del capitalismo non sarebbe potuta avvenire con il solo strumento della "critica dell'economia politica", ovvero sulla base della convinzione che la transizione verso il socialismo era non meno necessaria di quella dal feudalesimo al capitalismo.

Sarà Lenin a dimostrare che il superamento, pur necessario, del capitalismo, sarebbe potuto avvenire se anzitutto si fosse privilegiato lo strumento della politica (tattica, strategia, organizzazione del consenso, ecc.) La tesi del Capitale sulla necessità di superare la contraddizione antagonistica del capitalismo, poteva, in sostanza, realizzarsi affrontando il problema della transizione in maniera rivoluzionaria, privilegiando la sovrastruttura politica sulla struttura economica, senza aspettare che il capitalismo portasse a maturazione le proprie risorse.



La storia dell'umanità, con Marx e Lenin, ha compiuto dei progressi sostanziali. Per superare l'ideologia borghese bisognava cogliere l'uomo nella sua storicità, e Marx riuscì a farlo, ma bisognava coglierlo anche nella sua interezza, e l'economia politica, da sola, non poteva rispondere a questa esigenza.

Sotto questo aspetto, anche il leninismo va superato, poiché i limiti dell'economia politica e del sistema capitalistico se non si risolvono con la critica in sé -come fece Marx-, non si risolvono neppure con la rivoluzione in sé, come Lenin credette di fare, anche se nell'ultimo periodo della sua vita si accorse dell'errore, così come Marx, venendo a contatto col populismo russo, s'accorse d'aver sottovalutato l'importanza della comunità agricola fondata sull'autosussistenza.

La critica teorica è stato il primo passo, la rivoluzione politica il secondo: il terzo passo dovrà essere quello della riscoperta del primato dell'uomo sia sull'economia che sulla politica.

Marx ha trovato l'ontologia dell'economia, Lenin quella della politica, ora bisogna trovare l'ontologia dell'uomo.

Probabilmente la nuova scienza che dovrà preoccuparsi di cercarla sarà l'antropologia storica, cioè una scienza che da un lato valorizzi la storicità dell'uomo e dall'altro la sua globalità di espressioni vitali.

NOTA. Tutte le citazioni del Commento si riferiscono al volume unico di Marx, Il Capitale, a cura di E. Sbardella, prima edizione della Newton Compton, Roma 1976.

Breve analisi del Capitale - I vol.

Il primo libro del Capitale venne pubblicato da Marx nel '67 ad Amburgo. Il piano iniziale era quello di pubblicarlo come secondo fascicolo di Per la critica dell'economia politica, sulla "Tribune", ma la collaborazione al giornale era stata sospesa. Il secondo e il terzo volume furono pubblicati da Engels. Il quarto volume, che sotto il titolo Teorie del plusvalore comprende un resoconto storico delle dottrine dell'economia politica borghese da Hobbes a Ricardo, venne dapprima pubblicato da Kautsky e poi, in un'edizione più accurata dall'Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca dopo il 1920.

Marx inizia l'indagine del sistema capitalistico con l'analisi del concetto di merce. Nel capitalismo la forma commerciale del prodotto del lavoro è comune e non isolata o casuale come nelle società precapitalistiche. Marx scopre che nella merce ci sono due valori: Valore d'uso (quello che soddisfa un qualunque bisogno dell'uomo) e Valore di scambio (che è il rapporto quantitativo tra una merce e un'altra di diverso tipo: attraverso infiniti scambi si stabiliscono continuamente dei rapporti di equivalenza tra i valori d'uso più diversi).

Base del valore di scambio di due merci diverse è il lavoro. La produzione delle merci è un sistema di rapporti sociali in cui i singoli produttori creano prodotti di qualità diversa (in virtù della divisione sociale del lavoro) e tutti questi prodotti sono fatti uguali l'uno all'altro mediante lo scambio. Di conseguenza quello che tutte le merci hanno in comune non è il lavoro concreto di un determinato ramo della produzione, né il lavoro di una stessa categoria di prodotti, ma il lavoro umano astratto (in generale).

E' questo tipo di lavoro che dà il vero valore alle merci. La grandezza del valore è determinata dalla quantità (o tempo) di lavoro socialmente necessario per produrre una data merce, cioè non è determinata dal tempo "individuale" impiegato da un singolo produttore.

Nel capitalismo una merce non si scambia con un'altra merce, ma si scambia col denaro, che svolge il ruolo di equivalente universale (come prima l'oro). Ad un certo grado di sviluppo della produzione mercantile il denaro si trasforma in capitale. Prima la formula della circolazione delle merci era M (merce)- D (denaro)- M (merce). Ora diventa D-M-D' (ove D' è la somma di denaro originalmente anticipata più un incremento: il plusvalore). Ora si compra non per l'uso ma per la vendita, per il profitto.

Da dove viene questo profitto? Il plusvalore non può scaturire dalla circolazione delle merci, perché questa conosce solo lo scambio tra equivalenti, né può sorgere da un aumento dei prezzi, perché i guadagni e le perdite reciproche dei venditori e degli acquirenti si compenserebbero. Per ottenere plusvalore il possessore di denaro deve trovare sul mercato una merce il cui valore d'uso abbia la proprietà peculiare di essere fonte di altro valore. Questa merce è la forza-lavoro dell'uomo. Il capitalista non paga tutta la forza-lavoro dell'operaio, ma solo quella parte sufficiente all'operaio per riprodurla; contemporaneamente però il capitalista può disporre di questa forza-lavoro per un tempo superiore a quello necessario per riprodursi: è sulla base della differenza di questo tempo che il capitalista realizza il plusvalore. Ad es. in 6 ore l'operaio può creare un prodotto la cui vendita basta a coprire le spese del proprio mantenimento, ma siccome il capitalista gli ha offerto in anticipo un contratto sulla sua forza-lavoro complessiva, ne risulta che nel tempo di lavoro supplementare l'operaio non viene pagato, ma solo sfruttato, per cui il plusvalore non è che pluslavoro non retribuito.

Di per se stessi i mezzi di produzione non rappresentano "capitale", perché lo diventano solo quando servono a sfruttare lavoro altrui. Va inoltre sottolineato -dice Marx- che non è stato il capitalismo a scoprire il pluslavoro, poiché questo esisteva in tutte le società dove una piccola minoranza deteneva il monopolio dei mezzi produttivi. In queste società però non dominava il valore di scambio, ma il valore d'uso del prodotto e quindi, per il carattere stesso della produzione (che era per i bisogni locali immediati) non si aveva un illimitato bisogno di plusvalore.

Naturalmente perché l'operaio venga sfruttato, occorre che sia libero di accettare il contratto (non può quindi essere un servo della gleba o un artigiano nelle corporazioni), ma deve anche essere totalmente privo di mezzi di sussistenza (terra e mezzi produttivi). Cioè egli deve poter esistere solo vendendo forza-lavoro.

L'aumento del plusvalore è quindi possibile in due modi: 1) prolungando la giornata lavorativa (plusvalore assoluto) o 2) riducendo, con la razionalizzazione del lavoro o l'introduzione di nuova tecnologia, il tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro (plusvalore relativo).

Marx analizza tre stadi storici nello sviluppo della produttività del lavoro in regime capitalistico: semplice cooperazione, manifattura e produzione meccanica. Quest'ultima ha assicurato la piena vittoria del capitalismo.

Caratteristiche fondamentali del capitalismo (concorrenziale):

crisi di sovrapproduzione, cioè eccesso di beni prodotti, per realizzare profitti, che non possono essere consumati a causa dei bassi salari;

nello stadio industriale avanzato si ha l'eliminazione dei piccoli capitalisti che producono a costi superiori e non riescono a tenere il passo con le innovazioni tecnologiche e la concentrazione dei capitali;

l'accumulazione capitalistica esige l'allargamento della popolazione operaia, ma con l'estendersi della tecnologia si riduce l'impiego di lavoro e si crea una sovrappopolazione relativa, con cui il capitalista tiene bassi i salari degli occupati (quando questa sovrappopolazione diventa assoluta i capitalisti, nel timore d'essere espropriati, tendono a scatenare delle guerre);

legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, ovvero il capitalista, essendo interessato a realizzare sempre maggiori profitti, cerca di introdurre nuovi macchinari, facendo notevoli investimenti: se a questo si aggiunge la difficoltà di piazzare le merci per le limitate capacità di acquisto degli acquirenti o per la concorrenza di altri capitalisti, di avere le materie prime a prezzi ridotti, di avere una classe operaia combattiva - si spiega il motivo per cui il saggio generale del profitto tende ad abbassarsi.

L'ANALISI DELLA MERCE (I)

Marx apre la Ia sez. de Il Capitale costatando che "la ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, appare come un'immensa raccolta di merci'"(p.25), cioè è una ricchezza il cui valore si misura in termini quantitativi: quante più merci circolano, tanto più la società è ricca. La "qualità" dipende dalla "quantità"; la "qualità" decisa dalla "quantità" è sempre inerente ai "beni materiali", e viene decisa sulla base di questi beni, in modo particolare sul loro possesso.

La merce infatti -prosegue Marx- ha la pretesa di soddisfare "bisogni umani di qualunque specie", materiali e spirituali. Lo fa a prescindere dal "come". La pretesa della merce non dipende dalla sua effettiva riuscita: è, per così dire, di tipo "genetico".

Nella società capitalistica la merce è composta di due fattori: il valore d'uso e il valore di scambio. Il primo è deciso sulla base del consumo: ha un valore ciò che serve per l'individuo. Il secondo invece rappresenta un modo d'esprimere, di due merci, il valore equivalente. Marx vuole qui evidenziare che nel capitalismo lo scambio prescinde, in un certo senso, dall'uso e quindi dalla qualità delle merci, limitandosi più che altro alla loro quantità, sebbene una comprensione adeguata della natura del valore di scambio -Marx lo dirà più avanti- debba necessariamente prescindere dalle questioni quantitative relative alle proporzioni delle merci, per rivolgersi alla qualità del lavoro astratto, socialmente necessario, in esse racchiuso.

Viceversa, in una società pre-capitalistica lo scambio non potrebbe mai prescindere dall'uso. Marx infatti afferma che se si prescinde dal valore d'uso, si prescinde da tutto ciò che dà significato alle cose e al loro stesso uso. Nel capitalismo il valore di scambio è determinato da una sorta di "lavoro umano astratto" (p.29), cioè da un lavoro che non può essere concretamente osservato, essendo una "fantastica oggettività"(ib.). Nel capitalismo lo scambio è indipendente dall'uso. Questo naturalmente non significa che nelle società pre-capitalistiche non poteva esistere un valore di scambio mutevole, soggetto a varie circostanze, come non significa che nel capitalismo le merci non abbiano un valore d'uso.

Come si può notare, Marx è partito con un'analisi fenomenologica, ma ha già chiarito che è impossibile spiegare il mistero della merce capitalistica (che si sdoppia in due valori contrapposti) con gli strumenti di quest'analisi. Ne occorre una che vada aldilà delle "forme" e che entri nella loro "sostanza", con la "forza dell'astrazione". Marx dirà nella Prefazione alla Ia edizione che per comprendere i misteri della merce (le sue "sottigliezze") è stata necessaria un'analisi simile a quella dell'"anatomia microscopica". In pratica, egli è dovuto passare, per superare i limiti metafisici degli economisti inglesi del suo tempo, dalla fenomenologia all'ontologia dell'economia politica, cercando di spiegare, sulla base dell'analisi storica, la contraddizione fondamentale, antagonistica, del sistema capitalistico.


Il valore di scambio, nel capitalismo, non solo si forma a prescindere dal valore d'uso, ma, in definitiva, determina questo stesso valore. Cioè un aspetto esterno o estrinseco determina un aspetto interno o intrinseco, sebbene nella "merce" -dice Marx- il valore di scambio sia più "intrinseco" di quanto non lo sia il valore d'uso in un oggetto qualsiasi.

Il "valore" di una merce consiste nella sua più o meno grande scambiabilità. Il valore di scambio è la forma fenomenica del valore di una merce. Marx si riferisce sempre alle "merci", cioè a prodotti finalizzati anzitutto allo scambio.

Un bene ha tanto più valore d'uso quanto più è grande la quantità di lavoro umano in esso oggettivato. La sostanza che crea valore è il lavoro. Naturalmente qui Marx dà per scontato che il bene debba avere un valore d'uso per la sussistenza dell'uomo o per la produzione di qualcosa. Egli non prende in considerazione il fatto (irrilevante da un punto di vista strettamente economico) che un bene può avere un altissimo valore (per la coscienza del soggetto) senza per questo avere un vero uso pratico, concreto, funzionale.

Nel Capitale il valore viene considerato solo in due modi: d'uso e di scambio. Tertium non datur. Quando Marx parla del valore in sé, senza aggettivi, lo intende sempre strettamente connesso al valore di scambio. "Una cosa può essere valore d'uso -dice- pur non essendo valore"(p.32). C'è "valore" solo quando c'è "scambio". Il valore di scambio, nel Capitale, o viene esaminato in sé e per sé, oppure nel suo rimando al valore d'uso, mentre questo generalmente si riferisce ai fattori materiali della sussistenza umana e della produzione di beni.

La cosa, a ben guardare, è limitativa rispetto alle capacità umane di gestire le proprie risorse, che non sono solo "materiali". Ecco, in questo senso, il valore d'uso, nel Capitale, non rimanda mai alla cultura con cui l'essere umano dà valore, storicamente, alle cose. E' forse "antimarxista" aggiungere, in maniera paritetica, ai due valori "classici" quello culturale e includere tra i valori culturali quelli normativi, affettivi, estetici ecc.?

Esistono cose che "non hanno valore" proprio in quanto il loro valore è incommensurabile, cioè non quantificabile, non monetizzabile. Una collana di conchiglie, per l'indio lucayo incontrato da Colombo durante il primo viaggio, poteva avere più valore di un oggetto artigianale in oro massiccio, semplicemente perché quella collana era stata costruita dallo stesso indigeno. Ma se essa gli fosse stata regalata dalla persona amata, avrebbe sicuramente avuto un valore maggiore. E se quella persona gli avesse addirittura salvato la vita o fosse morta poco prima di donargli la collana, allora questa avrebbe avuto un valore assolutamente incommensurabile. L'indio l'avrebbe conservata gelosamente e non l'avrebbe barattata con nessun'altra cosa al mondo.

L'indio in questione conosce sia il valore d'uso che il valore di scambio, ma più di tutto sa apprezzare il valore in sé delle cose, che prescinde sia dall'uso materiale che dallo scambio. Il valore, in tal caso, è incommensurabile non tanto perché non esiste sul mercato un possibile acquirente, quanto perché la cultura che si riflette nella coscienza dell'indio e la coscienza che si rispecchia nella sua cultura non vogliono paragonarlo con nessun'altra cosa.

Dunque se la sostanza che crea un valore "materiale" delle cose è il lavoro, quella che crea un valore "spirituale" delle cose è la coscienza: beninteso, non la coscienza astratta, di tipo kantiano, universalmente valida, ma la coscienza di un soggetto appartenente a una determinata cultura storica, quella stessa cultura che dà valore al lavoro umano.

Marx non era interessato a questo discorso perché esaminava le cose dal punto di vista dell'economia politica. La sua principale preoccupazione era quella di dimostrare i limiti e le irrisolte contraddizioni dell'economia politica classica (borghese), restando il più possibile all'interno di quest'ambito d'indagine. Pur avendo compreso perfettamente l'esistenza di un nesso tra struttura economica e sovrastruttura ideologica, Marx non avrebbe mai accettato l'idea che l'origine delle contraddizioni dell'economia politica borghese e della stessa formazione sociale capitalistica (il cui antagonismo irriducibile è riflesso in quella scienza borghese), va ricercata nel contesto culturale (ideologico, in particolare religioso) precedente a quella formazione sociale.


Per Marx il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro (misurabile con la sua durata nel tempo), ovvero è dato dal tempo di lavoro socialmente necessario, dal grado sociale medio di abilità e d'intensità di lavoro (il dispendio di energie). Naturalmente ciò dovrebbe essere deciso dall'intera società. Inutile qui aggiungere che nel capitalismo non è la società, nel suo insieme, che decide il carattere "medio" dell'abilità, dello sforzo fisico-intellettuale, del tempo necessario, ma è la classe capitalistica che, sulla base delle leggi dello sfruttamento e delle innovazioni tecniche, impone a tutta la società i propri criteri relativi alla "medietà".

Marx non ha mai approfondito il motivo culturale per cui, ad un certo punto, è potuto accadere che una determinata classe sociale potesse decidere, per tutta la società, di assegnare il valore delle cose a partire anzitutto dal lavoro, cioè considerando il lavoro come "autosignificantesi", a prescindere dal contesto socio-culturale che gli dà un senso. Marx si limitò a costatare che tale "cultura del lavoro" era nata nell'ambito del cristianesimo (specie nella sua variante borghese, che è il protestantesimo), ma non è mai riuscito a spiegare perché questa cultura non sarebbe potuta sorgere nell'ambito della confessione ortodossa o islamica, e neppure in quella cattolica, se questa non si fosse laicizzata, trasformandosi appunto in protestantesimo.

Marx afferma, nella Prefazione suddetta, che "al giorno d'oggi, a confronto della critica dei tradizionali rapporti di proprietà, lo stesso ateismo è diventato 'culpa levis'". In effetti, questo era vero per la cultura protestante, ma non sarebbe stato vero, nella stessa misura, anche per quella cattolica, proprio perché l'ideologia cattolica conserva nei confronti dell'ideale di una società religiosa un interesse maggiore, che all'individualista protestante manca.

Da notare, en passant, che nel capitalismo, almeno nella sua fase concorrenziale, il lavoro presumeva di dare un valore alle cose, a prescindere dalla cultura sociale (di origine cattolica) in cui lo stesso lavoro trovava il suo significato, la sua relativizzazione. Il lavoro aveva questa pretesa perché la religione protestante si era emancipata dalla teologia cattolica.

In seguito, nella fase monopolistica, il lavoro non è stato più in grado di dare un valore alle cose. Il valore oggi viene sempre più determinato da fattori che precedono o che seguono il lavoro vero e proprio (come ad es. la ricerca scientifica finalizzata al lucro, la pubblicità ecc.). Il lavoro oggi è la cosa che conta di meno, poiché sempre più viene sostituito dalle macchine e da aspetti irrazionali del mercato (ad es. la moda).

Dopo essersi reso indipendente dal contesto socio-culturale che gli dava significato, il lavoro (borghese) ha preteso di sostituirsi a quel contesto, dando valore alle cose: ne è risultato che il valore delle cose oggi non ha più alcun senso.


La grandezza di valore di una merce varia al variare della forza produttiva del lavoro, ma mentre nelle società pre-capitalistiche tale grandezza rimaneva abbastanza costante, nel capitalismo invece, a causa dello sviluppo intensivo dello sfruttamento del lavoratore e della scienza applicata alla produzione, tale grandezza varia di continuo. Le "condizioni naturali" sono le ultime che possono, sotto il capitalismo, contribuire al mutamento della grandezza di valore, mentre nelle società pre-capitalistiche esse erano generalmente al primo posto.

La mancanza di una grandezza di valore costante è caratteristica del capitalismo, che non vuole conservare nei confronti del passato alcun rapporto. "In generale -dice Marx- quanto più è grande la forza produttiva del lavoro, tanto più corto è il tempo di lavoro necessario alla produzione di un articolo, tanto più piccola la massa di lavoro in esso cristallizzata e più basso il suo valore". E' stato appunto così che il capitalismo emergente ha potuto distruggere il primato dell'agricoltura e dell'artigianato. Con la concorrenza dei prezzi, il capitalismo ha imposto sulla qualità del lavoro concreto la forza della quantità del lavoro astratto. Esso ha distrutto la "piccola forza produttiva del lavoro" che, avendo bisogno di molto tempo per produrre i beni, crea un valore d'uso molto grande. Insieme al senso della qualità delle cose, esso ha distrutto anche il primato dell'uomo sulla macchina, la creatività sulla produzione in serie.


Quando nasce il capitalismo: quando si comincia a produrre valore d'uso sociale o quando si produce solo per il mercato? Il paradosso, infatti, è questo, che mentre col capitalismo un oggetto viene destinato esclusivamente a un uso sociale, poiché non ci si limita più a soddisfare i bisogni dei produttori, con lo stesso capitalismo la prevalenza sociale dello scambio, che si realizza nel mercato, fa perdere alla merce il suo effettivo valore d'uso e le fa acquistare un altro valore, quello che le dà chi la produce (che è un proprietario privato). Di qui i bisogni indotti, il consumismo ecc.

In altre parole, mentre da un lato il carattere sociale della produzione per il mercato sembra superare qualitativamente la ristrettezza del carattere individuale della produzione per l'autoconsumo; dall'altro, invece, proprio quella pretesa socializzazione della merce toglie a questa il suo valore d'uso e assicura al singolo proprietario che produce valori di scambio un primato sulla collettività, rendendo meramente "quantitativo" quel superamento che pretendeva d'essere "qualitativo".

Dove sta l'inganno di questo processo, in cui lo stesso Marx, in parte, è caduto? Sta nel far credere che la produzione per l'autoconsumo non abbia alcun carattere di "socialità", che sia cioè una produzione individuale. In realtà, anche nella società feudale esisteva il valore d'uso sociale, esistevano delle merci che si vendevano sul mercato, ma la differenza, rispetto al capitalismo, era che non si produceva esclusivamente per il mercato, non si faceva del mercato il sostituto della comunità rurale o di villaggio. I commercianti di schiavi, di spezie o di articoli di lusso, gli stessi usurai non avevano certo la forza sociale per mutare questo stato di cose.

Se vogliamo, la nascita del capitalismo ha rappresentato l'illusione di credere che il mercato costituisse l'elemento più socializzante della vita pubblica. Ma se questa illusione ha potuto far breccia nella comunità agricola, distruggendola dalle fondamenta, significa che in quella comunità i rapporti sociali non erano vissuti dai lavoratori secondo giustizia. Il mondo contadino ha potuto essere ingannato dalla classe borghese, con relativa facilità, appunto perché nelle campagne vigeva il servaggio. Nell'esaminare i motivi per cui il cattolicesimo è stato superato dal protestantesimo non si deve dimenticare l'importanza fondamentale di questa contraddizione sociale. Per secoli il contadino ha lottato contro il servaggio, ma in Europa occidentale si è riusciti ad eliminarlo solo con una diversa forma di schiavitù, quella del lavoro salariato.

Se l'illusione non avesse intaccato la maggior parte dei contadini di ogni comunità, nessun abile e spregiudicato mercante di schiavi, di spezie o di articoli di lusso avrebbe potuto subordinare le esigenze della comunità agricola a quelle del mercato.

E' dunque sbagliato sostenere che nella società feudale non si produceva valore d'uso sociale. Tale valore esisteva nell'ambito della comunità di lavoro, e anche sul mercato, relativamente alle eccedenze che si volevano vendere. Ciò che non esisteva era la produzione finalizzata unicamente al mercato, alla vendita, se non in limitatissimi casi. Il "grano di tributo" o della "decima", che il contadino produceva per il signore feudale o per il prete, aveva un valore d'uso sociale, anche se non come il surplus venduto sul mercato per acquistare sale, spezie e altre cose: la differenza stava che il primo valore d'uso sociale era estorto con la coercizione, per cui alla fine diventava di "proprietà privata"; il secondo invece era libero.

In altre parole, nell'ambito della comunità agricola poteva esserci valore d'uso sociale senza che per questo vi fosse uno scambio equivalente, diretto, immediato, fra un bene e l'altro (ciò che appunto si verificava sul mercato). Lo scambio poteva essere "simbolico", indiretto, nel senso che il contadino poteva produrre un bene d'uso sociale per ottenere in cambio la possibilità della sopravvivenza della propria comunità.

Nel servaggio invece egli era costretto a produrre un bene d'uso sociale che a causa della coercizione extra-economica diventava privato: un bene che serviva appunto al feudatario per garantirsi la sopravvivenza della rendita. Questo per dire che la merce rappresenta un'alternativa vincente al valore d'uso sociale soltanto quando questo, in realtà, ha smesso d'essere sociale ed è diventato privato.

Il punto sta proprio in questo, che il contadino voleva essere sempre più libero di produrre per il proprio autoconsumo (ovvero per il consumo del proprio villaggio) e naturalmente di acquistare sul mercato, e sempre meno voleva essere costretto a produrre valori d'uso per altri. Il borghese deve aver fatto leva su questa contraddizione sociale e su questa esigenza emancipativa.

Bisogna quindi distinguere tra valore d'uso sociale e merce: il primo viene prodotto anche per il mercato, la seconda viene prodotta solo per il mercato. La precisazione di Engels, messa tra parentesi, a p.33, non ha chiarito questa differenza, pur avendone lo scopo, e non tanto perché Engels non sappia che sul mercato esistono solo "merci", quanto perché egli con una certa difficoltà avrebbe ammesso la presenza d'un valore d'uso sociale nel Medioevo. Marx ed Engels nutrivano non pochi pregiudizi nei confronti delle società agricole e delle idee "comunistiche" degli ambienti contadini, almeno sino a quando non verranno a contatto col populismo russo.

Per loro la produzione agricola era di carattere prevalentemente individuale. Non a caso Marx, nella suddetta Prefazione, afferma che la Germania "feudale" è destinata, prima o poi, a diventare come l'Inghilterra "capitalistica". Questo perché "il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare al meno sviluppato l'immagine del suo avvenire". Al massimo -dice ancora Marx- si "possono abbreviare e attutire le doglie del parto, ma non saltare né togliere di mezzo con decreti le fasi naturali dello svolgimento".

Secondo Marx (ed Engels) il passaggio dal feudalesimo al capitalismo andava considerato come parte di un "processo di storia naturale", in cui il singolo non è assolutamente "responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene, pure se soggettivamente [leggi: con la sua coscienza personale] possa innalzarsi al di sopra di essi".

In realtà, mentre nel capitalismo un bene diventa sociale solo sul mercato (e per questa ragione esso riflette solo l'interesse di individui privati), nella società feudale invece un bene è individuale solo nella misura in cui è sociale, nel senso che il valore di un bene non viene mai deciso dal singolo individuo, né da un elemento che, rispetto alla comunità di lavoro, rappresenta (come nel caso del mercato) un aspetto di secondaria importanza.

Ecco perché si deve affermare che se l'individuo può soggettivamente "innalzarsi" al di sopra dei rapporti sociali da cui proviene, allora non si deve considerare la transizione dal feudalesimo al capitalismo come un processo "naturale", inevitabile, assolutamente necessario. L'inevitabilità è sempre una conseguenza del fallimento di alcune alternative concrete.


Al § 2, dopo aver parlato della differenza tra valore d'uso e valore, intendendo per "valore" la sostanza prodotta dal lavoro e la grandezza prodotta dal tempo di lavoro socialmente necessario, dopo aver specificata la differenza tra valore d'uso e valore di scambio, Marx riprende la dimostrazione già fatta in Per la critica dell'economia politica sulla "doppia natura" del lavoro contenuto nella merce. Non dimentichiamo che Il Capitale vuole essere la continuazione del suddetto volume, apparso nel 1859, e, in particolare, il suo primo capitolo -come dice Marx nella Prefazione- vuole essere un riassunto delle parti significative di quella ricerca, con l'aggiunta di precisazioni e chiarimenti indispensabili.

Quando Marx inizia a parlare della divisione sociale del lavoro e afferma ch'essa "è il presupposto dell'esistenza della produzione delle merci"(p.34), non bisogna intendere tale affermazione nel senso che là dove esiste una divisione sociale del lavoro, la produzione è unicamente finalizzata al mercato. La divisione del lavoro non suppone di per sé il capitalismo.

Viceversa, quando Marx aggiunge, subito dopo la suddetta asserzione, che "la produzione delle merci non è presupposto dell'esistenza della divisione sociale del lavoro", e sceglie, come esempio di questo, "l'antica comunità indiana", dove "il lavoro è socialmente diviso, senza che i prodotti divengano merci", qui si possono ipotizzare due spiegazioni: o Marx è caduto in una svista, poiché l'esempio riportato contraddice la sua seconda asserzione; oppure egli voleva sostenere che le merci possono essere prodotte da una comunità il cui lavoro non è socialmente diviso, ma allora ciò contraddice la prima asserzione.

Marx, in pratica, fa questo ragionamento: la divisione del lavoro può esserci anche nella proprietà collettiva (come ad es. nella comunità indiana), ma così non si è in grado di produrre merci, poiché queste sussistono solo in presenza di una proprietà individuale. Infatti, "solo prodotti di lavori privati autonomi e indipendenti l'uno dall'altro si possono confrontare reciprocamente come merci"(ib.). Cioè solo quando la "comunità" è finita e ad essa si è sostituita la libera proprietà privata, si può parlare di divisione sociale del lavoro finalizzata alla produzione di merci.

L'incoerenza logica che Marx ha manifestato nella seconda asserzione (e che Engels probabilmente non è riuscito a spiegarsi) non è semplicemente il frutto di una svista, ma piuttosto di un pregiudizio nei confronti delle formazioni sociali pre-capitalistiche, specie di quelle non-schiavistiche. Marx cioè vuole qui attribuire la facoltà di produrre merci unicamente all'indipendenza dei produttori singoli semplicemente perché non riesce a contemplare la possibilità che una comunità, basata sull'autoconsumo, possa produrre, con la propria divisione del lavoro, merci per un'altra comunità, e che faccia questo senza escludere l'esistenza, al proprio interno, delle proprietà individuali, ovvero degli "affari privati di autonomi produttori". In altre parole, Marx non credeva possibile conciliare proprietà individuale e proprietà sociale all'interno della comunità agricola pre-capitalistica. Le merci potevano essere prodotte solo da individui privati la cui proprietà si contrapponesse a quella sociale.

Questo modo di vedere le cose oggi, se si vuole costruire il socialismo democratico, va superato. Senza dubbio è vero che la libera proprietà privata non presuppone, di per sé, una finalizzazione esclusiva della produzione per il mercato. Però la storia ha dimostrato che nel capitalismo ciò avviene in maniera generalizzata, irreversibile, senza soluzione di continuità. Il motivo di questo Marx lo spiegherà più avanti, quando parlerà del fatto che la presenza di una proprietà privata per pochi e di una libertà per tutti, obbliga la divisione del lavoro a produrre soltanto merci e lo stesso lavoratore a trasformarsi in una "merce".

In tal senso si può qui affermare che né la produzione di merci, né la divisione del lavoro presuppongono, di per sé, la separazione del lavoratore dalla proprietà dei suoi mezzi produttivi: solo in forza di questa alienazione materiale un prodotto diventa esclusivamente "merce". Dunque, per converso, la libera proprietà privata non produrrà unicamente per il mercato soltanto quando essa sarà patrimonio di tutta la società, cioè soltanto quando la libera proprietà privata non verrà gestita in contrapposizione alla libera proprietà altrui. Ma la proprietà privata non sarà mai libera finché resterà patrimonio di pochi monopolisti.


Meritevole d'attenzione è l'affermazione di Marx secondo cui il valore d'uso è il prodotto di un "lavoro utile" e non della "natura" in sé. Il lavoro è l'unica "attività speciale, produttiva e conforme a uno scopo"(p.35), in grado di adattare "particolari materiali naturali a particolari bisogni umani"(ib.).

Nell'economia politica di Marx l'uomo produce valori d'uso in quanto appartiene alla natura. Nel senso che, in ultima istanza, è la stessa natura che, attraverso l'uomo, produce valori d'uso per sé. La produzione di valori d'uso -osserva Marx- è "una perenne necessità della natura"(ib.). In nota egli cita una frase di Pietro Verri, secondo cui l'uomo non "crea" ma si limita a "trasformare" la materia ("accostando e separando").

Con questo ragionamento Marx non ha dato una vera spiegazione di ciò che dà valore al lavoro. Da economista qual era, egli riteneva che il valore del lavoro (concreto) stesse nello stesso valore d'uso dei prodotti creati: il valore di una "causa" veniva qui dai suoi "effetti". In tal modo però è impossibile uscire dalla tautologia, dal determinismo economico. Cosa che invece si può fare affrontando il problema della cultura che dà senso all'attività lavorativa e che, in definitiva, permette di distinguere un criterio di lavoro da un altro. L'indagine su questa cultura, partendo da un'analisi di tipo marxista, deve ancora essere fatta.

Non avendo considerato l'elemento della cultura, essendosi cioè limitato a quelli della materia naturale e del lavoro (relativamente alla formazione del valore d'uso), Marx è caduto in una contraddizione che, se si resta nell'ambito dell'economia politica, è irrisolvibile. Da un lato, infatti, Marx sostiene che il valore d'uso è prodotto dal lavoro utile, lasciando così credere che il lavoro sia un'attività specifica dell'uomo; dall'altro però sostiene che, nel produrre tale valore, l'uomo "può agire solo come la stessa natura, cioè solo modificando le forme dei materiali"(ib.).

Il che, in sostanza, non permette di spiegare in che modo il lavoro dell'uomo va considerato qualitativamente diverso da quello dell'animale. Se l'uomo fosse semplicemente un ente naturale, i suoi valori d'uso non potrebbero avere, tra loro, differenze di sostanza, grandezza e forma così rilevanti. Per quanto grandi possano essere le differenze tra una tela di ragno e un'altra, mai nessun ragno potrà mai uscire dall'ordine degli araneidi. Nel costruire oggetti di valore d'uso da parte del mondo animale, le differenze sono visibili e anche rilevanti, ma mai paragonabili alle capacità operative dell'essere umano, il quale è sì un prodotto della natura, ma un prodotto che supera la natura stessa.

Certo, finché si considera il rapporto dell'uomo con la materia, l'attività lavorativa non potrà essere che quella della trasformazione, essendo la materia (o la natura) antecedente alla comparsa dell'uomo sulla terra. Tuttavia, se si considera il rapporto dell'essere umano con se stesso e con il suo simile, non si può non costatare che l'elemento della coscienza, sociale e personale (ovvero dell'autocoscienza) rappresenta il superamento della stessa natura (che è determinata da leggi meccaniche), poiché, al di fuori dell'essere umano, non esiste in alcun altro ente di natura la coscienza che sa di essere tale.


La principale difficoltà della teoria del valore-lavoro di Marx non si riscontra tanto nell'esame del valore d'uso, quanto in quello del valore di scambio, e non perché si tratti del valore di scambio in sé, quanto perché, sotto il capitalismo, tale valore è quanto di più complesso, di più contraddittorio, si possa pensare, avendo esso un primato ingiustificato, arbitrario, sul valore d'uso.

Nella IIa parte del § 2, Marx parla del valore della merce, ovvero del passaggio dal lavoro utile, concreto (per il valore d'uso) al lavoro astratto (per il valore di scambio). Egli afferma che ogni società ha sempre cercato di sostituire a una "quantità maggiore di lavoro semplice" una "quantità minore di lavoro complesso"(p.37), cioè ha sempre cercato di produrre di più in minor tempo.

Tale "economicità" non sta di per sé ad indicare la transizione dal feudalesimo al capitalismo. Perché ciò avvenga occorre che il lavoro astratto abbia un primato decisivo su quello concreto, al punto che quest'ultimo sia rovesciato dalle fondamenta e al valore della qualità si sostituisca, tout-court, quello della quantità.

Tuttavia, Marx non è riuscito a spiegare, né mai vi riuscirà, il motivo per cui, ad un certo punto, la società, nel suo insieme, sulla base di una determinata cultura (la quale naturalmente avrà subìto un'evoluzione nel corso dei secoli), preferisce anzitutto e soprattutto produrre sempre di più in un tempo sempre minore, sconvolgendo così "le proporzioni fornite dalla tradizione"(ib.). Né egli ha qui considerato l'eventualità che la "riduzione" del tempo o il "potenziamento" del lavoro semplice possano essere dettati da motivi occasionali, contingenti (come ad es. le calamità naturali) e che la società, dopo aver risolto i problemi straordinari, torni spontaneamente ai metodi ordinari di sussistenza e produzione.

Pur senza dirlo esplicitamente, Marx intende far notare che la transizione dal feudalesimo al capitalismo (cioè dal valore d'uso prevalente al valore di scambio prevalente) è stata necessaria, inevitabile, così come è necessario, da sempre, il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto. Anche se non per mezzo di questo passaggio -sarà lui stesso a riconoscerlo- si deve considerare la transizione al capitalismo come un fatto scontato, essendo necessarie, a tale scopo, condizioni particolari suppletive, che non si riscontrano in ogni luogo e tempo. Quelle condizioni appunto che vanno ricercate nella cultura, nell'ideologia, nei valori, in una parola nella sovrastruttura, e che Marx non ha mai pensato d'individuare e approfondire più di tanto.

Egli considerava più importante il lavoro astratto semplicemente perché con esso è possibile soddisfare molteplici esigenze, e certo non solo del singolo individuo. Semmai è il lavoro concreto che -secondo Marx- risulta utile solo al singolo produttore. Insomma, ad una società che privilegia l'autoconsumo sul mercato, Marx tendeva a preferire, con la sua visione deterministico-evolutiva, una società che privilegia il mercato sull'autoconsumo. La "qualità" del singolo prodotto non può andare a scapito del "benessere diffuso".

Con molta difficoltà Marx avrebbe accettato l'idea che una corretta valutazione del valore di scambio (ovviamente di due merci diverse) è possibile solo se nella società domina il valore d'uso di entrambe le merci. Egli avrebbe obiettato che, in questo caso, non ci sarebbe neppure stato lo scambio di quelle merci sul mercato. Tuttavia il nodo da sciogliere sta proprio in questo, che lo scambio può trovare la sua vera ragion d'essere non solo nel bisogno d'una merce che non si possiede, ma anche e soprattutto nella capacità che una determinata comunità deve avere di stabilire, con una certa approssimazione, l'esatto valore d'uso di quella merce oggetto di scambio. Uno scambio è virtualmente democratico, reciprocamente vantaggioso, quando entrambi i contraenti sanno in anticipo quanto tempo e fatica occorrono per produrre una determinata merce. Se lo scambio avviene a prescindere da questa consapevolezza, facilmente chi detiene il monopolio della produzione o della proprietà sarà in grado di sottomettere il mero consumatore o il produttore più debole.


Marx non ha iniziato Il Capitale con un'analisi storica dell'accumulazione originaria ma con un'analisi fenomenologica della merce, perché non voleva dare al lettore l'impressione che tutto quanto è stato prodotto dal capitalismo va superato.

Partendo dalla merce, egli ha voluto mostrare, indirettamente, che la transizione dal feudalesimo al capitalismo era indispensabile e che nel capitalismo l'unica cosa che il socialismo non può assolutamente accettare è lo sfruttamento del lavoratore, reso possibile dal fatto che la proprietà dei mezzi produttivi è in mano a pochi capitalisti.

Ecco perché nell'analisi della merce non si riescono a scorgere i motivi di fondo per cui il capitalismo va rovesciato. Marx ha posto le cose come se il capitalismo, sul piano fenomenologico, cioè dell'apparenza fenomenica, non abbia veramente nulla di così "ripulsivo" da necessitare il suo superamento da parte del proletariato.

Il capitolo dove forse più risulta il lato "irrazionale" della merce capitalistica, è quello dedicato al "feticismo". Ma qui l'analisi, che pur viene a toccare aspetti di ordine etico e socio-esistenziale, si limita a una sorta di "filosofia dell'economia" (non molto diversa da quella dei Manoscritti del 1844, in quanto Marx non riesce a spiegare quale sia la cultura che origina il fenomeno del feticismo.

Se egli avesse lavorato di più sul nesso struttura/sovrastruttura, sarebbe probabilmente arrivato alla conclusione che il superamento del capitalismo dovrà comportare non solo la fine dello sfruttamento, ma anche l'inizio di una rivoluzione culturale che modifichi tutti gli aspetti del sistema capitalistico, strutturali e sovrastrutturali.


Nel § 3 Marx prende in esame la "forma di valore, cioè il valore di scambio". Mentre nel § 1 egli aveva mostrato che la "sostanza" e la "grandezza" ottenute attraverso il lavoro e il tempo impiegato per produrre una merce, possono aiutarci a capire il valore d'uso, ovvero "l'oggettività rozzamente sensibile dei corpi delle merci"(p.41), ora egli non ha dubbi nell'affermare che "l'oggettività del valore delle merci differisce in ciò dalla vedova Quickly, che non si sa dove trovarla"(pp.40-1).

Anche qui Marx imposta in modo sbagliato la ricerca per trovare la soluzione dell'enigma del valore. Egli infatti afferma che "l'oggettività di valore [delle merci] è semplicemente sociale, e quindi sarà evidente che quest'ultima può apparire solo nel rapporto sociale tra merce e merce"(p.41).

L'errore sta appunto nel fatto di ritenere "sociale" solo il valore di scambio, cioè solo il mercato, e di ritenere "individuale" il valore d'uso, la cui oggettività sarebbe "rozzamente sensibile". Per Marx la comunità agricola basata sull'autoconsumo è più individualistica dei soggetti indipendenti che s'incontrano sul mercato per contrattare, sulla base dell'offerta e della domanda, i prezzi delle merci. Posto il problema in questi termini, era ovviamente inconcepibile, per Marx, andare a ricercare l'oggettività del valore di scambio in una comunità del genere. Egli fa un discorso logico partendo da una premessa sbagliata.

Il suo ragionamento potrebbe funzionare a una sola condizione, che i contraenti, sul mercato capitalistico, avessero piena fiducia reciproca. Ma perché questo accada, occorre che nella società domini il valore d'uso, cioè il principio secondo cui un oggetto viene prodotto anzitutto per il consumo individuale e sociale, e solo in secondo luogo per essere venduto. Ora, tale eventualità non è nemmeno ipotizzabile sotto il capitalismo.


Secondo Marx il primo motivo per cui è alquanto difficile stabilire l'oggettività del valore di scambio, consiste nel fatto che due merci di genere diverso, ad es. una tela e un abito, sono, nel contempo, "l'uno la condizione dell'altro" ed "estremi che si escludono a vicenda"(p.42). Infatti l'espressione della "forma di valore semplice" o singola o accidentale, e cioè: venti braccia di tela = un abito, può essere rovesciata nel suo contrario: un abito = venti braccia di tela. In tal modo è impossibile stabilire, in maniera assoluta, quale delle due merci funzioni come forma relativa di valore (rispetto ad altra merce) o come forma equivalente (generalmente intesa).

L'enigma poteva essere risolto facendo capo al valore d'uso, ma non è stata questa la strada scelta da Marx. Facciamo un esempio. Supponiamo che un intellettuale viva in ristrettezze. Siccome è un appassionato di studi storici, mira ad abbonarsi a diverse riviste che trattano tale argomento. La passione per le riviste è superiore a quella per i libri, poiché esse possono tenerlo aggiornato per un anno intero, mentre un libro, quando vede la luce, è già vecchio di almeno un anno, se tutto va bene. Certo, potrà essere profondo, analitico, originale, ma non avrà mai il pregio dell'attualità, del legame diretto col presente, che fa sentire l'intellettuale, in contatto con altri intellettuali, protagonista del suo tempo.

Ad un certo punto egli s'accorge che l'abbonamento medio annuale di tutte le sue riviste è di circa £ 50.000. Questa cifra, automaticamente, gli diventa un metro di misura oggettivo per tutti i suoi successivi acquisti di libri. Nel senso che ogniqualvolta gli capita di voler acquistare un libro che costa sulle 50.000 £, prima fa mente locale e poi decide se il suo valore possa corrispondere a quello di un abbonamento annuale a una rivista storica. Di colpo, il valore d'uso del libro, nella coscienza dell'intellettuale, crolla a £ 40.000 e poi a £ 30.000, finché egli decide di non comprarlo (almeno per il momento). "Il libro mi serve, ma costa troppo; costando così troppo, forse non mi serve tanto".

In pratica che ragionamento ha fatto questo intellettuale? Egli non ha fatto altro che abbassare, in coscienza, il prezzo del libro mettendolo a confronto con ciò che più gli interessava. In pratica, egli ha fatto trionfare il valore d'uso della rivista sul suo stesso valore di scambio, nel senso cioè che il suo valore d'uso ha fatto abbassare sotto le 50.000 £ il valore d'uso del libro, per avendone fatto aumentare il valore di scambio.

Naturalmente se la cosa finisse qui non ci sarebbero né vinti né vincitori, poiché da un lato il libro ha bisogno d'essere venduto, dall'altro ha bisogno d'essere letto. Se tutti gli acquirenti ragionassero come il nostro intellettuale, l'editore fallirebbe, ma deve forse cedere l'intellettuale sul primato del valore d'uso della sua rivista? Deve essere forse lui a fare un sacrificio e ad accettare l'alto valore di scambio del libro che gli occorre? Se lo facesse, domani si troverebbe ad avere gli stessi problemi con un libro che costa £ 60.000, il quale, a sua volta, contribuirà a far aumentare di prezzo la rivista. D'altro canto l'intellettuale ha bisogno, per la sua professione, di acquistare anche determinati libri, altrimenti il valore del suo lavoro tenderà a diminuire. Dunque cosa fare?

Da questo match non si può uscire in termini di "lotta economica" nell'ambito del capitalismo. L'intellettuale può anche scioperare e smettere di leggere libri, ma se si limita a questo, sarà poi lui a dover scendere per primo a compromessi, essendo la parte sociale più debole. Può anche scegliere soluzioni più "empiriche", come ad es. fotocopiare solo le pagine che gli interessano, ma prima o poi gli editori gli porranno un divieto.

L'unica cosa che gli resta dare fare, se vuole salvaguardare il primato del valore d'uso, è quella di affrontare il problema politicamente. Dal circolo vizioso che il mercato impone alle categorie più deboli, l'intellettuale non può uscire finché non avrà il potere di strappare all'editore il monopolio sulla carta stampata. Quando la rivoluzione politica sarà compiuta, n 939j93j on solo l'editore e l'intellettuale potranno finalmente impostare i loro nuovi rapporti sul primato del valore d'uso, ma anche tutta la società.


Marx, trattando l'argomento della "forma di valore", è partito da quella più "semplice", allo scopo di dimostrarne il limite non rispetto al principio del valore d'uso (ché, anzi, se messa a confronto col valore d'uso, tale forma di valore è -secondo Marx- molto meno "rozza"), ma rispetto all'esigenza del valore di scambio di perfezionare al massimo le sue "forme", che, nell'analisi della merce, arrivano sino a quattro (l'ultima è quella del denaro).

Da un lato quindi Marx ha ritenuto che, di un qualunque prodotto del lavoro che non si confronta sul mercato con altri prodotti, il valore sia insignificante, arbitrario, in quanto del tutto individuale; dall'altro ha cercato di trovare l'oggettività di tale valore nello scambio, ma ha finito col dimostrarne l'inesistenza, poiché nel capitalismo il valore di una merce è possibile stabilirlo solo in rapporto a un'altra merce, ed entrambe, avendo come punto di riferimento non il lavoro ma il mercato, mutano di continuo i loro valori.

Certamente, Marx ha avuto tutte le ragioni di affermare che una merce non può stabilire da sé il proprio valore. Tuttavia, invece di dedurre da ciò che il valore di una merce può essere deciso solo da una comunità che non dipenda dal mercato, ne ha dedotto che la comunità deve cercare nel mercato il valore di quella merce ponendola a confronto con un'altra di scambio equivalente. Cioè invece di porre le premesse per una lotta politica contro l'egemonia del mercato, Marx si è limitato a sostenere che "indietro" non si può tornare, che l'autoconsumo è definitivamente tramontato e che il mercato può essere tenuto sotto controllo semplicemente se si razionalizza la produzione attraverso la socializzazione dei mezzi produttivi.

Naturalmente se Marx avesse privilegiato il valore d'uso su quello di scambio, sarebbe poi stato costretto a rivedere i suoi pregiudizi sulle comunità agricole pre-capitalistiche (cosa che farà, almeno in parte, negli ultimi anni della sua vita). Ecco perché, affermando che solo nel valore di scambio si ottiene "una forma di valore diversa dalla sua forma naturale"(p.46), egli ritiene che ciò sia un vantaggio rispetto al valore d'uso, dove il "lavoro umano produce valore ma non è valore"(p.45). Questo perché "soltanto l'espressione di equivalenza tra merci di diverso genere dà rilievo al carattere specifico del lavoro come creazione di valore, giacché riconduce in effetti i lavori di genere diverso contenuti nelle merci di genere diverso a quello che è loro comune, a lavoro umano in genere"(ib.).

Questo modo di vedere le cose oggi va completamente superato: semplicemente perché se ciò che dà valore alle merci non può essere il lavoro in sé, ma il lavoro espressione di una realtà sociale che dà valore allo stesso lavoro, allora il valore del lavoro non può essere dato dalle possibilità che offre il mercato di considerare equivalenti determinati merci: l'equivalenza dei lavori non può essere dedotta dall'equivalenza delle merci.

Se in una determinata società domina il principio del valore d'uso, possono essere considerati equivalenti due lavori che producono merci non equivalenti. Se ad es. nel raccogliere le pesche il soggetto A impiega un'ora per riempire cinque casse e il soggetto B con lo stesso tempo ne riempie tre, i due lavori non saranno equivalenti se finalizzati al mercato, ma lo sono se finalizzati all'interesse generale della collettività basata anzitutto sull'autoconsumo, nel senso che B ha dato quanto era in suo potere e il confronto con A sarebbe l'ultima cosa cui la comunità potrebbe pensare.

In sostanza, l'uguaglianza dei lavori è possibile solo se all'interno della comunità vige l'uguaglianza degli uomini tra loro. Se manca questa uguaglianza, è impossibile ristabilirla partendo da quella delle merci.

E l'uguaglianza degli uomini è possibile realizzarla solo se la proprietà privata è accessibile a tutti, o in forma individuale o in forma cooperativistica (all'interno della quale tutti i produttori sono soci a pari titolo). Non ci può essere uguaglianza sociale là dove un cittadino è costretto ad accettare il lavoro salariato per poter vivere.

In tal senso, non è singolare il fatto che proprio mentre, attraverso il valore di scambio, il capitalismo abbia la pretesa di dare "rilievo al carattere specifico del lavoro come creazione di valore", questo stesso lavoro, in ultima istanza, non è in grado di stabilire alcun vero valore oggettivo delle merci?

E non è forse singolare che proprio mentre il capitalismo si preoccupa di stabilire che il valore di una merce non è dato anzitutto dal suo "valore in generale", bensì dal suo "valore quantitativamente determinato", questo stesso specifico valore non sia in grado di farci capire l'effettivo valore di una merce se non dopo averla messa a confronto con un'altra?

Non è insomma singolare che dopo aver condannato il lavoro concreto a un ruolo storico del tutto marginale, il capitalismo -che pur privilegia il lato quantitativo del valore delle merci- sia stato costretto ad affermare il primato del "lavoro astratto", cioè dell'astratto "valore in generale" delle merci?

Stupisce, in questo senso, che Marx, pur avendo compreso perfettamente i limiti ontologici del capitalismo, non sia riuscito a cogliere la positività del modo di produzione pre-capitalistico fondato sull'autoconsumo.

Una spiegazione di questo limite di Marx la si può trovare nella parte dedicata alle tre particolarità della "forma di equivalente". Marx indovina le prime due: primato del valore di scambio sul valore d'uso e primato del lavoro astratto su quello concreto, ma sbaglia la terza, allorché sostiene un primato del lavoro sociale (capitalistico) su quello individuale o privato (pre-capitalistico).

Che Marx non abbia compreso la terza caratteristica lo si può notare anche dal fatto che l'ha messa per ultima, come fosse una conseguenza delle altre due, mentre in realtà essa andava messa per prima, essendo la causa principale del sorgere delle altre.

Se Marx non avesse conservato un pregiudizio sulle comunità agricole di autosussistenza non avrebbe contrapposto lavoro individuale a lavoro sociale nei termini in cui l'ha fatto. Egli infatti non ha saputo scorgere nel lavoro individuale agricolo la dimensione sociale, che è prevalente, e non ha sottolineato a sufficienza che l'origine del lavoro "sociale", nel capitalismo, è tutta individuale. La "socializzazione" del lavoro, nell'ambito del mercato capitalistico, è una mera astrazione, così come è quanto meno improprio parlare di lavoro "socializzato" nell'ambito dell'impresa capitalistica, ove la proprietà è di uno o più imprenditori privati. Meglio sarebbe parlare, in questo caso, di lavoro "organizzato" con l'uso delle macchine.

Viceversa, nell'economia contadina il lavoro era da subito sociale, anche se il contadino lavorava la terra con poche persone. Infatti, era anzitutto "sociale" la comunità che dava senso al lavoro. Ed era "sociale" anche nel senso che la realizzazione dell'autarchia non veniva affidata ai singoli produttori, ma alla comunità nel suo complesso. Nelle comunità di autosussistenza non è mai esistita l'indipendenza assoluta del singolo produttore dagli altri produttori.

La crisi di questa comunità, ciò che determinò, in ultima istanza, la transizione al capitalismo, traeva la sua ragion d'essere nell'antisocialità costituita dal servaggio, ovvero dalla rendita feudale. Questa antisocialità pratica, mascherata ideologicamente dalla religione, troverà un contrappeso non solo nelle lotte politiche dei contadini, ma anche nell'affermazione di una nuova antisocialità: quella del lavoro individuale borghese.

La società borghese è nata con la pretesa di anteporre al lavoro collettivo il lavoro individuale, facendo credere che quest'ultimo fosse più "libero" dell'altro, in quanto i produttori privati presumevano d'essere totalmente indipendenti. In pratica la società borghese non ha fatto altro che sostituire la dipendenza del singolo produttore da una comunità di produttori come lui, con la sua dipendenza da un proprietario privato che non produce. Questo passaggio è potuto avvenire appunto perché nella comunità di autosussistenza vigeva un principio ad essa estraneo o contrario, quello della rendita feudale.

Marx avrebbe insomma dovuto puntare di più l'attenzione sul fatto che la caratteristica della merce d'essere "immediatamente scambiabile" con altra merce, sul mercato, era un fatto altamente drammatico, in quanto presupponeva l'agonia della comunità di autosussitenza. Senza tale comunità, infatti, il bisogno di merci si fa sempre più pressante, sicché la loro scambiabilità deve farsi più veloce. Il consumatore ha bisogno di "tutto" proprio perché è in grado di produrre soltanto "qualcosa" o addirittura "niente". Dirà Marx nel § sul feticismo: "Nei modi di produzione dell'antica Asia e dell'antichità classica ecc., la trasformazione del prodotto in merce...diviene tanto più importante, quanto più le comunità s'avvicinavano all'epoca del loro tramonto"(p.80).

In fondo, la grande diversità esistente tra Marx e l'economia politica classica, consiste semplicemente in questo, che Marx non s'illudeva di poter conservare il valore d'uso in una società ove domina quello di scambio. Marx mise a nudo il formalismo dell'economia classica non rinunciando definitivamente al valore d'uso, ma cercando di sintetizzarlo con quello di scambio, proponendo la socializzazione dei mezzi produttivi, ovvero la fine della proprietà privata. Tuttavia, egli non si accorse che, così facendo, si doveva per forza tornare a valorizzare l'economia pre-capitalistica fondata sull'autoconsumo.

In tal senso il limite del Capitale si pone a un duplice livello: da un lato esso non offre la modalità operativa con cui realizzare la suddetta sintesi (e qui il leninismo, col suo primato della politica sull'economia, costituirà, del marxismo, l'insostituibile complemento); dall'altro esso non parte dal presupposto che la sintesi suddetta può essere efficacemente realizzata solo a condizione che il valore d'uso abbia un primato su quello di scambio (e su questo neppure il leninismo riesce ad offrire indicazioni di merito). Praticamente il problema di recuperare il primato del valore d'uso si sta ponendo solo ora nei paesi dell'ex-"socialismo reale".


Marx ha potuto facilmente criticare Aristotele perché la società schiavista che questi rappresentava aveva delle contraddizioni evidenti, ma non per questo è riuscito a porsi con la dovuta obiettività di fronte all'etica economica medievale.

E' vero, Aristotele aveva capito che "non può esistere lo scambio senza l'uguaglianza"(cit. a p.55), ovvero che esiste "un rapporto di uguaglianza nella espressione di valore delle merci"(p.56). Ed è anche vero ch'egli non poteva dedurre il concetto di valore, ovvero l'equivalenza delle merci, dall'uguaglianza dei lavori umani, essendo la società greca di tipo schiavista. In questo senso, la seconda parte della frase di Aristotele, riportata da Marx: "non può esistere l'uguaglianza senza la commensurabilità", è, rispetto alla prima definizione, di carattere tautologico, poiché "scambio" e "commensurabilità" sono, in definitiva, equivalenti.

Stando al ragionamento, perfettamente corretto, di Marx, Aristotele, se non fosse vissuto in una società schiavista, avrebbe dovuto concludere dicendo: "non c'è l'uguaglianza delle merci se non c'è l'uguaglianza sociale di chi le produce".

Tuttavia, Marx, ancora vittima dei suoi pregiudizi antimedievali, non s'accorge che la prima vera alternativa allo schiavismo non è stata costituita dalla società borghese, col suo "concetto dell'uguaglianza umana", ma è stata costituita dalla società feudale, col suo concetto di uguaglianza umana "davanti a dio". Marx cioè non si è reso conto che l'uguaglianza formale affermata dalla borghesia non era altro che una laicizzazione dell'uguaglianza non meno formale affermata dalla chiesa.

Dove stava la differenza tra le due forme di uguaglianza? Nel fatto che quella contadina viveva un conflitto antagonistico fra la socializzazione della comunità agricola e la dipendenza personale dal feudatario; mentre quella borghese rappresenta una lacerante contraddizione fra la socializzazione del mercato e la libertà individuale strettamente legata alla proprietà privata.

Marx è arrivato a un passo dal comprendere che se il concetto di uguaglianza umana ha assunto nella società borghese "la saldezza di un pregiudizio del popolo"(ib.), ciò è dipeso dal fatto che prima della cultura borghese c'era quella cristiana che alimentava nelle masse l'illusione di una libertà sostanziale. Marx non è arrivato a fare il passo successivo -che sarebbe stato quello di esaminare i pro e i contro dell'etica economica medievale, orientale e occidentale, nonché i fondamenti dell'ideologia borghese nell'ideologia religiosa del cristianesimo occidentale- semplicemente perché ha sempre considerato il servaggio una variante dello schiavismo e non un tentativo di superamento.


Che il valore di una merce debba essere soggetto alle mutazioni delle circostanze di luogo, di tempo e di altri fattori (non ultimo dei quali il lavoro), è cosa che si può accettare senza dover ogni volta ribadire la necessità, per una sana economia, che il valore d'uso abbia un primato su quello di scambio.

E' fuor di dubbio, tuttavia, che non esisterà mai alcuna possibilità di stabilire "per decreto" tale primato, senza arrecare un danno rilevante all'intera economia. La dialettica tra i due valori sarà eterna, ma fintantoché la comunità in cui essi si esprimono conserverà il proprio valore umano, quello di scambio resterà complementare a quello d'uso. Viceversa, ogniqualvolta la comunità, come tale, perderà di credibilità, il valore di scambio tenderà a prevalere su quello d'uso.

Sotto il capitalismo questa tendenza si è così radicalizzata che è impossibile ripristinare il rapporto originario senza una rivoluzione politica. Le classi sociali legate al primato del valore di scambio hanno interessi così grandi che, anche se costituiscono un'infima minoranza, non riescono a rinunciare spontaneamente ai loro privilegi.

D'altra parte la tendenza si è radicalizzata proprio perché sono falliti nell'ambito del capitalismo tutti i tentativi di salvaguardare il valore d'uso senza mettere anzitutto in discussione il monopolio di pochi privati sulla proprietà: mercantilismo, fisiocrazia ecc.

E' fallita persino quella forma di socialismo (detta dal marxismo "utopica") che mirava ad allargare la proprietà a tutti i membri di una particolare collettività socializzata. Non c'è infatti alcuna possibilità di costruire "isole felici" in cui tutelare il valore d'uso, se prima non si elimina politicamente il sistema capitalistico. In tal senso, se un merito al marxismo va riconosciuto è stato proprio quello di aver svolto una profonda opera di disillusione.

Il socialismo utopistico avrebbe avuto ragione se prima si fosse fatta la rivoluzione politica per abbattere il sistema capitalistico. Esso invece pensava che proprio attraverso riforme progressive, attraverso particolari esperimenti collettivi, non ci sarebbe stata bisogno di alcuna rivoluzione politica. Senza volerlo, esso non faceva che puntellare l'edificio traballante del sistema.


Lo sforzo maggiore che Marx ha compiuto nel § 3 è stato quello di cercare d'individuare la possibilità di una definizione oggettiva di valore a partire dalla scambio. Non è stato quello di sostenere che tale definizione è impossibile in un'economia così "anarchica" o che, prima di dare una definizione del genere, bisogna rivoluzionare il sistema.

In tal senso egli ha cercato di dimostrare che la possibilità di trovare una qualche forma di oggettività è strettamente correlata alla nascita di una contrapposizione tra "forma relativa di valore" e "forma di equivalente" (cosa che deve concludersi con il prevalere della seconda sulla prima).

Nella forma di valore semplice, singola o accidentale (ad es. venti braccia di tela = un abito) ognuna delle due merci può svolgere il ruolo opposto, per cui è "difficile fissare la contrapposizione polare"(p.66). Ogni merce ritiene di poter essere equivalente a una qualunque altra merce (poste naturalmente determinate proporzioni quantitative).

Nella forma di valore totale o sviluppata "il rapporto casuale di due individuali proprietari di merci viene meno"(p.61), poiché ora infinite merci possono fungere da equivalenti particolari per un'unica merce (ad es. la tela).

Il rovescio di questa molteplice serie di rapporti dà la forma generale di valore, quella per cui "un genere particolare di merce [ad es. la tela] riceve la forma generale di equivalente"(p.65), mentre tutte le altre ne sono escluse. Solo una merce "si trova nella forma di diretta scambiabilità con tutte le altre merci"(p.66). Questo dipende dal fatto che in essa si riconosce il riferimento sociale generale di ogni lavoro umano.

Come si può notare, Marx si è limitato a un esame logico della successione delle forme, senza entrare nei dettagli storici. Cosa che avrebbe potuto, anzi dovuto fare se avesse accettato l'idea che tali passaggi sono il frutto di una concezione culturale determinata dei rapporti sociali, e non tanto una necessità di tipo economico, e meno che mai un'esigenza di tipo psicologico.

Marx ha elaborato con grande fatica i vari passaggi della forma di valore per giungere alla conclusione, tautologica, che il valore di una merce sta nel suo prezzo, che trova la sua espressione più compiuta nell'equivalente universale del denaro e che viene deciso di volta in volta.

Tale deludente (ma d'altra parte inevitabile) conclusione -cui Marx cercherà di porre rimedio col § sul feticismo della merce- si sarebbe potuta evitare se si fosse partiti da un'altra premessa, quella secondo cui è possibile trovare un valore oggettivo alla merce solo nell'ambito della comunità di autoconsumo, che di per sé non esclude affatto il mercato.

La premessa da cui parte Marx (vedi la forma "A" del valore), e cioè quella dei due individui privati che s'incontrano casualmente, liberamente, sul mercato, potrà avere un valore come ipotesi astratta ma non ne ha alcuno come riscontro storico. Sin dall'inizio, infatti, tentando di far valere il lavoro astratto su quello concreto, la borghesia ha fatto in modo che sul mercato prevalessero i "manufatti finiti" rispetto alla "materia prima" (l'abito rispetto alla tela).

Il contadino è sempre stato produttore di materia prima (beni alimentari, cotone ecc.). Ora, l'interesse principale che ha l'imprenditore privato borghese, che vuole trasformare la materia prima, è anzitutto quello che il contadino non abbia la possibilità di trasformare la propria materia prima in modo industriale e che quindi egli stesso si trasformi in consumatore a vita.

In tal senso la tendenza della borghesia è stata quella di considerare subito il denaro come equivalente universale, onde impedire che sulla base di una qualche materia prima a disposizione della comunità agricola si potesse imporre sul mercato un'altra merce riconosciuta equivalente. La borghesia ha imposto come equivalente ciò di cui già disponeva in abbondanza.

Le forme elencate da Marx, quindi, riflettono non l'evoluzione della società borghese (a partire dalla sua fase mercantile), ma l'innesto di due società che privilegiano il mercato sull'autoconsumo: quella schiavistica e quella borghese e, a partire da questo, la superiorità della seconda sulla prima.

In tal senso si potrebbe affermare che nella prima forma di valore solo in astratto tela e abito si equivalgono: nel concreto è la tela che deve adeguarsi all'abito. L'imprenditore privato che trasforma la materia prima vuole dominare non solo sul consumatore (impedendogli qualunque aspirazione all'autonomia), ma anche il produttore di materie prime, al quale non si concede la possibilità di trasformarsi in un imprenditore per il vasto pubblico.

Facciamo un esempio. Una stoffa di lino può costare £ 50.000 al mq; con 2 mq si può fare una giacca che sul mercato può essere venduta a £ 300.000. Ma la giacca "segue" la moda. L'anno dopo essa costerà £ 150.000, mentre il costo del lino sarà intanto aumentato, per cause diverse, di altre 10.000 £ al mq. Dunque, è stata la stoffa ad adeguarsi al trend della giacca o è stato il contrario?

Facciamo un altro esempio. Un agricoltore raccoglie 1 kg di albicocche che gli vengono pagate £ 300 dall'imprenditore che con la sua industria di trasformazione ci farà 3 confetture di marmellata al prezzo di £ 1500 l'una. L'anno dopo, se il raccolto sarà ancora più abbondante, le albicocche, al kg, scenderanno a £ 200, mentre l'imprenditore potrà, con relativa tranquillità, incrementare il prezzo della marmellata di altre 2-300 £: cosa che, a maggior ragione, farà anche se il raccolto sarà stato scarso o molto scarso.

Dunque, chi o che cosa esprime di più la "forma di equivalente": il frutto naturale o quello lavorato? Per quale ragione tra la "forma naturale" della merce e quella "fenomenica" deve esistere un divario così grande e sempre così svantaggioso alla prima?

FETICISMO DELLE MERCI

Isaak Rubin, nel 1928, disse che "la teoria del feticismo della merce di Marx non è mai stata valutata adeguatamente nell'ambito dell'economia marxista"(Saggi sulla teoria del valore di Marx, ed. Feltrinelli, Milano 1976, p.5). Ebbene, da allora non sono stati fatti molti progressi. Il motivo è semplice: è impossibile formulare un'ipotesi alternativa al sistema capitalistico senza recuperare il meglio della società agricola feudale.

Marx si rese conto che un valore di scambio staccato dal suo valore d'uso è il sintomo di una società divisa in classi antagonistiche. E si rese anche conto che se avesse puntato la sua attenzione sul recupero, mutatis mutandis, del valore d'uso, non sarebbe uscito dall'empasse in cui era finito il socialismo utopistico, il quale s'illudeva di poter conservare, nel particolare, il valore d'uso, mentre a livello di società generale dominava quello di scambio.

Tuttavia, piuttosto che uscire dall'ambito dell'economia politica ed entrare in quello dell'organizzazione politico-rivoluzionaria del passaggio al socialismo, Marx ha preferito analizzare in profondità i meccanismi del valore di scambio e le sue interne contraddizioni. Questa scelta di campo lo ha portato a credere, da un lato, che nel sistema capitalistico esistono delle leggi obiettive che lo portano al crollo (cosa insostenibile sul piano logico e che non si è verificata storicamente); e, dall'altro, che, in ultima istanza, il valore di scambio non deve sottostare a quello d'uso, ma solo a una programmazione razionale di tutte le risorse, resa possibile dalla socializzazione dei mezzi produttivi.

Il feticismo delle merci, in tal senso, è sì una conseguenza del primato del valore di scambio, ma se questo primato esistesse in una società socialista -sembra dire Marx- non si avrebbe alcun feticismo. A riprova di ciò si deve sottolineare che quando Marx parla di feticismo delle merci, i protagonisti in gioco sono sempre dei produttori privati indipendenti, i quali sono, a loro volta, reciprocamente consumatori del prodotto altrui. Il feticismo è sì una conseguenza dell'indipendenza dei produttori privati, ma in ciò Marx non considera la contemporanea espropriazione del produttore diretto dalla proprietà dei mezzi produttivi. Questo aspetto verrà analizzato in un secondo momento.

Il primato del valore di scambio, in sostanza, va superato semplicemente perché esso presuppone un tipo di rapporto sociale alienato (che trova un riflesso nel feticismo); non va superato recuperando, senza il servaggio, il primato del valore d'uso della società agricola feudale. Marx era così contrario a questa società che preferì piuttosto pensare a un socialismo quale ripetizione "socializzata" del modo di vivere "individualistico" di Robinson.

L'economista sovietico Rubin era convinto che il capitolo sulla merce non lo si poteva comprendere se prima non si leggeva l'ultimo § dedicato al feticismo. Solo in questo § infatti si elabora una soluzione alternativa al capitalismo. Tuttavia Rubin non capì che Marx non potè elaborare un'alternativa al valore di scambio proprio perché rifiutava il primato del valore d'uso. Il capitolo sul feticismo, in tal senso, offre un'alternativa al capitalismo, ma, conservando i pregiudizi nei confronti del mondo contadino, finisce anche coll'aprire le porte alla trasformazione del feticismo da economico a politico-ideologico.

La possibilità di conservare il primato del valore di scambio in una società socialista, in virtù della pianificazione generale (statale) di tutte le risorse, può dipendere, in effetti, soltanto dal consenso che le masse manifestano nei confronti di un ideale politico. In tal modo però si finisce col sostituire al feticismo delle merci quello del "piano".


"Il carattere mistico della merce [ovvero la sua natura "sensibilmente soprasensibile"] -dice Marx- non deriva dal suo valore d'uso"(p.70). Finché una merce soddisfa dei bisogni umani o è semplicemente il prodotto di un lavoro umano, non c'è nessun mistero da svelare.

L'enigma "non deriva neanche dal contenuto delle determinazioni di valore"(ib.), cioè "sostanza" e "grandezza" di valore, poiché da sempre gli uomini si sono interessati a distinguere la quantità di lavoro occorsa per produrre una merce dalla sua qualità.

Il prodotto di lavoro diventa "una cosa intricatissima" quando assume "forma di merce". Per quale ragione? "Il segreto della forma di una merce -spiega Marx- sta nel fatto che tale forma ridà agli uomini [dopo avergliela tolta], come uno specchio, l'immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose [cioè nascondendo il lato antagonistico, "innaturale", di quelle proprietà: quel lato che l'economia politica classica non è mai riuscita a individuare], e perciò ridà anche l'immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale tra oggetti che esiste al di fuori dei produttori", cioè al quale essi sono soggetti (p.71). Nell'economia mercantile è "il processo di produzione che regola gli uomini"(p.82).

Ma perché avviene questo "qui pro quo"? Perché da un lato i produttori eseguono dei lavori privati "gli uni indipendentemente dagli altri"(p.72); dall'altro "solo tramite lo scambio dei prodotti del loro lavoro stabiliscono un contatto sociale"(ib.). In altre parole, le relazioni sociali dei loro lavori privati non sono "rapporti direttamente sociali tra persone nei loro stessi lavori, ma rapporti di cose tra persone e rapporti sociali tra cose"(ib.).

Là dove gli uomini credono di avere, tra loro, un rapporto sociale, in realtà hanno solo un rapporto "reificato", nel senso che il rapporto sociale è mediato anzitutto dalla compravendita di una merce; viceversa, là dove credono di avere un rapporto naturale con le cose, in realtà hanno un rapporto "artificiale", poiché le merci, in un certo senso, si "personificano", permettendo agli uomini d'incontrarsi solo in una determinata maniera: quella fra produttore e consumatore. Questo tipo di relazione, essendo l'unico dominante a livello sociale, è in grado d'influenzare ogni aspetto della vita pubblica e privata, sociale e personale, anche gli aspetti non direttamente legati al luogo fisico del mercato o del negozio.

In sintesi dunque la merce nasce da un rapporto sociale alienato ed essa stessa, a sua volta, riproduce questo rapporto. La merce esiste anzitutto non per l'uso ma per essere venduta e comprata, esiste non per le sue intrinseche qualità, che aiutano a rendere migliore l'esistenza, ma per la quantità di denaro che permette di guadagnare. Essa domina incontrastata, nella società mercantile, non solo perché è frutto di una separazione tra produttore e proprietà dei mezzi lavorativi, ma anche perché il consumatore s'illude, comprandola, d'aver acquistato un bene utile, indispensabile.

Il rapporto sociale che trasforma un oggetto d'uso in merce è già di per sé un rapporto alienato, diviso, antagonistico. La merce è un modo per giustificare la propria alienazione. L'illusione del produttore alienato è quella di superare la propria alienazione nella misura in cui produce quante più merci può. L'illusione sta nel credere che un processo meramente economico e quantitativo possa superare una forma di alienazione sociale di tipo qualitativo (cioè ontologica).

Marx constata che questa illusione si verifica anche nel mondo religioso, allorché "i prodotti della mente umana [ad es. gli dèi] sembrano essere dotati di una propria vita"(p.71). La merce dà l'illusione di un rapporto sociale diretto tra gli uomini, così come i sacramenti danno l'illusione di un rapporto mistico, non meno diretto, tra gli uomini e la divinità. Essendo i rapporti sociali della borghesia basati sull'antagonismo di classe (in una maniera ancora più accentuata che nel Medioevo, poiché ora l'accumulazione e il profitto non conoscono limiti naturali), l'alienazione viene semplicemente trasferita dal rapporto dell'uomo col "cielo" al suo rapporto con la "terra". La borghesia non ha fatto che secolarizzare una mentalità e un comportamento che nel Medioevo erano religiosi.

Tuttavia Marx non arriva a concludere che il feticismo delle merci sia la conseguenza di un certo modo di vivere l'ideologia religiosa. Nella sua analisi, al massimo, i due "feticismi" procedono parallelamente, influenzandosi a vicenda, ma la ragione ultima di quello religioso sta sempre in quello economico. E' il cristianesimo che "corrisponde" al capitalismo. A tale proposito viene detto in una nota a p.85: "il Medioevo non poteva vivere del cattolicesimo, e il mondo antico non poteva vivere della politica. Al contrario, la maniera di guadagnare la vita rende chiaro perché la parte più importante era rappresentata là dalla politica, qua dal cattolicesimo". Col che Marx considera la sovrastruttura in un rapporto solo passivo, di mero rispecchiamento, rispetto alla struttura correlata, e si è lasciato così sfuggire l'occasione di conoscere il modo come questa sia influenzata da quella.

D'altra parte Marx non va a cercare il motivo del feticismo nella sfera dell'ideologia ma in quella dell'economia: "gli uomini equiparano gli uni con gli altri i loro diversi lavori come lavoro umano, equiparando nello scambio gli uni con gli altri, come valori, i loro eterogenei prodotti. Ignorano di fare questo, ma lo fanno"(p.73).

Detto altrimenti: il feticismo dipende dal fatto che l'uguaglianza dei lavori e quindi dei produttori viene fatta risalire, magicamente, all'uguaglianza delle merci sul mercato. E tale uguaglianza, a sua volta, parte dal presupposto che i lavori tra loro siano socialmente uguali, in quanto tutti riconducibili all'astratto lavoro umano (quello che l'economia classica non riuscì a capire).

L'illusione quindi si pone a un duplice livello: da un lato si deduce l'uguaglianza sociale dall'equivalenza delle merci sul mercato; dall'altro si deduce che l'indipendenza dei produttori privati, ovvero la loro uguaglianza, possa riflettersi nell'equivalenza delle merci. La "socializzazione" del lavoro non si verifica "a monte", cioè sul luogo produttivo, che resta individuale, ma "a valle", cioè sul mercato, e si verifica solo in rapporto alla compravendita delle merci.

Nel capitalismo l'oggettività di valore socialmente uguale dei prodotti avviene solo nello scambio, senza che vi sia necessità -come nel valore d'uso- di paragonare, fra loro, tempo di lavoro, dispendio d'energia psico-fisica e senso sociale dell'uso. Una cosa ha valore non perché anzitutto serve alla propria "sussistenza", ma se è scambiabile con altre cose, cioè se può essere acquistata sul mercato, se di essa esiste un equivalente in denaro. Gli altri significati della merce sono conseguenti a questo.

L'uguaglianza dei produttori -come si può notare- non è di tipo sociale ma giuridico. Il produttore "finge" di sentirsi uguale al consumatore, il proprietario dei mezzi produttivi "finge" di sentirsi uguale al lavoratore, semplicemente per indurlo ad acquistare sul mercato ciò che permette a tale uguaglianza formale di riprodursi. Nel momento in cui "acquista", il consumatore, cioè il lavoratore senza proprietà, avverte, per un attimo, che la merce lo rende uguale al produttore: è questa l'illusione dell'uguaglianza sociale che crea il feticismo delle merci.

Naturalmente sarebbe impossibile per un produttore realizzare ingenti profitti senza dimostrare che la merce serve a qualcosa. Il problema tuttavia è un altro. Se il produttore ha la facoltà d'imporsi sul mercato, egli ha anche la capacità d'indurre il consumatore a considerare "utile" (anche se veramente utile non è) una determinata merce. Il valore d'uso infatti non è più determinato da un rapporto sociale a misura d'uomo, in cui i soggetti si controllano a vicenda e sanno in anticipo quello di cui hanno bisogno, ma dalla disgregazione di questo rapporto.

Per cui il vero valore d'uso, sotto il capitalismo, non esiste più, né potrebbe esistere, essendo tutto assorbito nel valore di scambio. Un valore d'uso (minimo) può esistere quando il capitalismo è emergente, quando esso cioè ha bisogno di spazzare via le forme sociali pre-capitalistiche con la forza qualitativa e quantitativa delle proprie merci. Ma appena il capitalismo s'è imposto su queste forme il valore d'uso tenderà progressivamente a scemare: le merci saranno sempre meno valide sul piano qualitativo, proprio perché l'esigenza sarà quella di venderne il più possibile. La qualità sussiste quando permane la concorrenza tra i monopoli di uno stesso settore, ma anche qui intervengono facilmente altri fattori (tecnologici soprattutto) per rendere precaria la qualità dei prodotti. Le merci non sono fatte per durare ma per deperire ed essere riacquistate.

Dunque un oggetto è utile nella misura in cui è scambiabile contro il denaro, vendibile sul mercato. In teoria è il mercato che stabilisce se una cosa è utile o no. In pratica sono i capitalisti che si servono del mercato solo come un indicatore di massima e che ritengono di poterlo strumentalizzare come meglio credono (ad es. attraverso la pubblicità). L'utilità è un sofisma, un pretesto per accumulare profitti e capitali privatamente. Nel mercato infatti non agiscono persone socialmente equivalenti, ma produttori di merci e meri consumatori. Se la produzione resta in mano a singoli privati, e non è soggetta al controllo popolare della comunità locale, i consumatori non potranno che subire forti discriminazioni.

Nello scambio si ha solo l'illusione dell'equivalenza dei lavori, delle merci, dei soggetti che vendono e comprano. Il capitalismo ha preteso di eguagliare tutto allo scopo di subordinare la qualità alla quantità, la diversità all'uniformità, l'utilità all'effimero... I rapporti sociali borghesi sono, in definitiva, dei rapporti matematici fra grandezze ritenute, a torto, omogenee.

Il borghese non vuole determinare il valore di un oggetto sulla base delle caratteristiche del rapporto sociale ch'egli ha rigettato. Egli vuole realizzare sul mercato l'equivalenza delle merci per togliere al lavoro pre-borghese la sua pretesa alternatività. Ma così facendo, non si riesce più a determinare un valore oggettivo delle cose, un valore cioè basato su fattori o elementi oggettivi (come il tempo di lavoro, il dispendio di energie psico-fisiche, il senso sociale dell'uso). Le merci mutano continuamente di valore nel mercato, sfuggendo al controllo non solo dei consumatori ma degli stessi produttori. Un capo firmato, equivalente, nella sostanza, a un altro non firmato, costa dieci volte di più. Un capo firmato, acquistato l'anno dopo in cui è stato prodotto, costa cinque volte di meno. Un prodotto reclamizzato costa sempre di più di un prodotto equivalente, o anche superiore, non reclamizzato.

Ovviamente Marx, nel momento in cui scriveva il Capitale, non poteva ancora sapere che il monopolio tende a superare i limiti della concorrenza, anche se aveva intuito che la concorrenza era destinata ad essere superata. Egli in realtà avrebbe voluto che dalla intrinseca contraddizione della concorrenza si sviluppasse la coscienza proletaria della necessità di una rivoluzione politica. Invece nascerà la coscienza borghese della necessità del monopolio (cui lo stesso Capitale, indirettamente, contribuirà), cioè la necessità di sottomettere la concorrenza a delle regole di mercato. Come noto, questo monopolio, dopo la IIa guerra mondiale, si avvarrà anche del sostegno statale. Oggi infatti si parla di capitalismo monopolistico di Stato.


In ogni caso questo modo d'impostare l'attività produttiva è tipico solo della società mercantile, non essendo riscontrabile in alcun'altra formazione sociale, poiché, anche se altre società hanno conosciuto la trasformazione del prodotto in merce, mai però l'hanno considerato come parte fondamentale della vita sociale: il rapporto di schiavitù o di servaggio (cioè di dipendenza personale) era sicuramente più importante di qualunque altro prodotto naturale o manufatto.

A tale proposito Marx delinea, per sommi capi, le caratteristiche di altre tre formazioni: primitiva e medievale, relativamente al passato, e socialista, relativamente al futuro.

Sulla formazione sociale primitiva -che qui Marx s'immagina sulla scia dell'esperienza romanzata di Robinson Crusoe- il giudizio è nettamente favorevole: "tutti i rapporti tra Robinson e gli oggetti che formano la ricchezza da lui stesso creata sono qui semplici e chiari...vi sono racchiuse tutte le fondamentali determinazioni del valore"(p.77).

Sembrerebbe che Marx continui qui a considerare l'individualismo del modo di produzione primitivo col metro di misura della società borghese, ripetendo, in pratica, l'errore di Rousseau, se non si fosse smentiti da una nota acclusa nella seconda edizione del Capitale, che riporterà un passo di Per la critica dell'economia politica, ove Marx dirà che "la forma della proprietà comune [naturale e spontanea] è la forma originaria" dalla cui dissoluzione sono nate le diverse forme di proprietà privata.

Esiste tuttavia un paradosso. Fintantoché si tratta di parlare dell'individuo singolo (alla Robinson) -in riferimento al comunismo primitivo-, Marx ha sempre parole di apprezzamento. Allorché invece sono in gioco "organismi sociali di produzione", il giudizio si fa più critico, non tanto in rapporto a una presunta superiorità del sistema capitalistico, ché, anzi, quegli organismi -dice Marx- "sono di gran lunga più semplici e più chiari"(p.80), appunto come dovrebbero essere i rapporti in cui l'uomo controlla la produzione, quanto piuttosto in rapporto alla futura società socialista, che, nella mente di Marx, dovrà essere qualcosa di assolutamente inedito sul piano storico.

Quegli "antichi organismi sociali di produzione", infatti, si basavano "o sull'immaturità dell'uomo individuale, che ancora non ha staccato da sé il cordone ombelicale del legame naturale di specie con altri uomini" [per cui "Robinson" rappresenta l'unica vera alternativa al comunismo primitivo], oppure si basavano "su diretti rapporti tra dispotismo e schiavitù"(ib.), come appunto nello schiavismo o nel feudalesimo, la diversità dei quali, per Marx, è alquanto relativa.

In sostanza, avendo attribuito un'eccessiva importanza al ruolo dell'economia, ai fini dell'emancipazione umana, Marx si sente qui indotto ad affermare che il comunismo primitivo -che per il momento egli ancora non distingue dal modo di produzione asiatico- era arretrato a causa del "basso livello di sviluppo delle forze produttive del lavoro"(ib.); ciò che -secondo Marx- rendeva i rapporti sociali e naturali "primitivi e chiusi nei limiti del processo materiale di generazione della vita"(ib.). Al punto che l'uomo primitivo, non molto diverso dall'animale, cominciò a definirsi come "uomo", per Marx, nel momento stesso in cui sviluppò la sua individualità.

Nelle Forme economiche precapitalistiche verrà detto che nella comunità primitiva c'era sì "trasparenza", ma solo in quanto "ingenuamente" si credeva che certi rapporti di parentela e certe forme di organizzazione sociale fossero di origine "naturale" o addirittura "divina", e non inerenti a un modo particolare di produzione.

Per quanto riguarda il "tetro" Medioevo, il giudizio è più severo che nei confronti di Robinson. "Qui, al posto dell'uomo indipendente, vediamo che tutti sono dipendenti"(p.77). Ciononostante, Marx riconosce al feudalesimo l'impossibilità di creare il fenomeno del feticismo delle merci, in quanto "lavori e prodotti non debbono prendere una fantasiosa figurazione diversa dalla loro realtà: si riducono nel meccanismo sociale a servizi e prestazioni in natura"(ib.).

In effetti, nel feudalesimo l'alienazione non era avvertita nelle cose che si usavano (per quanto la rendita feudale costituisse, per il contadino, una continua fonte di espropriazione). L'alienazione era dovuta al fatto che l'ideologia dominante permetteva di credere possibile il benessere solo "nel regno dei cieli". A parte questo però, la contraddizione del servaggio -lo stesso Marx lo lascia qui intendere, forse anche senza volerlo- risultava meno ipocrita a confronto di quella del lavoro salariato. Non c'era l'illusione della "libertà personale".

Purtroppo Marx ha sempre escluso il carattere di "vera socialità" nell'ambito produttivo medievale. Il produttore borghese -nell'analisi del Capitale- ha interesse a emanciparsi non tanto dalla vita sociale del mondo agricolo, quanto piuttosto dalla dipendenza personale dei rapporti sociali. Nella società feudale non esiste -secondo Marx- forma "sociale" del lavoro, ma solo forma "naturale". Il lavoro quindi non può essere "generalizzato", come nell'economia mercantile, e i suoi prodotti hanno solo un valore d'uso.

I diversi lavori che danno origine ai prodotti dell'agricoltura, dell'allevamento, della filatura ecc. al massimo sono "funzioni sociali" di una famiglia patriarcale, al cui interno si ha una divisione del lavoro naturale e spontanea, basata ad es. sulle differenze di sesso e di età. Marx non vede la comunità di villaggio aldilà della singola famiglia patriarcale.

Poste le cose in questi termini, uno storico non sarebbe assolutamente in grado di spiegare la presenza del feticismo religioso nella società feudale. E sarebbe altresì costretto ad ammettere che lo sfruttamento del lavoro era nel Medioevo accettato come un fenomeno "naturale". Per Marx, infatti, la società feudale era statica, e i soggetti delle semplici "maschere" che recitavano la loro parte (tradizionale) in un "teatro". Egli non trae nessuna conseguenza rilevante dalla considerazione, pur giusta, che "i rapporti sociali tra le persone nei loro lavori si manifestano comunque [nel Medioevo] come loro rapporti personali"(p.78).

Ecco perché Marx non è riuscito a cogliere l'importanza del fatto che nello scambio sul mercato il contadino non aveva la pretesa di realizzare un rapporto sociale che ovviasse all'alienazione della vita lavorativa. Lo scambio era una conseguenza naturale del lavoro agricolo (non particolarmente significativa ai fini dell'attività produttiva e comunque non obbligata). Nel contadino la "realizzazione di sé" non dipendeva dallo scambio. Egli non aveva la pretesa (o l'illusione) di poter costruire nel mercato quanto non riusciva a vivere nel lavoro agricolo.

Questa pretesa, semmai, l'aveva il borghese, che in un certo senso rappresenta l'alienazione del contadino che vuol trovare non nella lotta di classe, ma in un'attività economica redditizia (priva di eticità) una forma di compensazione individuale. Già la separazione professionale dell'artigiano dal contadino rifletteva questa forma di revanche individuale. L'artigiano nasce come colui che in nome della specializzazione di una mansione tradizionale ritiene di potersi emancipare economicamente da quella professionalità onnilaterale o polivalente del contadino che non garantiva un tenore di vita sufficientemente agiato. Tuttavia, tale emancipazione non comportò affatto la transizione al capitalismo, poiché la realtà sociale dominante continuava a restare quella della comunità agricola autarchica.

Se non ci fosse stato il servaggio, la forma naturale del lavoro nel Medioevo sarebbe stata una forma sociale libera, molto più libera di qualunque altra formazione sociale. L'uomo, il lavoratore, il cittadino si sarebbe sentito valorizzato per il lavoro che faceva, senza aver bisogno di ritagliarsi uno spazio di tempo per sé, lottando con tutte le sue forze per sentirsi emancipato.


L'ultima formazione sociale che Marx descrive, supponendola, è quella socialista, ovvero "un'associazione di uomini liberi [non individualisti né forzatamente dipendenti] che lavorino con mezzi di produzione comuni e che impieghino con coscienza le loro molte forze lavorative individuali come un'unica forza lavorativa sociale. Qui si ripetono tutte le particolarità del lavoro di Robinson, però socialmente invece che individualmente"(p.79).

Marx non s'accorge d'ipotizzare una cosa che prima della nascita dello schiavismo, era sempre esistita. Egli è convinto di aver trovato, per la prima volta, il passepartout per superare l'ostacolo dell'individualismo borghese, senza dover ricadere nel collettivismo forzato del Medioevo. Ed è convinto di questo semplicemente perché non sa di aver guardato le formazioni sociali pre-capitalistiche con un pregiudizio che gli derivava dall'ideologia individualistica borghese.

Occorre senza dubbio riconoscere a Marx lo sforzo di aver voluto superare ad ogni costo tale ideologia, proponendo come alternativa l'idea di un collettivismo libero, in cui la distribuzione del tempo di lavoro, "fatta socialmente secondo un programma, regola l'esatta proporzione delle diverse funzioni lavorative con i diversi bisogni"(ib.).

Tuttavia anche su questo aspetto c'è qualcosa che non convince. L'idea che "il tempo di lavoro sia preso contemporaneamente come misura della partecipazione individuale del produttore al lavoro comune, e perciò anche alla porzione del prodotto comune che può essere consumata individualmente"(ib.) - è un'idea che potrebbe essere accettata solo in una fase molto transitoria.

In effetti, il tempo di lavoro, in una comunità socialista, non può più essere misurato sulla base delle capacità produttive del singolo, altrimenti si finirà col privilegiare, nella distribuzione dei prodotti, quelli che saranno stati dotati dalla natura di maggiori capacità psico-fisiche o intellettuali.

In realtà, ciò che più deve contare, in una comunità socialista, è la ricerca del benessere collettivo, che non significa anzitutto l'uguaglianza delle condizioni sociali, quanto che nella ricerca del benessere individuale tutti abbiano la possibilità di raggiungere il proprio. Se s'impone a priori l'uguaglianza sociale, si mortifica la libertà della ricerca individuale, ma se si vuole premiare questa libertà, senza tener conto delle difficoltà altrui, si finirà col distruggere l'idea stessa di una uguaglianza nella diversità.

Usare il tempo di lavoro individuale per decidere la distribuzione dei prodotti non è quindi un criterio particolarmente democratico per garantire il benessere di tutta la collettività. Gli uomini devono poter rinunciare spontaneamente a una parte dei loro prodotti, se questo può servire a salvaguardare un interesse collettivo. Naturalmente questo è possibile solo all'interno di una comunità i cui componenti si conoscano gli uni gli altri, e i risultati dei sacrifici siano tangibili nel breve periodo.

Il motivo per cui l'economia politica classica non era riuscita a comprendere la duplicità del lavoro dipendeva anche dal fatto che per la borghesia l'indipendenza dei produttori privati garantiva un'uguaglianza sociale reale, valida per tutti. Essa non avrebbe mai accettato l'idea che tale uguaglianza si fondava, in realtà, sullo sfruttamento di chi non possedeva mezzi produttivi. Anzi, essa era convinta che proprio quella forma di uguaglianza avrebbe permesso anche all'operaio salariato di diventare un proprietario.

Marx, in tal senso, non ha fatto altro che dimostrare il carattere assolutamente "formale" dell'uguaglianza borghese, che si pone anzitutto non a un livello sociale ma a un livello giuridico. L'uguaglianza giuridica non è un riflesso di quella sociale ma la sua negazione. La proprietà privata infatti può garantire la libertà sociale solo se è di tutti. Se non si parte da questo presupposto -che va realizzato praticamente- si finisce per concentrare la proprietà nelle mani di poche persone.

Marx ha detto che l'economia classica operava sì una distinzione tra valore d'uso e valore di scambio, ma solo perché nel primo caso considerava il lavoro dal punto di vista qualitativo e nel secondo dal punto di vista quantitativo. Essa cioè "non teneva presente che la distinzione dei lavori semplicemente quantitativa presuppone la loro unità qualitativa, cioè la loro uguaglianza, e quindi la loro riduzione ad astratto lavoro umano"(nota a p.81).

Naturalmente se la borghesia fosse arrivata ad accettare l'idea di un astratto lavoro umano, avrebbe dovuto negarsi come classe che sfrutta il lavoro altrui. Se è vero infatti -come dice Marx- che "l'uguaglianza di lavori del tutto diversi può esistere solo quando non si tenga conto della loro effettiva disuguaglianza"(p.72), è anche vero che tale principio la borghesia non è mai riuscita a realizzarlo compiutamente, poiché, se l'avesse fatto, avrebbe dovuto scomparire come "classe" specifica.

Nel capitalismo non si tiene conto della diversità dei lavori perché in tal modo si può meglio affermare la superiorità di un lavoro su un altro. L'equivalenza delle merci è un sofisma che permette al produttore più forte d'imporsi su quello più debole. L'uguaglianza astratta dei lavori per la borghesia è un modo subdolo per imporre il dominio della proprietà privata dei mezzi produttivi, e quindi per riaffermare la disuguaglianza dei lavori. Il lavoro astratto dalla borghesia viene accettato solo nello scambio perché di fatto viene negato nella produzione. Solo il proletariato, che non è una classe particolare, potrà accettare consapevolmente il lavoro astratto nello scambio dopo averlo affermato nella produzione. L'equivalenza delle merci potrà effettivamente esistere soltanto quando la società considererà uguali i diversi lavori individuali, cioè ugualmente importanti ai fini del benessere collettivo.

Il concetto di "lavoro astratto", in questo senso, appare come un'arma a doppio taglio. Nell'ambito del socialismo si potrà non tener conto della diversità dei lavori individuali solo quando esisterà già affermato il principio dell'uguaglianza sociale, o se comunque esisterà una tensione collettiva verso il bene comune. Ma questo implica che nella società l'ideale sia molto forte.

L'altro aspetto che del marxismo qui non convince è più noto e il leninismo l'ha già superato. Quello secondo cui per costruire il socialismo democratico "è necessario un fondamento materiale della società, cioè un insieme di condizioni materiali d'esistenza che sono, a loro volta, l'originario prodotto naturale della storia di uno svolgimento lungo e doloroso"(pp. 80-1).

L'importanza attribuita, nel processo storico di emancipazione umana, alla struttura economica è stata, nei classici del marxismo, inversamente proporzionale alla sottovalutazione dell'importanza della sovrastruttura culturale. E' stato appunto il leninismo a dimostrare che il socialismo può essere costruito là dove se ne avverte il bisogno, anche perché, mentre il capitalismo si sviluppa, nessuno sarebbe in grado di fissare un limite massimo a tale sviluppo, il quale, tra l'altro, non può mai corrispondere, ipso facto, a una particolare "crisi", poiché a questa, di regola, segue una ripresa della produzione.

Peraltro, la formazione delle basi materiali non garantisce di per sé una possibilità più favorevole alla transizione socialista, anche perché, mentre si formano queste basi, l'ideologia borghese penetra nelle coscienze dei lavoratori e le "corrompe". Ecco perché la coscienza proletaria non ha bisogno di attendere "uno svolgimento lungo e doloroso" della propria soggezione al capitale, per organizzare il rovesciamento del sistema. E' stata proprio la storia del movimento operaio a dimostrare che quanto più la coscienza proletaria tarda a costruire il socialismo, tanto più le sarà difficile farlo.

IL PROCESSO DI SCAMBIO (II)

Ciò che più sconcerta dell'inizio del Capitale è che Marx parla continuamente di liberi proprietari privati, che producono gli uni indipendentemente dagli altri, e che s'incontrano sul mercato per scambiarsi i loro prodotti, facendoli diventare delle merci.

Si ha la netta impressione che questo modo d'impostare le cose sia del tutto astratto, poiché la nascita della figura del proprietario privato non è mai avvenuta, nell'ambito del capitalismo, senza la contemporanea nascita del lavoratore salariato.

Finché il proprietario privato non dispone di manodopera salariata, non è neppure il caso di parlare di "economia mercantile": infatti, pur esistendo lo scambio sul mercato, l'economia dominante resta quella basata sull'autoconsumo. Viceversa, quando il proprietario privato può affermare la propria assoluta autonomia rispetto alla comunità "d'origine", ciò avviene appunto perché egli ha già alle sue dipendenze dei salariati.

Marx, partendo dalla merce, e non ad es. dal "salario", come nei Manoscritti del 1844, pare abbia avuto l'intenzione di dimostrare che se la contraddizione maggiore del capitalismo resta quella del lavoro salariato, tutto il resto è però facilmente accettabile o comunque recuperabile dalla transizione socialista. La stessa grande astrazione usata nell'analisi della merce sembra essere finalizzata a dimostrare questa tesi.

Nel Capitale c'è una sorta di passiva contemplazione del sistema capitalistico, per quanto l'analisi delle sue manifestazioni, palesi e occulte, si sia notevolmente perfezionata, mentre sul ruolo politico del proletariato il testo non offre nulla di più di quanto si può trovare nel Manifesto.

E' davvero impressionante, in tal senso, il fatto che Marx consideri i "possessori di merci" come semplici "maschere economiche" che personificano dei rapporti economici (p. 88). Nel Capitale la società mercantile appare come un teatro in cui le parti degli attori sono fissate in maniera irrevocabile. Nessuno può rinunciare al proprio ruolo e assumerne un altro.

D'altra parte per Marx il processo di scambio può avvenire solo fra possessori di merci che si riconoscono reciprocamente come "proprietari privati". Essi sono "persone" proprio in quanto hanno capacità autonome, indipendenti rispetto alla comunità "d'origine". Essi sono "liberi" non perché appartengono a una comunità, ma, al contrario, perché se ne sono liberati. La libertà si esprime, formalmente, attraverso un riconoscimento giuridico, contrattuale, volitivo, della reciproca indipendenza materiale, economica.

A Marx non interessa individuare la motivazione culturale, "valoriale", che ha indotto gli uomini ad acquisire un tale modo di affermare la propria identità. La motivazione di fondo, per lui, non è culturale ma economica: i possessori di merci s'incontrano sul mercato perché hanno bisogno della merce altrui: "tutte le merci sono per i loro possessori valori non d'uso e per i loro non-possessori valori d'uso"(p. 89).

Accettando, come motivazione ultima dell'agire, la necessità economica, Marx è poi costretto ad affermare, da un lato, che "le merci, prima di potersi realizzare come valori d'uso, si debbono realizzare come valori"(ib.); dall'altro, che esse, "prima di potersi realizzare come valori, si debbono accertare come valori d'uso"(ib.).

Cioè, da un lato Marx assegna al valore di scambio un primato su quello d'uso, ritenendo che solo lo scambio possa provare se un lavoro è utile; dall'altro è costretto a riconoscere che senza un valore d'uso lo scambio non avrebbe senso. Col che però non si riesce a comprendere come il bisogno dello scambio possa "precedere", non cronologicamente, è ovvio, ma piuttosto "ontologicamente" il valore d'uso.

Per Marx il valore d'uso, non avendo un significato in se stesso, pare finalizzato a quello di scambio, nel senso che uno scambio subordinato al primato del valore d'uso non può determinare il valore della merce. In altre parole, non avendo capito che il passaggio da un primato all'altro presuppone un'autentica rivoluzione culturale (di mentalità ecc.), Marx è stato costretto ad attribuire all'effetto di tale rivoluzione una causa (genetica) dell'intero processo di scambio.

Paradossalmente, il determinismo economico qui si rovescia in quello psicologico, in quanto i possessori di merci "pensano -dice Marx- come Faust. In principio era l'azione. Le leggi della natura delle merci si son fatte già sentire nel naturale istinto dei possessori di merci"(ib.). Il borghese cioè attribuisce per istinto al valore di scambio il primato su quello d'uso e fa immediatamente del denaro e non di una merce particolare -che rimanderebbe troppo al suo valore d'uso- l'equivalente generale.

Inutile dire che, se veramente fosse così, sarebbe impossibile cercare di capire il motivo per cui il capitalismo è nato nell'Europa occidentale del XVI sec. e non nell'impero bizantino o nella Cina dei Ming. Lo stesso Marx, d'altronde, s'era reso conto di questa difficoltà, laddove in Sulle società precapitalistiche dirà: "eventi di un'analogia sorprendente, ma verificatisi in ambienti storici del tutto diversi condussero a risultati diversi" -ma non riuscì mai a spiegarsela.

"La trasformazione della merce in denaro avviene nella medesima misura della trasformazione dei prodotti del lavoro in merci"(p. 90). In tal senso, quando Marx parlava nel § 3 del cap. 1 delle diverse forme di valore della società mercantile, e ne elencava quattro tipi, bisognava intendere solo l'ultima, quella del denaro, come la più rappresentativa del modo di produzione capitalistico, mentre tutte le altre sono riferibili solo a formazioni sociali non capitalistiche.

Tuttavia, se questo è vero, il passaggio da una forma all'altra non può essere inteso in maniera puramente logica. Se l'istinto borghese è quello di scegliere il denaro come equivalente universale, ciò significa che l'adozione di una delle altre tre forme, finché tale istinto non s'impone, è destinata a rimanere nel tempo. Quell'istinto infatti è, secondo noi, il frutto di una scelta culturale ben precisa, che gli uomini possono anche vivere inconsapevolmente, ma che non per questo essa non è oggettivamente individuabile.


Dunque, rendendosi conto d'aver fatto, nel § 3 del cap. 1, un discorso troppo astratto, Marx riprende l'argomento a p. 91, mostrando che "lo scambio diretto dei prodotti" non esiste solo nella semplice forma di valore: x merce A = y merce B (vedi p. 41), ma esiste anche in un'altra forma, riscontrabile in ogni società non capitalistica: quella che s'impone quando esiste un'eccedenza dopo l'autoconsumo. "La prima maniera d'essere potenzialmente valore di scambio -dice Marx- è per un oggetto d'uso il suo esistere come non-valore d'uso, come quantità di valore d'uso eccedente gli immediati bisogni del suo possessore"(p. 91). L'equazione in questo caso è: x oggetto d'uso A = y oggetto d'uso B.

Tuttavia, Marx compie qui un duplice errore: da un lato rifiuta di accettare l'idea che possa esistere un valore di scambio in nome del valore d'uso (lo scambio, nella sua analisi, presuppone sì l'uso ma al tempo stesso lo nega); dall'altro ritiene che lo scambio del surplus sia destinato ad affermare, con la fine del valore d'uso, la fine della comunità autarchica.

Secondo Marx il vero scambio è possibile solo là dove esiste un "rapporto di reciproca estraneità"(ib.) tra il produttore e il consumatore. Quindi "lo scambio di merci ha inizio dove terminano le comunità, ai loro punti di contatto con comunità estranee"(ib.).

Ora, a parte il fatto che questo può essere vero inizialmente, in un primo momento, ciò che non si può assolutamente accettare è che la fine della reciproca estraneità comporti necessariamente la fine della comunità. Il passaggio di cui parla Marx, e cioè "quando le cose sono diventate merci nella vita esterna della comunità, esse, per reazione, lo divengono anche nella sua vita interna"(ib.), non è affatto un passaggio automatico, ma sempre l'esito di una scelta culturale, fatta in maniera più o meno consapevole. La stessa decisione, da parte di Marx, di rendere automatico il passaggio è frutto di una scelta culturale. Egli infatti non riesce ad accettare l'idea che una comunità basata sull'autoconsumo possa commerciare con una comunità estranea senza perdere la propria identità. A suo giudizio, se c'è lo scambio ce n'è il bisogno e se c'è il bisogno la comunità non è autosufficiente.

"In un primo tempo -dice Marx- il loro [delle comunità] rapporto quantitativo di scambio è del tutto occasionale. (...) Intanto si afferma mano a mano il bisogno di oggetti d'uso di altri: e questo diviene un normale processo sociale per il continuo ripetersi dello scambio. Da adesso in poi si afferma, da un lato, la distinzione tra l'utilità delle cose per il bisogno del momento e la loro utilità per lo scambio: il loro valore d'uso si distingue dal loro valore di scambio. D'altro lato viene a dipendere dalla loro produzione il rapporto quantitativo secondo il quale esse sono scambiate: l'abitudine le fissa come grandezze di valore"(pp. 91-2).

Come si può chiaramente notare, Marx considera il passaggio dall'autoconsumo al mercato come necessario, inevitabile, dettato dal fatto stesso ch'esiste un bisogno di scambiare i prodotti, di acquistare quelli che non si producono. Egli non riesce a distinguere tra bisogni primari o fondamentali e bisogni secondari. I primi non sono anzitutto quelli economici, ma quelli connessi all'affermazione della libertà, i quali naturalmente hanno bisogno di una certa configurazione sociale dell'economia. I secondi non sono certo quelli che, in ultima istanza, garantiscono l'esistenza di tale libertà.

Una comunità autarchica non rinuncerebbe mai alla propria indipendenza per subordinarsi al mercato sulla base dei propri bisogni secondari. E se dovesse restarvi subordinata sulla base dei bisogni primari, essa non sarebbe autarchica.

Non esiste quindi passaggio obbligato dall'autoconsumo al mercato, poiché qualunque comunità autarchica, dovendo scegliere fra autonomia e soddisfazione di bisogni primari da un lato, e dipendenza e soddisfazione di bisogni secondari dall'altro, sceglierebbe la prima soluzione. A meno che essa non viva al proprio interno una crisi di legittimità o di credibilità, di fronte alla quale emergono alcune categorie sociali che, invece di affrontare collettivamente la crisi, credono di potersi emancipare individualmente attraverso il mercato. E' a questo punto e solo a questo punto che la comunità si trova costretta a scegliere fra le due suddette alternative. E l'illusione, scegliendo la seconda, di poter continuare, come comunità, a soddisfare anche i bisogni primari, si scontrerà ben presto con la dura realtà dei fatti.

Marx inoltre non prende neppure in considerazione l'eventualità che la comunità autarchica possa imparare a riprodurre, proprio in virtù dello scambio, ciò di cui ha bisogno. Sarebbe davvero un curioso destino che la casualità di un rapporto commerciale avesse in sé il potere di trasformare totalmente una comunità, a prescindere dalla volontà dei suoi membri.


La scelta di usare il denaro come equivalente universale permette alla borghesia di scindere completamente il valore di scambio da quello d'uso o "dal bisogno individuale di quelli che effettuano lo scambio"(p. 92).

Tuttavia, per Marx la scelta del denaro avviene soltanto per motivi pratici, contingenti: "la necessità di questa forma si determina coll'aumentare del numero e della varietà delle merci implicate nel processo di scambio. Il problema sorge contemporaneamente ai mezzi per risolverlo"(ib.). Detto con una formula hegeliana: numerose determinazioni quantitative, sommate una sull'altra, ad un certo punto producono una nuova qualità. Il determinismo economico è qui riconfermato.

Marx però non riesce a spiegarsi il motivo per cui, mentre l'uso del denaro come equivalente universale, è rinvenibile presso moltissime civiltà, solo in quella borghese esso è in grado di ridurre tutto a merce. "Le popolazioni nomadi -dice Marx- creano per prime la forma di denaro, giacché ogni loro bene sta in forma mobile, perciò direttamente alienabile"(ib.). Il fatto di vivere continuamente a contatto con comunità straniere, le stimola allo scambio dei prodotti. Naturalmente -dice Marx- molto forte è sempre stato l'uso del denaro per l'acquisto di prodotti esteri.

Tuttavia, "solo in una società borghese già perfezionata"(p. 93) poteva apparire l'idea di fare della terra una merce alienabile. Questa idea -prosegue Marx- "data dall'ultimo trentennio del XVII sec. e la sua applicazione su scala nazionale fu provata solo un secolo più tardi, nella rivoluzione borghese dei francesi"(ib.), tramite gli "assegnati", che erano titoli di credito garantiti sulle terre appartenenti al clero regolare e incamerate dallo Stato. Marx però non offre una spiegazione convincente di questo.

Infatti, prima di arrivare ad espropriare la terra, occorre che il denaro abbia acquisito a livello di società civile un potere universalmente riconosciuto, in grado di condizionare lo stesso potere politico. E ciò è stato storicamente possibile solo a una condizione, che l'ideale religioso cattolico fosse entrato in una crisi così profonda da necessitare un suo superamento qualitativo. Il limite della soluzione borghese sta appunto in questo, che al feticismo religioso è stato sostituito quello economico. Il superamento c'è stato ma non di ordine "qualitativo". Di fatto la società mercantile non esprime una vera alternativa al servaggio e al clericalismo, ma un modo ancora più sofisticato di vivere lo sfruttamento e l'alienazione.

Marx ha tutte le ragioni ad opporre il denaro come merce universale a coloro che volevano considerarlo solo come un "segno" del valore. Allorquando era vietato considerare il denaro come merce e quindi venderlo, era il potere politico (monarchico) a stabilire il valore del denaro. In tal modo l'arbitrio delle istituzioni s'imponeva sullo sviluppo delle relazioni sociali, impedendo, per quanto poteva, che s'imboccasse la direzione "borghese", o che tale direzione acquisisse un'eccessiva autonomia.

Tuttavia, Marx ha visto in questo solo il lato negativo. Concedendo il primato al valore di scambio, egli non avrebbe mai accettato l'idea che il denaro possa essere collettivamente considerato come un "segno" del valore d'uso. La caratteristica "simbolica" del denaro potrebbe essere del tutto lecita, in riferimento al valore d'uso, se fosse accettata consapevolmente e liberamente da tutta la società. In tal caso il denaro perderebbe la sua funzione di merce universale, che si contrappone a una qualunque altra merce, e conserverebbe sia quella di un particolare valore d'uso (ad es. per oggetti ornamentali), sia quella di equivalente generale, non in astratto, ma in concreto, cioè in riferimento a beni di utile consumo.

Se in una società dominasse il valore d'uso, gli uomini non avrebbero mai l'impressione che il potere del denaro, in ultima istanza, possa essere "onnipotente", anche a prescindere da ciò ch'esso effettivamente rappresenta. Nel capitalismo il possesso del denaro autorizza automaticamente a credere che vi siano sempre delle merci da acquistare. "Non pare che una merce si trasformi in denaro solo perché in essa, da ogni lato, le altre merci indicano i loro valori, ma al contrario, pare che le altre merci indichino in generale in essa i propri valori, in quanto è denaro"(pp. 97-8).

Marx ha compreso perfettamente "la magia del denaro", ovvero il nesso tra "l'enigma del feticcio denaro" e quello del "feticcio merce"(p. 98), ma non ha compreso il rapporto di causa/effetto che lega il feticismo religioso con quello economico. Cioè non ha compreso che quando saranno superate le radici culturali di ogni possibile feticismo, la funzione del denaro si ridurrà a quella di rappresentare simbolicamente il valore d'uso, semplicemente per rendere più agevoli gli scambi.

IL FETICISMO DELLE MERCI

Il feticismo delle merci è stato scoperto da Marx come fenomeno reificante della vita sociale e produttiva del capitalismo.

Marx ha cercato di spiegarne le ragioni da un punto di vista economico, ma non ha saputo spiegare quelle di origine culturale.

La domanda a cui ancora oggi bisogna trovare una risposta è infatti la seguente: per quale motivo, ad un certo punto dell'evoluzione storica dell'Europa occidentale, le merci hanno cominciato ad acquisire un carattere feticistico? quali sono state le ragioni culturali che hanno favorito questo processo sociale, che influenza tanta parte del comportamento umano e persino della psicologia degli individui?

A questa domanda il socialismo potrà trovare una risposta davvero adeguata soltanto quando s'immergerà nello studio del fenomeno religioso. Infatti le origini culturali del capitalismo, esattamente come quelle della filosofia borghese (da Cartesio a Hegel), vanno ricercate nella religione.

Con Gramsci il socialismo ha appena iniziato il grande lavoro di lettura sovrastrutturale della formazione capitalistica. In particolare occorre andare oltre l'interpretazione meramente "politica" del fenomeno religioso e accingersi ad affrontare quella più propriamente culturale (che riguarda scienze come l'antropologia, l'ontologia, la psicologia sociale ecc.).

P.es. sarebbe interessante dimostrare come il feticismo delle merci tragga in ultima istanza la propria origine da quella concezione trinitaria che a partire da Agostino è venuta affermandosi in Europa occidentale, quella secondo cui l'identità delle persone dipende dalla funzione che ricoprono. Il concetto di "persona" in Occidente è stato ad un certo punto subordinato a quello di "ruolo".

L'unità della natura divina -dicevano i padri occidentali della chiesa- non è che l'organizzazione dei rispettivi ruoli, quindi sostanzialmente un consesso di tipo politico-contrattuale.

Naturalmente ci si potrebbe chiedere il motivo per cui il sorgere del feticismo delle merci va fatto storicamente risalire al XVI sec, cioè a quel secolo che secondo il socialismo scientifico ha visto generare la civiltà capitalistica. La risposta a questa domanda può essere trovata solo in uno studio dei rapporti tra cattolicesimo-romano e protestantesimo.

Infatti il cattolicesimo-romano ha saputo porre soltanto le basi culturali del feticismo delle merci, ma la vera realizzazione pratica di questa idee, assicurata da una vasta diffusione sociale, è avvenuta ad opera del protestantesimo, il quale in un certo senso ha saputo trasferire nella vita quotidiana dei credenti quanto sotto il cattolicesimo-romano era patrimonio dei soli ceti clericali e nobiliari.


Il socialismo scientifico ha mostrato per la prima volta quanto sia ipocrita quell'atteggiamento borghese che s'illude di considerare le merci come entità a se stanti, che si rapportano secondo una logica del tutto avulsa dal contesto sociale.

Tale atteggiamento infatti torna comodo a chi non vuole scorgere nel nesso di capitale e lavoro la principale contraddizione antagonistica del capitalismo.

Se esiste uno scambio equivalente delle merci - sostenevano gli economisti borghesi -, i difetti del capitalismo non sono strutturali ma solo congiunturali.

Tuttavia, il feticismo delle merci non è solo "personificazione delle cose", ma anche "reificazione delle persone". Questo secondo aspetto Marx ha saputo certamente individuarlo, ma non ha saputo approfondirlo sul piano culturale.

L'origine di questa illusione risiede infatti nell'ideologia cristiana (in particolare quella cattolico-romana) che attribuisce più "fede" a quel credente che la baratta con le "opere di salvezza" che gli offre la gerarchia.

Il culmine di questo processo reificante lo si può riscontrare, in ambito cattolico, con la vendita delle indulgenze, che costituisce, se vogliamo, lo spartiacque tra cattolicesimo e protestantesimo.

Il protestantesimo non ha fatto che trasferire sul piano economico, legittimandola sul piano sociale, una prassi che la gerarchia cattolica tollerava solo in chiave politica, come emanazione diretta del potere ecclesiastico.

Il protestantesimo non ha reagito alla reificazione proponendo l'umanizzazione dei rapporti sociali, ma si è limitato a togliere a quella reificazione il suo carattere di esclusivo privilegio (appartenente appunto alla gerarchia), e che rendeva impossibile una vera equivalenza delle merci: "fede contro opere". Esso non ha fatto altro che estendere la reificazione a tutti i rapporti sociali e quotidiani dei credenti. Al punto che, a partire dal calvinismo, i moderni cristiani hanno cominciato a porsi più come "borghesi credenti" che non come "credenti borghesi" (quest'ultimi sono esistiti, in campo cattolico, dall'origine dei Comuni al XVI sec.).

Il protestantesimo non si è opposto al carattere feticistico delle indulgenze, così come avrebbe dovuto opporsi (e molte eresie medievali lo fecero) al carattere feticistico di qualunque altra "opera salvifica" sponsorizzata dal cattolicesimo, ma si è opposto al fatto che di quel feticismo l'unico vero soggetto agente era la gerarchia romana.

Nessuno prima di Lutero aveva impostato il problema in termini così "borghesi", e cioè che nella prassi mercificata delle indulgenze non esisteva un vero scambio degli equivalenti. Chi le acquistava non lo faceva liberamente e, per di più, non aveva la certezza di ottenere una reale contropartita.

Ecco perché diciamo che il cattolicesimo-romano è stato una religione essenzialmente "politica", che ha posto le basi della formazione economica capitalistica, senza però avere in sé sufficienti energie per negarsi come tale, modernizzandosi in una religione più laica e individualistica, e nel contempo più democratica nella gestione dell'economia.


Dopo aver chiarito la questione culturale bisogna porsi quella politica e sociale: come si supera il feticismo delle merci?

Qui il socialismo scientifico ha dato una risposta che s'è rivelata fallimentare: la statalizzazione dei mezzi produttivi.

L'alternativa a tale statalizzazione è la socializzazione dei mezzi produttivi. La differenza sta nel fatto che per realizzare una progressiva socializzazione (senza rischiare d'imporre alcuna statalizzazione) occorre promuovere delle comunità basate sull'autoconsumo, perché solo in questo modo i cittadini possono conoscere l'origine dei prodotti che acquistano o che usano.

Chi conosce l'origine dei prodotti che usa ne conosce anche il vero prezzo e quindi il vero valore (prezzo e valore qui coincidono, seppur sempre in maniera relativa, poiché un'esatta coincidenza non è mai esistita e mai esisterà: essi infatti potrebbero coincidere perfettamente se tra produttore ed acquirente non esistesse alcuno scambio, cioè se ci fosse totale gratuità o, se si preferisce, una fondamentale preoccupazione collettiva a soddisfare anzitutto i bisogni altrui. In tal caso non esisterebbe alcuna teoria del valore).

Quando nelle società fondate sull'autoconsumo esisteva solo il valore d'uso, il valore delle cose non era certo misurato in termini strettamente economici. Persino nel Medioevo, dove pur esisteva sfruttamento attraverso il servaggio, il valore d'uso era concepito in termini più sociali che economici. Una cosa aveva tanto più "valore" quanto più aiutava la comunità a sopravvivere e a riprodursi, in tutti i suoi aspetti.

Dunque la quantificazione del valore d'uso va sottratta ad un calcolo di tipo economicistico. IL DENARO (III)

Nell'analisi di Marx il denaro rappresenta varie cose: anzitutto è misura dei valori (in tal senso decide anche la scala dei prezzi); in secondo luogo è mezzo di circolazione, che permette alla merce di subire una sostanziale metamorfosi; in terzo luogo è segno del valore, in quanto è capace di trasformarsi in carta moneta o in altri simboli, senza perdere il proprio valore; in quarto luogo è denaro in senso proprio, utilizzato per tesaurizzare, come mezzo di pagamento e come fondo di riserva in lingotti di metalli pregiati, che assicurano un valore al commercio mondiale.

1) Misura dei valori

"Il denaro, in quanto misura di valore, è la forma fenomenica necessaria della immanente misura di valore delle merci, del tempo di lavoro"(p.99), cioè è "incarnazione sociale del lavoro umano"(p.103). Esso "serve come denaro meramente immaginato, cioè ideale"(p.101), serve "a trasformare i valori delle merci in prezzi, in quantità immaginate d'oro"(p.103). Questa funzione specifica verrà ripresa in maniera analitica nel § 2b.

In quanto "scala dei prezzi", il denaro esprime il "peso determinato di un metallo", l'oro (ib.): esso "misura quelle quantità d'oro" immaginate (ib.). Questa funzione verrà ripresa nel § 2c.

Il prezzo -dice Marx- "dipende totalmente dal reale materiale del denaro"(p.101): oro, argento o rame, benché qui Marx presupponga, per semplificare, che solo l'oro sia la merce-denaro. Il prezzo è "esponente della grandezza di valore della merce, cioè del suo rapporto di scambio col denaro"(p.108).

Marx però afferma che il contrario non è vero, cioè che dal prezzo non si può risalire al valore, poiché nel capitalismo ha più importanza il primo che non il secondo. Infatti, se "la grandezza di valore della merce sta ad indicare un rapporto necessario, immanente al suo processo di formazione, con il tempo sociale di lavoro, tale rapporto necessario, trasformandosi la grandezza di valore in prezzo, appare come rapporto di scambio di una merce con la merce denaro che esiste fuori di essa"(p.109). Ovverosia, se si trattasse di uno scambio diretto di prodotti, il loro prezzo rispecchierebbe più facilmente il loro valore, ma siccome qui è in gioco il denaro, quale universale equivalente, ecco che il prezzo non corrisponde più al valore. "Rimanendo uguali i valori delle merci -dice Marx-, i loro prezzi cambiano col valore dell'oro stesso (materiale del denaro), e aumentano in proporzione al suo calare, e calano aumentando quello"(p.128).

Il valore di scambio, che aveva sostituito il valore d'uso, si trova a contraddire se stesso a vantaggio d'una forza estranea: il denaro. E così "la possibilità di una incongruenza quantitativa tra prezzo e grandezza di valore, risiede nella stessa forma di prezzo. E questo non è un difetto di tale forma, anzi, ne fa al contrario la forma adeguata di un modo di produzione in cui si può imporre la regola solo come legge media della sregolatezza, che agisce ciecamente"(p.109). Questo perché nel capitalismo ciò che più importa non è -lo ripetiamo- il valore della merce, ma il profitto che, attraverso il suo prezzo, essa fa realizzare. Ciò sarà approfondito nel § 2b.

Il denaro ha un potere così grande che è in grado di stabilire un "prezzo" a cose che in realtà non hanno alcun valore economico, come ad es. la coscienza, l'onore ecc.(ib.). L'incongruenza, in questo caso, non è quantitativa ma qualitativa. Il denaro sfugge dalle mani di chi ha voluto cercare nelle cose solo il loro valore di scambio.

L'uguaglianza delle merci affermata nello scambio (che prescinde dall'uguaglianza effettiva dei lavori concreti, in quanto, al massimo, rimanda all'uguaglianza del lavoro astratto), diventa un'uguaglianza così formale che può essere sostituita da quella che impone il denaro, il quale, in tal caso, assume i panni di una divinità metafisica, in grado di eguagliare astrattamente o formalmente tutte le merci, i lavori e i valori.

2) Mezzo di circolazione

a) La metamorfosi della merce

La metamorfosi della merce è possibile in virtù non della merce ma del denaro. O meglio, finché c'è scambio di merce contro merce, non c'è metamorfosi, ma "ricambio organico sociale"(p.111). Finché il denaro è solo "mezzo di scambio" e non diventa "mezzo di circolazione delle merci", il capitalismo non nasce.

Tuttavia, qui Marx non ha spiegato il motivo per cui da tale "ricambio organico" ad un certo punto si forma la metamorfosi. Non l'ha spiegato perché ha impostato il problema in termini non culturali, ma economici. Il passaggio dal ricambio organico alla metamorfosi, per Marx, è necessario, inevitabile: "lo sviluppo della merce non elimina le contraddizioni del processo di scambio, ma crea la forma in cui esse possono muoversi"(ib.).

Il difetto dell'impostazione metodologica di Marx lo si può notare nel concetto stesso di "ricambio organico del lavoro sociale", termine col quale egli presuppone la fine della comunità di autoconsumo. Marx ha saputo individuare le contraddizioni del processo di scambio, ma non quelle fra autoconsumo e scambio, poiché ha osservato il primo dal punto di vista del secondo. I limiti dell'autoconsumo sono determinati dai pregi dello scambio.

Peraltro, tutte le contraddizioni del processo di scambio non possono mai prescindere dalla pretesa egemonica che il denaro vuole esercitare su ogni altra merce. Cioè a dire le contraddizioni partono dal presupposto che la contrapposizione tra autoconsumo e scambio sia già stata superata a favore dello scambio. Se così non fosse, il processo del ricambio organico -dice Marx- si "spegnerebbe"(p.114).

In sostanza, Marx ha soltanto costatato il "raddoppiamento delle merci in merce e in denaro"(p.112), ma non ne ha spiegata la ragione di fondo. In effetti, non è per nulla scontato che laddove il "ricambio organico sociale" viene esercitato da comunità autarchiche, si verifichi il suddetto "raddoppiamento", come non è scontato che si verifichi l'esaurirsi dello scambio.

L'immanente contrapposizione di valore d'uso e di valore è già, allo stadio in cui l'analizza Marx, destinata a risolversi a favore del valore. Nel capitalismo una merce è "valore d'uso" solo per l'acquirente, non certo per il produttore, se non indirettamente, nel senso che una merce non usabile non è vendibile. E' pertanto ingenuo sostenere che "in tale contrapposizione le merci in quanto valori d'uso si oppongono al denaro in quanto valore di scambio"(ib.). La contrapposizione è nata prima, fra produzione anzitutto per il consumo e produzione esclusivamente per il mercato. Quando Marx afferma che "ambedue gli estremi della contrapposizione sono merci, perciò unità di valore d'uso e valore"(ib.), lascia intendere che lo scontro non sia tra "estranei" ma tra "parenti". In realtà, prima di questo scontro, il cui esito era facilmente prevedibile, ne è avvenuto un altro, assai più incerto e più tragico di quanto non appaia nel Capitale.

La differenza tra i due "estremi" è più che altro di forma, anche se la metamorfosi delle merci, quale "mutamento di forma"(p.111), ha portato a un dominio sostanziale del denaro. Nel senso che se la merce è "realmente" valore d'uso, il denaro è "realmente" valore di scambio (come equivalente universale), ovvero la merce è "idealmente" valore di scambio (il prezzo), mentre il denaro è "idealmente" valore d'uso (in sé non serve ma permette l'acquisto di ogni merce). Paradossalmente, il denaro ha, rispetto a una qualunque altra merce, maggiore "concretezza" nello scambio (perché ha più potere di astrazione) e maggiore "astrazione" nell'uso (perché è l'equivalente universale più concreto).

La merce quindi non rappresenta affatto -come vuole Marx- una "unità di valore d'uso e valore"(p.112), ma la subordinazione del primo al secondo, testimoniata dal fatto che, in caso contrario, non si otterrebbe mai che il valore di scambio del denaro risulti infinitamente superiore al valore d'uso di una qualunque merce. Non c'è nessuna merce capitalistica che, una volta posseduta, possa ridimensionare le pretese del denaro.


La prima metamorfosi della merce è quella della vendita: Merce-Denaro. Per giustificare il "salto mortale" della merce, dal suo corpo al corpo dell'oro-denaro, Marx fa questo ragionamento: in una qualunque società la divisione sociale del lavoro, che è "un naturale organismo di produzione, le cui fila si sono tessute e continuano a tessersi all'insaputa dei produttori di merci"(p.114), produce valori di scambio che per il non-produttore (o per il consumatore) devono avere un valore d'uso, altrimenti le merci non sarebbero acquistate.

Il "salto mortale" della merce consiste appunto in questo, che sul mercato non è detto ch'essa -solo perché "soddisfa un bisogno sociale"(p.115)- sia destinata ad essere acquistata. Perché lo sia, occorrono delle circostanze favorevoli, la prima delle quali è che la "concorrenza" non faccia di meglio (producendo ad es. la stessa cosa in un tempo minore).

Per Marx quindi, il "salto mortale" non sta tanto nel diverso modo che il produttore ha di guardare la merce: anzitutto per il consumo o esclusivamente per il mercato, quanto nella capacità ch'essa ha o non ha d'imporsi sul mercato (contro altre merci).

Infatti, il passaggio dal consumo al mercato è, per Marx, del tutto naturale, inevitabile. "Un certo atto lavorativo era una funzione tra le molte funzioni di uno stesso produttore di merci, oggi forse si stacca da questo assieme, si rende indipendente e proprio per questo manda al mercato il proprio prodotto parziale come merce autonoma"(p.114).

La spiegazione di ciò rientra nel preteso carattere spontaneo (anarchico) attribuito alla divisione sociale del lavoro, la quale si svilupperebbe senza intenzione da parte dei produttori. In tal modo Marx vuole attribuire la causa della metamorfosi della merce (che è un processo tipico della sola produzione mercantile) al passaggio "naturale" dall'autoconsumo al mercato. Non avendo in mente di cercare la ragione culturale di tale metamorfosi, Marx ne addebita la genesi a ragioni di comportamento economico istintuale. "Può accadere forse che la merce sia prodotto di una nuova maniera di lavoro, che voglia appagare un bisogno sopravvenuto da poco, o che voglia far nascere per la prima volta un bisogno, di sua iniziativa"(ib.) -dice Marx, usando degli esempi che già suppongono l'esistenza della società mercantile e che quindi non sono in grado di spiegare, culturalmente, il suo nascere.

In pratica Marx, e ancora una volta, applica a un modo di produzione pre-borghese dei criteri desunti dalla società borghese. Egli infatti ritiene che la divisione sociale del lavoro sia così "spontanea" da determinare un passaggio inevitabile dal consumo al mercato. In altre parole, la produzione di valori d'uso non sembra implicare affatto -a suo giudizio- la possibilità di una divisione del lavoro consapevole: questa sarà soltanto una prerogativa del futuro socialismo.

Marx insomma si è limitato a costatare che "la divisione del lavoro trasforma in merce il prodotto del lavoro e in tal maniera rende d'obbligo la sua trasformazione in denaro, e contemporaneamente rende occasionale la riuscita o meno di questa transustanziazione"(p.116), in quanto non ogni merce ha un prezzo competitivo.

L'esistenza del "produttore privato indipendente" è considerata da Marx di livello superiore a quella del produttore legato alla comunità autarchica, sebbene egli non si nasconda il carattere "anarchico" della produzione mercantile e quindi la necessità ch'essa ha di essere superata da un'altra di tipo "sociale" e "consapevole". "I nostri produttori di merci s'accorgono che quella medesima divisione del lavoro che li fa produttori privati indipendenti, fa poi indipendenti proprio da loro sia il processo sociale di produzione [perché ad un certo punto si produce solo per il mercato] sia i loro rapporti entro tale processo [che sono determinati dalla logica della concorrenza], e s'accorgono che l'indipendenza reciproca delle persone ha il suo complemento in un sistema di dipendenza tra di essi, imposto dalle cose [poiché sul mercato ciò che conta è il tempo di lavoro socialmente necessario e la produzione strettamente legata alla vendita]"(ib.).

Ciò che più stupisce, nell'analisi di Marx, è la freddezza con cui si guarda il modo di produzione pre-capitalistico. Quando Marx afferma che "la merce, nella sua figura di valore, elimina ogni segno del suo originario valore d'uso e del particolare lavoro utile per il quale è nata, per mettersi nel bozzolo della uniforme materializzazione sociale del lavoro umano indifferenziato"(p.118) - si ha l'impressione che in questa conclusione Marx non si limiti a esprimere un giudizio di fatto, ma dia anche un giudizio di valore, cui sembra sottesa non la consapevolezza d'un dramma storico, ma la soddisfazione di un personale pregiudizio.


La seconda e definitiva metamorfosi della merce è quella dell'acquisto: Denaro-Merce. La merce, dopo essersi trasformata in denaro, permette al denaro di acquistare qualunque merce. L'alienazione particolare della merce qui diventa assoluta.

Benché la metamorfosi complessiva della merce presupponga che questa riappaia nel processo finale, dando così l'impressione che si tratti, pur con la mediazione del denaro, di uno scambio di prodotti, in realtà "la circolazione delle merci si distingue sostanzialmente e non solo formalmente dal diretto scambio dei prodotti"(p.121).

Da un lato, infatti, "lo scambio di merci frantuma i limiti individuali e locali del diretto scambio di prodotti e sviluppa il ricambio organico del lavoro umano"(p.122). Per Marx -come noto- il lavoro astratto borghese è superiore al lavoro concreto del contadino-artigiano, caratterizzato, quest'ultimo -come si evince dal testo-, da limiti "individuali" (Marx non riconosce alcun carattere di "socialità" al lavoro agricolo) e "locali" (per Marx l'autarchia comporta la precarietà delle forze produttive, una visione ristretta della realtà ecc.).

"D'altro lato si viene a formare tutto un insieme di nessi sociali spontanei e che sfuggono al controllo delle persone che conducono l'operazione"(ib.). Marx, nonostante che in questo abbia perfettamente ragione. è convinto che il socialismo possa costituire una forma razionale o pianificata dell'economia, pur nella conservazione del primato dello scambio sull'autoconsumo. Su questo tutti gli esperimenti realizzati del socialismo gli hanno dato torto, come lo diedero ai socialisti utopisti i tentativi di realizzare un socialismo basato sull'autoconsumo in una società dominata dai rapporti capitalistici.

Marx ha certamente capito che sul mercato capitalistico la socializzazione del lavoro, lo scambio delle merci ha un che di anomalo, quasi di perverso, poiché proprio là dove s'impone la considerazione sociale del lavoro astratto, socialmente necessario, lì si afferma anche la contrapposizione dei soggetti, il dualismo tra produttore e consumatore. In questa consapevolezza critica Marx supera di gran lunga tutti gli economisti classici, per i quali il mercato era solo fonte di "uguaglianza" e non di antagonismi sociali.

Tuttavia, con la concezione del primato del valore di scambio, Marx non è assolutamente in grado di stabilire quando una merce ha un effettivo valore d'uso per l'acquirente, o quando invece ha un reale valore di scambio per il venditore. Non è in grado di stabilirlo perché è lo stesso capitalismo che non permette di sapere con certezza se il valore d'uso di una merce sia veramente di utilità sociale e non un pretesto o un'occasione per far quattrini. Marx naturalmente pensava che tale possibilità esistesse solo nel socialismo, in cui la proprietà del produttore è, in ultima istanza, la stessa del consumatore, ma l'esperienza del cosiddetto "socialismo reale" ha dimostrato che tale equivalenza di proprietà non è sufficiente a realizzare la democrazia del socialismo. Perché l'equivalenza sia "reale" e non "formale", cioè sociale e non statale, occorre partire dall'affermazione della comunità basata sull'autoconsumo.

La relativa non-identità di vendita e acquisto riflette bene l'impossibilità di sapere, nel capitalismo, fino a che punto una merce conservi un vero valore d'uso. "Nessuno -dice Marx- può vendere senza che un altro acquisti [fin qui la suddetta identità sarebbe salvaguardata]. Ma nessuno, solo perché ha venduto, deve acquistare immediatamente [il denaro infatti ha sostituito il baratto]. La circolazione frantuma i limiti di tempo, di spazio e individuali dello scambio di prodotti [della comunità autarchica], appunto perché nella contrapposizione di vendita e acquisto [merce contro denaro] essa separa l'immediata identità presente [di vendita e acquisto in una medesima persona] dando in cambio il prodotto del proprio lavoro e ricevendo in cambio quello del lavoro di altri [M-D-M]"(p.123).

Marx in sostanza vuole dire che: 1) nel capitalismo non è così facile "piazzare" una merce sul mercato; 2) l'identità di vendita e acquisto non può essere immediata, poiché tra venditore e acquirente esiste una polarizzazione dovuta al fatto che il primo deve vendere una merce al secondo che deve acquistarla col denaro, ma che può anche non acquistare; 3) anche chi riesce a vendere, non necessariamente, col denaro ottenuto, diventa un immediato acquirente.



D'altra parte i due momenti (vendita e acquisto), pur essendo formalmente indipendenti, "sono complementari tra loro"(ib.), nel senso che la loro contrapposizione non può andare oltre "a un certo punto", altrimenti la loro "unità si afferma con la violenza, attraverso una crisi"(ib.). Cioè se nel mercato capitalistico, impostato sul valore di scambio, vi sono più vendite che acquisti, l'unità dei due aspetti si manifesterà in maniera critica (attraverso, p.es., la sovrapproduzione). Ma prima che questa possibilità si trasformi in realtà -dice Marx- occorre "tutto un insieme di rapporti che non esistono ancora dal punto di vista della circolazione semplice delle merci"(p.124).

Marx, dopo un giro di frasi particolarmente astratto e involuto, è giunto col fiato corto a questa conclusione. Infatti, volendo salvare l'idea del primato dello scambio, egli non può mostrare che già nella circolazione semplice delle merci le fondamentali contraddizioni del capitalismo si manifestano nel loro irriducibile antagonismo. Ciò avverrà solo nella sezione dedicata al passaggio dal denaro al capitale.

Marx, per il momento, ha cercato di rimediare a questa difficoltà con la nota dedicata a James Mill, ove critica chi tenta di negare "le contraddizioni del processo di produzione capitalistico, riducendo i rapporti dei suoi agenti di produzione in semplici relazioni che sorgono dalla circolazione delle merci"(ib.). La critica è giusta, ma Marx è caduto nell'errore opposto, quello di voler "salvare" il capitalismo nell'ambito della circolazione, mirando a trasformarne anzitutto gli aspetti produttivi.

Difficilmente Marx avrebbe accettato l'idea che il processo di scambio della merce, espresso nella formula M-D-M, può essere accettato solo se il possessore di una determinata merce non è costretto a venderla sul mercato per acquistare il denaro con cui poter comprare un'altra merce. La necessità del mercato, per Marx, non si può mettere in discussione: nel senso ch'essa deve apparire assoluta. Finché resta relativa, la società agraria non può morire e il capitalismo non può nascere. Questo significa che il denaro deve escludere necessariamente sul mercato qualsiasi altra forma di scambio (soprattutto deve escludere il "baratto", che di tutti gli scambi è il più diretto).


b) La circolazione del denaro

Non si può certo negare a Marx d'aver colto nel segno quando afferma che la cosa essenziale nel mercato capitalistico non è la circolazione delle merci ma quella del denaro e che, in tale circolazione, il ruolo dello Stato diventa sempre più importante. Con grandi capacità di analisi e di sintesi, egli ha saputo anticipare quelle che saranno le caratteristiche del capitalismo monopolistico nella fase imperialistica, ove i capitali finanziari hanno un ruolo preminente e i monopoli si appoggiano alla funzione protettiva dello Stato.

Relativamente alla circolazione del denaro, Marx afferma che proprio essa permette una migliore metamorfosi della merce: naturalmente se il valore del denaro è basso, i prezzi delle merci tendono ad aumentare, diminuiscono invece se il valore del denaro è alto.

I problemi, in un'economia capitalistica, sorgono -dice Marx- quando vi è un "rallentamento della circolazione del denaro"(p.133), quando cioè i due processi della vendita e dell'acquisto entrano in una "stasi".

Giustamente Marx sostiene che "la circolazione non ci permette si comprendere da dove provenga questa stasi: essa ci fa vedere solo il fenomeno"(ib.). Di sicuro la crisi non può essere risolta con un puro e semplice "aumento dei mezzi di circolazione"(p.134), né dalle "truffe ufficiali" (delle banche centrali degli Stati) inerenti alla "regolazione dei mezzi di circolazione"(ib.)

Tuttavia, Marx non affronta neanche lontanamente il nesso di crisi economica e crisi generale del sistema di governo (di credibilità o legittimità), cioè il fatto che la "stasi" della circolazione del denaro possa anche dipendere dalla "sfiducia" che i cittadini e i lavoratori manifestano nei confronti del governo in carica o delle istituzioni di potere o del sistema nel suo complesso (produzione, distribuzione, consumi, servizi ecc.).

Le combinazioni elaborate da Marx, usando i fattori del movimento dei prezzi, della massa delle merci in circolazione, della velocità di circolazione del denaro, non tenendo mai conto dei fattori sovrastrutturali quali la cultura, l'ideologia, i valori ecc., finiscono col sembrare un gioco economicistico ad incastro. Se per decidere un rialzo o un calo dei prezzi fosse sufficiente variare i termini delle combinazioni, ogni crisi verrebbe risolta in breve tempo (anche se Marx escluderebbe tale eventualità nel capitalismo proprio a causa della sua natura antagonistica). I fatti dimostrano che una crisi economica non può mai essere risolta solo in chiave economica, meno che mai quand'essa è di carattere strutturale. Ma se non si precisa il valore della sovrastruttura si rischia di offrire al capitale gli strumenti teorici con cui almeno regolamentare le proprie contraddizioni.

Garantire che "l'intera somma dei prezzi delle merci da realizzarsi, come pure la massa di denaro in circolazione, resti costante"(p.135), non è cosa per nulla facile in un sistema ove dominano i rapporti antagonistici. Marx afferma che, anche "non tenendo conto delle gravi perturbazioni che vengono periodicamente dalle crisi di produzione e da quelle del commercio e, più raramente, dal mutamento nel valore stesso del denaro, abbiamo spostamenti di quel livello medio molto più piccoli di quanto potrebbe sembrare a prima vista"(ib.).

Ma è proprio questo il punto. Se fosse solo questione di "economia", la consapevolezza della suddetta "costanza" dovrebbe, ad un certo punto, garantire la ripresa dello sviluppo. In realtà non è affatto scontato che per superare la crisi sia sufficiente aver consapevolezza che "essendo date la somma di valore delle merci e la velocità media delle loro metamorfosi, la quantità del denaro...dipende proprio dal suo stesso valore"(p.136). Se bastasse questo, sarebbe impossibile stabilire quando l'inflazione dipende da fattori di crisi o di sviluppo. Attribuire al denaro il suo giusto valore è impossibile farlo solo in termini economici.

La crisi generale del sistema si ripercuote sul valore non solo del denaro ma anche delle merci, pur in presenza di varie costanti nella circolazione, nella quantità ecc. Non risulta affatto strano che il cittadino, ad un certo punto, abbia sempre più l'impressione, man mano che la crisi generale si acuisce, che il valore di ciò che possiede, pur aumentandone il volume, scende costantemente, ovvero che il valore del denaro appaia inversamente proporzionale alla sua quantità, sebbene dal punto di vista economico permanga una proporzionalità diretta.

Da tempo tuttavia Marx ha compreso che la contraddizione fondamentale della società capitalistica non sta tanto nella circolazione del denaro, quanto nella contrapposizione dei soggetti che producono merci: quella è una conseguenza di questa. In tal senso la sua critica a Owen, nella prima importante nota al cap. III, è del tutto giusta. Owen voleva trasformare il denaro in un mezzo che indicasse direttamente il tempo di lavoro impiegato dall'operaio, il quale così, avendo a disposizione questo "certificato di lavoro", poteva partecipare alla divisione del prodotto comune da consumarsi.

Marx qui obietta che non si può "presupporre la produzione di merci e volere nello stesso tempo sfuggire le condizioni inevitabili di essa con sconciature monetarie"(p.100). Un lavoro privato, in una società capitalistica, non può mai essere considerato come "direttamente socializzato", anche se fosse organizzato in maniera collettiva. Il socialismo era definito da Marx "utopistico" appunto perché presumeva di poter affermare la democrazia sociale a prescindere dalla rivoluzione politica anti-capitalistica. Naturalmente questo non significa che le idee di Owen non avrebbero potuto trovare un'adeguata realizzazione in una società socialista. Ma il marxismo non si è mai interessato a tale eventualità.

c) Il segno del valore

Marx qui prende in esame il fatto che nel capitalismo "la monetazione, come pure la definizione della scala di misura dei prezzi, è compito dello Stato"(p.139). L'analisi di questa forma del denaro è piuttosto carente, soprattutto perché non si osserva lo Stato come "ente sovrastrutturale" che viene a sovrapporsi alla società civile. A Marx non interessa il fatto che lo Stato sia sorto dopo che il mercato aveva spazzato via la comunità agricola. L'importanza dello Stato viene colta solo in termini economici, nel senso che solo in forza della sua autorità è possibile "sostituire il denaro metallico, nella sua funzione di moneta, con marche di diverso materiale, cioè con simboli"(p.140), quei simboli che oggi definiamo col termine di assegni circolari, cambiali al portatore, carte di credito ecc.

In questa separazione del "contenuto nominale" (il titolo) dal "contenuto sostanziale" (materia aurea) Marx vede la storia degli "intrighi monetari" del Medioevo e dell'età moderna sino al sec. XVIII. Marx però non considera "pertinente all'argomento del [Capitale] l'esame di dettagli quali il diritto di monetaggio e altri simili cose"(p.139, in nota). Egli si limita a costatare la "naturale tendenza del processo di circolazione", quella di "trasformare in apparenza d'oro l'essere d'oro della moneta"(p.140). Sarebbe stato invece di grande interesse verificare le diverse motivazioni che nel corso dei secoli hanno portato i vari governi a promuovere tale processo di separazione, anche perché solo nel capitalismo esso raggiunge dei livelli così sofisticati e paradossali.

Secondo Marx la "carta moneta dello Stato a corso forzoso nasce spontaneamente dalla circolazione metallica"(p.142). In realtà, è solo sul piano tecnico che "la moneta di credito ha la sua naturale radice nella funzione del denaro come mezzo di pagamento"(ib.). Sul piano più propriamente sociale, il passaggio si verifica quando la circolazione delle merci -che ha già assunto proporzioni notevoli- pretende di autolegittimarsi, a prescindere dalla valutazione soggettiva dei contraenti sul mercato.

Il denaro ha la funzione di universale equivalente nella misura in cui essa viene decisa e gestita dalla società civile (questo naturalmente significa che nell'economia capitalistica sono le classi mercantili che impongono la loro volontà a tutte le altre); ma se tale funzione viene decisa d'autorità, cioè se lo Stato si arroga la pretesa di stabilire la scala di misura dei prezzi, di questo suo potere beneficeranno, in ultima istanza, solo le categorie più forti dei ceti o delle classi mercantili. Uno Stato che toglie alla società il potere di decidere la scala dei prezzi sarebbe autoritario anche se tutta la proprietà fosse statalizzata, come è accaduto nel "socialismo reale".

Non meno autoritario è lo Stato che pretende, da parte dei cittadini, la fiducia che non verrà emessa una cartamoneta superiore "alla quantità nella quale dovrebbe in effetti circolare l'oro (o l'argento) ch'essa rappresenta simbolicamente"(p.143). Tale pretesa infatti presuppone sempre la separazione dello Stato dalla società civile, ovvero la subordinazione di questa a quello. Lo Stato autoritario nasce come diretta conseguenza della necessità di regolamentare gli antagonismi irriducibili che si verificano sul terreno della proprietà privata.

Marx non ha colto qui tale aspetto perché, secondo lui, il passaggio dall'oro-moneta alla moneta di credito avviene in maniera "spontanea": "in un processo che fa continuamente cambiare di mano al denaro, basta anche la sua esistenza meramente simbolica"(p.145).

Ciò in realtà non comporterebbe, di per sé, alcuna conseguenza se nella società dominasse il primato del valore d'uso. In una società del genere, infatti, il lavoratore non avrebbe il timore, di fronte a una situazione di crisi, che il suo denaro perda sostanzialmente molto valore pur continuando ad averne tanto nominalmente. La necessità di tornare a un livello di benessere inferiore a quello dato, a causa della crisi, potrebbe essere affrontata più agevolmente in una comunità autarchica che non nella società borghese, ove in cambio al disvalore del denaro non si offre altro che miseria e disperazione.

3) Il denaro vero e proprio

Il fatto che Marx non abbia impostato subito in maniera storica la prima sezione del Capitale ha comportato delle conseguenze piuttosto spiacevoli. Leggendo ad es. i §§ dedicati al denaro si ha infatti l'impressione di trovarsi in un periodo storico precedente, seppure di poco, a quello capitalistico vero e proprio, e che solo con l'inizio della II sezione si entri nel sec. XVI. Eppure sarebbe impossibile immaginare una consapevolezza e un uso delle funzioni del denaro così sosfisticati e spregiudicati aldilà del modo di produzione capitalistico.

Per Marx la trasformazione del denaro in capitale è susseguente all'affermazione del denaro come equivalente universale, a sua volta frutto del dominio della merce e del suo mercato sui prodotti di autoconsumo. Egli cioè ha voluto mostrare una necessità di ordine economico nel passaggio dalla merce al denaro e dal denaro al capitale. La storia di questo processo è un problema secondario, nell'analisi di Marx, rispetto all'affermazione di principio che lega i fatti secondo uno schema di causa ed effetto.

Tant'è che Marx, in realtà, non ha mai fatto una "storia" del passaggio dalla merce al denaro e dal denaro al capitale: egli si è semplicemente limitato alla storia dell'accumulazione originaria del capitale. D'altra parte non esiste alcuna "storia" che ci possa indicare l'evoluzione temporale dei suddetti passaggi: semplicemente perché essi presuppongono -almeno per come sono stati descritti- la stessa "accumulazione originaria".

Tuttavia, se Marx avesse mostrato, sin dall'inizio, come da tale "accumulazione" i vari passaggi si sono intrecciati, avrebbe ottenuto un risultato diverso da quello meramente economico. I vari passaggi infatti andavano considerati anche e soprattutto come un processo sociale che, come tale, include anche gli aspetti più propriamente ideologico-culturali e politici.

I risultati, in sostanza, sarebbero stati due: 1) sin dall'inizio il primato della merce sul bene di utile consumo è stato accompagnato dallo sfruttamento della manodopera salariata e dalla trasformazione della cultura pre-borghese; 2) in tale transizione al capitalismo gli uomini non hanno agito né istintivamente né sotto costrizione, ma hanno dovuto compiere delle scelte, anche se, dopo averle compiute, le conseguenze si sono fatte sentire in maniera necessaria.

Se si fa coincidere la storia degli uomini con lo sviluppo della loro attività economica, si finisce col trasformare gli uomini in marionette del destino.


a) Tesaurizzazione

La figura del risparmiatore nasce -dice Marx- "quando s'interrompe la serie delle metamorfosi e la vendita non è rimpiazzata da un successivo acquisto"(pp.146-7).

"Agli inizi della circolazione delle merci -spiega Marx- solo il superfluo di valori d'uso viene cambiato in denaro. Così oro e argento divengono vere e proprie espressioni sociali della sovrabbondanza, cioè della ricchezza. Questa ingenua maniera di tesaurizzazione si eternizza tra i popoli la cui ristretta cerchia di esigenze corrisponde al modo di produzione tradizionale e volto all'appagamento dei bisogni individuali"(p.147).

Qui Marx -che ha in mente i "popoli asiatici", specie gli "indiani"- applica di nuovo alle formazioni sociali pre-capitalistiche uno schema di vita desunto dalla società borghese. Nel senso che quelle formazioni paiono avere i difetti di questa società senza però averne i pregi. L'individuo risparmia come il borghese, ma non commercia allo stesso modo; è individualista come il borghese, ma non si affida come lui al mercato. A Marx qui non è venuto in mente che l'atteggiamento di questo individuo potesse essere l'effetto di rapporti colonialistici imposti dal capitalismo o una conseguenza dei rapporti interni di sfruttamento imposti dal feudalesimo, estranei alla socializzazione della vita agricola fondata sul valore d'uso.

Per Marx la comunità pre-capitalistica ha una "ristretta cerchia di esigenze"; viceversa, nella società borghese i "bisogni si rinnovano continuamente"(p.148). Attratto dal fatto che "nel denaro è eliminata ogni distinzione qualitativa delle merci", ovvero che il denaro "elimina ogni distinzione"(p.149), e che "il valore della merce misura il grado della forza d'attrazione su ogni elemento della ricchezza materiale, perciò sulla ricchezza sociale del suo possessore"(p.150), attratto da questo, Marx guarda con ironia l'ingenua "società antica che ritiene il denaro moneta sovversiva della sua organizzazione economica e politica"(pp.149-150), ovvero il fatto che "il valore, per il possessore di merci più o meno barbaro o anche per un contadino dell'Europa occidentale, è inscindibile dalla forma di valore, e di conseguenza un aumento del tesoro aureo o argenteo significa per lui un aumento di valore"(p.150).

Marx non ha saputo scorgere in questo atteggiamento "barbaro" una forma di condizionamento o addirittura di resistenza alla pressione del modo di produzione borghese, ma ha preferito considerarlo un atteggiamento naturale, istintivo. In realtà, Marx non ha mai spiegato in maniera convincente il motivo per cui il risparmiatore antico, diversamente da quello moderno, non è riuscito a diventare un capitalista.

L'immagine del "tesaurizzatore che sacrifica al feticcio oro i suoi piaceri della carne"(p.151), cioè la soddisfazione dei consumi, è un'immagine moderna che non può essere applicata alle società antiche. Qui semmai il risparmio era appunto finalizzato a soddisfare i piaceri della carne! Il denaro non costituiva certo un'astrazione fine a se stessa, cui sacrificare la propria identità: si accumulava per realizzare concretamente un dominio personale, non per realizzare un astratto dominio impersonale.

b) Mezzo di pagamento

Il denaro come mezzo di pagamento è quello che, separando nel tempo la cessione della merce dalla realizzazione del suo prezzo, crea un rapporto tra creditore e debitore: rapporto che spesso, per ovvie ragioni, diventa conflittuale. Fin qui Marx.

In realtà tale forma di denaro porta alla lotta di classe perché già la presuppone. Se così non fosse, il denaro non verrebbe usato per tenere sottomessa la controparte, che nella figura del debitore è la più debole, o comunque non verrebbe usato approfittando della sua debolezza. Rinunciando alla scambio diretto, immediato, di merce contro denaro, dilazionando cioè nel tempo il pagamento di quest'ultimo, il venditore di una data merce si serve proprio del tempo per ottenere uno scambio più vantaggioso.

Ora però, proprio questo modo così antisociale di usare il denaro lascia presupporre la fine della società contadina e la sua progressiva sostituzione con quella borghese. In tal senso Marx non ha compreso a sufficienza che la contraddizione maggiore rappresentata dalla suddetta forma di denaro sta proprio nel tipo di rapporto sociale ch'essa presuppone, e non tanto nel tipo di rapporto sociale ch'essa viene a costruire, necessariamente, quando i termini di scadenza del contratto non sono rispettati.

Per Marx "la contraddizione balza fuori al momento delle crisi di produzione e delle crisi commerciali...quando il denaro si trasforma subito e senza transizioni da figura solo ideale della moneta di conto in denaro contante. Non si può più sostituire con merci profane. Il valore d'uso della merce è senza valore...solo il denaro è merce!"(p.157).

In realtà l'uso del denaro come mezzo di pagamento implica già che i rapporti sociali siano "sbilanciati" a favore del possessore di merci. La crisi di sovrapproduzione o altre forme di crisi fanno venire alla luce una contraddizione sociale latente, l'ha fanno cioè esplodere a livello sociale, mentre in assenza di quella crisi essa potrebbe tranquillamente esplodere a livello individuale, nel singolo rapporto tra creditore e debitore. Non a caso -ed è lo stesso Marx che lo sottolinea- il pagamento dei debiti in denaro e non in natura è sempre stato usato dalla parte sociale più forte per assoggettare ulteriormente quella più debole.

Marx tuttavia non ha difficoltà nel sostenere che il passaggio dall'imposta in natura all'imposta in denaro se da un lato comporta un maggiore impoverimento dei contadini -come è avvenuto nella Francia di Luigi XIV-, d'altro lato comporta la fine delle "misere condizioni economiche di vita che permettono di sussistere" a un'agricoltura arretrata (p.161). Egli in sostanza riteneva necessario il suddetto passaggio e non vedeva una diversa alternativa alla crisi della società agraria.

Al tempo di Marx la borghesia era in ascesa. Difficilmente egli avrebbe potuto immaginare che l'imposta in denaro o l'uso del denaro come mezzo di pagamento sarebbero un giorno potuti servire alla borghesia soltanto per conservare politicamente un potere economico in via di dissoluzione. Nell'analisi di Marx il creditore appare come un possessore attivo di denaro, in quanto produttore che ha ottenuto un profitto vendendo merci. In realtà, nel capitalismo maturo il creditore-borghese, appoggiandosi all'autorità dello Stato, diventa sempre più un "debitore" nei confronti del lavoratore (operaio o contadino che sia), benché questi economicamente non riesca a dimostrarlo, potendolo fare solo per via politico-rivoluzionaria.

c) Denaro universale (o fondo di riserva)

Per "denaro universale" Marx intende i lingotti di metalli pregiati (ammassati nei forzieri delle banche) che nel commercio mondiale hanno la funzione di materializzare socialmente la ricchezza in genere, ovvero di concretizzare in abstracto il lavoro umano. In tal caso il denaro non può mai essere sostituito, in alcun momento, da nessuna merce (a meno che -si può oggi aggiungere- una determinata merce non abbia un valore così alto e nel contempo così commerciale da renderlo equivalente a quello del denaro, come nel caso della droga. Ma anche qui l'operazione verrebbe fatta allo scopo di poter immediatamente riconvertire la droga in denaro).

Quando le riserve in lingotti sono superiori al loro livello medio è segno che la circolazione delle merci ristagna. Questo è evidente. Tuttavia, Marx non ha preso in considerazione l'eventualità che le riserve, se possono apparire, all'interno di una nazione, superiori al necessario, a livello internazionale invece, esse possono essere usate da quella stessa nazione per imporre a tutte le altre, dotate di minori riserve, il corso forzoso della propria moneta o il dominio mondiale del proprio commercio. Va però precisato che ai tempi di Marx vigeva il sistema aureo, basato cioè sulla moneta aurea coniata.

Anzi esso non andrebbe neppure quantificato. Dovrebbe infatti valere il principio secondo cui il valore d'uso di un bene ha tanto meno valore commerciale quanto più il suo valore sociale è grande (oggi solo in maniera individuale arriviamo a dire che una cosa che per noi ha un grande valore "affettivo", in sostanza non ha prezzo, anche se questo non impedisce certamente al mercato di attribuirle un valore molto diverso da quello che noi vorremmo).

Il valore d'uso di una qualunque cosa (e quindi non solo di un mezzo produttivo) dovrebbe essere il valore che le viene attribuito dall'intera collettività (e quindi non solo, come oggi, da quella parte di collettività che possiede i mezzi produttivi), cioè da un determinato gruppo di persone che possiede una certa "memoria storica", una comune "sensibilità individuale e sociale", una condivisa tradizione di usi e costumi...

Il vero valore delle cose è quello culturale o spirituale, quello stabilito da una collettività che si sente unita in un destino comune.

Il socialismo di Giuda, che vede come scandalosa l'azione di Maria che versa un prezioso profumo sulla testa di Gesù, non è più sufficiente per stabilire il vero valore delle cose. Il socialismo deve umanizzarsi maggiormente, per poter vedere nel valore d'uso la grandezza della libertà umana.

IL PLUSVALORE


Soltanto nell'ed. francese del Capitale si trova il § 1 dedicato al "processo lavorativo" ovvero alla "produzione dei valori d'uso". E' un § strano, che sarebbe stato meglio inserire nel § 2 della I sezione, laddove si parla del "duplice carattere del lavoro", benché qui l'interesse prevalente di Marx sia già rivolto al lavoro "astratto".

Messo invece nella III sezione, questo § ha un senso che si fatica alquanto a comprendere. Ormai infatti il lavoro finalizzato al valore d'uso è stato surclassato dal denaro trasformato in capitale, il quale privilegia il lavoro salariato, volto alla produzione per il mercato.

Un § di questo tipo non avrebbe neppure avuto senso se collocato nella sezione dedicata al salario, poiché esso parla del "processo lavorativo indipendentemente da ogni determinata forma sociale"(p. 211).

Dunque la ragione che deve aver spinto Marx a inserirlo in questa sezione non può aver nulla a che vedere con lo schema generale dell'opera, con l'organicità della divisione delle sezioni e dei capitoli. Esso, in effetti, sembra più che altro costituire una sorta di risposta (filosofica, o meglio, antropologica) a una inevitabile obiezione che già la I sezione suscitava relativamente alla poca chiarezza con cui Marx aveva saputo distinguere, nel lavoro umano, la parte "istintiva" da quella "consapevole".

Marx qui esordisce sforzandosi di precisare ciò che differenzia l'uomo dall'animale. Nelle prime due sezioni, infatti, essendo dominate dal primato del valore di scambio, tale differenza si era persa di vista. L'uomo appariva come succube di un meccanismo oggettivo, indipendente dalla sua volontà, cui doveva adeguarsi anche facendo leva sul proprio istinto. Qui invece Marx punta su concetti di tipo filosofico, come "fine", "coscienza", "ideale"...

"Innanzi tutto il lavoro è un processo che avviene tra l'uomo e la natura..."(ib.). E' già un inizio sbagliato. Parlare del lavoro a prescindere "da ogni determinata forma sociale"(ib.) è come parlare del lavoro di un singolo separato da altri singoli: il che è antistorico.

L'uomo che "media, regola e controlla con la sua azione il ricambio organico tra sé e la natura"(ib.), è per Marx una sorta di Robinson che vive in un'isola deserta dopo essersi emancipato dalla sua "rozza" comunità primitiva. "Qui infatti non dobbiamo considerare -dice Marx- le prime forme di lavoro, animalesche e istintive"(p.212).

L'uomo delle comunità primitive viene considerato da Marx alla stregua di un "animale" incapace di trasformare se stesso. Singolare è il fatto che, secondo Marx, quest'uomo ha smesso d'essere primitivo proprio rapportandosi alla natura: "coll'agire tramite questo movimento sulla natura esterna e col trasformarla, egli trasforma allo stesso tempo la sua propria natura"(ib.). Cioè in pratica l'uomo primitivo può trasformare se stesso non tanto rapportandosi alla natura, quanto, nel rapportarsi alla natura, uscendo dalla comunità primitiva, quella stessa comunità che, pur avendo l'identico rapporto con la natura, non riesce a rendere "umano" l'uomo. Infatti, se vi riuscisse, sarebbe impossibile spiegarsi, nell'ideologia marxiana, come, rapportandosi alla natura, l'uomo ad un certo punto smetta d'essere istintivo e diventi consapevole di sé.

Per Marx il lavoro consapevole non è quello che nello stesso tempo si rapporta alla natura e al collettivo, ma quello che supera i limiti di quest'ultimo valorizzando i pregi del singolo, il quale si rapporta in modo individuale alla natura.

Il pregio fondamentale del singolo è il seguente: "al termine del processo lavorativo vien fuori un risultato che, al suo inizio, era già implicito nell'idea del lavoratore, che perciò era già presente idealmente"(ib.). L'uomo collettivo non "pensa", ma agisce istintivamente, al pari degli animali. Solo separandosi dal collettivo, l'uomo si differenzia dall'animale.

A parte questo, Marx non riesce assolutamente a spiegare come, rapportandosi alla sola natura, e non anche al collettivo, l'uomo giunga ad avere coscienza di sé, visto e considerato che è proprio sulla base di tale autoconsapevolezza che l'uomo "non opera soltanto un mutamento di forma dell'elemento naturale [al pari dell'animale], ma contemporaneamente realizza in questo il proprio fine, di cui ha coscienza, che determina come legge la maniera del suo agire..."(ib.).

Qui non si tratta di risolvere il problema dell'uovo e della gallina. Ciò che è grave è che Marx ha omesso di precisare che il concetto di "fine" trova la sua ragion d'essere, in prima e ultima istanza, nel rapporto sociale tra uomo e uomo, aldilà del quale non è assolutamente possibile non solo distinguere l'aspetto istintivo da quello consapevole, nell'essere umano, ma neppure l'attività umana da quella animale.

Non c'è nessun "ricambio organico" tra uomo e natura che possa sostituire o produrre il rapporto sociale tra uomo e uomo. E' in questo e solo in questo rapporto che si può cogliere la differenza tra uomo e animale. Differenza che -come già più volte si è detto- riposa sul concetto di libertà.

Viceversa, per Marx, come per B. Franklin (che viene citato), l'uomo è "un animale che fabbrica strumenti"(p.215). "L'impiego e la creazione di mezzi di lavoro, sebbene in germe si trovino in alcune specie animali, caratterizzano lo specifico processo lavorativo umano..."(ib.). La differenza, in sostanza, è solo quantitativa, anche se per Marx -sulla scia dell'idealismo hegeliano- le determinazioni quantitative ad un certo punto portano a una nuova "qualità".

Peraltro, se si afferma che lo specifico dell'attività umana (che si suppone lavorativa) è il lavoro, si cade nella tautologia. E' giusto affermare che "le epoche economiche si distinguono non per quello che viene prodotto, ma per come, con quali mezzi di lavoro, viene prodotto"(ib.). Ma è sbagliato precisare che "i mezzi di lavoro...servono pure ad indicare i rapporti sociali nel cui ambito è effettuato il lavoro"(ib.).

In realtà è vero il contrario: sono i rapporti sociali e il senso del valore in cui essi si manifestano (che non è solo per un uso socio-economico: sussistenza, riproduzione ecc., ma per un uso vitale più globale) a farci capire il "come" generale della vita lavorativa e il "perché" la scelta sia caduta su determinati mezzi e strumenti lavorativi.

Questo naturalmente significa che quando una formazione sociale o un'epoca economica viene tragicamente distrutta, nei suoi rapporti sociali, da un'altra epoca o formazione, diventa molto difficile risalire al contenuto di valore ch'essa viveva partendo dagli strumenti produttivi che si sono conservati e che successivamente sono stati raccolti e depositati in qualche museo. Il passato può essere capito solo se il presente, pur mutando i mezzi di lavoro ereditati, ha conservato, in qualche modo, lo "spirito" di cui essi erano espressione.

In caso contrario è utopico pensare che un processo lavorativo possa conservare i valori d'uso prodotti da "precedenti processi lavorativi"(p.217). Non è per nulla vero che "l'unico mezzo per conservare questi prodotti di lavoro passato e per realizzarli come valori d'uso..." sia quello di metterli a contatto "con il vivo lavoro"(p.219). La memoria del valore d'uso non dipende semplicemente dal lavoro, ma dalle scelte che l'uomo compie in riferimento al senso generale della sua vita e soprattutto al modo particolare di vivere il valore della libertà.

Per distinguere l'uomo dall'animale non è neppure sufficiente puntare sul fatto che il prodotto del processo lavorativo "è un valore d'uso, materiale naturale reso conforme a bisogni umani per mezzo del mutamento di forma"(p.216). Forse che gli animali non hanno dei "bisogni"? Forse che essi, sulla base di questi bisogni, non si costruiscono dei "valori d'uso"? Si può forse affermare che il loro lavoro è un semplice "mutamento di forma" e che quando incontrano dei problemi su questa strada non riescono con la loro intelligenza a trovare nuove soluzioni?

Marx, pur rendendosi conto che per recuperare la differenza tra uomo e animale doveva sottolineare l'importanza della produzione di valori d'uso, poiché essa presuppone un "fine consapevole", ha fallito il suo tentativo, anche perché, essendo partito, nella I sezione del Capitale, dal riconoscimento del primato del valore di scambio, egli non poteva più ritrovare la memoria del valore d'uso, che è sempre legata a una formazione sociale determinata, storicamente situata e certamente di tipo pre-capitalistico.

Non a caso Marx tenta di recuperare il valore d'uso solo in maniera astratta, cioè nel rapporto generico che l'uomo ha con la natura, e tralascia completamente la possibilità di reperire dei valori d'uso nella comunità di autosussistenza. Per Marx la produzione di valori d'uso sganciata da quella per il mercato, appartiene all'epoca "animalesca" dell'uomo.

Naturalmente Marx è consapevole che l'individuo non coincide sic et simpliciter con il lavoro che svolge. Ad un certo punto egli non può fare a meno di accennare alla differenza tra "consumo produttivo" (il quale "consuma i prodotti come mezzi di sussistenza del lavoro, vale a dire della forza lavorativa in atto dello stesso individuo"), e "consumo individuale" (il quale "consuma i prodotti come mezzi di sussistenza dell'individuo vivente")(p.219).

Con ciò in pratica Marx ribadiva la differenza tra individuo biologico e sociale, ovvero che il concetto di esistenza non può essere inteso solo in quell'aspetto che accomuna l'uomo all'animale. Ciononostante egli non riesce a spiegare, se non dandolo per scontato, il motivo per cui "il risultato del consumo individuale è il consumatore stesso"(pp.219-20). Di fatto, se c'è una cosa che non fa l'interesse del consumatore è proprio il consumo "individuale", separato da quello "sociale", separato soprattutto dal significato collettivo del consumo sociale.

A forza di analizzare il processo lavorativo "nei suoi semplici ed astratti movimenti"(p.220), Marx è finito col cadere, contro le sue stesse intenzioni, in una serie di ingenuità davvero singolari: 1) il lavoro -egli afferma- "è l'attività che ha per fine la produzione di valori d'uso"(ib.), mentre nel capitalismo la produzione principale è quella di valori di scambio; 2) il lavoro è "adattamento degli elementi della natura ai bisogni dell'uomo"(ib.), mentre nel capitalismo tanto la natura quanto i bisogni sono finalizzati unicamente al profitto, per cui non solo si alimentano "falsi bisogni", ma si trasforma anche la natura in un mero "oggetto di consumo"; 3) il lavoro è "condizione generale del ricambio organico tra uomo e natura"(ib.), mentre nel capitalismo il lavoro è così alienato dalla natura che il ricambio organico dell'uomo avviene solo attraverso il "macchinismo", cioè tramite tutti quegli strumenti artificiali che mediano il suo rapporto con l'ambiente; 4) il lavoro è "perenne condizione naturale dell'umano esistere"(ib.), mentre nel capitalismo il lavoro è vissuto nelle condizioni più "innaturali", poiché per taluni è "dolce far niente", per molti è "duro sfruttamento", per altri è "tragica emarginazione", infine per non pochi è dovere di conservare con la "forza" questo stato di cose.

E' stato un errore non aver considerato "il lavoratore in rapporto ad altri lavoratori"(ib.), poiché se è vero che "non ci si accorge dal sapore del grano chi l'ha coltivato"(ib.), è anche vero che chi conosce, come Marx, le leggi dello sfruttamento, non si mette a tavola prima d'aver saputo da dove proviene il grano che mangia.


Ormai la teoria del plusvalore, elaborata da Marx, è diventata la cosa meno importante del marxismo, e non perché -come direbbe un popperiano- essa non è suscettibile di confutazione, ma proprio perché, nell'ambito del capitalismo, la sua confutazione è impossibile. E' come se in campo astronomico si avesse la pretesa di rimettere in discussione la teoria copernicana.

La teoria del plusvalore, che mette in luce l'oggettività scientifica dello sfruttamento capitalistico, era già stata elaborata in Per la critica dell'economia politica; la stessa redazione delle Teorie sul plusvalore, considerata come il IV volume del Capitale, precede quella del I volume.

Durante la stesura del Capitale, Marx era così padrone di questa teoria che già alla fine della II sezione l'anticipa completamente nelle sue linee essenziali, mentre nella III sezione la espone in modo dettagliato. Con una precisione sconosciuta all'economia classica, Marx afferma che il plusvalore è prodotto dall'operaio perché il costo della sua forza-lavoro (la capacità lavorativa) non corrisponde al suo valore d'uso.

Come ogni altra merce infatti, la forza-lavoro ha un costo stabilito "in base alla quantità di lavoro incorporato nel suo valore, al tempo di tempo socialmente necessario alla sua produzione"(pp.223-4). Quindi il capitalista, sul mercato, al momento della contrattazione, paga il prezzo che occorre solo alla riproduzione della forza-lavoro, ovvero paga unicamente "il valore giornaliero della forza lavorativa"(p.222), riservandosi nello stesso tempo la facoltà di usarla in fabbrica oltre il prezzo pattuito. Egli sa bene infatti che "lo specifico valore d'uso di questa merce è quello di essere sorgente di valore e di un valore più grande di quanto ne possieda essa stessa"(p.232).

"Il fatto che occorre una mezza giornata lavorativa per farlo vivere ventiquattro ore, non impedisce per niente all'operaio -dice Marx- di lavorare per un'intera giornata. Perciò il valore della forza lavorativa e la sua valorizzazione nel processo lavorativo sono due grandezze diverse"(ib.). E' la stessa differenza che passa tra il suo valore di scambio (sul mercato) e il suo valore d'uso (in fabbrica).

Il plusvalore quindi è un furto legalizzato sul valore d'uso della forza-lavoro: "il fatto che il valore creato in una giornata dall'uso [della forza-lavoro] superi del doppio il suo stesso valore giornaliero, questa è una fortuna particolare per l'acquirente, ma non è per niente una ingiustizia nei confronti del venditore"(p.233).

Ora, il problema fondamentale che questa teoria suscita non sta tanto nella fondatezza dello sfruttamento economico che si verifica in fabbrica, e che si verificherebbe anche se a livello sociale (previdenza, assistenza, sanità ecc.) l'operaio fruisse di particolari servizi, quanto piuttosto sta nel fatto che Marx dà per scontato che il capitalista, sul mercato del lavoro, paghi effettivamente la spesa per produrre la forza-lavoro: cosa che se non avvenisse -lascia intendere Marx- si ritorcerebbe contro gli interessi dello stesso capitalista.

Non avendo messo in discussione il primato del mercato, del valore di scambio, della merce ecc., ora Marx non può che limitarsi a considerare giusta la contrattazione e ingiusto il lavoro salariato, nel quale si genera un plusvalore non pagato. Lo sfruttamento della forza-lavoro avviene, per Marx, nel momento in cui l'operaio entra "nell'opificio del capitalista"(p.222). Il lavoro salariato viene rifiutato solo dal punto di vista del plusvalore, o meglio: solo perché esiste un'appropriazione privata del plusvalore che non è quella del lavoratore.

Per Marx "la trasformazione del modo di produzione tramite la subordinazione del lavoro al capitale..."(p.221), non è un presupposto ma una conseguenza del lavoro salariato. Naturalmente Marx non ha mai sostenuto che la contrattazione sul mercato del lavoro potrebbe anche avvenire senza lavoro salariato, però il suo ragionamento porta a questa conclusione. Che poi è stata, in un certo senso, la conclusione del "socialismo reale", il quale, statalizzando l'intera proprietà, aveva impedito la formazione di un mercato del lavoro capitalistico, anche se, nei fatti, non aveva potuto eliminare la necessità di tenere bassi i salari. La contrattazione stava nel fatto che in cambio di questi salari lo Stato garantiva la gratuità di certi servizi o il blocco di molti prezzi. L'esperimento è fallito anche per questa ragione economica: il plusvalore realizzato nella proprietà statale non tornava al lavoratore che in misura ridotta.

Qui Marx si limita ad affermare che "in un primo momento il capitalista deve prendere la forza lavorativa come la trova sul mercato, e così deve prendere anche il lavoro che essa ha portato a termine, come s'era sviluppato in un periodo in cui non esistevano ancora capitalisti"(ib.).

Il che in pratica vuol dire: anzitutto, che il costo della forza-lavoro, cioè il tempo di lavoro "socialmente necessario" per riprodurla, è determinato dalla consuetudine, ovvero dalla tradizione lavorativa di una determinata società: cosa di cui il capitalista deve prendere atto; in secondo luogo, anche le modalità operative dell'operaio non possono essere, nell'immediato, completamente modificate dal capitalista: "la natura generale del processo lavorativo non muta certo perché l'operaio l'effettua per conto del capitalista invece che per conto proprio"(ib.).

Marx, tuttavia, non si rende conto di fare delle considerazioni alquanto astratte. Parlare di "tempo di lavoro socialmente necessario alla riproduzione della forza lavoro" potrebbe andare bene in una società basata sull'autoconsumo, dove l'elemento "sociale" o "socializzante" è deciso da tutta la collettività. Viceversa nel capitalismo il tempo di lavoro è "sociale" solo nella misura in cui coincide con gli interessi del capitale. Non è un tempo deciso dalla collettività. Al massimo è un tempo deciso dal mercato, ma qui -come noto- sono gli interessi privati del proprietario dei mezzi produttivi che dettano legge. Ciò che Marx con qualche difficoltà ammetterebbe, poiché nella sua ideologia il mercato è superiore all'autoconsumo. Se vogliamo, al capitalista la riproduzione della forza-lavoro ai livelli della sussistenza indispensabile non interessa più della mera esistenza della stessa forza-lavoro: gli è infatti sufficiente questa per rimpiazzare la forza-lavoro incapace di riprodursi o quella la cui riproduzione non è così indispensabile.

Se il capitalista fosse preoccupato di garantire la minima riproduttività alla forza-lavoro, considerata in senso lato, non sarebbe un capitalista, ma, ai propri occhi, un "benefattore dell'umanità". Di fatto, la riproduzione è un diritto che il lavoratore, soprattutto in regime di monopolio, deve rivendicare ogni giorno, altrimenti il capitalista tenderà a ridurre il costo della manodopera salariata anche al di sotto del minimo vitale di sussistenza. E tanto più lo farà quanto più il mercato del lavoro offrirà la possibilità di sostituirla (vedi del cap.XXIII la parte relativa al cosiddetto "esercito industriale di riserva").

Sotto tale aspetto va detto che il capitalista è unicamente interessato alla riproduzione della forza-lavoro di livello superiore, che esercita un lavoro più complesso, di una maggiore importanza specifica. Tesi, questa, che Marrx rifiuta categoricamente, poiché, a suo giudizio, la "superiorità" di una forza-lavoro del genere non comporta un aumento assoluto del plusvalore ma solo un aumento proporzionato al costo della manodopera.

In realtà il valore di questa manodopera, in una società a capitalismo avanzato, è altissimo, e almeno per tre ragioni: 1) è difficilmente sostituibile, poiché il sistema scolastico-formativo dello Stato non è in grado di produrre operai o intellettuali qualificati: sia perché l'istruzione nazionale è separata dalla produzione industriale, sia perché l'istruzione di massa serve anche per contenere la disoccupazione; 2) è la stessa concorrenza intercapitalistica che impone un tasso elevato di know-how: la concorrenza avviene a livelli sempre più elevati e i primi monopoli ad impiegare le scoperte nel settore "sviluppo e ricerca" sono quelli che realizzano maggiori profitti; 3) i costi di una manodopera specializzata vengono facilmente ammortizzati in un regime di monopolio. Naturalmente qui si dà per scontato che la richiesta di manodopera qualificata parta da imprese le cui merci siano per un vasto mercato, altrimenti avrebbe ragione Marx allorché afferma che nell'Inghilterra del suo tempo il lavoro di un muratore occupava "un posto molto più alto di quello di un tessitore di damaschi"(p.239 in nota).

Lo sfruttamento quindi non avviene solo dentro la fabbrica, ma anche sul mercato, al momento della contrattazione salariale. Infatti, nel contratto (oggi sindacale) l'imprenditore, essendo l'unico a disporre di proprietà, esercita un ruolo predominante, a livello economico, rispetto a quello di ogni operaio che non si oppone politicamente al proprio stato di soggezione. Il valore di scambio della forza-lavoro non è mai effettivamente corrispondente al costo dei mezzi di sussistenza che le occorrono per riprodursi. Tant'è che il "proletariato", per sopravvivere, è continuamente costretto ad abbassare il proprio tenore di vita, a lottare contro l'aumento dei prezzi, a cercare forme di sfruttamento clandestine, parallele a quelle contrattate ufficialmente, ad accettare modalità integrative del salario che spesso sconfinano nell'illecito, nell'illegale, nell'immorale ecc.

Che tutto ciò poi si verifichi di più tra le fila del proletariato "occidentale" o tra quelle del proletariato o sottoproletariato "terzomondista", soggetto a sfruttamento coloniale e neocoloniale, la sostanza non cambia. Quanto più il proletariato occidentale rivendica un maggior valore di scambio della propria forza-lavoro, tanto più il capitalismo sfrutterà il valore d'uso della forza-lavoro terzomondista. E quanto più sfrutterà il valore d'uso di questa forza-lavoro, tanto più rischierà la disoccupazione quella forza-lavoro di livello medio e medio-basso che in occidente rivendicherà maggiore potere contrattuale.

L'impostazione metodologica di Marx è dunque così astratta che con essa si rischia di dimostrare il contrario di quanto s'era prefisso, e cioè che il plusvalore non è intenzionale ma casuale, in quanto solo in fabbrica il capitalista, ad un certo punto, si accorgerebbe di poterlo realizzare. "Fino a che gli affari vanno bene -dice Marx-, il capitalista è troppo preso a fare plusvalore per accorgersi di questa gratuita proprietà del lavoro"(p.249), cioè di "conservare valore aggiungendo valore"(ib.). In realtà il capitalista sa sin dall'inizio che lo sfruttamento di un lavoratore giuridicamente libero (nei cui confronti egli non abbia alcun obbligo, né legale né morale) è in grado di produrre plusvalore. Ciò che non sa è -almeno fino a Marx- come esattamente avvenga questo processo.

Allo stesso modo, il processo lavorativo tradizionale, allorché la forza-lavoro appare come merce sul mercato, è già stato ampiamente modificato. Proprio la trasformazione del lavoratore in operaio salariato, sta ad indicare l'avvenuto trionfo del capitalismo sull'autoconsumo. Un capitalista non acquisterebbe mai sul mercato una forza-lavoro se non sapesse in anticipo di poterle estorcere arbitrariamente ma legalmente un plusvalore. Se così non fosse non sarebbero mai nati né il capitalismo né l'industrializzazione, e il capitale si sarebbe fermato sulla soglia delle due forme tradizionali: commerciale e usuraia.

Ciò significa che se l'imprenditore ritiene che per produrre migliori o maggiori filati, occorre adoperare dei fusi d'oro invece che di ferro, col tempo questi saranno inevitabilmente sostituiti da quelli, e in tutte le fabbriche, nella ovvia consapevolezza di poter così aumentare il saggio del plusvalore. Il taylorismo rappresenta la dimostrazione più convincente che per il capitalista non esiste "il grado medio di abilità, di rifinitura e di celerità", ovvero "l'usuale misura di sforzo" in cui viene impiegata la forza-lavoro di una determinata società (p.236). L'obiettivo del capitalista è proprio quello di modificare costantemente tale "grado d'intensità" (oggi diremmo di "flessibilità", poiché l'automazione ha un ruolo prevalente) a vantaggio del plusvalore.

Paradossalmente, tuttavia, rivalutando il valore d'uso della forza-lavoro, Marx, senza volerlo, ha riaperto la strada alla valorizzazione dell'autoconsumo. Infatti, è solo passando attraverso il valore d'uso che si scopre la presenza (in sé necessaria) di una proprietà personale generalizzata. Nel capitalismo tale proprietà è monopolio di pochi; la maggioranza possiede soltanto la proprietà della propria forza-lavoro (fisica o intellettuale), di cui però non può disporre liberamente, non possedendo l'oggetto su cui e con cui applicarla. L'operaio ha una proprietà che è costretto a vendere quotidianamente alle condizioni del capitalista, finché non reagisce politicamente. Il plusvalore infatti non può essere eliminato né lottando per la riduzione dell'orario lavorativo, né esigendo un maggiore salario. La dimostrazione dell'oggettività del plusvalore è diventata, nel Capitale, la dimostrazione dell'impossibilità di superare tale oggettività restando sul terreno della rivendicazione contrattuale.

PLUSVALORE RELATIVO

Il cap. X apre la IV sezione, invece di chiudere la III, come avrebbe tranquillamente potuto fare senza danneggiare l'architettura del Capitale, proprio perché questo capitolo ha la funzione d'introdurre il discorso sul macchinismo e la rivoluzione tecnologica e industriale vera e propria.

Il plusvalore relativo è infatti quello estorto sulla base della modificazione del processo lavorativo, in senso strutturale, e non più sulla base del prolungamento della giornata lavorativa: cosa, quest'ultima, che nell'analisi di Marx non implica un mutamento sostanziale nell'uso della tecnologia tradizionale. "In un primo momento il capitale sottomette il lavoro nelle condizioni tecniche, date dallo svolgimento storico, in cui lo trova. Per questo non modifica subito il modo di produzione"(p. 392).

Già abbiamo detto, a tale proposito, che, a nostro avviso, non si può parlare di "capitalismo moderno" se non si presuppone un diverso modo di usare la "figura tramandata storicamente" del processo lavorativo (p. 399). Il capitalismo non nasce solo come trasformazione del denaro in capitale, ma anche, contemporaneamente, come trasformazione del lavoratore in uno strumento "vivo" che deve innestarsi in altri strumenti tecnici lavorativi. Per Marx invece la "rivoluzione nelle condizioni di produzione"(p. 398), ovvero l'aumento della forza produttiva del lavoro, avviene solo dopo che il capitalista ha costatato l'impossibilità (a causa della legislazione statale) di prolungare la giornata lavorativa.

Il sorgere del plusvalore relativo è in realtà una conseguenza delle lotte operaie per la riduzione della giornata lavorativa; è cioè uno dei modi del capitale di riprendersi quello che era stato costretto a cedere in precedenza. Marx non la vede così, perché nella sua analisi il plusvalore relativo è soltanto un altro modo che il capitalista ha di sfruttare l'operaio. E' anzi il modo più intelligente, più razionale, poiché nel mentre si potenzia la forza produttiva del lavoro, si diminuisce il valore della forza-lavoro.

Il valore della forza-lavoro -Marx non si stanca mai di ripeterlo- è pari al tempo di lavoro necessario che occorre per riprodurlo. "Supponendo che un'ora di lavoro si esprime nella massa d'oro di mezzo scellino, ossia 6 pence, e che il valore della forza lavorativa è di 5 scellini per ogni giorno, l'operaio deve lavorare 10 ore al giorno per rimpiazzare questo valore giornaliero della sua forza lavorativa pagatagli dal capitale..."(p. 396)

Quanto poco "valore" abbia la definizione di Marx circa il "valore" della forza-lavoro, in un contesto capitalistico, è determinato, in questo caso, anche dall'esempio astratto ch'egli ha proposto. In effetti, se la forza-lavoro fosse pagata "in natura", sarebbe immediatamente evidente la corrispondenza reale o illusoria tra il suo valore e il salario ricevuto. Siccome però essa viene pagata in denaro, tale corrispondenza diventa automaticamente molto relativa (anche prescindendo dal plusvalore non retribuito).

L'uso del denaro come equivalente universale, imposto dalla classe capitalistica, comporta una forma ulteriore di sfruttamento della manodopera salariata. Nel senso che solo astrattamente noi possiamo ipotizzare che col salario ricevuto la forza-lavoro è in grado di riprodursi. Concretamente infatti il "salario reale" è cosa assai diversa da quello "nominale", poiché il capitalista può sempre far leva, più o meno arbitrariamente, sul rincaro dei prezzi dei beni di prima necessità. Dice Marx: "qualora sia determinato il valore dei mezzi di sussistenza, è determinato anche il valore della forza lavorativa"(p. 396). Ebbene, se nel capitalismo c'è qualcosa di altamente "indeterminato", questo è proprio il valore dei mezzi di sussistenza.

Paradossalmente, neppure l'operaio sa quale sia l'esatto valore della sua forza-lavoro, poiché non può fare riferimento, sul mercato, a una stabilità di lunga durata dei prezzi che maggiormente gli interessano. Egli, in sostanza, al momento della contrattazione, può decidere solo in maniera approssimativa il salario da chiedere. E se è abituato a prendere bassi salari, egli, adeguando la propria vita a quelli già ricevuti, si convincerà che per sopravvivere non ha bisogno di un salario molto più elevato. Tale convinzione ovviamente viene meno quando i prezzi lo portano ai limiti della sopravvivenza.

Gli stessi prezzi rincarati, tuttavia, pur non portando un impiegato statale verso la medesima soglia di povertà, indurranno quest'ultimo a chiedere l'aumento dello stipendio, anche se, prima della richiesta, esso fosse già il doppio del salario dell'operaio. Dunque, pur con due retribuzioni molto diverse, sia l'operaio che l'impiegato lotterranno, a livello sindacale, perché la propria forza-lavoro venga pagata al suo valore, cioè per non scendere al di sotto che quello che entrambi, con due metri di misura diversi, considerano il "minimo vitale".

Ecco perché una politica che si limita alla contrattazione sindacale lascia, alla lunga, il tempo che trova. Non foss'altro che per una ragione: gli aumenti retributivi che i sindacati riescono a strappare in favore di una categoria sociale, vengono pagati con i bassi salari di un'altra categoria sociale (ivi incluse quelle del Terzo mondo). Non solo, ma se gli operai prendono dei salari da fame, mentre le altre categorie di lavoratori, rispetto a quei salari, prendono degli stipendi discreti o almeno sufficienti, sul mercato i prezzi si rapportano a questi stipendi e non a quei salari, per cui la classe operaia non viene sfruttata solo dai capitalisti, ma, indirettamente, anche dagli impiegati.

Per Marx, al contrario, "contruibuiscono al ribassamento del valore della forza lavorativa l'aumento della forza produttiva e la conseguente riduzione di prezzo delle merci nelle industrie che forniscono gli elementi materiali del capitale costante, vale a dire i mezzi e i materiali di lavoro per la produzione dei mezzi di sussistenza necessari"(p. 399). Cioè a dire, il valore della forza-lavoro diminuisce se calano i prezzi dei beni di prima necessità e i prezzi dei mezzi produttivi che occorrono per questi beni.

Il ragionamento di Marx, di tipo matematico, ha valore solo in quanto astratto. Se le merci calano di valore perché per produrle occorre meno tempo di lavoro, è per lui una conseguenza logica che cali di valore anche la merce per eccellenza che le produce: la forza-lavoro. Anche se il salario "nominale" resta uguale, il capitalista realizza un maggiore plusvalore, poiché è diminuito il salario "reale".

Qui non si discute il valore di questo ragionamento, ma semplicemente il fatto che il valore della forza-lavoro diminuisca solo perché diminuisce il valore delle merci di prima necessità e dei mezzi per produrle. Il realtà il valore della forza-lavoro diminuisce anche perché, dopo essersi conquistato un mercato più grande in virtù della riduzione dei prezzi di quelle merci necessarie, il capitalista, ottenuto il monopolio, si sente libero di alzare i prezzi delle merci (necessarie e facoltative) mantenendo inalterato il salario nominale dell'operaio. Cioè egli cercherà di strappare il massimo guadagno possibile facendo leva, in un secondo momento, proprio sul rincaro dei prezzi, tenendo sotto pressione i salari e gli stipendi con i quali i lavoratori devono comunque essere in grado di acquistare determinate merci.

Inoltre Marx, insistendo nell'equiparare il valore della forza-lavoro al valore dei mezzi necessari alla sua riproduzione, non si rende conto che nel capitalismo questa equiparazione, alla lunga, non ha alcun significato, poiché in assoluto non può essere vero che "l'aumento della forza produttiva non modifica affatto il valore della forza lavorativa nei rami della produzione che non forniscono né mezzi di sussistenza necessari, né mezzi di produzione adatti alla loro fabbricazione"(p. 399).

L'uso di un'analisi astratta ha portato Marx a credere che nel capitalismo l'imprenditore sia indotto a dare più peso alle cose necessarie alla riproduzione della forza-lavoro, che è poi quella che gli permette di realizzare il plusvalore. In realtà, una convinzione del genere il capitalista può averla solo agli albori del capitalismo. Infatti, appena egli si è impadronito, non tanto come individuo singolo ma come classe sociale, dei mezzi che producono i beni di prima necessità, il suo interesse, questa volta di individuo singolo (che può permettersi di fare certi investimenti, anche con l'aiuto dello Stato), verte prevalentemente su quelle merci che gli permettono il massimo valore aggiunto. Tanto è vero che la produzione dei beni di prima necessità viene affidata alle aziende minori, o addirittura trasferita dal capitalismo metropolitano verso la periferia coloniale (a meno che un'azienda non sia così grande da gestire rami produttivi di genere completamente diverso).

Di conseguenza l'operaio che produce merci non strettamente necessarie ma di alto valore tecnologico (ad es. un automobile o un computer), pur avendo, in proporzione al valore della sua merce, un salario assai ridotto, risulterà comunque un "privilegiato" rispetto all'operaio che produce altri beni, inclusi quelli cosiddetti "necessari" alla sua riproduzione, benché questo operaio prenda un salario più proporzionato al valore dei beni prodotti. Marx non poteva immaginare che il capitalismo, una volta diventato "sistema dominante", sarebbe caduto in contraddizioni sempre più assurde; però poteva evitare di perdere del tempo prezioso ad analizzare delle contraddizioni che per essere risolte devono soltanto essere superate politicamente.

Il valore sociale di una merce, nel capitalismo maturo, non è più costituito "dal tempo di lavoro necessario socialmente per la sua produzione"(p. 402), bensì dalla volontà del capitalista, che detiene il monopolio in un ramo industriale, di trasformare in "sociale" il valore individuale di una determinata merce. Per farlo egli si avvale della forza produttiva del lavoro, la quale, potenziandosi o specializzandosi ulteriormente, può ridurre i costi di una singola merce, poiché "il valore delle merci è in ragione inversa della forza produttiva del lavoro"(p.404). Ma, una volta realizzata tale riduzione, al capitalista non resta che innescare quei meccanismi di persuasione (pubblicità ecc.) utili a far diventare un prodotto individuale di costo medio o medio-basso un prodotto sociale a costo elevato.

In regime di monopolio il costo effettivo di certe merci fabbricate con tecnologie sofisticate è di molto inferiore a quello che l'imprenditore realizza sul mercato. Perché il costo di queste merci si ribassi occorre che sul mercato si affacci un altro monopolista di forza equivalente. Ma anche in questo caso la nozione di "tempo lavorativo socialmente necessario" continua a non avere senso, poiché la necessità si riduce qui a un confronto di due colossi, non avendo nulla a che fare con le esigenze reali dei consumatori.

Il capitalista quindi, nella fase monopolistica, non sente affatto "l'obbligo di vendere la propria merce a un valore minore di quello sociale..."(p. 404), per realizzare (col maggior numero di merci vendute) un profitto maggiore. La sua esigenza in realtà è un'altra: quella di diminuire il valore individuale della merce aumentandone nel contempo, in maniera arbitraria, finché gli è possibile, il suo valore sociale. Questo perché "il valore assoluto della merce, considerato in se stesso, è indifferente al capitalista che la produce. A lui non interessa altro che il plusvalore racchiuso nella merce e che può realizzare con la vendita"(p. 405).

Marx non ha saputo trarre le conseguenze più estreme da questa sua pur giusta conclusione. Se al capitalista interessa unicamente il plusvalore, egli cercherà di realizzarlo non solo nel momento della produzione, ma anche in ogni altra fase del processo economico (dall'acquisizione della materia prima alla distribuzione del prodotto finito).

Quindi, quel capitalista che, "intento unicamente alla produzione di valori di scambio, cerca in continuazione di far scendere il valore di scambio delle merci"(pp. 405-6), sarebbe uno stupido se, dopo essersi in tal modo creato uno spazio sul mercato, non alzasse il valore di scambio delle sue merci. Infatti, dal momento in cui egli ha cercato d'imporsi al momento in cui vi è riuscito, egli si sarà dotato di mezzi sufficienti per difendersi dalle rivendicazioni operaie di maggiori salari.

Sarà stato lo stesso operaio che, non avendo reagito subito, politicamente, al proprio sfruttamento, avrà dato al capitalista la possibilità di potenziare economicamente le proprie risorse, parte delle quali potranno essere spese per allestire un sistema poliziesco con cui tenere sotto controllo il movimento operaio.

Ecco perché l'operaio, nel momento stesso in cui accetta una riconversione tecnologica dei mezzi produttivi, dovrebbe esigere, nello stesso momento (come minimo), un aumento sostanzioso del proprio salario, evitando di lasciarsi intrappolare nel ricatto del capitale per il quale con gli aumenti salariali non ci può essere ristrutturazione e senza questa c'è disoccupazione. Di fronte al persistere di un ricatto del genere, l'operaio dovrebbe reagire non sindacalmente ma politicamente.

A volte insomma si ha l'impressione che il capitalista descritto da Marx sia un individuo tenuto a rispettare le regole di un proprio galateo (beninteso "da vampiro"), ovvero che la "libera concorrenza" sia una legge che, rispettando certe condizioni, potrebbe anche funzionare. In realtà, il capitalista non si sente tenuto a rispettare altra regola che quella del massimo profitto col minimo sforzo.

Con un ultimo esempio cercheremo di dimostrarlo. Il capitalista, sapendo benissimo che, oltre un certo limite di tempo, la macchina, a causa del logorio, non può più trasmettere lo stesso valore alla merce, non si pone soltanto il problema di come sfruttare meglio la forza-lavoro nel momento della produzione, ma si pone anche il problema di come sfruttarla meglio nel momento della commercializzazione del prodotto. La macchina cioè deve essere sfruttata al massimo anche per "ingannare" il mercato (il che può comportare dei rischi sono se non si fruisce di una posizione monopolistica). Ingannare il mercato significa appunto produrre falsi bisogni, beni che hanno solo un valore effimero, apparente, o il cui valore di scambio è del tutto sproporzionato al loro effettivo valore d'uso. Oggi questa è una strada non meno praticata di quella che vede le aziende produrre beni di qualità, limitando al massimo le rivendicazioni salariali.

Capitale costante e variabile

Nel capitolo VI, intitolato "Capitale costante e capitale variabile", Marx torna a parlare del valore d'uso della forza-lavoro, riprendendo la terminologia della I sezione, riferita al valore d'uso della merce. Essendo ora in gioco la forza-lavoro non sarà inutile cercare, anche da parte nostra, di specificare meglio il senso della nozione di "valore d'uso".

Per Marx il valore d'uso d'una merce è dato dal tempo di lavoro occorso per produrla. Dev'essere però un tempo "socialmente necessario", cioè riconosciuto come tale dalla collettività, secondo una media standard di dispendio di energie. Un lavoro è concreto, cioè utile, se prima è astratto, cioè "sociale lavoro in genere"(p.242). Marx dà per scontato che il valore d'uso di una merce sia sempre determinato dalla considerazione astratta e generale della collettività (che si esprime, per Marx, non nella comunità ma sul mercato) relativamente alla durata del tempo impiegato per produrla.

Se il tempo di lavoro per produrre una merce subisce una modificazione (nel caso p.es. di un cattivo raccolto), "si verifica -dice Marx- una reazione sulla vecchia merce [nel senso che il suo prezzo si modifica], che conta sempre e soltanto come unico esemplare della propria specie, e il suo valore viene misurato sempre in base al lavoro socialmente necessario, ossia necessario sempre, anche nelle attuali condizioni sociali"(p.253).

L'operaio "aggiunge una data grandezza di valore non in quanto il suo lavoro ha uno specifico contenuto utile, ma in quanto dura un certo tempo"(ib.). La qualità di un prodotto dipende dalla quantità di tempo (generalmente riconosciuta) necessaria per fabbricarlo. Naturalmente Marx non affermerebbe mai che un oggetto ha tanto più valore quanto più grande è stato il tempo per realizzarlo. Il tempo in questione è una grandezza media, il che presuppone che la collettività sappia, per esperienza, cioè anche prima che sia costruito un determinato bene di utilità sociale, quanto dispendio occorra a livello psico-fisico e intellettuale. Il valore d'uso d'una merce specifica presuppone il valore generale delle merci riconosciuto dalla collettività sul mercato.

Ebbene, questo modo di vedere le cose oggi appare limitato e come tale va superato. Spieghiamone la ragione con un esempio. Marx impiegò vent'anni a scrivere il Capitale. E' un'opera monumentale, certamente la più importante di tutte quelle che lui ha scritto. Contiene un'infinità di dati, di osservazioni, esprime una notevolissima cultura ed è strutturata in maniera molto organica. Inoltre rappresenta il superamento definitivo dell'economia politica classica.

Lenin invece scrisse Che fare? in pochi mesi, riflettendo non solo sulla società capitalistica ma anche sul movimento rivoluzionario. Sono due opere completamente diverse. Ma se uno oggi dovesse scegliere quale delle due lo potrebbe aiutare di più a superare i limiti del capitalismo, non potrebbe certo scegliere il Capitale. Relativamente all'esigenza di una transizione al socialismo, il Che fare? di Lenin ha ancora oggi un valore enorme, che non può essere paragonato con nessun altro libro della sinistra rivoluzionaria.

Dunque, ciò che dà valore al Che fare? è qualcosa che riguarda, molto da vicino, la coscienza o la cultura del soggetto che vuole uscire dal capitalismo. Se i due libri vengono messi a confronto, sotto tale aspetto, e lo possono essere, visto che entrambi gli autori desideravano la stessa transizione, il valore di Che fare? è decisamente superiore, e lo resterà fino a quando il socialismo non si sarà realizzato.

Qui naturalmente l'ideologo della borghesia potrà obiettare che il valore di Che fare? è relativo alla coscienza del lettore, cioè non è oggettivo. Da questo punto di vista però nessun libro lo sarebbe, neppure il Capitale né lo Zum Abschluss des Marxschen Systems con cui E. von Böhm-Bawerk ha dato il via alla critica del Capitale. E' vero che l'importanza di Che fare? può essere colta solo da una particolare coscienza soggettiva, ma questo non significa che il suo valore sia "soggettivo". Certo, non si può stabilire a priori se una cosa ha un valore oggettivo o soggettivo, ma a posteriori lo si può dedurre. In tal senso è sufficiente costatare l'importanza che la storia (non solo dell'Europa ma del mondo intero) ha attribuito a quel libro, benché non tutto il mondo ne sia stato e ne sia ancora oggi consapevole.

L'esempio surriportato ci insegna due cose: 1) il mercato non è un criterio sufficiente per esprimere il valore delle cose; esso è un criterio per esprimere il valore di scambio delle merci, ma solo in termini di uso pratico, sociale, immediato. Il mercato, astrattamente parlando, dovrebbe limitarsi a riconoscere un valore che gli preesiste; esso al massimo può trasferire il valore da una merce all'altra, ma non può creare alcuna forma di valore. Il mercato che pretende di stabilire il valore d'uso delle merci a partire dal loro valore di scambio, compie un abuso (anche se questo fatto può riflettere la crisi di un sistema sociale), e alla fine impone un valore artificioso, irreale. Il valore di scambio deve dipendere dal valore d'uso, il quale si forma al di fuori del mercato.

Prima e dopo del mercato c'è la comunità, che può decidere il valore d'uso dei propri beni solo se è fondata sull'autoconsumo. Una comunità che producesse solo valori di scambio, anche se fosse fortissima sul piano finanziario, sarebbe debolissima su quello strutturale, in quanto completamente soggetta al trend del mercato mondiale. Molto più forte invece è quella comunità che indirizza verso il mercato solo l'eccedenza dei propri valori d'uso. Naturalmente una comunità del genere non potrebbe sussistere se non fosse in grado di proteggere la propria autonomia, specie nei confronti della produzione straniera per il mercato.

2) Il valore non può dipendere solo dal lavoro, astratto o concreto che sia, poiché il lavoro è una determinazione dell'attività umana che non esprime di per sé il valore delle cose, se non in termini strettamente economici, cioè funzionali alla sussistenza e alla produzione e riproduzione. Il valore delle cose è dato in primo luogo dalla "cultura" della comunità che autoproduce, cioè dal valore ontologico che la comunità vive in rapporto al significato della vita in genere. Le cose hanno un valore (anche pratico) in quanto ha valore il contesto in cui vengono collocate e usate. Non è sufficiente il tempo di lavoro socialmente necessario, occorre che le cose abbiano un'anima, in virtù della quale possano suscitare negli esseri umani il senso della libertà.

La categoria del valore si deve pertanto "spiritualizzare". Questo perché il giorno in cui avremo risolto, nell'ambito del capitalismo, il problema dello sfruttamento sociale che evidenzia la produzione economica del plusvalore, resterà ancora un problema da affrontare: quello di creare nuovi valori culturali nella società socialista.

Da un lato quindi occorre rovesciare politicamente il primato del valore di scambio ripristinando il primato del valore d'uso; dall'altro bisogna estendere il concetto di "valore" a tutto ciò che non riguarda immediatamente la materialità della vita. Quando la merce non costituirà più l'oggetto del contendere umano, forse gli uomini conosceranno altre contraddizioni antagonistiche il cui oggetto sia necessariamente più spirituale, ma può anche darsi che i valori della libertà avranno raggiunto un tale livello di profondità da rendere facilmente smascherabile ogni antagonismo.


Parlando del processo di valorizzazione del capitale, Marx fa una precisa distinzione tra "capitale costante"(fattore oggettivo del processo lavorativo) e "capitale variabile"(fattore soggettivo). Il primo è quella "parte del capitale che si trasmuta in mezzi di produzione, ossia in materia prima, materie ausiliarie e mezzi di lavoro"; questa parte "non altera la propria grandezza di valore nel processo di produzione"(p.252). Nel senso che essa non aumenta il proprio valore, ma si limita a trasferirlo nei beni prodotti.

"Nel processo lavorativo -dice Marx- si verifica un trapasso di valore dal mezzo di produzione al prodotto solo perché il mezzo di produzione perde, oltre il suo indipendente valore d'uso, anche il suo valore di scambio"(p.244). Ciò in quanto la sua "originaria grandezza di valore [è determinata] dal tempo di lavoro occorrente alla sua stessa produzione"(p.248); "se non avesse avuto valore prima di entrare nel processo, non trasmetterebbe al prodotto alcun valore"(ib.).

Oggettivamente, la perdita di valore è dovuta al "logorio di tutti i mezzi di lavoro"(p.245). Ovviamente "un mezzo di produzione non trasmette mai al prodotto un valore maggiore di quanto ne perda..."(ib.). Calcolare la perdita è relativamente facile: "l'esperienza ci dice quanto dura in media un mezzo di lavoro..."(ib.).

Il capitale variabile invece è "la parte del capitale trasformata in forza lavorativa [che] muta il proprio valore nel processo di produzione. Essa riproduce il proprio equivalente e in più un'eccedenza, il plusvalore, che per suo conto può variare..."(p.252). Questo significa che "un mezzo di produzione entra tutto nel processo lavorativo, ma solo in parte nel processo di valorizzazione"(p.246), poiché questo secondo "processo" viene sostanzialmente gestito dalla forza-lavoro, la quale ha la "proprietà naturale [di] conservare valore aggiungendo valore"(p.249). Per Marx solo il riciclo degli scarti permette a questi di "entrare per intero nel processo di valorizzazione, pur facendo parte solo parzialmente del processo lavorativo", a condizione però che tali scarti -egli aggiunge- non vengano usati per formare "nuovi mezzi di produzione, e perciò nuovi valori d'uso indipendenti"(p.247).

Dopo aver lasciato chiaramente intendere che un modo di produzione basato anzitutto sul valore di scambio è superiore a un modo di produzione basato anzitutto sul valore d'uso (dice infatti a p.244: "pur essendo importante per il valore esistere in qualche valore d'uso, gli è ugualmente indifferente in quale esso possa esistere..."), Marx, a p.250, con un giro di frasi piuttosto involuto, cerca di spiegare la differenza tra valore d'uso e di scambio nei mezzi produttivi capitalistici. In tali mezzi -egli afferma- non si consuma il valore di scambio (non essendo essi permutati con alcunché), ma solo quello d'uso (a causa del logorio). Perciò il valore di scambio non può essere riprodotto, propriamente parlando, nella merce (con un aumento di valore), ma solo conservato così com'è (dal mezzo produttivo alla merce), a differenza del valore d'uso, che invece si trasferisce dalla macchina al prodotto, diventando un nuovo valore d'uso, con capacità di scambio. Il vecchio valore di scambio dei mezzi produttivi, che si era conservato, è riapparso alla fine del processo produttivo, nel nuovo valore d'uso creato.

Così è dimostrato che l'incapacità di creare "valore", da parte dei mezzi produttivi, dipende sia dal fatto ch'essi non possono trasferire più valore d'uso di quanto ne perdano, sia dal fatto ch'essi riproducono il loro valore di scambio solo "apparentemente" o "incidentalmente", poiché in realtà lo trasmettono perdendolo. Dunque chi crea vero nuovo valore (d'uso e di scambio) è solo la forza-lavoro, che riproduce "realmente" il proprio valore, ed anzi produce anche un'eccedenza, il plusvalore, che il capitalista non paga.

Da notare che per Marx la "scambialità" di una merce può essere verificata solo a posteriori, cioè sul mercato. Egli non poteva immaginare che in un regime di monopolio essa è un "a priori" di quell'impresa che non produce semplicemente per vendere (rischiando cioè l'invenduto), ma produce quel che sa in anticipo di poter vendere. Naturalmente la convinzione di poter realizzare determinati profitti presuppone l'investimento d'ingenti capitali.

Ma il difetto principale nell'analisi di Marx è che egli tendeva a considerare in maniera separata la macchina dall'operaio, giacché per lui anzitutto esistevano i mezzi produttivi offerti dalla tradizione lavorativa, i quali successivamente venivano modificati dalle esigenze di profitto del capitalista, il quale costringeva l'operaio ad adeguarsi sic et simpliciter alle capacità della macchina.

Questo modo di vedere le cose, causato da uno scarso affronto culturale della transizione dal feudalesimo al capitalismo, è all'origine del linguaggio poco chiaro ("filosofico") visto sopra. In realtà i mezzi produttivi capitalistici sono nati, sin dall'inizio, in netta antitesi al modo precedente di usarli, al punto che il plusvalore prodotto dall'operaio sarebbe stato impensabile, ai livelli raggiunti nel capitalismo, senza l'apporto straordinario del macchinismo, frutto, a sua volta, di una grande rivoluzione culturale. Successivamente, nel capitalismo monopolistico i mezzi produttivi vengono creati in toto dagli stessi operai che li usano, il cui apporto intellettuale è sempre più rilevante: tra operaio e macchina vi è una connessione molto stretta, che contrasta ancora di più con l'appropriazione privata del plusvalore.

La tesi di Marx secondo cui la facoltà di creare "valore addizionale" è tipica della forza-lavoro in ogni momento del processo produttivo, è giusta appunto perché nel capitalismo i mezzi produttivi permettono all'operaio questa facoltà. Negli altri sistemi produttivi il lavoratore trasforma valori già dati (dalla natura), non crea nuovi valori, proprio perché il valore di scambio non ha un primato su quello d'uso.

Marx dice che se anche l'operaio lavorasse il tempo necessario alla propria riproduzione, egli trasmetterebbe comunque alla merce "una nuova creazione di valore"(p.251), che i mezzi produttivi, da soli, non saprebbero fare. Con il suo "lavoro concreto", l'operaio crea valore d'uso e con il suo "lavoro astratto" crea "nuovo valore", che va ad aggiungersi a quello già esistente.

Tuttavia, se il processo finisse qui -aggiunge Marx, senza accorgersi che il vero limite è un altro-, il valore della merce rappresenterebbe "un semplice equivalente del valore della forza lavorativa"(ib.), in quanto l'operaio avrebbe unicamente rimpiazzato il denaro anticipato dal capitalista per acquistare la forza-lavoro. La nascita del plusvalore avviene quando il capitalista obbliga l'operaio a lavorare "oltre il punto in cui si riprodurrebbe"(ib.). Il plusvalore rappresenta la valorizzazione solo del capitale variabile.

Marx cioè non si è reso conto di un limite ancora più grave del modo di produzione capitalistico, che prescinde in un certo senso dalla realtà dello sfruttamento, e che riguarda inevitabilmente anche il sistema socialista, democratico o burocratico che sia. E' il limite della stessa produzione industriale e del primato del valore di scambio, che uccidono in maniera irreparabile la prassi dell'autoconsumo, il primato del valore d'uso, la tutela dell'ambiente, le tradizioni agricolo-artigianali, il senso dell'autogestione...


Marx distingue anche i "materiali da lavoro" dai "mezzi di lavoro". I primi sono p.es. le materie prime, il carbone con cui si riscalda la macchina, l'olio con cui si lubrifica l'asse della ruota, una macchina in riparazione ecc. (sono esempi di Marx). Il capitale investito in questi materiali e che si consuma in un solo processo produttivo e che quindi entra tutto nel nuovo prodotto, è detto "circolante". I "mezzi di lavoro" propriamente detti sono invece quelli "produttivi": uno strumento, una macchina, l'edificio d'una fabbrica, un recipiente ecc. Il capitale qui impiegato, che trasmette nel prodotto solo la parte consumata (vedi le cosiddette "quote di ammortamento"), è detto "fisso".

La differenza sta nel fatto che i mezzi di lavoro "sono utili nel processo lavorativo solo fino a che mantengono la loro forma originaria e tornano domani nel processo lavorativo nella medesima forma che avevano ieri"(pp.244-5). I "materiali da lavoro" invece servono solo a conservare intatti e utili i mezzi produttivi. Generalmente i materiali da lavoro scompaiono nel processo produttivo; Marx qui aggiunge, ancora ignaro dei problemi dell'inquinamento: "senza lasciar traccia"(p.244). Viceversa, "i cadaveri di macchine, di attrezzi, di opifici ecc. continuano ad esistere separati dai prodotti che avevano concorso a formare"(p.245).

Per Marx era inconcepibile l'idea che nel capitalismo vi fossero degli sprechi. A p.247 fa l'esempio delle grandi fabbriche di macchine di Manchester che riciclano "montagne di scarti di ferro". Il riciclaggio degli "escrementi del processo lavorativo" è una caratteristica tipica del capitalista, che vuole risparmiare su tutto. Marx non poteva neppure sospettare che proprio quei "cadaveri di macchine" rappresentavano la testimonianza più eloquente delle leggi dell'entropia.

Ciò che Marx non avrebbe mai accettato è l'idea che in una moderna società industriale si possano produrre solo valori d'uso e non anche, nello stesso tempo, valori di scambio. L'unità dei due valori, per Marx, non solo è inevitabile in una società in cui i prodotti escono da aziende capitalistiche (e su questo nulla da obiettare), ma sarebbe anche giusta se i prodotti uscissero da aziende socializzate.

Per lui è del tutto "naturale" che un mezzo produttivo perda progressivamente il proprio valore d'uso per trasmetterlo, insieme a quello di scambio, ai prodotti del lavoro. "Se non avesse da perdere alcun valore...non trasmetterebbe alcun valore al prodotto. Esso servirebbe a formare valori d'uso, senza servire a formare valori di scambio: questo è il caso di ogni mezzo di produzione fornito dalla natura, senza che intervenga l'uomo, terra, vento, acqua, ferro nel filone, legname nella foresta vergine ecc."(pp.245-6).

Cioè per Marx il rapporto artificiale dell'uomo con la natura è sostanzialmente da preferirsi a quello meramente naturale: il problema sta semmai nel potenziarlo secondo una regolamentazione sociale e razionale. Per lui quindi non è in discussione la formazione originaria del capitale costante, cioè la nascita dei moventi dell'industrializzazione e il sorgere della legittimità del suo primato sull'agricoltura e sull'artigianato, ma è in discussione la mera distribuzione del capitale variabile. Significativo è il fatto che dopo il cap. VI Marx parli del saggio del plusvalore e non dell'assurdità del sistema capitalista, che è costretto, per sopravvivere, a rivoluzionare continuamente i propri mezzi produttivi. L'analisi del capitalismo fatta nel Manifesto era, in tal senso, più indovinata.

In ogni caso questo modo di vedere le cose, alla luce delle moderne teorie sul degrado ambientale e sull'entropia, va ampiamente rivisto.


Che cos'è dunque il plusvalore? E' una parte di lavoro non pagata. Nel capitalismo, come in ogni altro sistema antagonistico, è sinonimo di "sfruttamento". In nessun capitolo della III sezione Marx ha mai pensato di criticare la formazione in sé del plusvalore; egli si è semplicemente preoccupato di dimostrare che nel capitalismo la sua formazione avviene a spese del lavoratore. Infatti, il problema per Marx era unicamente quello di distribuire in modo equo i frutti del plusvalore. Questo, in sintesi, il significato della sezione in oggetto.

Fino ad oggi la critica borghese ha cercato di confutare l'oggettività del plusvalore scoperto da Marx, ma -bisogna ammetterlo- tutti i tentativi sono falliti. La stessa esigenza degli imprenditori di automatizzare sempre più la produzione nasce proprio dalla necessità di realizzare plusvalore estromettendo la forza-lavoro (che mal sopporta tale sfruttamento) dal processo produttivo.

Tuttavia, la resistenza della teoria del plusvalore alle critiche degli economisti non sta di per sé a significare ch'essa vada considerata come un dogma. Vi sono, in effetti, degli aspetti che vanno approfonditi e altri da sviluppare ex-novo, poiché Marx non li ha neppure presi in considerazione.

Il primo aspetto che bisogna assolutamente affrontare è di natura culturale, ed è inerente alla genesi storica del plusvalore capitalistico. Non dovrebbe essere difficile dimostrare che se non ci fosse stata la possibilità di creare un plusvalore diverso da quello che il feudatario realizzava con i suoi contadini-servi, non sarebbe mai nata alcuna rivoluzione industriale. Essa infatti rappresenta il tentativo (riuscito) di ricostituire, in forme diverse, quello sfruttamento cui il lavoro era fatto oggetto nel sistema feudale, e in cui -a ben guardare- si è sempre caratterizzato dalla fine del comunismo primitivo.

Ma perché ciò potesse avvenire con successo, occorreva che il lavoratore avesse l'illusione della libertà. Cioè da un lato occorreva che il capitalista fosse convinto al 100% che sfruttando la forza-lavoro avrebbe realizzato un profitto di molto superiore al capitale investito; dall'altro occorreva una forza-lavoro disposta a credere che, emancipandosi dallo sfruttamento feudale, non sarebbe ricaduta in uno peggiore.

Gli strumenti con cui realizzare il plusvalore non sono stati solo quelli socio-economici e tecnico-scientifici connessi all'uso della proprietà privata, del capitale, del macchinismo ecc., ma anche quelli di tipo culturale, strettamente legati all'ideologia e ai valori borghesi emergenti (che altro non erano se non una laicizzazione di precedenti valori religiosi). Se non ci fossero stati questi strumenti "invisibili", nessun imprenditore avrebbe mai impiegato ingenti capitali col rischio di ottenere soltanto la loro conservazione originaria, senza ulteriore valorizzazione.

Certo, la rivoluzione industriale sarebbe potuta nascere anche in una società non antagonistica, ma ciò, se lo fosse stato, sarebbe avvenuto in maniera molto più lenta, senza stravolgere il precedente modo di produzione, e soprattutto senza lo sfruttamento della forza-lavoro (né le risorse naturali sarebbero state saccheggiate, né il colonialismo sarebbe mai nato ecc.). La novità della produzione di tipo "capitalistico" è consistita proprio in questo, che si è voluta costruire una società antitetica in tutto e per tutto a quella del passato, conservando però la prassi della sfruttamento del lavoro altrui.

La conseguenza è stata che in virtù del macchinismo si è potuto realizzare un plusvalore assolutamente imparagonabile con quello delle epoche precedenti. Questo fatto da Marx non viene mai problematizzato a fondo. Nel Capitale (ma già nel Manifesto era così) l'industrializzazione viene considerata come uno dei fattori oggettivi di progresso che ha permesso all'uomo di emanciparsi dalla tradizione agraria pre-capitalistica. Marx non ha colto il fatto che il plusvalore che l'operaio, attraverso la macchina, trasferisce alla merce e di conseguenza al profitto del capitalista, viene in un certo senso "pagato", oltre che dallo sfruttamento della forza-lavoro, anche da una progressiva svalorizzazione della macchina, per la cui costruzione era stato speso un certo capitale (risorse materiali e naturali, energie psico-fisiche e intellettuali) che alla resa dei conti ha comportato un impoverimento delle condizioni generali dell'ambiente naturale e quindi un'instabilità e una precarietà sempre più crescente nelle condizioni generali di vita della stessa società umana.

Oggi, dopo aver costatato che nell'esperienza del "socialismo reale" il primato concesso all'industria comporta degli squilibri socio-ambientali anche in assenza della "logica" del capitale, siamo arrivati al punto da doverci chiedere: è veramente necessario produrre plusvalore? In teoria esso serve ad aumentare il livello del benessere; nel capitalismo -come noto- ciò è alquanto relativo, poiché il benessere è accompagnato dallo sfruttamento più o meno "selvaggio" delle risorse umane e naturali e quindi da un'appropriazione privata del plusvalore. Quando tale sfruttamento garantisce in Occidente, nei paesi a capitalismo avanzato, un livello medio o medio-alto di benessere, ciò significa che nel Terzo mondo esiste uno sfruttamento già molto intenso.

In una società senza antagonismi di classe, sarebbe ancora necessario il plusvalore? Ovverosia, cosa dobbiamo intendere con la parola "benessere"? La qualità della vita è forse una grandezza che dipende dalla quantità di beni che possediamo? Cos'è più importante: che l'uguaglianza sociale sia garantita o che la produzione aumenti di continuo? Le due cose infatti paiono escludersi a vicenda.

Probabilmente l'uomo, spinto in questo dalle stesse contraddizioni irrisolvibili del sistema capitalistico, è giunto ad una svolta epocale, in cui è costretto a prendere delle decisioni storiche, che dovranno necessariamente mutare lo scenario del suo futuro. Occorre dunque chiedersi: è preferibile limitarsi all'autoconsumo e alla semplice riproduzione dello standard di vita che garantisce a tutti libertà e proprietà, oppure dobbiamo puntare sullo scambio, sulla produttività in serie, sullo sfruttamento della natura, sulla ristrutturazione tecnologica, ovvero su tutto ciò per cui alcuni fruiscono di elevati livelli di benessere e altri (la maggioranza) non ne fruiscono affatto?

Naturalmente le alternative, nella pratica, non sono mai così nette come le formuliamo: sia perché non si può togliere all'uomo la speranza di poter umanizzare o democratizzare un sistema di vita basato sull'uso della tecnologia più avanzata; sia perché non si può togliere all'uomo il diritto di produrre più di quanto abbia effettivamente bisogno.

In questo caso però (che per noi è quello di maggiore interesse), se volessimo considerare positivamente la produzione di plusvalore, si dovrebbe affermare con certezza ch'essa, in una società democratica, non può essere né vietata né imposta. Nel senso che la produzione del plusvalore va lasciata alla libera volontà dei cittadini, i quali però devono essere consapevoli che l'autoconsumo produce meno entropia e che il plusvalore va regolamentato con un'efficacia maggiore di quella che occorre per l'autoconsumo.

Ciò che alla comunità locale dovrebbe importare più di tutto è la riproduzione del valore. Il plusvalore non si giustifica col fatto che il capitale costante è soggetto a logorio. E' l'idea stessa d'investire del capitale per produrre solo plusvalore che va superata. Certo, se si dovesse guardare alla possibilità di produrre di più spendendo di meno, ogni innovazione tecnologica, utile allo scopo, dovrebbe essere ben accetta, anche se essa comportasse una contrazione del numero degli operai per ogni unità produttiva, o altri aspetti negativi.

Ma il problema oggi non è più semplicemente quello della maggiore efficienza (la cosiddetta "qualità totale"), del maggior risparmio e così via: sotto quest'unico aspetto sarà difficile contestare le ragioni dei capitalisti, eternamente angosciati, anche nella fase monopolistica, dal problema di battere la concorrenza. In realtà oggi il problema è diventato quello di mettere in discussione la necessità di produrre beni di consumo attraverso, anzitutto, i mezzi industriali, che da almeno 500 anni vengono considerati prioritari rispetto a quelli agricolo-artigianali, al punto che la scomparsa progressiva di quest'ultimi viene ritenuta come un fenomeno non solo inevitabile ma anche legittimo e segno di vero progresso.

Il macchinismo, che avrebbe dovuto garantire ordine e razionalità, ha prodotto invece disordine e arbitrio. Si sono persi i cicli della vita naturale, contadina; usiamo prevalentemente risorse non rinnovabili; i costi economici, per produrre plusvalore, sono sempre maggiori; ogni nuova applicazione tecnologica, fin dal suo inizio, presenta degli effetti secondari imprevedibili, che sono più disastrosi dell'assenza di quella nuova tecnologia, e ai quali, per giunta, si cerca di porre rimedio con un'altra tecnologia, ancora più sofisticata, e tutto ciò in omaggio al fatto che la tecnica non è più un semplice "strumento di lavoro", ma è addirittura diventata un "modello di vita". Il lavoro viene sempre più vissuto come una condanna anche da coloro che fruiscono di una vita relativamente agiata.

Ecco perché l'idea che oggi deve affermarsi è quella di una produzione del plusvalore solo in casi limitati, di stretta necessità. L'eccedenza di beni di consumo deve diventare la risultante naturale, spontanea, del processo produttivo, a meno che essa non nasca da un'esigenza particolare della collettività, soddisfatta la quale tutto deve tornare come prima.

Il difetto del capitalismo, in sostanza, non sta tanto nel voler produrre una merce il cui valore sia in eccesso rispetto al valore consumato nel processo produttivo, quanto piuttosto sta nel voler fare solo questo e ad ogni costo: "la produzione di plusvalore -dice Marx- è il fine specifico della produzione capitalistica"(p.278). Ciò è potuto accadere perché, storicamente parlando, il problema di creare plusvalore si è imposto come esigenza di una persona singola, ostile all'interesse comunitario di "conservare" il valore: ieri questi "singoli" erano gli schiavisti e i feudatari, oggi sono i capitalisti (e nel socialismo amministrato i burocrati dello Stato). In virtù dell'attività imprenditoriale del capitalista, noi oggi diamo per scontato che la produzione di plusvalore sia indispensabile, ma la comunità dovrebbe opporsi a questa cultura rivendicando non solo, come chiede il marxismo, la socializzazione del plusvalore, ma anche quella della sua riduzione al minimo indispensabile.


Torniamo ora alla domanda iniziale: che cos'è il plusvalore? Se la produzione fosse completamente automatizzata ci sarebbe ugualmente il plusvalore?

Marx non si pone questa domanda non solo perché ai suoi tempi l'ipotesi era ancora inverosimile, ma anche perché l'avrebbe considerata mal posta. In effetti, una produzione automatizzata non rappresenta mai un'autoproduzione: le macchine, solo per il fatto di esistere, dimostrano la loro dipendenza dagli operai, dai tecnici, dagli ingegneri o dai progettisti; inoltre esse vanno periodicamente controllate, revisionate, perfezionate, sostituite... Una macchina non è in grado di migliorare, oltre un certo limite, la qualità della propria produzione. Quindi il plusvalore è inevitabile.

Naturalmente un'impresa del genere -che ai tempi di Marx non esisteva- realizza plusvalore più con gli operai intellettuali che non con quelli manuali (almeno nell'area del capitalismo avanzato), e quindi più nel momento della progettazione e del controllo della macchina, che non nel momento della trasformazione della materia prima, ove la manovalanza è ridotta al minimo essenziale.

Tuttavia, in questo caso il plusvalore può essere realizzato a una condizione ben precisa: che le altre imprese non abbiano acquisito il medesimo livello di automazione, ovvero ch'esse impieghino manodopera salariata, senza la quale sarebbe impossibile acquistare le merci dell'impresa automatizzata. Non a caso quest'ultima, per evitare la sovrapproduzione, per realizzare alti profitti e per non costringere le altre imprese -che rischiano d'essere rovinate dalla concorrenza dei suoi prezzi- ad automatizzarsi nella stessa maniera, deve necessariamente puntare sull'export. Se tutte le imprese di una nazione sono automatizzate e l'export non garantisce uno sbocco sicuro, la crisi è inevitabile, poiché la macchina, di per sé, è nulla senza il lavoro vivo dell'operaio.

Un'impresa automatizzata realizza il massimo risparmio sul costo del lavoro (a parte quello intellettuale) con il massimo di efficienza (per quanto la produzione in serie non garantisca di per sé una maggiore flessibilità), ma realizza anche, indirettamente, il massimo di sfruttamento possibile della manodopera salariata delle altre imprese, divenendo così altamente parassitaria nell'ambito del capitalismo. La sostituzione dell'operaio con la macchina avrebbe senso se l'operaio fosse riciclato in un'altra mansione, meno faticosa, meno rischiosa, più gratificante ecc. Ma questo nel capitalismo sarebbe possibile (peraltro relativamente) solo se nel Terzo mondo lo sfruttamento della manodopera salariata avesse raggiunto livelli particolarmente elevati.

Se invece la proprietà della fabbrica fosse statale, si produrrebbe ugualmente pluvalore? Il plusvalore non è solo relativo allo sfruttamento capitalistico, esso è anche oggettivo, a causa della particolare modalità con cui s'investe il capitale costante, finalizzato alla valorizzazione della tecnologia e all'acquisizione di un profitto che incrementi il capitale investito. Questa modalità può avvenire anche in una società socialista.

Se non ci fosse lo sfruttamento, ci sarebbe ugualmente il plusvalore, ma esso, nel socialismo, non sarebbe una parte di lavoro non pagata. In questo senso il cosiddetto "socialismo reale" è fallito anche perché ha preteso di gestire in modo democratico il plusvalore attraverso gli organi statali. Proprio la presenza dello Stato, che deteneva un ruolo egemonico sulla società civile, impediva di garantire un'equa ridistribuzione del plusvalore a livello nazionale.

Se invece la proprietà fosse sociale non ci sarebbe alcun plusvalore "forzato", poiché l'operaio sarebbe pagato per quello che effettivamente produce. Il plusvalore potrebbe esserci solo in forma "liberamente accettata". Ovviamente l'operaio dovrebbe contribuire con le proprie tasse a che la comunità locale disponga di tutte le strutture e i servizi necessari.

Proprietari della fabbrica sono coloro che vi lavorano: essi sono i responsabili ultimi della sua gestione, benché il collettivo dell'impresa, in una società veramente democratica, non possa decidere per suo conto né il tipo delle merci, né la loro quantità e, anche per quanto riguarda la qualità, esso dovrebbe tener conto degli interessi e delle esigenze di tutti i consumatori.

In una società socialista occorrerebbe che tutti avessero consapevolezza che la macchina non può trasmettere al prodotto un valore superiore al proprio, per cui non è indispensabile produrre macchine sempre più sofisticate, costose, capaci di "grandi prestazioni": quanto più s'impiegano macchine di questo tipo, tanto più velocemente esse cedono il proprio valore d'uso al prodotto e quindi tanto prima diventano "cadaveri di macchine". Il capitalismo, che induce, a causa della concorrenza, a perfezionare sempre più la propria tecnologia, finisce col cadere in un circolo vizioso, poiché per integrare i costi coi profitti è costretto ad acuire al massimo le proprie contraddizioni.

Ciò che conta, in definitiva, è solo il "capitale umano", cioè il lavoro vivo dell'operaio, che, se vissuto in un contesto sociale significativo (ontologico), sa conservare l'uso delle macchine in modo conforme alle necessità dell'uomo.


Il capitolo dedicato al saggio del plusvalore è la parte più tecnica di tutta la III sezione, e quindi è anche la meno interessante. Tuttavia, essa era indispensabile nell'impostazione metodologica di Marx, il quale, nel Capitale, ha voluto dimostrare l'oggettività dello sfruttamento partendo non dalle conseguenze sociali del lavoro salariato (come ha fatto, p.es., nel Manifesto), ma dalle contraddizioni matematiche intrinseche allo stesso processo produttivo (di lavoro e di valorizzazione del capitale).

Marx in sostanza ha svolto questo ragionamento: 1) nel capitalismo -come in altre società basate sullo sfruttamento del lavoro- si produce plusvalore; 2) fine ultimo del capitalismo -a differenza delle altre società antagonistiche- è la mera produzione di plusvalore: "la misura del grado della ricchezza -dice Marx- non è dato dalla grandezza assoluta del prodotto, bensì dalla grandezza relativa del plusprodotto"(p.278), che rappresenta il plusvalore. Solo nel capitalismo il plusprodotto -che pur si trova in ogni tipo di società- diventa portatore materiale di plusvalore. Ciò è reso possibile dal fatto che qui diventa merce anche la forza-lavoro dell'individuo; 3) il plusvalore è dunque fonte di sfruttamento perché non pagato a chi lo produce; 4) superare il capitalismo vuol dire socializzare il plusvalore.

Marx non mette mai in discussione il plusvalore come tale, ma solo la sua destinazione privata. Egli non ha mai espresso alcun interesse circa la possibilità di creare un socialismo democratico che si limitasse alla pura e semplice riproduzione del valore.

La parte più difficile da accettare, nel modo di quantificare il saggio del plusvalore, è l'attribuzione di una valore = 0 al capitale costante ("c"). Come noto, per "capitale costante" Marx intende "il valore dei mezzi di produzione consumati" nella produzione (p.256), cioè intende quella quota-parte del capitale complessivo investito che, logorandosi, si trasferisce nella merce.

Ora, Marx sostiene che se "c" fosse = 0 (e ciò è possibile se il capitalista utilizza solo materiali esistenti in natura, come ad es. le risorse rinnovabili, e forza-lavoro), il plusvalore ("p") ottenuto "resterebbe della medesima grandezza che se "c" stesse a indicare la somma massima di valore"(p.257). Questo perché il plusvalore non è prodotto dalla macchina ma dalla forza-lavoro. (Da notare che a Marx non interessa minimamente l'ipotesi di un c = 0, senza formazione di plusvalore).

Se invece il plusvalore fosse = 0, cioè se la forza-lavoro avesse prodotto un valore equivalente al suo prezzo, il capitale anticipato non si sarebbe valorizzato (e -si può aggiungere- il capitalismo non sarebbe mai nato).

Ciò che a Marx interessa mostrare è che, per comprendere l'entità esatta del plusvalore, l'economista deve considerare solo le trasformazioni di valore che avvengono in una porzione del capitale variabile (trasformato in forza-lavoro), e deve fare astrazione dal valore del capitale costante. Il plusvalore infatti non si forma col trasferimento di valore del capitale costante al prodotto, neppure aggiungendo tale valore a quello che crea la forza-lavoro.

Ecco perché è necessario che "c" sia posto = 0, altrimenti si avrà che, a causa dell'aumento del capitale variabile ("v"), alla fine sarà aumentato anche il capitale complessivo anticipato. Il che -secondo Marx- è un modo sbagliato di vedere le cose, essendo il plusvalore un'eccedenza estorta con l'inganno del contratto, per il quale non si paga il "lavoro" bensì la sola "forza-lavoro". Se nel calcolo del plusvalore si conteggia anche il capitale costante, sarà poi impossibile individuare il momento esatto dello sfruttamento; si tenderà infatti a pensare che il plusvalore sia ottenuto in proporzione al capitale anticipato o ch'esso serva a coprire le spese.

Marx non nega l'importanza del capitale costante; qui si limita semplicemente a dire -rimandando al III libro un'esposizione più dettagliata- che se delle "proporzioni" esistono, queste non sono tra capitale costante e plusvalore, ma da un lato tra capitale costante e capitale variabile: "per far che funzioni il capitale variabile, è necessario che venga anticipato capitale costante in corrispondenti proporzioni..."(p.258); dall'altro, tra capitale variabile e plusvalore, nel senso che la grandezza proporzionale del plusvalore, cioè "la proporzione in cui il capitale variabile si è valorizzato, è chiaramente determinata dal rapporto del plusvalore col capitale variabile"(pp.259-60) -il che appunto costituisce il "saggio del plusvalore".

L'altro rapporto che indica la proporzione tra "p" e "v" è quello tra pluslavoro (col quale l'operaio produce plusvalore nel tempo di valoro superfluo alla riproduzione del valore della sua forza-lavoro) e lavoro necessario (alla riproduzione del suo valore).

Marx insomma ha voluto dimostrare che il saggio del plusvalore è molto più grande di quello che il capitalista vuol fare apparire mettendo nel conto il valore del capitale costante. Nelle equazioni di Marx "il lavoratore impiega più della metà della sua giornata lavorativa per produrre un plusvalore che diverse persone si ripartiscono tra loro con vari pretesti"(pp.265-6). Tali persone sono tutte quelle non direttamente coinvolte nel processo di valorizzazione del capitale (politici, burocrati, militari, insegnanti ecc., inclusi ovviamente gli stessi capitalisti!).

Quindi il plusvalore rappresenta la valorizzazione del solo capitale variabile. Esso naturalmente aumenta coll'aumentare del grado di sfruttamento. Negli odierni paesi capitalisti avanzati il saggio del plusvalore è del 300% e oltre. Il tempo necessario per riprodurre il costo della forza-lavoro si è ridotto, in talune imprese automatizzate, a meno di un'ora.


E' una contraddizione in termini quella di sostenere che il valore di una merce "è determinato dal tempo di lavoro che occorre per produrla"(p.279). Questa legge non è contraddittoria semplicemente perché sul mercato capitalistico esistono merci che hanno un valore di scambio del tutto sproporzionato al loro effettivo valore d'uso, o perché esistono merci costosissime pur essendo prodotte in tempi assai limitati (fenomeno, questo, che con l'automazione si va sempre più accentuando): la legge del valore non diventa inattendibile solo perché sul mercato si verificano delle assurdità. Essa, nelle intenzioni di Marx, voleva più che altro indicare una linea di tendenza generale, un "dover essere" astratto.

Tuttavia -è ciò è davvero un paradosso- proprio a causa dei particolari e acuti antagonismi che si verificano in ambito capitalistico, quella legge pare essere formulata apposta per essere applicata in una società che certo capitalistica non può essere. Gli economisti borghesi si sono serviti di questa incongruenza per sostenere che va superato non il capitalismo ma la stessa legge del valore e quindi l'idea di una transizione al socialismo. In tal modo essi non sono riusciti a cogliere i limiti veri di quella legge, che vanno aldilà della semplice sfera economica.

In effetti, dire che il "valore" di una merce è determinato dal "tempo" occorso per produrla, è come dire, in pratica, che il "tempo" rappresenta un "valore". Ora, se c'è una cosa che di per sé non ha valore, questa è proprio il tempo, che può scorrere con una durata più o meno lunga a seconda di chi lo vive. Naturalmente Marx risponderebbe a questa obiezione che il tempo cui occorre riferirsi è quello "socialmente necessario", non quello "soggettivamente arbitrario".

Ma cosa significa "socialmente necessario"? Se il tempo cui ci si riferisce, per determinare il valore di una cosa, è un tempo collettivo, socialmente condiviso, allora esso non ha un valore proprio, ma dipendente dalla collettività che lo vive, e quindi dalla cultura di questa collettività e dalla coscienza con cui essa vive la propria cultura. Il tempo quindi ha un valore solo nella misura in cui qualcuno glielo conferisce. E questo qualcuno deve vivere in un determinato "spazio" (categoria, questa, che nel Capitale viene riempita di pochi contenuti, nel senso che la storicità dell'opera appare più "verticale" e meno "orizzontale").

Stando le cose in questi termini, il valore di un oggetto (di uso comune) non può essere determinato semplicemente dal "suo" tempo, se non in senso "tecnico", "economicistico", ma deve essere determinato anche dal contesto semantico in cui esso è collocato, e quindi in ultima istanza dalla cultura significativa di una determinata comunità, la quale, a sua volta, dà senso alla dimensione del tempo (e dello spazio) in cui vive.

Ma se è l'uomo, come essere sociale, a dare un valore alle cose, il valore di queste cose può anche oltrepassare i limiti della dimensione specifica del tempo (e dello spazio), così come il valore de Il Capitale può crescere o diminuire a seconda della coscienza di quanti, nel corso dei secoli, lo leggono. Marx non riusciva a comprendere perché al suo tempo il Capitale avesse più fortuna fra gli intellettuali progressisti della Russia zarista che non tra le fila del proletariato industriale dell'Europa occidentale. La ragione tuttavia era semplice, anche se, ovviamente, non afferrabile con gli strumenti dell'economia: è la coscienza rivoluzionaria che dà il valore giusto alle cose di valore, che crea cose il cui valore è destinato a rimanere nel tempo, a disposizione di una qualunque altra coscienza in grado di riconoscerlo. Cos'è in fondo la "lotta di classe" se non la testimonianza che di fronte a cose analoghe si possono dare valutazioni opposte?

IL PLUSVALORE

Ora, se tutto ciò è vero, lo è anche in senso contrario, e cioè in riferimento al fatto che nel capitalismo la legge del valore è continuamente contraddetta dalla "legge dei prezzi", che è quella cui i capitalisti sono più interessati. In tutta la III sezione Marx non ha mai preso in considerazione l'ipotesi del prezzo di una merce che per la sua scarsità o novità sul mercato, sale alle stelle, permettendo al capitale costante di realizzare un valore di scambio della merce di molto superiore al suo valore d'uso, e quindi di acquistare, indirettamente, un valore addizionale particolare, relativo alla favorevole congiuntura o circostanza. Nella nota a p. 266 Marx afferma di aver supposto "che i prezzi siano uguali ai valori. Nel terzo libro -egli aggiunge- vedremo come tale uguaglianza non si verifica in maniera così semplice neanche per i prezzi medi".

La differenza tra valore e prezzo obbligherà Marx a rivedere la sua teoria sul plusvalore e a ricomprenderla in quella più generale di profitto, all'interno della quale si opera una rivalutazione del ruolo del capitale costante. In questa sezione Marx rifiuta a priori l'idea di considerare il plusvalore come una necessità per ammortizzare i costi iniziali dovuti all'acquisto non solo di forza-lavoro, ma anche, e soprattutto, di materie prime, macchinari ecc. Di plusvalore "netto", in effetti, si può parlare solo dopo aver "coperto" le spese iniziali.

Naturalmente il capitalista sosterrà sempre che i costi non possono mai essere ammortizzati definitivamente, in quanto il macchinario, essendo soggetto a logorio, necessita di essere periodicamente sostituito o ristrutturato, senza parlare delle necessità di riconversione industriale cui ogni capitalista si sente obbligato a causa della concorrenza altrui.

Marx tuttavia non ha cercato, in questa sezione, di uscire da questo vicolo cieco portando il ragionamento sulle modalità con cui l'imprenditore ha potuto accumulare così ingenti capitale da poterli investire in una grande impresa capitalistica. Egli non è interessato a questo discorso per due ragioni: 1) l'accumulazione originaria non deve mettere in discussione la giustezza della transizione dal feudalesimo al capitalismo; 2) il limite di fondo del capitalismo consiste semplicemente nella gestione antisociale del plusvalore.

Di fatto però la formazione di plusvalore non dipende solo dal capitale variabile ma anche da quello costante, poiché, se è vero che lo sfruttamento sta nel plusvalore, è anche vero che il plusvalore capitalistico è di tipo particolare, in quanto può essere accumulato all'infinito. E questa particolarità non è offerta al capitalista unicamente dal valore della forza-lavoro, ma anche dal macchinismo, nel senso che se il capitale costante non altera la propria grandezza di valore, rende però possibile un plusvalore inedito, senza precedenti storici. E' proprio il capitalismo che costringe il tradizionale capitale costante a trasformarsi in una diversa grandezza di valore, che comporta un mutamento qualitativo di tutta l'attività produttiva.

L'originaria grandezza di valore del capitale costante, nell'ambito del capitalismo, non sta più nel "tempo di lavoro necessario" alla sua produzione, poiché nel capitalismo il concetto di "tempo necessario" non ha più il riferimento oggettivo della socializzazione produttiva. L'unico riferimento (fatto passare per "oggettivo") è quello del mercato, ove dominano gli interessi dei proprietari privati, i quali vogliono realizzare un profitto il più possibile sproporzionato rispetto agli iniziali costi di produzione sostenuti.

Ciò significa che nel costruire il capitale costante il tempo è "necessario" solo nel modo in cui l'intende la classe capitalistica nel suo complesso. La macchina, in tal senso, non ha solo un tempo limitato dal suo progressivo logorio, ma ha pure un tempo "nascosto", che scorre assai più velocemente e che quindi è più corto di quello "ufficiale": è il tempo che le impone una macchina concorrente. Quindi è un tempo "psicologico". L'introduzione del macchinismo ha rivoluzionato la dimensione del tempo, che, nel capitalismo, ha assunto tratti patologici, dovuti appunto allo stress della competizione.

Il capitalista della macchina "A" sa, in anticipo, cioè prima ancora di farla funzionare, di avere meno tempo a disposizione di quello che gli concederà la sua stessa macchina, poiché sa che da un'altra parte esiste un capitalista che, con la sua macchina "B", farà di tutto per rovinarlo o, in attesa di averla, per carpirgli i suoi segreti industriali. Ecco perché il capitalista della macchina "A" non aspetterà ch'essa si logori, prima di ristrutturla, ma farà in modo di farla lavorare al massimo, nel periodo iniziale (senza preoccuparsi della sovrapproduzione), mentre nei periodi successivi cercherà, appena saprà di poterne trarre un certo utile, di sostituirla o di modificarla prima ch'essa ne abbia "fisicamente" bisogno.

Il bisogno di ristrutturare il capitale costante non dipende tanto dal logorio di quest'ultimo, quanto piuttosto dalla necessità che il capitalista ha d'incrementare continuamente il plusvalore. Ad un certo punto, infatti, la necessità di accumulare plusvalore non dipende più dall'esigenza d'imporsi sul modo di produzione precedente, sui consumi tradizionali della gente ecc.: orami questi obiettivi sono stati sufficientemente acquisiti, e il regime monopolistico-statale garantisce una relativa sicurezza. L'esigenza invece è quella di difendersi da altri monopoli che, ostili al protezionismo e favorevoli al libero mercato, minacciano di rovinarlo.

Ecco, in tal senso, si può affermare che nel momento in cui il capitalista introduce una nuova macchina, il valore di quest'ultima è maggiore rispetto a quello che si ottiene dalla divisione del tempo necessario al suo logorio, così come è diverso il prezzo dal valore della merce. Un'innovazione tecnologica permette all'inizio un plusvalore maggiore di quello che si ottiene con la stessa macchina, in buone condizioni, quando la concorrenza si è dotata di una macchina equivalente. Di qui la crescente importanza, soprattutto nell'ambito intellettualizzato dell'automazione, dello spionaggio industriale. Questo significa che il capitale costante non può né essere separato da quello variabile né posto = 0.

D'altra parte ha un che di singolare il fatto che da un lato Marx consideri il capitale costante = 0, quando tale condizione si verifica solo nelle società agrarie basate sull'autoconsumo; e dall'altro pretenda di valutare l'entità del plusvalore, quando tale grandezza presuppone il superamento di quel tipo di società. Marx ha bisogno di credere nel concetto di "tempo di lavoro socialmente necessario" per determinare l'entità esatta (matematica) del capitale costante e soprattutto del plusvalore, e non s'accorge che proprio quel tipo di capitale e di plusvalore, nell'ambito del capitalismo, vanificano l'applicazione del suddetto concetto.

Inoltre, non avendo analizzato in questa sede l'importanza del capitale costante nella formazione del plusvalore, Marx offre l'immagine di un operaio che sembra avere in sé una forza "magica" con cui creare continuamente valore aggiunto.

In realtà è solo nel capitalismo che il valore aggiunto appare nello stesso processo lavorativo; in tutte le altre formazioni esso o non appariva, oppure appariva in un'altra fase del processo lavorativo: quella "forzata" della coercizione extra-economica.

Il lavoratore ha il compito di "riprodurre il valore", o meglio, quello di "trasformarlo riproducendolo", non ha il compito di "aumentarlo", né, tanto meno, quello di "crearlo". Il valore non può essere creato ex-novo, né può essere aumentato più di quanto non possa essere riprodotto, come d'altra parte è impossibile riprodurre un essere umano che abbia caratteristiche sovrumane.

Se nel capitalismo si può costatare un aumento del valore, ciò avviene a scapito della possibilità stessa di riprodurlo usando la medesima energia: questa infatti, nel capitalismo, dev'essere sempre più "potente" perché si possa riprodurre il valore.

Per non parlare delle ricadute negative di questo processo sulla sfera etica. Col macchinismo ci si è illusi che all'aumento del valore economico potesse corrispondere l'aumento del valore etico (intendendo col termine "etica" tutta la sfera sovrastrutturale). Invece il valore dell'etica ha subìto un deprezzamento inversamente proporzionale al valore dell'economia.

L'esigenza del plusvalore -come metodo sistematico di creare valore- può nascere solo in una società antagonistica, dove gli interessi di pochi singoli sono in contrasto con quelli della grande maggioranza. Il singolo, nei confronti della collettività, non potrebbe sussistere limitandosi a riprodurre il valore: egli ha necessariamente bisogno di un'eccedenza che lo tuteli, per ottenere la quale è disposto ad ogni cosa.

La particolarità del plusvalore capitalistico, in tal senso, è offerta, proprio dal fatto ch'essa è sorta dopo la formazione sociale feudale. Il capitalista non poteva tornare allo schiavismo tout-court: là dove l'ha fatto (in Africa e in Americalatina), o le culture locali erano troppo deboli per poterlo impedire, oppure non esisteva ancora quella cristiana, la quale, nella veste cattolico-protestante, tollera sul piano pratico e condanna su quello teorico.


Il presupposto di Marx secondo cui "la forza lavorativa è acquistata e venduta al suo valore"(p.279), nel senso che il suo valore "è determinato dal tempo di lavoro che occorre per produrla"(ib.), è un presupposto che avrebbe senso, al limite, in una società dove il valore avesse un senso: non può certo averne in una società dove ciò che ha veramente valore è solo il prezzo di una merce.

Nella società capitalistica tutte le merci sono "equivalenti", cioè senza valore specifico: ciò che le differenzia, in ultima istanza, è solo il prezzo, poiché in virtù di questo ogni merce può essere acquistata. Non esiste alcuna merce che "non abbia prezzo", il cui valore cioè sia "senza prezzo", assolutamente incommensurabile. Nel capitalismo ciò che ha un valore personale (affettivo, sentimentale ecc.), in realtà non ha un vero valore, poiché non viene riconosciuto socialmente. Ciò che ha vero valore è soltanto ciò che sul mercato ha un prezzo, e, paradossalmente, è proprio questo modo di "valutare" che toglie alle cose il loro valore specifico, quello che può essere determinato non dal mercato ma dal contesto sociale che usa quelle cose secondo un preciso significato.

Quindi il presupposto che nel capitalismo la forza-lavoro venga acquistata al suo valore, non si verifica mai, meno che mai spontaneamente. E' solo attraverso la lotta di classe che la forza-lavoro può sperare di essere acquistata al proprio valore, per quanto una lotta di classe che si limitasse a tale rivendicazione, non uscirebbe -direbbe Lenin- dai limiti del "tradunionismo".

Infatti, il vero valore della forza-lavoro non può essere deciso nella contrattazione, poiché la riduzione dell'uomo a "lavoratore" risente già dei limiti della cultura borghese. E' il capitalismo che costringe l'uomo a far valere il prezzo della propria forza-lavoro, al fine di non essere sfruttato economicamente. Ma ognuno si rende conto da sé che, superati i limiti del capitalismo, non avrà più senso misurare il "valore della forza-lavoro" in termini matematici, poiché questo valore non è misurabile, come non può esserlo quello del coraggio, dell'onore, dei principi ecc.

Il valore dell'essere umano non può essere quantificato, se non facendo astrazione dall'individuo specifico: il che è un controsenso. Il valore dell'uomo può solo essere costatato, osservando con quali capacità ed energie l'essere umano in senso lato (uomo o donna che sia, "produttivo" o "improduttivo", maggiorenne o minorenne ecc.) riesce a realizzare una società democratica, fondata sulla libertà e sulla giustizia.

Una società la cui forza-lavoro ha un altissimo valore, non ci dice nulla sul "valore" dei suoi cittadini. Nella futura società socialista nessun indice economico potrà di per sé indicare il potenziale "etico" di una popolazione. Nessuno è in grado d'individuare quale tipo di libertà vive una nazione, limitandosi ad esaminare i suoi indici produttivi, di consumo ecc.

Peraltro, se si parte dal presupposto che la forza-lavoro venga acquistata al suo valore, si finisce col considerare il plusvalore come una conseguenza accessoria della contrattazione, che con una buona rivendicazione salariale potrebbe essere risolta. Questo anche se esplicitamente si sostiene che fine del capitalismo è accumulare plusvalore.

In realtà, occorre evitare l'illusione di credere che, eliminato il problema del plusvalore, il capitalismo sia, nel complesso, un sistema accettabile. E soprattutto non si deve alimentare questa illusione facendo credere che sul mercato la forza-lavoro possa essere acquistata al suo giusto prezzo. Il capitalista non parte mai da questo presupposto. Sin dall'inizio, il tempo che occorre alla forza-lavoro per riprodursi appare al capitalista sufficiente anche quando non lo è affatto.


Nel cap. VIII, dedicato alla giornata lavorativa, Marx prende in esame la possibilità da parte del capitalista di estorcere all'operaio un plusvalore assoluto.

Come già visto, Marx è partito dal presupposto che la forza-lavoro viene acquistata e venduta al suo valore. Ciò significa che una parte della giornata lavorativa è caratterizzata dal tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro.

Il plusvalore si realizza nell'altra parte della giornata, quella in cui la forza-lavoro crea un valore superiore al proprio e di cui non può beneficiare. Marx fa l'esempio che se a un operaio occorrono 6 ore per riprodurre il proprio valore, le altre 6 ore costituiscono plusvalore al 100%. Per ottenere un plusvalore superiore a questa percentuale, al capitalista basta prolungare la giornata di lavoro.

Il cap. VIII ha appunto lo scopo di dimostrare che la formazione del plusvalore assoluto può avvenire solo entro un limite massimo di tollerabilità, fisica e morale, relativo all'esigenza di riproduzione della forza-lavoro, altrimenti il capitalismo finisce coll'autodistruggersi, sebbene di questo non si preoccupino affatto i singoli capitalisti, che al massimo sono interessati alla possibilità di sostituire la forza-lavoro logorata con altra in esubero.

Se l'operaio si oppone al prolungamento della giornata di lavoro, il capitalista potrà giocare un'altra carta per estorcere plusvalore superiore al 100%: quella dell'intensificazione del lavoro, con la quale cercherà di costringere l'operaio a riprodurre il proprio valore non in 6 ore, ma ad es. in 4 o in 2. Questo plusvalore è detto relativo, ma col termine di "intensificazione del lavoro" Marx non intende qui che la riduzione del tempo di lavoro necessario e non anche l'uso della rivoluzione tecnico-scientifica applicata alla produzione (vedi ad es. la catena di montaggio). Di questo egli parlerà nel cap. X.

"Il capitale -dice Marx- non ha inventato il pluslavoro. In ogni luogo in cui una parte della società possiede il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o non libero, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al proprio mantenimento un tempo di lavoro eccedente per la produzione dei mezzi di sussistenza del possessore dei mezzi di produzione"(p.285). Infatti, l'assurdità dei sistemi antagonistici è che proprio chi detiene il monopolio dei mezzi produttivi è il più "improduttivo" e deve farsi mantenere dal lavoro forzato di chi è nullatenente.

"Ma è evidente -prosegue Marx, e questo è veramente importante- che se in una formazione sociale prevale il valore d'uso del prodotto più che il suo valore di scambio, il pluslavoro è allora limitato ad una quantità più o meno grande di bisogni, ma dal carattere stesso della produzione non sorge alcun insaziabile bisogno di pluslavoro"(ib.), cioè lo sfruttamento trova un limite nella capacità di consumo dello stesso sfruttatore.

E' appunto questo che, in ultima istanza, fa la differenza tra una formazione sociale antagonistica pre-capitalistica e una capitalistica. Che nella prima prevalga il valore d'uso non significa, ovviamente, che non sia conosciuto e apprezzato il valore di scambio, ma è solo nel capitalismo che questo valore ha una priorità assoluta. Prima del capitalismo il denaro veniva accumulato per acquisire potere politico, economico ecc. Col capitalismo il denaro viene accumulato per se stesso, cioè anche dopo che si è ottenuto il potere politico, economico ecc. Il denaro diventa "padrone" di colui che lo possiede. Non sono tanto i beni acquistati col denaro che vengono accumulati, ma è il denaro stesso che viene accumulato. Il suo potere di astrazione raggiunge, nel capitalismo, la vetta suprema.

"Perciò -dice ancora Marx- nell'antichità il lavoro eccessivo appare in maniera incredibile dove si deve ottenere il valore di scambio nella sua indipendente forma di moneta, ossia nella produzione di oro e di argento. In questo caso, la forma ufficiale del lavoro eccessivo è lavorare sotto costrizione fino a che si muoia"(ib.). Nelle formazioni schiavistiche i metalli pregiati servivano per acquistare, ovvero per soddisfare bisogni di varia natura (materiali, di prestigio, di vanità ecc.); nel capitalismo invece servono per investire in attività produttive (o anche solo finanziarie) con le quali si possono accumulare capitali.

Marx ha colto bene le differenze fenomeniche, ma non ha compreso la causa culturale che le ha generate. Il passaggio da una formazione antagonistica pre-capitalistica a una capitalistica, è dipeso -a suo giudizio- dalla spinta "verso un mercato internazionale"(ib.), cioè dalla costatazione che la vendita dei prodotti all'estero poteva comportare maggiori profitti. Per Marx il capitalismo è nato a causa di un allargamento della sfera commerciale, la quale, a sua volta, presuppone una forte divisione del lavoro ecc. Non ci sono altre spiegazioni genetiche.

Se Marx si fosse preoccupato di analizzare in modo culturale l'origine delle diverse forme dei sistemi antagonistici, non avrebbe considerato la transizione al capitalismo come un evento necessario, ineluttabile. Inoltre avrebbe evitato di mettere sullo stesso piano "l'orrore barbarico della schiavitù, della servitù della gleba ecc." con "l'orrore civilizzato dell'eccesso di lavoro"(p.286). La differenza infatti non sta semplicemente nel diverso tipo di sfruttamento, ma anche e soprattutto nel diverso tipo di civiltà.

Marx non trae alcuna positiva conseguenza dal fatto che "nella forma della corvée il pluslavoro è separato completamente dal lavoro necessario"(p.287). In altre parole, a un lavoro chiaramente "forzato" in una metà della giornata e "libero" nell'altra metà, egli preferisce un lavoro "forzato" per tutta la giornata, poiché ciò, a conti fatti, toglie ogni illusione al lavoratore e lo costringe a reagire.

Tuttavia, la figura dell'operaio risulta alquanto controversa nell'analisi del Capitale. Da un lato l'operaio sa sin dall'inizio che il capitalista compra la sua forza-lavoro per sfruttarla al massimo (poiché la forza-lavoro è una merce che crea un valore più grande di quanto essa stessa costi); dall'altro però l'operaio si ribella non tanto alla contrattazione sul mercato e neppure al primato dell'industria sull'agricoltura e l'artigianato, quanto piuttosto al fatto che la distribuzione del plusvalore è ingiusta perché privata, cioè si ribella solo quando s'accorge che il capitalista, per ottenere sempre più plusvalore, fa di tutto per prolungare la giornata lavorativa. "La voce dell'operaio, che s'era zittita nel turbine incalzante del processo di produzione, d'un tratto sorge" -dice Marx (p.282).

Il pregiudizio di Marx nei confronti del mondo contadino-feudale è ben visibile laddove egli parla della servitù della gleba e delle corvées nei principati danubiani. Il pregiudizio non era dovuto solo a una scarsa cognizione scientifica della formazione feudale (l'unico testo citato è quello di E. Regnault sulla Storia politica e sociale dei principati danubiani), ma anche e soprattutto alla convinzione che il mondo contadino, ostile di per sé alla transizione verso il capitalismo, non avrebbe mai potuto collaborare con gli operai per realizzare il socialismo, la cui transizione -secondo Marx ed Engels- presupponeva necessariamente lo sviluppo del capitalismo.

In una nota alla terza edizione, Engels ha evidenziato il proprio pregiudizio riconoscendo che il contadino tedesco, nel sec. XV, era sì obbligato alle corvées, ma per il resto era libero, de facto e, in certi territori, anche de jure. Engels mise questa nota per mostrare che la libertà goduta dai contadini danubiani non era molto diversa da quella dei contadini tedeschi. E tuttavia egli esprime questo giudizio sostenendo che i contadini tedeschi persero la loro libertà a causa della guerra contro i nobili, per cui essi non avrebbero potuto in alcun modo costituire un'alternativa al capitalismo.

Engels qui ha dimenticato di aggiungere che la sconfitta dei contadini, intenzionati a realizzare un comunismo agricolo, fu determinata, in primo luogo, non tanto dalla resistenza dei nobili, quanto piuttosto dall'appoggio che questi ottennero da parte della borghesia. In Germania la borghesia non riuscì a trovare nei contadini un potente alleato contro la nobiltà, perché sapeva che le loro rivendicazioni erano, sin dall'inizio, anche anti-borghesi.

Inoltre Engels non voleva ammettere la possibilità che, ai suoi tempi, in Russia il movimento anticapitalistico potesse trovare nel mondo rurale la sua base sociale prioritaria. Il pregiudizio stava appunto nel fatto che per Engels se i contadini tedeschi, che pur erano liberi, non riuscirono ad opporsi né alla nobiltà né alla borghesia, per quale ragione i contadini russi -per lui meno liberi di quelli tedeschi- avrebbero potuto costituire un'eccezione alla regola?

Per Marx il modo di produzione feudale delle province rumene era "primitivo", ma non come quello della "forma slava o addirittura indiana", che conoscevano solo la "proprietà comune"(p. 288) e che, per questo, impedivano all'uomo di formarsi come individuo libero. Tale giudizio era condiviso anche da Engels.

Per Marx non esiste libertà senza proprietà privata. Nelle province rumene "una parte delle terre era coltivata in forma indipendente dai membri della comunità, quale libera proprietà privata..."(ib.). Era questa proprietà che rendeva "liberi" e non quella "lavorata in comune" per avere un "fondo di riserva", in caso di cattivi raccolti, o una sorta di "tesoro pubblico" col quale sostenere "le spese della guerra, della religione e di altri bisogni della comunità"(ib.).

La crisi di queste comunità sorse -secondo Marx- solo nel momento in cui "dignitari militari ed ecclesiastici usurparono la proprietà comune e allo stesso tempo i servizi che le erano connessi"(ib.). Per Marx la differenziazione della libera proprietà privata dalla proprietà comune non era un indice di regresso della comunità bensì di progresso.

Il pregiudizio di Marx nei confronti dei popoli slavi s'accentua proprio laddove egli afferma che fino a quando la "Russia liberatrice del mondo" (detto con ironia) non arrivò nei Balcani, la servitù della gleba era solo di fatto e non di diritto. Fu appunto "col pretesto di abolire la servitù della gleba [che essa] la sollevò a legge"(ib.).

In realtà, rispetto al feudalesimo turco e persiano, quello russo era sicuramente meno devastante, più sviluppato sul piano economico-culturale: non a caso fu accolto, almeno in un primo momento, dai contadini asserviti, come un evento liberatorio. E comunque la Russia intervenne solo in seguito alle sollevazioni dei contadini danubiani.

Quanto alle riforme del conte P.D. Kisilev, proprio con esse si voleva impedire uno sfruttamento dei contadini assolutamente arbitrario, come appunto avveniva nell'impero turco e persiano. Non solo, ma al conte Kisilev, ch'era ministro del demanio statale, si devono far risalire i tentativi, non riusciti, di mediare le esigenze della nobiltà feudale con quelle dell'emergente ceto dei contadini ricchi, che riceveva dall'erario crediti e aiuti agrotecnici.

Dovendo scegliere fra il Regolamento organico del conte Kisilev e i Factory Acts inglesi, Marx non ha dubbi: "queste leggi frenano l'impulso del capitale a sfruttare oltre misura le forze lavorative, tramite la limitazione della giornata lavorativa imposta in nome dello Stato..."(p. 290), limitazione -precisa Marx- "imposta dalla necessità", quella di permettere alla forza-lavoro di riprodursi.

Ovviamente sarebbe assurdo sostenere che un qualunque "codice feudale" possa essere considerato più "democratico" di una qualunque legislazione statale sulla regolamentazione dell'orario di lavoro nelle fabbriche capitalistiche; e tuttavia non è meno insensato sostenere che mentre attraverso il Regolamento organico si faceva di tutto per "sfruttare" il contadino, attraverso i Factory Acts invece si cercava d'impedire lo sfruttamento selvaggio degli operai inglesi.

E' davvero singolare che uno storico come Marx non abbia compreso come nel primo caso l'osservatore deve dare per scontata la "libertà" dei contadini, mentre nel secondo caso deve dare per scontata la "schiavitù" degli operai. I nobili infatti non avrebbero cercato di fare l'impossibile pur di sfruttare i contadini se questi non avessero goduto di una relativa libertà. Viceversa, nei confronti degli operai tutto il possibile i capitalisti già l'avevano fatto, per cui agli operai non restava che lottare per avere un minimo di libertà.

Di fatto, il tipo di sfruttamento cui veniva sottoposto il contadino non ha mai conosciuto analoghe forme alienanti, oppressive e distruttive come quelle in cui si caratterizzò lo sfruttamento dell'operaio inglese (poi europeo, americano ecc.) agli albori del capitalismo. Si pensi solo all'impiego massiccio in fabbrica dei bambini, alle tante malattie professionali, alla fame causata dalla disoccupazione, alla breve durata della vita media, ma anche alla stessa intensità della giornata lavorativa, che praticamente conosceva solo le pause previste per il mangiare e il dormire. Le condizioni degli operai inglesi, "liberi cittadini" della loro nazione, non erano molto diverse da quelle degli antichi schiavi del mondo romano o delle civiltà pre-colombiane al tempo di Cortès e Pizarro.

Marx, peraltro, parlando dei Factory Acts, li presenta come se fossero nati da un'idea spontanea del governo inglese e non come il frutto della rivendicazione del movimento operaio. La "voce dell'operaio" -sorta a p.282, per far notare al capitalista, non senza un certo fair-play, che la forza-lavoro è una merce che, creando valore aggiunto, va comprata a un prezzo equo e usata in un tempo di lavoro ragionevole - s'è di nuovo spenta nel corso dell'analisi delle inumane condizioni di lavoro delle fabbriche inglesi.

Praticamente, secondo Marx, è stato "nell'interesse stesso del capitale adottare una giornata lavorativa normale"(p. 328), poiché esso s'è accorto che "il prolungamento della giornata di lavoro non produce solo il deperimento della forza lavorativa dell'uomo, derubato delle sue normali condizioni fisiche e morali, di sviluppo e di realizzazione. Essa produce anche l'esaurimento e il precoce spegnersi della forza lavorativa stessa"(p. 327). Il che, per un capitalista -dice Marx-, dovrebbe essere un controsenso. E' vero che "al capitale non interessa nulla quanto duri la vita della forza lavorativa"(ib.), ma è anche vero che se questa vita dura troppo poco "si rende necessario un più celere rimpiazzamento degli operai esauriti, perciò si rendono necessari maggiori spese per l'esaurimento della forza lavorativa che si deve riprodurre"(p. 328).

In che cosa consistano queste "maggiori spese" Marx non lo dice chiaramente. Esse non stanno, in effetti, nel salario, poiché fino a quando esiste una sovrappopolazione di ex-contadini ed ex-artigiani, i salari saranno tenuti sempre bassi. Esse neppure si riferiscono alla professionalità acquisita dall'operaio nel corso dell'attività lavorativa, poiché Marx aveva già escluso in precedenza la possibilità che esistano all'interno della fabbrica operai più importanti di altri, il cui plusvalore sia decisamente superiore. Le "maggiori spese" non consistono neppure nel fatto che se la forza-lavoro muore troppo velocemente, al capitalista restano invendute le merci con le quali essa dovrebbe riprodursi: infatti le merci del capitale inglese venivano allora vendute prevalentemente all'estero. Come avrebbero potuto acquistarle coloro che avevano salari da fame?

Secondo Marx le suddette spese si riferiscono semplicemente al fatto che con uno sfruttamento eccessivo si genera "un inevitabile spopolamento"(p. 333), anche se di questo il singolo capitalista non si preoccupa affatto. Le condizioni del neonato capitalismo erano così dure che la rovina più grave era anzitutto quella dell'annientamento fisico dei lavoratori. Oggi condizioni del genere si ritrovano solo in certe zone del Terzo mondo.

In realtà, la riduzione della giornata lavorativa, oltre ad essere stata l'esito di molte battaglie sindacali, è nata anche dal fatto che i capitalisti inglesi non potevano comportarsi in Europa come i loro colleghi negli Stati americani del sud, ove gli schiavi (già al tempo degli spagnoli) potevano essere tranquillamente rimpiazzati dalle riserve africane. La cultura euroccidentale, per quanto cinica fosse, non avrebbe permesso un trattamento analogo sui propri cittadini, anche se poi, alla resa dei conti, tra lo sfruttamento del libero operaio inglese e quello dello schiavo negro afroamericano la differenza era minima.

Viceversa, per Marx l'adozione di una giornata lavorativa normale è dipesa principalmente dal fatto che la "libera concorrenza" dei capitalisti ha determinato "un intervento coercitivo dello Stato", nel senso che alla volontà dei singoli capitalisti di sfruttare ad libitum, si sono opposte "le leggi immanenti della produzione capitalistica come leggi coercitive esterne"(p. 334). Cioè a dire, quelle stesse ragioni che avevano portato il capitalista a distruggere il genere umano, per realizzare un profitto, lo hanno altresì portato a conservarlo per realizzare il medesimo profitto. A questo punto però diventa pura retorica sostenere -come fa Marx- che "lo stabilirsi della giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta di più secoli tra capitalista e operaio"(p.335).

Dalla sua analisi si può dedurre solo una motivazione alla nascita dei Factory Acts: evitare la strage dei lavoratori, o quanto meno che dalla loro degenerazione psico-fisica si abbiano delle ricadute negative sul piano del profitto economico. Una motivazione, questa, che appare chiaramente di ripiego, conseguente al fatto che i capitalisti inglesi non potevano sfruttare la manodopera salariata con la stessa libertà dei piantatori di cotone americani.

Considerare la legislazione sulle fabbriche inglesi del sec. XIX come più "democratica" rispetto agli statuti del lavoro inglesi dei secoli XIV-XVIII, semplicemente perché qui si cercava di "prolungare" la giornata lavorativa, mentre là di cerca di "abbreviarla", significa non avere un elevato senso di storicità (cioè di obiettività) delle cose.

Nei secoli XIV-XV avvenne in Inghilterra, a causa della nascita dei rapporti mercantili-monetari, il tentativo da parte del ceto feudale e imprenditoriale di costringere i contadini e gli operai salariati a produrre più corvées o ad accettare bassi salari. Cioè la coercizione extra-economica era dettata da fattori esogeni, che non dipendevano dall'economia feudale in sé, per quanto proprio le contraddizioni del servaggio inducessero molti a cercare delle alternative nei commerci e nell'attività imprenditoriale a scopo di lucro.

Viceversa, nel secolo di Marx il capitalismo è stato costretto a diminuire il tempo della giornata di lavoro a causa degli squilibri ch'esso stesso aveva provocato, e non perché da qualche altra parte esisteva un modo di produzione alternativo che con tutti i mezzi cercava di farsi strada.

"Occorrono dei secoli -dice Marx-, affinché il "libero" lavoratore, in seguito allo sviluppo del modo di produzione capitalistico, si adatti di propria volontà, cioè affinché sia socialmente costretto a vendere per il prezzo dei suoi normali mezzi di sussistenza tutto il periodo attivo della propria vita..."(p. 335). Ciò è vero, ma è singolare che qui Marx faccia coincidere la necessità sociale di vendere sul mercato la propria forza-lavoro con la libera volontà di farlo. E' forse mai esistito un momento, nella storia del capitalismo, in cui la forza-lavoro si sia venduta sul mercato soddisfatta di sé, cioè nella consapevolezza che in tal modo essa avrebbe sicuramente e definitivamente superato i limiti del modo di produzione pre-capitalistico? Limitandosi ad osservare la resistenza degli operai al capitalismo, Marx non è mai riuscito ad accorgersi di quella del mondo contadino.

"Non appena la classe operaia, frastornata dal fracasso della produzione, cominciò in qualche maniera a riaversi, dette inizio alla sua resistenza..."(pp. 346-7). "Frastornata dal fracasso della produzione"? In realtà il contadino era diventato operaio dopo che per secoli aveva disperatamente lottato contro il capitale. Sì, era "frastornato", ma per essere uscito pesantemente sconfitto da quella guerra. Sconfitta dovuta -qui ha ragione Marx- al proprio "isolamento": "il lavoratore isolato, il lavoratore quale "libero" venditore della propria forza lavorativa, soccombe irrimediabilmente quando la produzione capitalistica è giunta a un certo livello di maturità"(p.375). Solo che tale "isolamento" -e questo Marx non l'avrebbe mai ammesso- non era affatto una caratteristica della società agricola, ma una conseguenza del capitalismo (nelle campagne).

Il fatto che, dopo essersi "riavuto", il contadino, in qualità di "operaio", abbia ricominciato a lottare contro il capitale, esigendo almeno una giornata lavorativa normale, ci aiuta senz'altro a capire lo scarso livello di consapevolezza politica del "mondo" che aveva lasciato, ma non ci autorizza a pensare che non vi fu alcuna forma di "resistenza" prima del lavoro in fabbrica. Non foss'altro perché proprio questo tipo di rivendicazione viene considerata, dallo stesso Marx, come il primo esempio di lotta operaia contro il capitale.

Ciò che più stupisce però è che Marx, dopo aver fatto un elenco incredibile di casi in cui il capitalismo mostra tutta la propria disumanità, considera l'adozione di una giornata lavorativa normale (il Bill delle 10 ore del movimento cartista) come una misura convincente per la risoluzione del problema dello sfruttamento capitalistico, quando tale riduzione -a detta dello stesso Marx- tornava utile proprio al capitalismo! Marx qui sembra farsi portavoce non degli interessi del proletariato, ma della borghesia imprenditoriale più progressista o più illuminata, la cui "scienza economica" aveva superato i limiti individualistici dell'economia politica classica (che portavano alla figura del "capitalista-vampiro").

Quale borghesia, infatti, non ha accettato il Bill delle 10 ore? Quella più ottusa e rapace, quella che si è difesa riducendo i salari del 10%, ripristinando il lavoro notturno, eliminando gli intervalli legali per i pasti ecc., quella che ha provocato la disfatta del partito cartista, mettendo al bando la classe operaia: in sostanza quella stessa borghesia che alla fine ha dovuto adattarsi all'inevitabile, mettendosi "l'animo in pace"(p.371).

La prima edizione del Capitale è stata scritta nel 1867. Marx può qui costatare che dopo il 1860 "la forza di resistenza del capitale s'andava gradualmente indebolendo, mentre allo stesso tempo la forza d'urto della classe operaia s'ingrandiva col numero degli alleati che s'era procurata negli strati della società che non erano interessati direttamente"(p. 371). E così "si verificò un progresso relativamente rapido"(ib.).



Senza saperlo, Marx stava assistendo al passaggio del capitalismo dalla fase concorrenziale a quella monopolistica e imperialistica. Purtroppo egli non s'era reso conto come al miglioramento delle condizioni lavorative degli operai inglesi, dopo il 1860, avesse fatto seguito il netto peggioramento delle condizioni lavorative del sottoproletariato delle colonie inglesi. A suo parere, il progresso era avvenuto perché il capitale aveva accettato i propri limiti, permettendo alla lotta di classe di conseguire i suoi obiettivi. Infatti, anche se negli Stati Uniti il movimento operaio stava già lottando per una giornata lavorativa di 8 ore, il problema di far passare una posizione di principio il proletariato europeo l'aveva risolto: "è impossibile riuscire a compiere ulteriori avanzamenti verso la riforma della società, se dapprima non viene limitata la giornata lavorativa e non viene imposta obbligatoriamente l'osservanza della limitazione stabilita"(parole dell'ispettore di fabbrica inglese, R.J. Saunders, fatte proprie da Marx, p. 379).

In sé la considerazione era giusta. Il guaio però è che l'analisi di Marx, in questo capitolo, si ferma qui, lasciando così credere che la transizione al socialismo potesse avvenire in maniera graduale, di riforma in riforma. Con ciò, in sostanza, non si riesce a intravedere la consapevolezza che le riforme solo utili solo se aiutano gli operai ad acquisire quella maturità politica sufficiente a capire che una riforma senza rivoluzione non fa che perpetuare, razionalizzandola, la loro condizione di schiavitù salariata.


Marx conclude la III sezione, dedicata al plusvalore assoluto, sintetizzando nel cap. IX i risultati fin qui raggiunti. L'argomento in questione è il saggio e la massa del plusvalore. La determinazione del saggio del plusvalore, partendo dal valore costante della forza-lavoro, nonché dalla grandezza costante della giornata lavorativa, appare, nell'analisi di Marx, come un'operazione matematica relativamente facile, ed in effetti lo è, se si considera la forza-lavoro e la giornata lavorativa in una maniera astratta.

In realtà, né l'una né l'altra sono costanti, ma sempre soggette a un movimento reciprocamente opposto. Il capitalismo è come un letto di Procuste che incessantemente cerca di diminuire il valore della forza-lavoro e di allungare il tempo di lavoro per estorcere plusvalore. In tal senso, stabilire con gli strumenti della matematica un saggio regolare del plusvalore è quanto di più inutile si possa fare. Il calcolo razionale, economico, può avere una qualche ragione scientifica solo in un contesto sociale ove la produzione sia tenuta sotto controllo dagli stessi produttori e consumatori.

Anche nei confronti della massa del plusvalore, Marx è costretto a ipotizzare un valore medio della forza-lavoro, ovvero un operaio medio, che nella realtà non esiste. Si può parlare di "valore medio" in riferimento a una singola unità produttiva, ove gli operai fanno cose equivalenti. Ma appena ci si allontana dalle mansioni prevalentemente manuali e ci si avvicina a quelle intellettuali, ecco che il concetto di "valore medio" perde di ogni significato, e non solo mettendo a confronto le due diverse mansioni, ma anche all'interno della mansione intellettuale, ove la possibilità, per un tecnico, di distinguersi da un collega è assai maggiore di quella che può avere un operaio nei riguardi di altri operai. Persino tra quest'ultimi la possibilità di distinguersi è strettamente correlata all'applicazione di un ragionamento logico-funzionale a mansioni standardizzate, cioè ripetitive, al fine di modificarle in maniera creativa. La possibilità di modificare il valore delle cose, trasformandolo, è prerogativa della forza-lavoro appunto in questo senso, che è poi quello che frena il desiderio del capitalista di sostituire in toto l'operaio con la macchina.

Ciò ovviamente non significa ch'esiste la possibilità, nell'ambito del capitalismo, di pagare l'operaio o il tecnico per il plusvalore che produce. La forza del capitalismo sta proprio nella capacità che ha di estorcere un plusvalore maggiore sfruttando le doti intellettuali dei lavoratori.

Dunque è impossibile determinare il saggio medio del plusvalore nel lungo periodo. Non solo per le ragioni viste sopra, ma anche perché, sotto il capitalismo, nessun imprenditore può mai controllare al 100% le condizioni del mercato. Un capitalista avrebbe tutto l'interesse ad avere valori costanti che gli permettessero di realizzare un determinato profitto costantemente, ma siccome sa quanto ciò sia relativo, egli preferisce, anche in regime di monopolio, fidarsi dei risultati immediati, per i quali l'uso di ogni mezzo gli pare giustificato. Temendo l'incostanza del plusvalore, egli cerca di estorcerne, nel breve periodo, quanto più possibile.

Con la sua analisi economica, Marx ha offerto al capitalista l'illusione di poter razionalizzare il processo produttivo, evitando sprechi e investimenti sbagliati. Ma in tal modo egli non ha fatto che insegnare ai capitalisti come sfruttare al meglio gli operai. A forza di parlare dei "limiti tecnici" della produzione capitalistica, egli ha finito col proporre delle soluzioni che gli stessi capitalisti non potevano trovare che alquanto vantaggiose.

In tal senso, le tre leggi ch'egli delinea nel cap. IX, e che qui non val neppure la pena di esaminare, relativamente ai rapporti tra saggio e massa del plusvalore, numero degli operai e grandezza della giornata lavorativa, fanno certo più "comodo" al capitalista che all'operaio. Quale operaio, infatti, potrà esultare sapendo che "la offerta di lavoro che il capitale può estorcere diviene indipendente dalla offerta di operai"(p. 384)? Quale operaio potrà mai consolarsi sapendo che tale estorsione non può avvenire oltre "certi limiti"? Non si fa forse un favore al capitalista spiegandogli nel dettaglio il modo in cui può ovviare al peso di questi "limiti"? Non è singolare che sia stato proprio Marx a mostrare ai capitalisti come per ottenere maggiore plusvalore bisogna puntare di più sul capitale variabile e meno su quello costante?

All'operaio, in sostanza, non resta che prendere atto di un'amara verità: "non è più l'operaio che adopera i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione che adoperano l'operaio. Piuttosto che essere consumati da lui come elementi materiali della sua attività produttiva, essi consumano lui come fermento del loro processo vitale, e il processo vitale del capitale non è altro che il suo movimento di valore che valorizza se stesso"(p. 392).

A questo punto, come non rimpiangere quell'epoca in cui "le corporazioni medievali cercavano d'impedire con la forza la trasformazione del maestro artigiano in capitalista, limitando a un massimo assai ristretto il numero dei lavoratori che il singolo maestro aveva il diritto di occupare"(p. 390)?

Qui però Marx ha ragione: piuttosto che un capitalismo "strozzato" è meglio un capitalismo "libero", anche perché il primo sarebbe destinato con certezza ad essere superato dal secondo. Il fatto è che Marx, ogni volta che mette a confronto capitalismo e feudalesimo, riporta sempre degli esempi a favore del capitalismo. Questo accade perché egli intende riferirsi sempre al "basso Medioevo", allorché le pressioni del capitalismo commerciale erano già così forti da indurre, ad es., le autorità corporative a reagire con la forza. Marx non vede in tale "reazione" il tentativo di salvare un ideale, ma il tentativo di comprimere la libertà.

Marx non ha mai analizzato il momento di passaggio dall'alto al basso Medioevo, cioè la transizione dall'economia di autoconsumo alla lotta di tale economia contro quella basata sullo scambio. Non a caso egli considera la nascita del capitalismo come una semplice conseguenza della possibilità, da parte del possessore di denaro o di merci, di anticipare una somma minima per la produzione, che superasse di molto il massimo medievale consentito. E qui Marx si avvale della legge hegeliana, secondo cui "variazioni meramente quantitative, giunte ad un certo grado, si riducono a differenze qualitative"(p. 390). Legge che, in ultima istanza, rifiuta di prendere in considerazione proprio il valore della libertà.

Esiste forse qualche legge cieca della storia "che obbliga la classe operaia ad effettuare un lavoro maggiore di quello che richiede la ristretta cerchia dei suoi bisogni essenziali"(p. 392)? Marx ovviamente risponderebbe di no, ma perché allora considerare "ristretti" i "bisogni essenziali"? Forse grazie al fatto che il capitalismo "supera in energia, smodatezza ed efficacia tutti i precedenti sistemi di produzione basandosi sul diretto lavoro forzato"(ib.), i suddetti bisogni si sono fatti meno "ristretti"?

TRE FASI NELLO SVILUPPO DELLA PRODUZIONE CAPITALISTICA

Analizzando la produzione del plusvalore relativo, Marx delineò le tre fasi storiche fondamentali che hanno caratterizzato l'aumento della produttività del lavoro nel capitalismo e che quindi hanno portato all'aumento del plusvalore relativo: 1) cooperazione semplice, 2) manifattura, 3) macchine e grande industria.

1) La produzione capitalistica ha inizio nel momento in cui un solo capitalista occupa contemporaneamente, secondo un piano, più operai che fanno lavori simili, in uno stesso processo produttivo o in processi differenti ma connessi. è la cooperazione semplice.

Questa forma di cooperazione del lavoro era conosciuta anche nelle società schiavistica e feudale. La differenza -dice Marx- stava, per il contenuto materiale, nelle dimensioni. Nel senso cioè che il grande volume di capitali impiegati permetteva di assumere nello stesso tempo un'ingente massa di forza-lavoro, di concentrare fortemente i mezzi produttivi e di realizzare un notevole volume di produzione.

Mentre, per quanto riguarda il contenuto socioeconomico, la differenza stava nel ricorso alla manodopera salariata: il che presuppone la libertà giuridica del lavoratore.

La cooperazione da un lato si basa sulla divisione del lavoro, dall'altro essa ne accentua le forme. Infatti il lavoro individuale di ogni operaio diventa una frazione minima del lavoro complessivo: è appunto così che il lavoro, divenendo sociale, aumenta la propria produttività. L'aumento dipende anche dal fatto che tra operai salariati si sviluppa l'emulazione, la competizione.

Altri vantaggi della cooperazione (che, sotto il capitalismo, riguardano anzitutto l'imprenditore privato) sono: si risparmia sui mezzi produttivi impiegati in modo congiunto; si riduce il tempo di lavoro necessario per produrre una merce; si abbassa il valore della forza-lavoro, poiché il tempo dell'apprendistato è minimo.

La cooperazione del lavoro è esistita anche nel comunismo primitivo, ma qui i mezzi produttivi appartenevano a tutti i lavoratori, per cui la cooperazione era libera e i suoi frutti erano equamente divisi.

Marx non indica un periodo preciso in cui si svolge la cooperazione semplice capitalistica, perché, se l'avesse fatto, sarebbe stato facilmente contestato sul piano dell'analisi storica. Egli infatti contrappone tale cooperazione al lavoro isolato, individualistico, dell'artigiano, che in realtà non è mai esistito, essendo esso piuttosto il frutto di una società già fondamentalmente "borghese".

Nel Basso Medioevo l'artigiano poteva anche essere relativamente isolato sul piano economico, in quanto, al massimo, egli poteva disporre di apprendisti e garzoni ma certo non di un'officina di grandi dimensioni. Tuttavia questo isolamento era il frutto di una "decisione comune", che serviva per impedire la concorrenza sleale e la formazione dei monopoli.

L'artigiano medievale viveva il senso del collettivo sia in maniera professionale (oggi diremmo "sindacale"), attraverso le corporazioni di arti e mestieri, sia in maniera politica, partecipando attivamente alla vita della città, sia in maniera sociale, tenendosi costantemente in contatto con l'ambiente rurale. La corporazione difendeva l'artigiano persino sul piano militare.

Parlando della cooperazione semplice, Marx ha tralasciato quella della manifattura sparsa, cioè del lavoro a domicilio che vari artigiani svolgevano su commissione di un commerciante che dava loro la materia prima ed acquistava il prodotto finito.

2) Diversamente dalla semplice cooperazione, la manifattura può essere datata in modo preciso, perché essa ha riguardato contemporaneamente molti Paesi euroccidentali: dalla metà circa del XVI sec. alla seconda metà del XVIII.

Con questo termine s'intende una cooperazione capitalistica in un'officina di lavoratori di diverse specialità, legati da operazioni consecutive, nel fare un prodotto relativamente complesso, ma s'intende anche la cooperazione in un'officina di artigiani della stessa specialità le cui operazioni vengono suddivise fra diversi lavoratori.

L'operaio si specializza in un'operazione definita, particolare, e si trasforma così in operaio parziale, impossibilitato a produrre in modo autonomo una merce, ma capace di affinare le proprie abilità.

La differenza dalla cooperazione semplice sta nel fatto che ora gli strumenti di lavoro sono differenziati e perfezionati: il che permette una diminuzione di tempo nel passaggio da un'operazione all'altra. L'operaio però s'impoverisce intellettualmente, perché svolge mansioni noiose e ripetitive, si affatica di più.

Compaiono i primi elementi tecnico-scientifici della produzione meccanizzata. Gli artigiani vanno in rovina, anche se non completamente, almeno fino a quando la produzione non sarà del tutto meccanizzata.

In questo senso si potrebbe dire che il vero capitalismo, quello che rende irreversibile il modo di produzione capitalistico (se non interviene un fattore politico contrario), è solo quello manifatturiero, cioè quello che costringe definitivamente il lavoratore autonomo ad abbandonare i suoi mezzi produttivi per diventare operaio salariato all'interno di una fabbrica (qui s'intende la manifattura centralizzata, non quella sparsa, che è esistita anche in Italia). Finché non esiste questa forma di capitalismo, il futuro del capitalismo non è economicamente assicurato.

Lo dimostra quanto è accaduto in Italia dopo il '500. Il paese più ricco del mondo, sul piano del capitalismo commerciale, è diventato, di fronte al capitalismo manifatturiero di altre nazioni europee, il più povero, a testimonianza che la semplice emancipazione dei servi della gleba non è una garanzia sufficiente per il successo del capitalismo: occorre anche che il lavoratore indipendente venga rovinato dalla concorrenza dei prodotti industriali e costretto a trasformarsi in salariato.

Nessuno può contestare il fatto che dopo lo sviluppo della manifattura mai alcun Paese è tornato "indietro", neanche quelli che con le due guerre mondiali subirono delle spaventose devastazioni. Naturalmente non ci si può dimenticare di sottolineare che lo sviluppo della manifattura è andato di pari passo con quello della tecnologia. Il capitalismo ha potuto definitivamente vincere il feudalesimo solo perché seppe concentrare i suoi massimi sforzi nella realizzazione di potenti macchinari, il cui uso permetteva una produzione estremamente vantaggiosa.

I Paesi est-europei che passarono dal capitalismo al socialismo, pur avendo a che fare immediatamente con la fase del capitalismo industriale avanzato, riuscirono a liberarsene perché non avevano sperimentato per secoli la fase del capitalismo commerciale e manifatturiero. La resistenza morale e materiale del feudalesimo era stata troppo forte.

Inoltre essi, superando politicamente il capitalismo industriale, lo fecero coll'intenzione di andare "avanti", verso una società che avrebbe utilizzato la scienza e la tecnica occidentali, i capitali e i macchinari a vantaggio dell'intera collettività. Nessuno dei Paesi est-europei pensò di restare "feudale", anche perché la stessa formazione del capitalismo, in questi Paesi, era di per sé un segno che il feudalesimo, come sistema sociale, aveva esaurito il proprio ruolo storico.

Oggi tuttavia ci si è resi conto, in questi Paesi, che la costruzione del socialismo non può assolutamente avvenire utilizzando le forme del capitalismo seppur svuotate del loro contenuto antagonistico (ciò che d'altra parte il Capitale suggeriva di fare). Ad es. il primato concesso all'industria (specie a quella pesante) ha portato tutte le società socialiste al fallimento. (La Cina ha saputo evitare questo rischio, ma solo perché, con il maoismo, aveva imposto il primato dell'agricoltura. Oggi l'illusione cinese, dopo il fallimento del maoismo, è quella di poter controllare politicamente uno sviluppo economico che in parte si vuole capitalistico. Ancora una volta l'obiettivo del socialismo democratico, in politica e in economia, resta lontano).

In Occidente il crollo del capitalismo non è avvenuto perché il colonialismo e il neocolonialismo hanno saputo scongiurarlo, ma è solo questione di tempo. La minaccia del crollo del capitalismo occidentale sarà tanto più forte quanto più forte sarà l'emancipazione economica dei Paesi del Terzo Mondo.

Un socialismo veramente democratico non può non impegnarsi attivamente per l'affermazione dell'agricoltura, per l'autogestione della produzione e per l'unificazione di città e campagna.


Se si guarda lo sviluppo del capitalismo, pensando, con soddisfazione, che in virtù delle contraddizioni scaturite da tale sviluppo, è potuto nascere il socialismo, si farà sempre un grave torto alle formazioni pre-capitalistiche, e soprattutto non ci si potrà mai mettere nella condizione giusta per poter capire il movimento storico della libertà umana, la quale, se vogliamo, non è mai stata e non potrà mai essere destinata -come vuole il marxismo- da una spontanea e naturale "necessità storico-materialistica" a scegliere un'alternativa piuttosto che un'altra. Così facendo il marxismo è ricaduto nella metafisica che diceva di combattere.

Non si può giustificare la nascita del capitalismo col dire che la produzione di tipo artigianale del mondo feudale era di molto inferiore e che lo sviluppo tecnico si era ad un certo punto bloccato. I criteri per cui sia legittimo parlare di "sviluppo" non possono essere unicamente quelli "economici", in quanto non è per nulla scontato che uno sviluppo della produzione comporti anche un maggior benessere sociale, una migliore democrazia politica, una più sentita convivenza civile. L'economico va subordinato alla dimensione del "sociale".

Il socialismo non si è mai nascosto i limiti dello sviluppo capitalistico, ovvero il fatto che le contraddizioni antagonistiche avrebbero prima o poi portato il capitalismo al suo superamento, ma tale costatazione, censurando l'apporto contestativo delle civiltà pre-capitalistiche nei confronti della società borghese, restò di fatto viziata da un pregiudizio di fondo, quello secondo cui l'anticapitalismo può essere condotto solo da quelle forze sociali che si sono completamente emancipate dalla cultura religiosa.

Nel criticare il capitalismo, il socialismo marxista non ha mai cercato di capire e di apprezzare positivamente, tra le ragioni dell'anticapitalismo feudale, quelle che meritavano di confluire nell'alternativa socialista, senza per questo rischiare d'essere fagocitate o strumentalizzate. Se il socialismo avesse compreso le ragioni dei contadini, da tempo in Europa occidentale il capitalismo sarebbe stato superato.

Naturalmente sarebbe altrettanto sciocco sostenere che lo sviluppo produttivo non deve esserci, se si vuole conservare l'uguaglianza sociale. L'uno e l'altra non sono di per sé antitetiche, anche se la storia ha dimostrato che là dove esiste un forte sviluppo produttivo esiste anche oppressione e ingiustizia.

E' probabile (ed è forse una legge di natura) che la tutela dell'uguaglianza sociale comporti una limitazione dell'espressione individuale, nel senso che laddove vige il collettivismo, anche libero, le possibilità individuali di manifestare il proprio talento sono relativamente minori, proprio perché si deve anzitutto tener conto degli interessi collettivi. D'altra parte l'identità di un individuo può essere colta solo nell'ambito di un collettivo.

L'ideale naturalmente sarebbe che l'espressione dell'individuo fosse in sintonia con quella di tutto il collettivo, che cioè le esigenze dell'uno non debbano essere scavalcate dalle esigenze dell'altro. Ma resta comunque molto difficile garantire un'intesa del genere quando la produttività è elevata.

Resta comunque indubbio il fatto che in Europa occidentale si è definitivamente persa l'occasione di recuperare la memoria del pre-capitalismo. Ora non ci resta che sviluppare il desiderio di una transizione al socialismo, che sappia tener conto del pre-capitalismo ancora presente nei Paesi del Terzo Mondo.


La merce può essere il presupposto della genesi del capitalismo solo se la società in cui si produce il valore d'uso ha già attribuito al valore di scambio un'importanza maggiore di quella che dovrebbe avere, cioè se ha permesso che nel mondo agricolo le contraddizioni socio-economiche si acuissero, offrendo così al mercante -che s'introduce come un cuneo tra quelle contraddizioni- la possibilità di un'autonomia prima impensabile.

Non chiarendo che il capitale può nascere dalla merce in virtù di ragioni culturali (quanto consapevoli è difficile stabilirlo), Marx fa risalire la genesi del capitalismo a fattori naturali del tutto spontanei.

Marx in sostanza non ha delineato lo sviluppo storico del capitale ma solo quello fenomenologico, perché quello storico implica le varianti possibili della libertà umana. Quello fenomenologico invece dà per scontata l'evoluzione del processo, e attribuisce al soggetto un'importanza marginale. Marx è stato grande come economista e come filosofo dell'economia, ma uno storico dell'economia deve saper tener conto del "se ipotetico", cioè del come sarebbero potute andare a finire le cose se gli uomini avessero scelto una diversa strada.

Per Marx, in sostanza, la differenza tra capitalismo e pre-capitalismo sta unicamente nel fatto che qui la merce è un prodotto "parziale", accanto al valore d'uso, che è dominante, mentre là è il prodotto principale, necessario, a cui il valore d'uso dipende completamente. La differenza è quantitativa, anche se ciò comporta, a lungo andare, una diversa qualità della vita.

Ora, nessuno mette in dubbio che merce e denaro siano i presupposti del capitale, né il fatto che essi, di per sé, non possano presupporre il capitalismo, in quanto merce e denaro si trovano anche in forme sociali pre-borghesi. Qui però si mette in dubbio che il passaggio dalla merce e dal denaro al capitalismo (come modo produttivo) possa avvenire in maniera spontanea e naturale, come una logica conseguenza delle cose.

Marx è chiaro nell'affermare che il capitalismo non potrebbe sussistere se l'operaio non fosse costretto a vendere la propria forza-lavoro come merce. Ma non è altrettanto chiaro quando delinea il passaggio dal contadino soggetto al servaggio o dall'artigiano soggetto a un perenne apprendistato alla figura sociale dell'operaio salariato.

Si può pensare a un'evoluzione spontanea dallo schiavismo al servaggio, benché tale evoluzione potesse avvenire -e di fatto è avvenuta- solo in un periodo di crisi (in cui il mercato degli schiavi s'era ristretto), e benché il servaggio abbia caratterizzato la fine del mondo antico e l'inizio del feudalesimo. In fondo tra lo schiavo e il servo della gleba è esistito il colono.

In ogni caso non ci poteva essere pacifica evoluzione dal feudalesimo al capitalismo: il passaggio implicava una rottura traumatica col passato comunitario, per quanto esso fosse caratterizzato dal servaggio. Se si accetta l'idea della pacifica evoluzione, allora si dovrebbe spiegare perché il capitalismo non si è evoluto dallo schiavismo, ovvero perché il capitalismo ha potuto evolversi dallo schiavismo solo nel Terzo Mondo, a partire dal 1492.

Il capitalismo in realtà s'è formato, e non a caso, solo dopo il feudalesimo, perché tra schiavismo e feudalesimo s'era posto un nuovo elemento, che prima non esisteva: il cristianesimo. Solo in virtù del cristianesimo si poteva ripristinare in forme diverse l'antica schiavitù (e queste forme sono state tanto più diverse quanto più il cristianesimo, pur tradendo le sue origini, se n'era allontanato di meno).

Solo illudendo il cittadino sul valore della sua libertà personale (giuridica e filosofica: si veda il cogito cartesiano), lo si poteva indurre ad accettare la schiavitù sociale salariata. Senza questo esplicito riferimento alla libertà personale (di cui il cristianesimo, pur con tutti i suoi tradimenti, è stato un grande cultore), non ci poteva essere la grande mistificazione del capitalismo. Ovviamente se ciò in Occidente è potuto accadere, il motivo risiede nel fatto che il cattolicesimo-romano aveva subìto un'involuzione molto profonda, più profonda di quella dell'ortodossia, ma non così profonda da accettare la sua morte naturale nel protestantesimo.

Marx non ha mai offerto spiegazioni convincenti sul motivo per cui il capitalismo non è nato in epoca romana. Infatti, se il denaro a un certo punto deve trasformarsi in capitale, perché ciò non è avvenuto nel mondo antico? Per quale ragione in questo mondo si accumulava per spendere, mentre nel capitalismo si accumula per accumulare? Perché nel capitalismo appare come segno di potenza e di libertà ciò che nel mondo antico sarebbe apparso come segno di follia?

Insomma, per quale motivo il mondo antico non ha potuto far nascere il capitalismo dalla schiavitù, cioè non ha potuto concedere allo schiavo la libertà personale trasformandolo in operaio salariato? Non stava forse accadendo questo nel momento in cui l'impero entrò in crisi?

Cosa ha impedito di continuare l'esperimento del colonato? Forse l'intervento dei barbari? Ma non poteva proprio il colonato rendere più forte l'impero?

Il fatto è che senza il cristianesimo non si può creare l'illusione della libertà. Il capitalismo è nato in virtù di una mistificazione: quella per cui si può essere liberi anche se non si possiede nulla. Questa mistificazione sarebbe stata impensabile nel mondo pagano.

Per Marx invece il passaggio dallo schiavismo al capitalismo non è potuto avvenire a causa di semplici determinazioni quantitative. Infatti, per realizzare il capitalismo occorrono grandi capitali, ingenti mezzi produttivi, un certo numero di operai salariati ecc.

Una delle caratteristiche più singolari del feudalesimo, che avrebbe meritato ben altra considerazione, fu che la piccola proprietà contadina poteva coesistere più o meno tranquillamente accanto alla grande azienda signorile basata sulle corvées dei servi della gleba. Questa coesistenza diventa tanto più difficile (ovviamente per la piccola proprietà) quanto più il signore feudale, pressato dalle esigenze borghesi che vanno emergendo, ha bisogno di ampliare i propri domini o di ristrutturarli in senso capitalistico. Il capitalismo infatti non può affermarsi finché non è stato completamente distrutta l'economia agricola del Medioevo. In seguito, a capitalismo realizzato, la piccola proprietà viene costantemente minacciata dalla grande.

Se vogliamo, la grande proprietà capitalistica è stata una risposta efficace, seppur negativa, al persistere delle contraddizioni antagonistiche nell'economia feudale. Invece di risolvere quelle contraddizioni in modo politico e sociale, la borghesia ha cercato di superarle in modo economico e individuale.

La nascita della borghesia è stata una conseguenza dell'incapacità del contadino di liberarsi dal giogo del servaggio. La borghesia cercò sul terreno economico-individuale quella emancipazione che, quand'era "contadina", non era riuscita ad ottenere, nella vita rurale, sul piano socio-politico.

Perché non s'è formata la borghesia nell'Europa dell'est? 1) Perché qui l'antagonismo nel sistema feudale era meno forte (nello stesso periodo); 2) perché qui il cristianesimo aveva conservato un'idealità maggiore, per cui avrebbe tollerato di meno la nascita di rapporti borghesi. Il fatto che il capitalismo non sia nato nell'Europa dell'est sta appunto ad indicare la sua anomalia storica e nient'affatto la sua necessità.


Il marxismo ha addebitato ai mutamenti tecnologici la causa prima della genesi del capitalismo. In tal modo però esso non ha spiegato: 1) il motivo per cui avvengono "forti" mutamenti tecnologici (a differenza di molte civiltà, in cui ciò non avviene), ovvero il legame fra tali mutamenti e l'ideologia ad essi sottesa; 2) il motivo per cui da tali mutamenti si passa a una transizione così "radicale", ovvero il motivo per cui si cambia ideologia.

Se si considera che, per certi versi, il mondo antico, rispetto a quello feudale, aveva conosciuto una tecnologia più sofisticata, non si spiega il motivo per cui non sia nato il capitalismo in epoca romana o greca.


Un'altra domanda a cui il marxismo non ha saputo dare una risposta convincente è questa: perché lo sviluppo della borghesia s'è verificato anzitutto in Italia? Risposte del marxismo: 1) perché qui le città romane non vennero completamente distrutte dai barbari, o almeno non lo furono come negli altri Paesi europei; 2) perché l'Italia godeva di un'ottima posizione geografica per i commerci con l'Oriente e il Nordafrica.

Ora, queste due risposte non possono essere sufficienti a spiegare l'incredibile ritardo commerciale degli altri Paesi europei, né il fatto che questi Paesi divennero commerciali grazie soprattutto allo sviluppo del Protestantesimo, e neppure il fatto che la Spagna cattolica -situata anch'essa nel Mediterraneo- non abbia mai conosciuto (neppure dopo il 1492) un vero sviluppo capitalistico.

La risposta quindi dev'essere un'altra. Ed è questa: in Italia, negli ultimi tre secoli del Basso Medioevo, s'è verificata la progressiva separazione dei cattolici dagli ortodossi (sanzionata definitivamente nel 1054). Ciò è stato determinato da un'involuzione etico-ideale del cattolicesimo e, in seguito, tale involuzione s'è approfondita. La chiesa romana, inevitabilmente, ha dovuto concedere più spazio alle forze sociali borghesi. Quando poi queste forze, con lo sviluppo comunale, pretesero maggiori poteri, la chiesa istituzionale intervenne con la Riforma gregoriana, che è stata appunto il tentativo di recuperare "politicamente" un potere "morale" perduto.

Ormai tuttavia era tardi: la chiesa non riuscirà, sino al Rinascimento incluso, a impedire lo sviluppo borghese dell'Italia. Vi riuscirà solo con l'aiuto di una forza esterna: la Spagna, che non aveva mai conosciuto alcuno sviluppo borghese.

L'Italia dunque aveva sostenuto il peso maggiore della rottura col mondo bizantino, era cioè stata la principale protagonista dell'affermazione della cattolicità occidentale, ma i frutti di questa rottura alla fine li ottennero altri Paesi, quelli nord-europei, cioè quelli più lontani dalle tradizioni bizantine.

LA COOPERAZIONE

La prevalenza che Marx ha sempre concesso alla quantità rispetto alla qualità (seguendo, in ciò, la lezione hegeliana) la si può riscontrare anche nel cap. XI, dedicato alla Cooperazione. Per Marx "il punto di partenza della produzione capitalistica è costituito, sotto l'aspetto storico e concettuale, dall'operare di un numero abbastanza elevato di operai che avviene nello stesso tempo e nel medesimo luogo (o, se si vuole, nel medesimo campo di lavoro), volto a produrre, sotto il comando di un medesimo capitalista, uno stesso genere di merci"(p. 407), su scala quantitativamente molto elevata.

Questo modo di spiegare la genesi del capitalismo può aver valore sul piano fenomenologico, ma non su quello ontologico. Come spiegazione storica e concettuale, essa resta senza dubbio insufficiente.

Dire che "all'inizio la differenza [tra capitalismo e corporazioni medievali] è meramente quantitativa"(ib.), è come dire, implicitamente, che tra corporazione e capitalismo non vi è mai stata una vera rottura socio-economica, ma solo il passaggio obbligato da una formazione meno produttiva a una più produttiva.

Difficilmente Marx avrebbe ammesso che pur in presenza delle suddette condizioni "formali" per il sorgere del capitalismo, la corporazione avrebbe potuto continuare a restare corporazione per secoli e secoli. Difficilmente egli avrebbe ammesso che quelle condizioni non sussistevano nelle corporazioni artigiane appunto perché la ragione culturale che supportava la corporazione era di tipo pre-capitalistico, cioè "voluta" e non "casuale".

La fabbrica capitalistica non è nata semplicemente perché "l'officina del mastro non ha fatto che ingrandirsi"(ib.): anche là dove ciò fosse avvenuto, avrebbe dovuto per forza maturare, ad un certo punto, la consapevolezza che si stava costruendo qualcosa di radicalmente diverso dal tradizionale modo di produzione. La transizione dal feudalesimo al capitalismo è stata anzitutto il frutto di una libera scelta, più o meno consapevole, o comunque non più obbligata in un senso di quanto non lo fosse in un altro. La necessità storica dell'affermazione del capitalismo è stata, se vogliamo, una diretta conseguenza del fallimento di una possibile alternativa democratica alla crisi del sistema feudale.

L'esigenza del capitalista di riunire in un medesimo campo di lavoro il maggior numero possibile di operai, riflette, già di per sé, l'esigenza di dare più peso alla quantità di ciò che si produce che non alla qualità di come lo si produce: il che implica l'assegnazione di un primato al valore di scambio rispetto a quello d'uso. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale.

L'interesse per il lavoro sociale medio, nell'ambito del capitalismo, implica la fine del lavoro creativo, di qualità, del singolo artigiano o dell'équipe di artigiani attorno a un medesimo manufatto, e la nascita del lavoro meccanizzato, di quantità.

Anche nel Medioevo c'era l'esigenza di determinare il lavoro sociale medio: infatti si parlava di "giusto prezzo". Solo che tale esigenza non era finalizzata alla determinazione matematica del profitto. Il "giusto prezzo" era una garanzia soprattutto per il consumatore: una garanzia di tipo etico-giuridico, per quanto proprio la necessità di stabilire un "giusto prezzo" riflettesse, indirettamente, un abuso economico da parte dei produttori.

Al di fuori di tale esigenza, la determinazione di una giornata lavorativa sociale media, nel feudalesimo, non avrebbe mai potuto portare a un'esatta determinazione del prezzo di una merce, per la semplice ragione che, quando vige il principio della qualità del lavoro, taluni oggetti, in realtà, non hanno prezzo, e lo scambio avviene su basi che non sono strettamente economiche. Nel senso che se si pone uno scambio di equivalenti, esso non va inteso in modo matematico (o finanziario), ma etico: due oggetti possono essere equivalenti anche se il loro valore monetario è diversissimo. E' la coscienza dei contraenti che decide l'equivalenza.

La visione economicista di Marx potrebbe avere un qualche significato se si partisse dal presupposto che lo sviluppo storico non è altro che il continuo e necessario superamento di determinate condizioni negative di esistenza materiale. Ma anche in questo caso (che è già di per sé inverosimile) sarebbe tutto da dimostrare -e Marx naturalmente non lo fa- che ogni superamento, per quanto limitato sia, costituisca sempre una fase progressiva rispetto alla situazione precedente. Marx cade in un semplicismo disarmante quando fa chiaramente intendere che il capitalismo, proprio perché ha superato il feudalesimo, rappresenta la positività nei confronti della negatività. O, peggio ancora, quando lascia intendere che il socialismo rappresenta la positività nei confronti del capitalismo, proprio perché il futuro è sempre migliore del presente.

Uno dei difetti principali dell'analisi economica di Marx è quello di voler applicare al sistema feudale dei criteri interpretativi che, al massimo, sono validi solo per il sistema borghese. Quando Marx afferma, p.es., che nel feudalesimo il saggio generale del plusvalore, a causa del modo individuale di lavorare, era impossibile determinarlo all'interno delle varie botteghe del mastro artigiano, in quanto s'imponevano di continuo, e necessariamente, delle differenze tra un operaio e un altro, nel medesimo lavoro, egli, così dicendo, fa astrazione completa dal "vero feudalesimo" e si crea, su misura, una sorta di para-feudalesimo che risulti di molto inferiore al capitalismo.

Per Marx infatti la compensazione economica delle differenze individuali degli operai, si otteneva, nel feudalesimo, solo a livello dell'intera società, "non per il singolo mastro artigiano"(p.410). Questo svantaggio individuale è stato superato dall'imprenditore capitalista proprio con la sua volontà d'essere "borghese" sino in fondo, con estrema coerenza.

Marx non sospetta neanche lontanamente che la suddetta compensazione a livello dell'intera società feudale potesse avere della ricadute positive sullo stesso mastro artigiano. Cioè che l'eventualità di lavorare in perdita, in un determinato caso, non pregiudicasse di per sé un feed-back positivo sulla propria attività, in termini non strettamente o non esclusivamente economici (si pensi p.es. alla sicurezza sociale). Per Marx il mastro artigiano concepisce se stesso in antitesi alle esigenze della società - proprio come il borghese sotto il capitalismo. La differenza sta nella scelta dei mezzi con cui affermare tale contrapposizione.

Dice Marx a p.412: "l'economia nell'uso dei mezzi di produzione non proviene che dal loro consumo comune nel processo lavorativo di molte persone". Qui sta la differenza tra artigiano e capitalista.

In realtà le cose non sono così semplici, altrimenti tale economia -si può pensare- si sarebbe potuta verificare anche nel feudalesimo, senza che per questo vi fosse il pericolo di far nascere il capitalismo. Un'altra, più profonda, ragione riposa invece nella volontà di ottenere un profitto economico individuale contro l'interesse sociale della collettività.

Paradossalmente è proprio tale ragione a far sì che l'uso "comune" dei mezzi lavorativi sia "sociale" solo in apparenza, essendo esso, di fatto, costrittivo per la totalità dei lavoratori. Mentre, all'opposto, il carattere "individuale" del lavoro feudale -sostenuto da Marx- è in realtà solo presunto, in quanto la maggioranza dei lavoratori, pur soggetta alle regole del servaggio, vive un relativo senso della collettività, conformemente anche all'ideologia religiosa di tipo cattolico e soprattutto di tipo ortodosso.

Fa specie che un attento economista come Marx non si sia accorto dell'esistenza di una forte socializzazione del lavoro anche nell'ambito del feudalesimo. E' singolare ch'egli non sia arrivato alla conclusione che se nel Medioevo il lavoro aveva un carattere meramente individuale, il capitalismo non avrebbe impiegato così tanti secoli prima di affermarsi. Non faremmo forse un torto all'intelligenza dell'uomo medievale, allorché lasciassimo intendere che gli occorrevano molti secoli prima di capire che un lavoro socialmente organizzato produce di più e meglio di un lavoro individuale? D'altra parte, se il problema di un maggior benessere socio-economico stava solo in questa migliore organizzazione produttiva, c'era forse bisogno di far nascere il capitalismo?

Ma la cosa più stupefacente nell'analisi di Marx, la sua contraddizione più macroscopica sta proprio nel fatto che mentre da un lato egli afferma che la transizione dal feudalesimo al capitalismo era inevitabile, dall'altro sostiene che le condizioni di lavoro per l'operaio della fabbrica sono diventate, nel capitalismo, molto più disumane che nel feudalesimo. Infatti, "contrapponendosi per conto proprio le condizioni di lavoro all'operaio, anche la loro economia [leggi: nel senso di "risparmio"] si presenta come operazione particolare a lui assolutamente estranea..."(p.412). Cioè per Marx il capitalismo è nato a prescindere dalla volontà del lavoratore: esso è stato subìto, come prima lo erano il servaggio e lo schiavismo. Il vero protagonista attivo è stato solo il capitalista, il quale, a sua volta, non ha fatto che adeguarsi a un processo storico immanente.

Volendo, l'analisi di Marx potrebbe essere considerata giusta se la si applicasse a quella fase di passaggio del capitalismo da commerciale a industriale. Dice infatti alle pp.416-17: "A causa della mancanza di tale cooperazione, nell'Ovest degli Stati Uniti si spreca ogni anno una grande massa di grano, e nelle parti delle Indie Orientali in cui il dominio inglese ha tolto di mezzo l'antica comunità, si spreca ogni anno una grande massa di cotone".

Tuttavia, anche in questo caso bisognerebbe precisare che nella fase del capitalismo meramente commerciale, il modo di produzione dominante (nell'Europa occidentale, con tutte le sue colonie) restava quello feudale, poiché solo quando si realizza la rivoluzione industriale, il feudalesimo scompare definitivamente. Ciò significa che anche laddove s'era affermato il capitalismo commerciale, il passaggio a quello industriale non può mai essere considerato come "automatico". Il macchinismo e la cooperazione sono stati una risposta ai limiti del capitalismo commerciale, ma tali limiti potevano essere superati abolendo il servaggio e democratizzando la vita rurale, per quanto proprio la nascita del capitalismo commerciale fosse una diretta testimonianza che nel feudalesimo vi erano forze intenzionate a conservare lo status quo. In tutto ciò comunque la categoria della necessità può essere evocata soltanto dopo aver costatato che con la libertà gli uomini non sono stati capaci di trovare delle risposte adeguate ai loro problemi.


Per Marx la cooperazione di tipo capitalistico ha superato i limiti del capitalismo commerciale, perché ha saputo organizzare in maniera collettiva un lavoro ch'era individuale. Ora "molte persone prendono parte a un medesimo processo produttivo o a processi differenti ma connessi"(p. 412).

E all'interno di questa attività sorge ciò che, per Marx, nel feudalesimo non esisteva: l'emulazione. "Il solo contatto sociale -egli afferma- fa sorgere nella maggior parte dei lavori produttivi un'emulazione e uno specifico eccitamento degli spiriti animali... che accrescono la possibilità di rendimento individuale dei singoli..."(p.413). Per Marx questo è del tutto naturale! "Ciò deriva dal fatto che l'uomo è per natura un animale se non politico, come ritiene Aristotele, almeno sociale"(p.414). In altre parole, il capitalismo avrebbe superato il feudalesimo perché avrebbe saputo valorizzare meglio la natura sociale dell'uomo!

Marx si lascia completamente suggestionare dall'alta produttività del capitalismo e non si chiede affatto quale prezzo ciò possa comportare sulla salute (sul benessere) psico-fisico del lavoratore. Anzi per lui proprio la cooperazione capitalistica ha permesso all'operaio di scoprire il meglio di sé, le proprie intrinseche potenzialità.

Cioè l'operaio si sente in competizione con altri operai non perché la cultura individualistica del capitalista ve lo obbliga, ma perché nella cooperazione egli avverte l'insopprimibile bisogno di produrre di più e meglio.

A quale cooperazione fa riferimento Marx? Come tutti sanno, agli albori del capitalismo gli operai distruggevano le fabbriche, quando lottavano contro gli imprenditori privati. Nel capitalismo maturo, invece, gli imprenditori devono di continuo incentivare gli operai per ottenere in cambio i frutti dell'emulazione.

A parte questo, chi l'ha detto che nel feudalesimo non esisteva l'emulazione? Certamente non esisteva un'emulazione fondata sul profitto, né una in virtù della quale si poteva emarginare dalla vita sociale il collega di lavoro. L'emulazione era, se vogliamo, una forma di "gioco", una gara ludica in cui il vincitore, al massimo, poteva aspirare a una maggiore considerazione sociale.

Pur di non voler ammettere l'inferiorità etico-sociale del capitalismo rispetto al feudalesimo, Marx è stato disposto a ritenere come "naturali" gli istinti "animali" di emulazione e di reciproca concorrenza (cosa che, peraltro, nessun animale possiede). Come se il problema di fondo, nella produzione degli oggetti, sia sempre quello di produrre di più in minor tempo! Come se questa necessità non faccia già parte di una cultura di tipo "borghese"!

Ma di queste ambiguità il Capitale è pieno. Dice Marx ad es. a p. 418: "La giornata lavorativa combinata produce una quantità di valori d'uso più grande...". Da un lato egli usa un concetto di tipo "capitalistico", come quello di "giornata lavorativa combinata" (per quanto -a ben guardare- tale concetto possa applicarsi anche al feudalesimo); dall'altro egli usa un concetto, "valore d'uso", che si applicherebbe meglio al feudalesimo che non al capitalismo, dove la cooperazione è finalizzata unicamente alla produzione di merci, le quali hanno un valore d'uso solo in quanto ne hanno uno di scambio.

Prendiamo un altro esempio. "Nella cooperazione pianificata con altri -dice Marx nella stessa pagina- l'operaio si libera dei suoi limiti individuali ed esplica le proprietà della sua specie". Qui vi è la stessa ambiguità di prima, dovuta a un modo troppo astratto e ideologico di affrontare i processi storici. Da un lato Marx parla della "cooperazione pianificata" come di un successo del lavoratore (mentre -si sa- nel capitalismo essa è una forma della sua condanna); dall'altro contrappone un inesistente lavoratore isolato all'esperienza del collettivo operaio.

Un altro esempio ancora. Dice Marx: "All'inizio il capitalista, quando il suo capitale ha raggiunto quella grandezza minima che sola può dare inizio alla produzione capitalistica..."(p.422). Qui la causa viene confusa con l'effetto. Da un lato Marx dice che per far nascere il capitalismo bisogna essere capitalisti; dall'altro però non spiega come si possa diventare capitalisti in un sistema pre-capitalistico. Infatti, se bastasse il possesso di un capitale minimo, il capitalismo sarebbe nato assai prima del XVI sec. e, in ogni caso, avrebbe potuto nascere anche fuori dell'Europa occidentale.

Marx potrebbe avere ragione solo in un caso, allorché dimostra che il lavoro dell'artigiano o del contadino privato è, nel capitalismo, molto meno produttivo di quello dell'operaio di fabbrica. Ora però, a parte il fatto che nella distribuzione generale del reddito, la differenza tra l'una e l'altra categoria di lavoratore non capitalista, non è poi così rilevante, ciò di cui Marx non vuole rendersi conto è che il lavoratore isolato non rappresenta affatto l'alternativa al lavoratore collettivo, ma semmai il simbolo del processo di disgregazione di un modo di produzione obsoleto. L'artigiano isolato è il residuo di un sistema in via di dissoluzione.

Dice Marx: "in qualità di persone indipendenti gli operai sono dei singoli, che stabiliscono un rapporto col capitale senza stabilire tra loro un rapporto sociale reciproco. Essi iniziano a cooperare solo nel processo lavorativo, ma in questo processo non sono più proprietari di se stessi"(pp. 423-4).

Questo modo di vedere le cose è decisamente limitato, poiché porta a dare per scontata la vittoria (nel momento iniziale) del capitalista, il quale non è altri che un singolo agiato contrapposto a singoli liberi ma nullatenenti. Situazione, questa, che non si è mai verificata da nessuna parte, proprio perché il processo di superamento del feudalesimo è stato molto più complesso di quel che non si creda, essendo entrati in gioco dei fattori (quale ad es. la libertà umana) che sfuggono ad un'analisi meramente economica.

Marx non ha saputo resistere alla tentazione di attribuire al capitalismo, sul piano tecnico-scientifico, un progresso senza confronti, benché, nel contempo, non abbia potuto fare a meno di costatare che è soprattutto il capitalista ad appropriarsi dei benefici di tale progresso. Sull'altare della tecnologia Marx ha voluto sacrificare tutto quanto c'era di positivo nel sistema feudale. La grandissima alienazione sociale era un prezzo che l'operaio doveva pagare per il bene del progresso scientifico, per liberarsi "dei suoi limiti individuali ed esplicare le proprietà della sua specie"(p. 418).

La diversità tra Marx e gli economisti borghesi non sta in questa analisi, ma solo nell'accento ch'egli ha posto sul rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro. Infatti, l'economista borghese si limita ad affermare che, essendo il capitalismo un sistema produttivo molto potente, è bene che l'operaio svolga il suo ruolo senza opporre eccessive resistenze. Marx invece è dell'avviso che le forze produttive del capitalismo potrebbero meglio svilupparsi se si passasse al socialismo. Né l'uno né gli altri mettono in discussione il principio dell'incessante progresso scientifico e tecnologico, ovvero il rapporto di dominio e di sfruttamento che l'uomo moderno ha realizzato nei confronti della natura.

Nella concezione "positivista" di Marx il socialismo non è altro che una tecnica per far funzionare meglio il potere dell'industria, risolvendo una volta per tutta la questione dei conflitti sociali. Cioè è una tecnica che può funzionare solo se si presume la fine dello sfruttamento proletario. Se gli operai potessero pianificare per conto proprio la loro produzione, otterrebbero -a suo giudizio- risultati assai più positivi di quelli che il capitalista consegue con la propria limitata pianificazione.

Marx naturalmente è sempre stato convinto che il socialismo avrebbe superato il capitalismo in tutti gli indici produttivi. Nel Capitale gli è completamente estranea l'idea che nel socialismo si possano o addirittura si debbano abbassare alcuni indici strettamente economici (ad es. il PIL) a vantaggio di altri di carattere sociale (ad es. previdenza, assistenza ecc.).

Oggi in realtà va decisamente superata l'idea che il socialismo possa essere la continuazione del capitalismo dal punto di vista della classe operaia. La tecnologia non è mai stata una cosa "neutrale", il cui effetto sull'ambiente dipende dalla "buona" o "cattiva" volontà di chi la usa. Essa è sempre stata il frutto (più o meno consapevole) di una determinata scelta culturale, di carattere etico e ontologico. Il mutamento radicale del sistema capitalistico comporterà inevitabilmente un uso diverso della tecnologia, ma anche, molto probabilmente, una diversa tecnologia, cioè non solo un uso più sociale, meno legato al profitto individuale, ma anche, in virtù di ciò, una nuova creazione tecnologica.

Sotto questo aspetto non dovrebbe affatto preoccupare l'ipotesi di un futuro sistema socialista dotato di scarsa tecnologia (rispetto agli attuali parametri occidentali), ma dotato, in compenso, di un'alta democrazia, e quindi di una tecnologia adeguata alle esigenze dell'intera collettività. Il ridimensionamento delle pretese tecnico-scientifiche: questo sì che può essere un prezzo che la democrazia può tranquillamente pagare!


Solo alla fine del capitolo Marx ammette che la cooperazione non è una prerogativa del capitalismo, in quanto è sempre esistita. Ma lo fa semplicemente per ribadire la superiorità di quella capitalistica.

In Marx le conoscenze delle civiltà non-capitalistiche sono sempre state approssimative, anche perché gli studi critici, allora, erano piuttosto scarsi. Tuttavia, in lui emerge un pregiudizio che vanifica un'obiettiva valutazione del passato.

Anzitutto Marx ha sempre escluso a priori la possibilità dell'esistenza, nelle civiltà pre-capitalistiche, di una cooperazione sociale al di fuori dei rapporti di servaggio o di schiavitù. "Nel mondo antico, nel medioevo e nelle moderne colonie -dice a chiare lettere a p.425- l'uso sporadico della cooperazione a grande scala si basa su rapporti diretti di signoria e servitù, e in quasi tutti i casi si basa sulla schiavitù".

La cooperazione, quindi, non era -secondo Marx- tra persone libere, come invece è accaduto -sempre a suo giudizio- nell'ambito del capitalismo. "La forma capitalistica presuppone sin dall'inizio l'operaio salariato libero, che vende al capitale la propria forza lavorativa"(ib.).

Ovviamente per Marx non può esistere libertà né nel servaggio né nello schiavismo. E tuttavia per lui non ne esiste neppure nella tribù o comunità primitiva, laddove era in vigore la "proprietà comune delle condizioni di produzione"(ib.). Qui non c'è libertà perché c'è dipendenza, e là dove c'è dipendenza, non c'è cooperazione produttiva su larga scala, poiché il lavoratore non è libero di vendere al mercato la propria forza-lavoro, e quindi non è libero di muoversi come meglio crede (o a seconda delle esigenze del capitale).

Marx ha sempre dato una grande importanza al concetto di libertà individuale. Non ci sarebbe capitalismo senza questa libertà. Tuttavia, nella sua analisi il concetto di libertà giuridica si confonde spesso con quello di libertà sociale. Di fatto il cittadino che chiede di lavorare in una fabbrica capitalistica (anche agli albori del capitalismo) è sempre stato libero giuridicamente, senza mai esserlo sul piano sociale.

Le due forme di libertà, se coincidevano nel borghese, non coincidevano affatto nell'operaio. Marx non è che si nasconda questa evidenza. Solo che, quando parla dell'operaio libero, non specificando che la sua libertà era meramente giuridica, lascia intendere ch'egli avesse accettato volontariamente, cioè in piena libertà, un rapporto lavorativo di tipo salariato: il che non è mai successo.

Perché questa ambiguità? Per la semplice ragione che Marx non vuole ammettere l'idea che in una società non-capitalistica l'uomo potesse sentirsi giuridicamente dipendente e socialmente libero (o comunque più libero del lavoratore salariato). Per Marx l'uomo pre-capitalistico era socialmente schiavo o servo, e quindi totalmente non-libero. Non era libero neppure l'uomo primitivo che non aveva "ancora strappato il cordone ombelicale che lo legava alla tribù o alla comunità"(ib.). La libertà, per Marx, sta nella contrapposizione del singolo alla comunità. In tal senso la cooperazione capitalistica è la migliore forma di cooperazione, perché garantisce alla libertà individuale il massimo di possibilità espressive.

Il libero contadino o l'artigiano indipendente perdono la loro battaglia nei confronti della cooperazione capitalistica, perché si rendono conto ch'essa è più forte, più potente sul piano produttivo. A Marx non interessa assolutamente esaminare il tipo di resistenza "etica" che la società feudale (meno individualistica di quella borghese) ha messo in atto nei confronti del capitalismo. L'opposizione esaminata da Marx era solo quella di tipo "politico" e ritenuta sempre di carattere "regressivo".

Marx non avrebbe mai accettato l'idea di considerare il conflitto tra Medioevo ed Epoca Moderna come il conflitto tra un modo di produzione "sociale" (benché anch'esso antagonistico) e un modo di produzione "individuale", in cui la cooperazione era utilizzata dal capitalista solo come mezzo per arricchirsi meglio.

Il pregiudizio ha portato Marx sia a sottovalutare le ragioni culturali sottese alla genesi del capitalismo, sia a formulare delle ragioni di tipo "psicologico" che non possono trovare un vero riscontro nella storia dei fatti. "Da un lato -egli afferma- il modo di produzione capitalistico appare come una necessità storica per la trasformazione del processo lavorativo in processo sociale" [trasformazione quindi avvenuta -com'egli stesso più sopra dice- "spontaneamente e in maniera naturale"]; "d'altro lato questa forma sociale del processo lavorativo appare come un metodo usato dal capitale per sfruttare con maggior profitto quello stesso processo tramite l'aumento della sua forza produttiva"(p. 426).

Da un lato quindi Marx ragiona come un economista borghese, che non si chiede il perché delle cose ma solo il come; dall'altro egli ragiona come un economista socialista, che vede nel come una palese ingiustizia e propone un modo per risolverla.

Paradossalmente a Marx fa difetto proprio la nozione di libertà individuale. Estrapolando il singolo dal contesto sociale, egli ha creduto di renderlo più libero; invece è accaduto che il singolo si sia lasciato dominare da una cieca fatalità storica, nell'illusione che fra le leggi di questa necessità e le proprie soggettive non vi fosse una vera contraddizione.

LA MANIFATTURA

Parlando della manifattura (nel cap XII), cioè di quel tipo di cooperazione che è durato "all'incirca dalla metà del secolo XVI fino all'ultimo terzo del XVIII"(p.428), Marx non ha dubbi nell'affermare ch'essa consiste in un "evolversi dal lavoro artigianale"(p.430), per cui, rispetto a questo, essa rappresenta un grado superiore di organizzazione del lavoro.

Infatti, "da un lato -dice Marx- essa ha per punto di partenza la combinazione di mestieri di diverso genere, autonomi, che son ridotti a dipendenza e unilateralità fino al punto da non essere ormai che operazioni parziali e complementari del processo di produzione di un'unica e medesima merce"(pp.430-31). Nel senso che con la manifattura singoli e diversi mestieri artigianali, fatti in autonomia, divengono un semplice anello, cioè un'operazione particolare, di una catena di lavoro sotto la direzione di un unico capitalista in un medesimo luogo: l'officina.

"D'altro lato -prosegue Marx- essa [manifattura] parte dalla cooperazione di artigiani di ugual genere, decompone uno stesso mestiere individuale nelle sue diverse operazioni particolari, isolandole e rendendole indipendenti fino al punto che ognuna di esse diviene funzione esclusiva d'un particolare operaio"(p.431). Nel senso che un singolo artigiano non svolge più tutte le operazioni necessarie in tempi diversi, ma ne svolge una sola, mentre nello stesso tempo un'altra operazione viene svolta da un altro artigiano.

Nel primo caso si uniscono artigiani divisi, che lavorano separatamente; nel secondo si divide un mestiere "unito", in sé completo, appartenente a un unico lavoratore.

Marx è contrario al lavoro individuale dell'artigiano: lo fa capire chiaramente. Nella manifattura l'artigiano perde, "insieme all'abitudine, anche la capacità di esercitare il suo antico mestiere in tutta la sua estensione. Ma d'altra parte la sua attività unilaterale riceve ora in questa sfera d'azione più ristretta [cioè nella manifattura] la forma più idonea al fine del proprio lavoro"(p.429). "La manifattura infatti genera il virtuosismo dell'operaio parziale..."(p.432), oltre al fatto che la merce prodotta è il frutto di un lavoro sociale, in quanto nessun operaio singolo può produrla.

Su questo tuttavia, nel § 5 Marx dirà esattamente il contrario, com'è d'altra parte nel suo stile, in virtù del quale egli esalta il capitalismo nel momento in cui parla del feudalesimo e lo contesta quando deve giustificare il socialismo. La manifattura -dirà alle pp.461-62- intacca "alle radici la forza lavorativa individuale. Essa deforma l'operaio in qualcosa di mostruoso, promuovendone come in una serra le abilità di dettaglio, tramite la soppressione d'una quantità di disposizioni e d'istinti produttivi... Non soltanto vengono suddivisi tra vari individui gli specifici lavori parziali, ma viene diviso l'individuo stesso, lo si trasforma in motore automatico d'un lavoro parziale".


Spesso Marx pone il lettore di fronte a un tipo di artigianato che in realtà non è mai esistito. Non a caso ad un certo punto egli mette tra parentesi l'eventualità che l'artigiano lavori "con l'aiuto di uno o due garzoni"(p.430).

Cerchiamo di spiegarci. Nel Medioevo lo sviluppo autonomo dell'artigianato, come professione a sé, è stato il frutto di una progressiva decadenza della vita rurale, troppo soggetta agli abusi del servaggio. In origine era lo stesso contadino (uomo o donna che fosse) a svolgere il mestiere dell'artigiano, insieme a quello del contadino e dell'allevatore. Se esisteva un artigianato separato dall'agricoltura, esso non lo era definitivamente, o comunque non si poneva in antitesi all'agricoltura. Per cui non ha molto senso sostenere -come vuole Marx- che "in origine l'operaio vende al capitalista la propria forza lavorativa in quanto gli mancano i mezzi materiali per la produzione d'una merce"(p.462). Tale mancanza non è casuale, ma voluta dallo stesso sviluppo del capitalismo. I mezzi li avrebbe (quelli tradizionali), ma il capitalismo glieli toglie.

Marx non considera, in questo capitolo, la forma più semplice di artigianato, ma solo la sua specializzazione individuale. Per lui la divisione del lavoro che si ottiene con la manifattura è in grado di offrire il prodotto sociale di un'équipe di artigiani, in luogo del prodotto individuale offerto dall'unità del lavoro del singolo artigiano. Cioè a dire, mentre con la manifattura la socializzazione della merce è garantita dalla divisione sistematica del lavoro, con l'artigianato invece l'unità del lavoro riusciva a garantire solo un prodotto individuale.

Marx, in altre parole, non vede la socializzazione del lavoro nel Medioevo. Per lui tutti i prodotti pre-capitalistici sono o individuali (del singolo artigiano, più o meno capace) o insignificanti (perché valori d'uso che si dissolvono nell'autoconsumo).

Il suo ragionamento, per semplificare, è di questo tipo: l'artigiano ha fatto bene a staccarsi dal contadino (come la città dalla campagna), ma ora deve rassegnarsi a trasformarsi in operaio salariato, perché sul mercato esiste un capitalista in grado di comprargli la sua forza-lavoro. La socializzazione dell'operaio viene vista positivamente da Marx, benché essa, sin dall'inizio, sia in funzione dell'appropriazione privata del profitto.

A Marx sfugge completamente il significato di quel periodo storico in cui l'artigianato non era ancora staccato dall'agricoltura o, se lo era, continuava però a dipendere dalla vita rurale, mentre in questa dipendenza (che pur gli artigiani, col tempo, cercheranno di ridurre al minimo) si realizzava quella forma di socializzazione del lavoro che non aveva bisogno, per definirsi tale, di "rinchiudersi" in un'officina ove le mansioni erano completamente parcellizzate. Non era certo un puro e semplice "spazio fisico" a determinare il carattere di socializzazione del lavoro. (E non si dica che Marx non è interessato a questo perché il suo obiettivo è quello di descrivere la nascita del capitalismo: tantissime volte -incluso questo capitolo- egli fa digressioni sull'epoca classica, greco-romana, o sulla comunità primitiva dell'India).

A parte ciò, l'artigiano non ha mai lavorato da solo, ma sempre in una corporazione di più artigiani e garzoni, per cui il suo lavoro non era meno "sociale" di quello dell'operaio salariato. Questo artigiano ha forse combattuto contro il capitalismo con meno convinzione del contadino, ma certamente non l'ha fatto in maniera individuale. L'artigiano isolato, descritto da Marx, è un'immagine fittizia, usata per dimostrare la superiorità della manifattura (superiorità, peraltro, che Marx misura solo in termini strettamente economici, tralasciando volutamente quelli etico-sociali).

Marx non è preoccupato più di tanto quando costata, con occhi da "socialista", che la superiorità produttiva della manifattura è stata ottenuta a prezzo di una profonda alienazione del lavoratore. "Un operaio, effettuando vita natural durante sempre l'unica e medesima operazione semplice, trasforma tutto il proprio corpo nello strumento, automatico e unilaterale, di tale operazione..."(p.431). In questo starebbe forse il suo "virtuosismo"? E' forse un vantaggio dell'operaio quello di dover "impiegare per il suo lavoro solamente il tempo necessario"(p.440)? E' forse un suo guadagno dover lavorare con "continuità...uniformità...regolarità...ordine...intensità..." (ib.)? Si vive forse per lavorare? Oppure Marx vuole sostenere che lo sviluppo della manifattura, portando inevitabilmente alla nascita del macchinismo e della grande industria, ha favorito la fine della fatica fisica, in quanto ha praticamente reso inutile l'intervento manuale dell'operaio? E' forse vero questo e, se lo fosse, non sarebbe ancor più insensato sostenere che il lavoro serve per realizzare la personalità umana?

In realtà la manifattura avrebbe potuto avere la sua ragion d'essere se fosse stata una scelta consapevole e democratica dell'intera collettività, ovviamente per produrre di più in un tempo minore, ma a seconda delle necessità del momento. Una scelta quindi che avrebbe dovuto essere tenuta sotto controllo collettivo, col quale si sarebbe dovuta garantire al singolo operaio l'esigenza della reversibilità, cioè la possibilità in ogni momento di tornare al modo tradizionale di produzione. La manifattura avrebbe avuto senso se fosse stata considerata come parte integrante di un sistema produttivo di tipo "socialista".

Viceversa, per Marx la nascita della manifattura è parte di un processo storico inevitabile, come nella triade hegeliana l'antitesi usciva da una tesi "formalizzata", che per potersi veramente affermare aveva prima bisogno di negarsi. "Questo processo di scissione -dice a p.463- ha inizio nella cooperazione semplice, in cui il capitalista rappresenta di fronte ai singoli operai l'unità e la volontà del corpo lavorativo sociale". Marx, in altre parole, non si chiede come nasce il capitalista, ne costata semplicemente l'esistenza, nonché la sua indiscussa superiorità rispetto alle figure sociali del passato.

E' strano ch'egli non si renda conto che la necessità di "trasformare il lavoro parziale nel mestiere a vita d'un uomo"(p.432) -come accadeva nella caste, nelle corporazioni medievali ecc.- rispecchiava una forma di società in cui le differenze di classe erano già notevoli. Se la manifattura può essere considerata un'"evoluzione" dell'artigianato, non può certo essere considerata come un'alternativa positiva all'"involuzione" dell'artigianato verso il privilegio di classe o di casta o di corporazione. Al contrario, la manifattura può essere considerata come una risposta negativa alla mancata soluzione della crisi dell'artigianato.


Il Marx del Capitale dà continuamente per scontato che un'appropriazione adeguata del significato della vita dipenda anzitutto e soprattutto da un aumento della produttività, ovvero dal benessere di tipo materiale. Sono relativamente pochi i momenti in cui egli parla come un economista "socialista" e, dove lo fa, le conclusioni politiche sono sempre di scarso rilievo.

Prendiamo ad es. le pp.447-48. Marx sa bene che nella manifattura "cala il valore della forza lavorativa", in quanto si risparmiano le spese d'apprendistato dell'operaio, essendo sufficiente anche un operaio senza abilità. Naturalmente chi trae i maggiori vantaggi da tutto ciò è il capitalista. Ebbene, l'analisi di Marx, in sostanza, si ferma qui. Al massimo egli invoca la necessità della rivoluzione politica, al fine di sostituire l'imprenditore privato con uno collettivo, ma non arriva mai a chiedersi se per caso il precedente modo di produzione non avesse degli aspetti positivi da non meritare d'essere completamente distrutti dal capitalismo.

Marx giustifica questo suo profondo scetticismo verso i modi di produzione pre-capitalistici semplicemente perché li ritiene responsabili della nascita del capitalismo: non in senso etico (poiché Marx esclude il ruolo della libertà nella transizione da una formazione all'altra), ma in senso economico, in quanto il "passato" è necessariamente responsabile del "presente". Dunque, se il capitalismo esiste è perché non si è stati capaci d'impedirne la nascita, e quindi esso è necessario. Per capire questa tesi di Marx basta leggersi il § 4 di questo capitolo, laddove egli parla, con grande forza sintetica e dialettica, della differenza tra la divisione del lavoro nella manifattura e quella nella società.


Quando scrive il Capitale, Marx ha una conoscenza molto approssimata della comunità primitiva, non solo perché gli studi di allora erano scarsi, ma anche perché lo stesso Marx non vi aveva attribuito un'importanza particolare ai fini della stesura della sua opera. Engels si sentirà in dovere, nella terza edizione del Capitale, di sottolineare in una nota questa lacuna, anche se neppure egli saprà trarne le dovute conseguenze.

Queste conseguenze sono importanti perché, nella lotta politica contro il capitalismo -se non si tiene in dovuta considerazione il potenziale contestativo delle forze pre-capitalistiche- si rischia di assumere degli atteggiamenti settari, ideologici, che le stesse forze del capitale possono facilmente neutralizzare. Oggi naturalmente è impossibile recuperare queste forze nell'ambito dell'Occidente industrializzato. Tutta l'agricoltura è stata intaccata dal capitalismo.

Il pregiudizio di Marx (che è in fondo di derivazione hegeliana) nei confronti di queste forze, lo si nota anche nel suo modo di considerare la tribù come una conseguenza logica, naturale, dello sviluppo della famiglia. Il determinismo con cui Marx considera "necessarie" tutte le formazioni economiche della società, ognuna delle quali costituisce un progresso rispetto all'epoca che l'ha preceduta e un limite rispetto a quella che le subentrerà, risente in modo palese dell'influenza dell'hegelismo. Lo stesso Marx d'altra parte non ha mai nascosto che quanto al "metodo di lavoro" egli si serviva a piene mani della Logica di Hegel.

Marx ha ragione quando afferma che nelle comunità primitive la divisione del lavoro aveva "un fondamento meramente fisiologico"(p.449), essendo basata sulle "differenze di sesso e d'età"(ib.). Ed ha anche ragione quando afferma che, in origine, lo scambio dei prodotti avveniva tra famiglie, tribù ecc., reciprocamente indipendenti, e non tra persone private. "L'ambiente naturale offre alle diverse comunità diversi mezzi di produzione e diversi mezzi di sussistenza"(ib.).

Tuttavia, egli ha torto quando sostiene che questa economia "spontanea e naturale"(ib.) era destinata a evolvere, in maniera altrettanto "spontanea e naturale", verso il capitalismo. Solo un economista che non si preoccupa di conoscere motivazioni culturali sottese ai processi socio-economici può sostenere un determinismo così assoluto. In realtà, è difficile pensare che una comunità antica, basata sull'autoconsumo, giungesse, ad un certo punto, nel commercio con altre comunità, a negare la propria autonomia per affermare l'interdipendenza "d'una produzione generale sociale"(ib.) tra diverse comunità.

Il passaggio dal prodotto alla merce non è affatto spontaneo, come non è affatto naturale che dalla divisione fisiologica del lavoro si passi alla progressiva decomposizione degli "organi particolari"(ib.) della singola comunità. Certo, se la comunità fosse composta da individui singoli, se la tribù non fosse che la somma di tante famiglie, sarebbe inevitabile la disgregazione degli elementi singoli dopo aver affermato la divisione del lavoro. Il fatto è però che nella comunità antica, molto più forte della divisione del lavoro, era il legame culturale (assiologico, normativo) che teneva uniti i suoi vari componenti. Difficilmente si sarebbe permesso che una semplice attività economica potesse stravolgere "spontaneamente" i principî fondamentali su cui si reggeva l'intero edificio comunitario.

E' dunque assurdo pensare che "la produzione e la circolazione delle merci [siano] il presupposto generale del modo di produzione capitalistico"(p.451). E' vero anzi il contrario, che senza "spirito borghese" non c'è produzione di merci, ma solo scambio di prodotti. Ecco perché dobbiamo necessariamente credere che in origine lo scambio dei prodotti non andasse mai oltre un certo livello: non tanto perché le comunità erano limitate sul piano economico, quanto piuttosto perché esse erano gelose della loro autonomia sul piano sociale e culturale (anche se la cultura non era scritta). In questo senso la separazione tra città e campagna va considerata come una delle più grandi disgrazie dell'umanità, a cui è difficile pensare che le varie comunità siano giunte -come invece vuole Marx- a causa di un semplice aumento della densità della loro popolazione (p.450).


Per Marx il passaggio dalla società pre-capitalistica a quella capitalistica (manifatturiera) non è che il passaggio da un modo di produzione individuale e indipendente a un modo di produzione sociale e dipendente. "La divisione del lavoro nella manifattura presuppone la concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani di un unico capitalista, la divisione del lavoro nelle società [leggi: pre-capitalistiche] presuppone la dispersione dei mezzi di produzione tra molti produttori di merci che sono reciprocamente indipendenti"(p.454). Paradossalmente, seguendo con coerenza questo ragionamento, si dovrebbe finire col sostenere che la produzione di merci va intesa in senso lato e, in questo senso, essa va considerata presente anche in civiltà non-capitalistiche: tant'è che il capitalismo si forma solo se la divisione del lavoro si trova "già a un certo grado di maturità"(p.451).

Per dimostrare la tesi dell'"evoluzione", in antitesi a quella del "salto" o della "rottura", tra una formazione economica e l'altra, Marx finisce col delineare una storia dell'umanità che da uno stadio primitivo di capitalismo è passata a forme di capitalismo sempre più sofisticate. Il "pre-capitalismo" non sarebbe che un aspetto rozzo e primitivo della manifattura, con cui inizia il capitalismo vero e proprio. In questo quadro il Medioevo, dopo il "capitalismo commerciale" del mondo greco-romano, rappresenta una sorta di gigantesco "buco nero", meritevole d'essere analizzato solo in quella parte che tratta dello sviluppo comunale e delle corporazioni. Ma questo per dire, ancora una volta, che la manifattura, grazie alla "rivoluzione degli strumenti di lavoro"(p.467), ha saputo superare la fissità dei mestieri tradizionali delle corporazioni, i quali, pur essendo basati sulla divisione del lavoro, offrivano sul piano produttivo risultati assai modesti.

Marx può avere ogni ragione quando cerca di legittimare la transizione dal capitalismo commerciale a quello industriale, ma non ne ha alcuna quando cerca di legittimare la transizione dalle società pre-capitalistiche a quella capitalistica. Anzi, a ben guardare, la sua stessa immagine di "capitalismo commerciale" andrebbe rivista, poiché sia questa che quella delle società pre-capitalistiche sembrano essere delineate unicamente allo scopo di giustificare la transizione al capitalismo e, di conseguenza, da questo al socialismo, il quale altro non è -nell'ottica marxiana- che un sistema sociale (al pari del capitalismo) e indipendente (nel senso che il lavoro dipende solo da se stesso e non dal capitale).


Anche quando parla della comunità antica, Marx (che ha in mente soltanto quella "indiana" delle caste) non fa che giustificare il superamento di questa organizzazione da parte di un'altra di tipo capitalistico. Nel Capitale Marx non riesce assolutamente a equiparare (simbolicamente s'intende!) il futuro socialismo col socialismo delle comunità antiche, pre-schiavistiche. Per lui la comunità antica ("indiana", nella fattispecie) era sì caratterizzata dalla socializzazione del lavoro, ma in maniera costrittiva, cioè esisteva sì la "proprietà comune della terra", una "diretta connessione tra agricoltura e mestiere artigiano", nonché "una stabile divisione del lavoro"(p.456), ma anche un forte autoritarismo statale. Al cospetto di questa forma di autoritarismo Marx ha sempre preferito l'affermazione del singolo, che recide il "cordone ombelicale" che lo lega alla comunità. Delineato il quadro in questi termini, Marx purtroppo si è precluso la possibilità di apprezzare adeguatamente gli "organismi di produzione autosufficienti"(p.457), ovvero il fatto che in tali comunità "la gran massa dei prodotti sorge per l'appagamento degli immediati bisogni della comunità..."(ib.).

Per Marx è limitativo il fatto che solo "l'eccedenza dei prodotti"(ib.) si trasformi in merce. In queste condizioni la manifattura non può sorgere non tanto perché lo impediscono la cultura, i valori, lo stile di vita, quanto perché il mercato è troppo ristretto. Si tratta di una causa meramente estrinseca, quantitativa, incidentale. Non ci può essere manifattura che là dove lo scambio delle merci ha raggiunto un certo livello di estensione. Anche qui Marx riprende la legge hegeliana del passaggio dalla quantità alla qualità.

A un sistema di vita dove tutto si riproduce "costantemente nella medesima forma"(p.458), Marx ha sempre preferito il continuo rivolgimento dei mezzi e delle condizioni produttive che si verifica sotto il capitalismo.

A tale proposito, tuttavia, è bene precisare che le società asiatiche -cui Marx si riferisce- non erano affatto così "immutabili" dal punto di vista economico. Egli infatti è convinto che tale immutabilità non abbia nulla a che vedere con "la continua ricostituzione degli Stati asiatici e col perenne alternarsi delle dinastie"(p.459).

In realtà politica ed economia erano strettamente legate anche nell'antica Asia. Con una differenza però, rispetto alle regioni occidentali dell'Europa e degli USA, che si può capire ponendosi una semplice domanda. Posto che in Asia i rivolgimenti politici erano, come in Occidente, il frutto di contraddizioni socio-economiche (anche se Marx parla delle società asiatiche come se fossero prive di lotte e di conflitti di classe), per quale ragione in Asia, in seguito alle lotte di classe, non è nato il capitalismo?

A questa domanda Marx non è stato in grado di dare una risposta convincente proprio perché egli aveva concentrato tutti gli studi sull'economia e non anche sulla cultura (filosofia, religione, ideologia politica, arte dei Paesi orientali). Se l'avesse fatto si sarebbe accorto di due cose: 1) che per l'Oriente l'uomo è parte della natura, per cui non avrebbe mai potuto esserci uno sviluppo tecnologico particolarmente forte o un'esigenza di sistematico sfruttamento delle risorse naturali; 2) che la mancata diffusione della religione cristiana non ha permesso ai popoli asiatici di sviluppare il senso profondo della libertà umana.

L'Oriente asiatico, essendo più vicino al modo di produzione pre-capitalistico, è rimasto fedele alla socializzazione del lavoro, ma, non avendo accettato il cristianesimo, non è riuscito a sviluppare il lato storico della personalità umana. Le lotte di classe quindi c'erano, ma avevano appunto lo scopo di conservare lo stile di vita culturale, naturale e pre-schiavistico contro il potere di coloro che invece puntavano ad accentuare gli aspetti del servaggio (che in Oriente si è sempre manifestato come "servaggio di Stato"). Non a caso l'Asia (fa eccezione, in parte, l'India, perché qui lo sviluppo delle caste è sempre stato molto forte) è passata dalla crisi del feudalesimo al socialismo (quanto democratico o autoritario non è qui il luogo per discuterlo. Interessante comunque resta il fatto che proprio attraverso il socialismo europeo l'Asia ha acquisito, indirettamente, i contenuti fondamentali del cristianesimo, laicizzati appunto dal socialismo. Grazie a questa acquisizione si può parlare, per la prima volta, di "storia universale dell'uomo").

Il giudizio di autoritarismo (politico) che Marx ha rivolto alle società asiatiche, vale, a suo parere, anche per il feudalesimo. Parlando delle corporazioni di arti e mestieri, ciò che Marx non sopporta è appunto la costrizione cui esse erano sottoposte. "Le leggi delle corporazioni...impedivano sistematicamente la trasformazione del mastro artigiano in capitalista, limitando il più possibile il numero dei garzoni ch'egli potesse impiegare"(p.459). Detto altrimenti: là dove esiste costrizione, lì, per Marx, esiste dittatura, per cui, in luogo all'artigiano, è preferibile il "capitalista commerciale", l'unico veramente libero, nel Medioevo, di "acquistare il lavoro come merce"(ib.).

Il ragionamento di Marx non è sbagliato quando afferma che là dove c'è costrizione non c'è democrazia e quindi la costrizione è inutile, perché, prima o poi, il sistema verrà rovesciato. Ma è sbagliato quando aggiunge che, affinché gli uomini capiscano l'importanza della democrazia, occorre ch'essi si liberino dal peso di tutte le costrizioni sociali e che sviluppino la loro individualità. In seguito, dalle contraddizioni che emergeranno, a causa dell'anarchia produttiva, della sfrenata concorrenza e dell'autoritarismo in fabbrica, i lavoratori comprenderanno che la società capitalistica deve necessariamente passare al socialismo.

Purtroppo è proprio sulla base di questo ragionamento che noi dobbiamo addebitare al socialismo marxista (non meno che al liberalismo borghese) la responsabilità della fine immeritata di tutti gli aspetti positivi che esistevano nel sistema feudale. Non era forse positivo il fatto che "generalmente l'operaio e i suoi mezzi di produzione rimanevano nel complesso congiunti tra di loro..."(p.460)? Il socialismo non chiede forse la stessa cosa? Il crollo del cosiddetto "socialismo reale" non è forse stata la più lampante dimostrazione che le teorie di Marx, in questo campo, erano sbagliate?


Ora bisogna fare un'osservazione sul concetto di "divisione del lavoro". Essere contrari, in assoluto, alla divisione del lavoro, sarebbe come porsi fuori della storia. Tuttavia, Marx ha torto quando afferma che "la cooperazione basata sulla divisione del lavoro, ossia la manifattura, è originariamente una creazione spontanea e naturale"(p.467); ha torto perché la manifattura già rientra nello "spirito capitalistico". Egli potrebbe aver ragione se si considerasse la divisione del lavoro in senso lato, come un'attività che ha riguardato qualunque comunità sociale, anche quelle più antiche.

E' incredibile che un uomo del "sospetto" come Marx, abituato a vedere la realtà con grande criticità e disillusione, non si sia accorto come il passaggio da una semplice cooperazione fondata sulla divisione del lavoro alla manifattura vera e propria, abbia comportato una rottura traumatica fra il vecchio e il nuovo. Dire che "allorché [la cooperazione] ha raggiunto un certo grado e una certa consistenza, diviene la forma consapevole, metodica e sistematica del modo di produzione capitalistico"(ib.), è come dire che gli uomini (ad eccezione naturalmente dei capitalisti) erano così ciechi che soltanto dopo molto tempo avrebbero potuto capire i grandi limiti del capitalismo, cioè che in origine la transizione venne accettata nella consapevolezza di realizzare un aumento del benessere per tutta la collettività!

Marx quindi è nel giusto quando afferma che la manifattura è "un raffinato e civilizzato mezzo di sfruttamento"(p.468), ossia "un particolare metodo per procurarsi plusvalore relativo, cioè per accrescere a spese degli operai l'autovalorizzazione del capitale"(ib.). Ma è nel torto quando sostiene che la manifattura "appare come un progresso storico e un momento necessario dell'evoluzione del processo di formazione economica della società"(ib.).

Dunque, è vero, non ha senso essere contro la divisione del lavoro, ma solo a condizione di evitare ogni determinismo storico, poiché con questo si finisce col giustificare una qualunque divisione del lavoro, inclusa quella capitalistica. Gli uomini possono anche specializzarsi in un determinato settore produttivo (se vogliono), ma non debbono sentirsi obbligati a farlo. Essi cioè devono sempre restare liberi di non abbandonare quelle condizioni che permettono loro di sentirsi moralmente soddisfatti anche se non sanno produrre alla perfezione alcun oggetto particolare.

In ogni caso è assurdo pensare che debba esserci una divisione del lavoro che un pugno di capitalisti impone a tutta la collettività. Si possono fare lavori diversi se i diversi lavoratori si riconoscono reciprocamente nel loro ruolo, cioè se assegnano liberamente un valore ai loro rispettivi lavori. Il valore di un lavoro non può essere imposto con la forza, neanche se questa forza è di tipo economico e non fisico, come nell'antichità.

A proposito di "antichità", Marx sbaglia anche quando afferma che "gli scrittori dell'antichità classica...considerano esclusivamente la qualità e il valore d'uso"(p.469). Egli infatti non s'accorge che per gli antichi greci, romani ed egizi il concetto di "valore d'uso" (che può essere applicato solo alle comunità autarchiche) era in antitesi a quello di "qualità". Essendo il loro un regime schiavistico, il concetto di "valore d'uso" non aveva alcun vero contenuto democratico. Lo dimostra appunto il fatto che un oggetto aveva tanto più valore d'uso quanto più forte era la divisione del lavoro, e quindi quanto meno era d'uso sociale. In una società schiavistica un oggetto aveva un grande valore d'uso solo per i ceti benestanti.

In tal senso non esisteva il moderno concetto di "valore di scambio" semplicemente perché non esisteva ancora quella spersonalizzazione volontaria e consapevole dell'individuo post-cristiano, che sola può permettere, attraverso l'uso delle macchine, di ottenere ricchezza puntando sulla quantità (e quindi sui bassi prezzi) invece che sulla qualità (cioè sugli alti prezzi). L'uomo classico non avrebbe mai potuto attribuire a una "macchina" la fonte della sua ricchezza, né avrebbe mai accettato di sacrificare la sua vita per accumulare capitali.

A parte questo, il concetto di "valore d'uso" delle società schiavistiche non era molto diverso dal concetto moderno di "valore di scambio": la differenza stava nel fatto che allora lo scambio poteva avvenire solo fra un numero ristretto di persone (quello di "qualità" poi fra un numero assai esiguo).

Naturalmente anche nel mondo classico si usava la spersonalizzazione del lavoratore per accumulare capitali (non dimentichiamo che lo schiavo era una "cosa parlante"). Tuttavia la spersonalizzazione era imposta dalla classe dominante alle masse, non era una caratteristica della stessa classe al potere. Il potere economico anzi serviva per affermare il primato della individualità. Nel capitalismo invece il capitalista sacrifica la propria individualità a vantaggio del capitale, che è diventato un'entità a se stante.

"Platone -dice Marx nella nota 80 di p.470- spiega la divisione del lavoro...con l'unilateralità delle inclinazioni spontanee degli individui", cioè in realtà la spiega con una "falsità" dettata dai suoi interessi di classe, quegli stessi interessi che lo portarono ad affermare "che l'operaio -sono ancora parole di Marx- deve conformarsi al lavoro e non il lavoro all'operaio"(stessa nota). Singolare che Marx non abbia nulla da dire in merito a questa "coercizione economica", ma ciò si spiega pensando che anch'egli ha tutto l'interesse a far vedere come già nell'antichità classica il concetto di "divisione del lavoro" era acquisito, per cui tra una formazione economica e l'altra non c'è alcuna soluzione di continuità.

Infelice infine è la conclusione del capitolo. Resosi conto probabilmente delle patenti contraddizioni fra ciò che di positivo la manifattura sembrava volesse dare al lavoratore e ciò che di negativo di fatto essa ha dato, Marx cerca di ridimensionare il peso dei suoi limiti, sostenendo che: 1) "sebbene essa...conduca allo sfruttamento produttivo di donne e bambini, tale tendenza generalmente non raggiunge lo scopo, scontrandosi con le abitudini e con la resistenza degli operai maschi adulti"(p.473). (Marx tuttavia non spiega se la resistenza dipenda dall'indignazione morale o dalla paura della concorrenza sul mercato del lavoro); 2) "sebbene la decomposizione dell'attività di tipo artigiano faccia diminuire le spese d'apprendistato e di conseguenza il valore dell'operaio, per certi lavori più complessi si richiede necessariamente un periodo di tirocinio più lungo..."(ib.). (Marx però non aggiunge che tali lavori appartenevano a una ristretta categoria di persone); 3) "il capitale si trova a dover lottare in continuazione con l'insubordinazione degli operai"(ib.). (E' la prima volta che Marx, in questo capitolo, ne parla. A p.464 aveva invece parlato di "degrado intellettuale" dell'operaio parcellizzato, arrivando persino a ricordare che "intorno alla metà del sec. XVIII in alcune manifatture s'impiegavano preferibilmente per certe operazioni semplici dei mezzo idioti..."(ib.). Dunque quali operai si ribellavano alla manifattura?).

Marx in realtà afferma tutto questo non per sottolineare l'importanza della lotta di classe, ma per dimostrare i limiti della manifattura, ovvero l'esigenza storica ch'essa fosse superata dalla "grande industria". "Quando ebbe raggiunto un certo grado di sviluppo, la sua ristretta base tecnica entrò in contraddizione con i bisogni di produzione che essa stessa aveva generato"(p.474).

Qui insomma siamo da capo. Il macchinismo è subentrato per superare i difetti strutturali della manifattura, e nessuno s'è accorto che in realtà esso peggiorava la condizione non solo dell'operaio, ma, questa volta, dell'intera società!

IL SENSO DELLA MANIFATTURA

La manifattura implica un diverso concetto del lavoro, una diversa cultura della vita lavorativa: non si lavora più per vivere, ma perché obbligati da un contratto, per permettere all'imprenditore di accumulare capitali.

Se non ci fosse questa nuova cultura (borghese e schiavistica allo stesso tempo, che il cristianesimo cattolico e protestante ha legittimato), non ci sarebbe neppure la necessità di trasformare il lavoratore in uno strumento del lavoro, da usare il massimo possibile.

Il fatto di poter produrre di più in un tempo minore nel capitalismo costituisce la regola non l'eccezione, nel senso cioè che questo modo di produrre non viene fatto in previsione di una particolare avversità (ad es. la carestia), ma viene fatto allo scopo d'incrementare quanto più possibile il capitale investito, a prescindere dalle condizioni esterne (ambientali) del lavoro.

Questa riduzione dell'operaio a "strumento di lavoro" era possibile nel mondo antico perché si partiva dal presupposto che lo schiavo, non avendo i diritti del cittadino, potesse essere trattato come una "cosa". Questo modo di vedere il lavoro era stato sottoposto a critica dal cristianesimo, il quale poneva liberi e schiavi sullo stesso piano di fronte a dio. Il servo della gleba non voleva essere considerato un "oggetto" del feudatario, e lottava -come lo schiavo dell'epoca romana- per la propria emancipazione.

La differenza stava nel fatto che lo schiavista romano (almeno finché non divenne cristiano) preferiva uccidere lo schiavo piuttosto che concedergli dei diritti; il feudatario invece, di fronte alle dure rivendicazioni dei contadini, poteva anche scendere a compromessi. Era cambiata la cultura.

Nel capitalismo, paradossalmente, l'operaio appare più vicino allo schiavo che non al servo della gleba, poiché risulta essere un mero strumento lavorativo, e tuttavia in tale condizione l'operaio salariato non finisce perché "catturato in guerra" o perché ha accettato consapevolmente, non avendo alternative, di rinunciare a una parte dei propri diritti e di vivere un rapporto di dipendenza personale, ma vi finisce nella pienezza della propria libertà, anzi a causa di questa stessa libertà.

Sotto il capitalismo infatti il lavoratore diventa schiavo del capitale dopo che ha acquisito la piena libertà giuridica, cioè i diritti civili e politici. Egli è personalmente libero, anche se questa libertà non è supportata da alcuna forma di proprietà: è una libertà "totale", ma solo perché "da tutto".

Quindi solo una particolare cultura poteva accettare un dualismo così netto tra libertà formale e schiavitù sostanziale: questa cultura non poteva essere che il cristianesimo e, in modo particolare, il protestantesimo.

LA LEGGE DEL VALORE

Quando il marxismo dice che la sostanza del valore delle cose (oggetti d'uso e beni in generale) è il lavoro, non si rende conto che questo principio non può di per sé intaccare l'ideologia del capitalismo.

Il marxismo ha usato il concetto di "lavoro" contro quello di "capitale", il quale, a sua volta, è strettamente legato a quello di "plusvalore", che rappresenta l'espressione economica dello sfruttamento del lavoratore.

In realtà, la vera opposizione al capitalismo va fatta all'interno dello stesso concetto di "lavoro", poiché non esiste alcun lavoro che, di per sé, dia significato alle cose. Persino il valore economico di un bene di consumo, acquista il suo vero significato aldilà del lavoro puro e semplice.

Si badi, qui non si tratta di sostenere il principio secondo cui il valore dipende dal lavoro e il lavoro dipende da qualcos'altro. Qui si vuole sostenere che questo "quid" dà significato non solo alle cose ma anche allo stesso lavoro che le produce, al punto che, quand'esso viene a mancare, le cose acquistano un valore fittizio, proprio perché il lavoro presume di dare ad esse un valore che in realtà non è in grado di dare.

Ogniqualvolta si sostiene che il significato della vita sta nella dignità che il lavoro può dare, si fa del lavoro uno strumento per impedire che le cose abbiano il loro vero valore.

Quando ci si accontenta di dare alle cose un valore meramente economico, in virtù appunto del lavoro, si è già tolto alle cose un altro valore, quello "spirituale", e con ciò si è fatto del lavoro un'operazione prima ideologica e poi puramente meccanica, che non ha nulla di creativo, di piacevole, di artistico... Se nelle cose si va a cercare solo il lato materiale, il lavoro che le produce sarà necessariamente alienante, perché frutto di una dicotomia tra significato ontologico della vita e primato dell'esigenza economica.

L'aspetto contraddittorio di questo indebito primato sta nel fatto che da un lato il capitalismo riconosce al lavoro la fonte del valore (questa -come noto- non è stata una scoperta del marxismo), e dall'altro fa di tutto per ridurre il tempo di lavoro necessario per produrre una merce.

Tale riduzione non dipende solo -come vuole il marxismo- dall'oggettiva necessità che il capitale ha di estorcere plusvalore all'operaio, ma dipende anche dal fatto che quando si concede il primato al lavoro, nulla può ad un certo punto impedire che glielo si tolga.

Se il lavoro è strumentale al profitto, può esserlo a maggior ragione la macchina, che, riducendo il tempo di lavoro al minimo, permette all'imprenditore profitti supplementari.

Compito dell'operaio, quindi, non deve soltanto essere quello di "impadronirsi della macchina", di metterla al suo servizio, di lavorare il meno possibile (in quanto il lavoro comporta stress, fatica, pericolosità ecc.), di dedicare quanto più tempo libero possibile alla propria fantasia creativa, alla propria originalità di "inventore" o di ideatore.

Compito dell'operaio deve essere anche quello di riscoprire il significato della vita, poiché è una grande ingenuità pensare che l'operaio potrà riscoprire il lato creativo, artistico del lavoro solo dopo che avrà espropriato il capitalista.

L'operaio deve sapere che il capitalista (quale figura simbolica, non specifica) ha usato lo strumento del lavoro per emanciparsi come individuo, contro gli interessi della collettività. Attraverso il lavoro, il capitalista ha dato alle cose un valore diverso da quello che prima avevano. E' appunto questo valore perduto che va recuperato.

Ma, per poterlo fare, all'operaio non basta espropriare il capitalista, né basta garantire il lavoro a tutti: occorre anche dare un senso spirituale alla vita e quindi, secondariamente, al lavoro che si svolge.

Non ha senso rivendicare una transizione al socialismo solo per garantire ai lavoratori una maggiore organizzazione (o pianificazione) del loro lavoro. Il cittadino non è anzitutto un "lavoratore", ma un "essere umano", che ha bisogno, per vivere, non solo di lavorare, ma anche e soprattutto di essere, cioè di avere un significato per cui esistere.

Non ha veramente senso pensare che lo sviluppo delle forze produttive possa dipendere dal risparmio del tempo di lavoro: questa forma di "sviluppo" non garantisce assolutamente nulla circa lo sviluppo della qualità della vita.

Secondo Marx i prezzi delle merci sono in contraddizione col loro valore appunto perché si tratta di merci capitalistiche, soggette al tipico antagonismo di capitale e lavoro. La deviazione dei prezzi delle merci dal loro effettivo valore è considerata naturale o legittima dal punto di vista del capitale, ma questa deviazione viene pagata molto cara da chi non possiede mezzi di produzione: non solo perché, in ultima istanza, risulta impossibile un controllo sui prezzi, ma anche perché la stessa forza-lavoro (che è merce al pari di altre) viene venduta a un prezzo molto più basso del valore che poi produce.

Alla tesi borghese secondo cui nessuna merce capitalistica ha un vero valore che non sia il suo prezzo e che la deviazione di tale prezzo dall'effettivo valore di una merce è parte costitutiva del gioco della domanda e dell'offerta, Marx rispose cercando di dare un fondamento scientifico alla teoria del valore e pensò di averlo trovato nel concetto di tempo socialmente necessario: valore e prezzo possono coincidere dal punto di vista del valore se esiste un collettivo che sappia attribuire un tempo socialmente necessario alla produzione di una determinata merce (è il cosiddetto lavoro astratto).

E' noto che la teoria marxiana del valore ha bisogno di una rivoluzione politica per realizzarsi: una rivoluzione che sostituisca lo spontaneismo anarchico dell'economia capitalistica con una programmazione razionale della produzione collettivizzata.

Oggi questa soluzione (leninista), dopo il fallimento del socialismo reale, non è più ritenuta sufficiente. Tuttavia, il fatto di non aver cercato delle alternative praticabili al leninismo (se si esclude la parentesi della perestrojka) ha portato a questa situazione paradossale: tutte le teorie d'ispirazione socialista sembra abbiano la funzione di porsi come mero correttivo agli eccessi del capitale.

Quanto a questa strumentalizzazione delle teorie socialiste abbia contribuito lo stesso Marx è documentato dal fatto ch'egli era convinto della possibilità di una conduzione "normale" della concorrenza in cui domanda e offerta coincidono: il socialismo altro non avrebbe dovuto fare che garantire detta "coincidenza", del tutto impossibile nel sistema capitalistico.

Come noto, gli economisti borghesi si sono serviti di queste tesi per istituire il cosiddetto "Welfare State", col quale si voleva porre un argine agli abusi del "laissez faire" (che portarono alle due guerre mondiali). Lo Stato assistenziale si pone come una sorta di socialismo filantropico per quelle categorie di cittadini che non riescono a sopportare gli antagonismi sociali e che per questa ragione potrebbero trasformarsi in un fattore destabilizzante per l'economia. Tuttavia il capitale tenta continuamente di smantellare le forme di assistenzialismo ch'esso stesso si è dato dietro la pressione popolare. L'altra soluzione del capitale è di regola il ricorso a conflitti bellici contro paesi terzi.

Spesso Marx ha dato l'impressione di avere come punto di riferimento una sorta di capitalismo teorico o primordiale, antecedente alla rivoluzione industriale del XVIII sec. Un capitalismo che nei confronti del feudalesimo aveva tutte le ragioni per imporsi e che però, per svilupparsi in maniera adeguata, avrebbe avuto bisogno di correttivi in senso sociale.

La sua stessa teoria del valore, se si prescinde dalle esigenze di una rivoluzione politica, sembra trovare un qualche riscontro in quel periodo storico di transizione dal feudalesimo al capitalismo in cui effettivamente il borghese cercava di dare al proprio lavoro un valore superiore a quello che nel feudalesimo si stabiliva sulla base della rendita fondiaria. La legge di Marx sembra necessitare, per la sua attuazione, di una sorta di onestà di fondo da parte del produttore. E' come se presupponesse uno stile di vita pre-capitalistico (in cui dominava il valore d'uso!) in condizioni sociali capitalistiche.

Marx in sostanza voleva far capire agli economisti borghesi che se non fosse stato possibile stabilire una legge del valore, il capitalismo si sarebbe autodistrutto, in quanto nessuna società può reggersi sulle fondamenta del più assoluto arbitrio, e che se quella possibilità si fosse realizzata, il capitalismo si sarebbe trasformato in socialismo.

Marx aveva tutte le ragioni nel criticare gli economisti borghesi quando sosteneva che se il valore di una merce è determinato, in ultima istanza, solo dal suo prezzo, al punto che solo il prezzo è indice del suo effettivo valore, allora tutto è affidato al caso, poiché in una società fondata sul mero profitto i prezzi sono quanto di più volatile esista. E il mercato, in tal senso, non ha la forza sufficiente per regolare la vita sociale: se così appare nelle società capitalistiche è perché oltre al mercato interno esse possono avvalersi delle migliori condizioni per sfruttare i mercati esteri delle colonie.

Tuttavia Marx non è andato oltre questa critica e i suoi epigoni non hanno contribuito a svilupparla in profondità.

Noi sappiamo che un bene di consumo deve essere preso in esame sotto un duplice aspetto: come bene materiale (costi di produzione, tempo di lavoro occorso, prezzo di mercato ecc.) e come bene culturale (valori personali e collettivi, tradizioni di usi e costumi ecc.).

Un bene può avere un grande valore materiale e non per questo suscitare da parte di chi lo possiede sentimenti di natura privatistica, appunto perché vanno considerati anche i valori culturali.

I beni di consumo, le merci, gli oggetti in generale, hanno un loro determinato valore materiale, ma l'uomo deve sempre assicurarsi di possedere la facoltà di attribuire a quelle stesse cose un valore diverso, connesso a condizioni o situazioni immateriali dell'esistenza. L'uomo deve poter essere libero di usare le cose a prescindere dal loro valore materiale.

In un lager un pezzo di pane può avere un grandissimo valore, ma non ne ha nessuno (dal punto di vista materiale) per la persona che lo regala per il bene di un'altra persona.

I valori spirituali - se sono puri, spontanei, genuini - sono infinitamente superiori a quelli materiali, ed essi non possono essere misurati né sulla base dei costi produttivi, né sulla base del tempo lavorativo.

Un valore spirituale (p.es. amicizia, affetto, riconoscenza...) può rendere preziosa una cosa apparentemente insignificante, poiché le imprime un carattere simbolico, e, viceversa, può rendere superflua, inutile, una cosa che sul mercato può avere un grande valore commerciale.

Una cosa ha valore per l'uso che se ne fa, ma, oltre a questo, essa ha il valore che l'uomo, in quel momento, le attribuisce. Se le cose hanno un valore che non dipende dalla volontà degli utilizzatori, questi sono inevitabilmente schiavi delle merci.

Se un uomo non sa apprezzare il valore simbolico di un oggetto, allora egli è schiavo della mentalità che attribuisce alle cose solo un valore materiale. Persino il capitale fa di tutto per creare valori simbolici (tramite la pubblicità, le mode, i capi firmati ecc.) con cui realizzare maggiori profitti.

Spesso a cose insignificanti si attribuiscono grandi valori simbolici, proprio per il fine immateriale che a loro attribuiamo.

Domanda: Marx avrebbe accettato l'idea che il prezzo di un bene di consumo potesse essere determinato da fattori extra-economici, e potesse quindi anche essere inferiore al suo effettivo valore? Si badi, qui non stiamo pensando ai fattori coercitivi del socialismo di stato, dove i prezzi e le tariffe erano tenuti volutamente bassi per favorire il bene comune: cosa che Marx forse non avrebbe condiviso.

Affinché il valore immateriale di un bene sia riconosciuto da una collettività, occorre la presenza di una storia comunitaria, di tradizioni condivise, consolidatesi nel tempo. Un valore è davvero spirituale non quando viene deciso dal singolo, ma quando è riconosciuto da una collettività. Ed è solo in presenza di questa collettività, fondata sui valori culturali, che si può attribuire alle cose il loro vero valore materiale.

Ecco perché non ha senso sostenere che nel capitalismo la misura del valore di una merce è data dal tempo di lavoro socialmente necessario. Il lavoro astratto presume che la vita collettiva (l'unica in grado di decidere il tempo socialmente necessario) sia gestita dalla collettività stessa e non da pochi individui proprietari dei mezzi produttivi, che alla fine del processo decidono i prezzi che vogliono. Un capitalista cercherà sempre e in ogni caso di ottenere il massimo investendo il minimo, anche a costo di minare la salute o la sicurezza del lavoratore e dell'ambiente in cui vive.

Se la collettività credesse in un tempo di lavoro "oggettivo", perché appunto "socialmente necessario", ogni abuso privato che violasse questo principio verrebbe punito. Un singolo non può violare una legge (scritta o non scritta) contro gli interessi della collettività.

Se si vuole, il capitalismo è nato proprio nel momento in cui la comunità non era più in grado di tutelarsi da chi aveva messo in discussione la possibilità di stabilire un tempo di lavoro socialmente necessario, cioè da chi, in sostanza, si era preso la libertà di decidere, per la produzione di determinati beni, un tempo diverso, usando mezzi diversi.

Ecco perché il capitalismo non sarebbe mai potuto nascere senza una contestuale rivoluzione culturale e un'altra di tipo tecnico-scientifico. Se si unisce la proprietà privata dei mezzi produttivi con la rivoluzione tecnologica ci si accorge facilmente che il tempo di lavoro socialmente necessario per produrre un determinato bene di consumo varia di continuo, anche contro gli interessi dello stesso capitalista. Infatti, è la legge della concorrenza che impedisce al capitalismo di "avere pace", cioè di poter fare affidamento su leggi oggettive "positive".

Una volta innestato il meccanismo individualistico della concorrenza, ogni stabilità è perduta. E anche quando s'instaura il regime di monopolio, la concorrenza non è mai completamente abolita, poiché, essendosi il mercato esteso a livello mondiale, è molto facile che si formino nuovi concorrenti in aree geografiche insospettate.

La concorrenza permane tra monopoli di rami diversi, all'interno di uno stesso paese, perché l'uno teme che l'altro possa estendere il proprio monopolio in nuovi settori; permane altresì tra monopoli di rami analoghi, presenti in paesi diversi, perché una nazione cercherà sempre, favorendo i propri monopoli, d'indebolire la nazione concorrente; la concorrenza inoltre si crea quando paesi non tradizionalmente capitalisti, decidono - con costi spaventosi - di diventarlo, come sempre più spesso succede nell'area del Terzo mondo.

Ogniqualvolta un paese del Terzo mondo recide il cordone ombelicale che lo lega all'occidente, e comincia a pretendere una certa autonomia politica ed economica, la concorrenza tanto temuta dai monopoli occidentali costringe a fare assegnamento su tutte le risorse finanziarie e tecnologiche disponibili per poterla fronteggiare (prima di ricorrere ai mezzi estremi di tipo bellico).

Insomma furono i troppi pregiudizi nei confronti del mondo rurale che impedirono a Marx di considerare il fatto che là dove domina il principio del valore d'uso e là dove un bene è riconosciuto dalla collettività come assolutamente fondamentale per la propria sopravvivenza, il suo prezzo non può essere determinato né dalla volontà del produttore, né dalla contrattazione che si verifica sul mercato.

Qui devono entrare in gioco fattori extra-economici di tipo naturale, come p.es. una tradizione consolidata nell'uso di quel bene; il valore che una determinata collettività attribuisce per tradizione a quel particolare bene comune; la volontà politica del governo in carica di tutelare i cittadini dalle possibili forme di speculazione su di esso, ecc. Il socialismo reale è fallito anche perché non è andato a cercare tali fattori nel mondo rurale, ma ha cercato di imporne altri in maniera artificiale, desumendoli dall'organizzazione industriale tipica del capitalismo.

Quando domina il valore d'uso, l'economia è sempre tenuta sotto controllo dalla politica. Una concorrenza "pura", "onesta", che prescinda dalla politica, non è mai esistita. E quando la politica esiste, tale concorrenza non è mai possibile o comunque è molto difficile su quei beni di largo consumo, che assicurano la sopravvivenza di una determinata popolazione. In una società pre-capitalistica il valore economico delle cose è sempre influenzato (e, in un certo senso, tenuto sotto controllo) dal valore culturale che una determinata collettività assegna, per tradizione, alle cose.

Certo, ci può essere concorrenza anche quando il produttore abbassa volontariamente il prezzo di una merce oltre il suo valore abituale, onde acquisire una maggiore clientela e possibilmente rovinare altri concorrenti. Ma se domina il valore d'uso, questa tattica non ha ragione di esistere, poiché essa presuppone già il primato del valore di scambio (e infatti per molti secoli non è mai esistita nel Medioevo).

Nessuno volontariamente produce in perdita; se e quando lo fa, è perché sa che altri stanno facendo per lui (cioè per il suo bisogno di sopravvivenza) esattamente la stessa cosa - ma questo implica, ancora una volta, il primato del valore d'uso.

Dunque il prezzo può essere inferiore al valore di una merce di uso comune quando il produttore sa che la sua sopravvivenza non dipende dalla vendita di quella merce, ma dalla volontà dell'intero collettivo. Ecco perché il socialismo scientifico deve studiare molto di più i criteri produttivi del sistemi pre-capitalistici.

Oggi le contraddizioni del capitalismo sono diventate così stridenti e complesse che se si volesse vendere un prodotto al suo valore, sarebbe meglio scambiarlo con un altro ritenuto di valore equivalente (non a caso il baratto è durato per migliaia di anni). Questo perché nessuno, neppure il capitalista, è in grado di stabilire il vero valore di una merce né quindi la corrispondenza tra valore e prezzo, e anche se fosse in grado di farlo la sua tentazione principale sarebbe quella d'imporre un prezzo di monopolio.

Cioè se si vuole sostenere -come fanno gli economisti borghesi- che il valore delle merci non può essere determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrle, allora bisognerebbe eliminare lo scambio delle merci sulla base di un prezzo monetario. Lo scambio dovrebbe avvenire unicamente sulla base dell'uso e in una forma non molto diversa da quella dello scambio in natura. Questo sarebbe l'unico modo per ridare una qualche oggettività all'azione economica.

Non ha senso sostenere che, poiché nel capitalismo una merce non coincide quasi mai col suo valore effettivo, la teoria del valore di Marx non ha nulla di scientifico. Se non può esistere, in generale, una teoria scientifica del valore, allora nel capitalismo le uniche leggi oggettive sono di natura "negativa": la sovrapproduzione, la concentrazione dei mezzi produttivi nelle mani di pochi monopolisti, la crescente disoccupazione, la caduta tendenziale del saggio di profitto, il continuo sfruttamento delle colonie, il crescente primato degli aspetti finanziari su quelli produttivi, la tendenza a militarizzare l'economia, l'autoritarismo sempre più forte degli Stati ecc.

Invece di fare l'apologia di un sistema irrazionale, che pur basandosi sul primato dell'economia, non riesce neppure a far coincidere prezzo con valore, bisognerebbe arrivare a dire che la legge marxiana del valore può trovare la sua piena attuazione solo in una società dove i contraenti sono effettivamente liberi e quindi entrambi in grado di decidere se un prezzo è congruo al valore delle cose.

Questa libertà contrattuale, nel capitalismo, non è mai esistita. Infatti, se c'è una cosa che il capitalista, sul piano pratico, non sopporta è proprio l'equivalenza tra domanda e offerta (che invece viene sbandierata come un dogma sul piano teorico). Egli in realtà vuole che la domanda resti sempre più alta dell'offerta, al fine di poter realizzare il massimo profitto. E questo nonostante che, proprio a causa della contraddizione tra capitale e lavoro, egli ottenga esattamente il contrario, e cioè di produrre più di quanto possa vendere.

Proprio a causa della proprietà privata dei mezzi produttivi, e quindi della concorrenza, normalmente si ha che l'offerta superi la domanda e che quindi si finisca, periodicamente, nelle cosiddette crisi di sovrapproduzione, che i lavoratori, di regola, pagano col licenziamento.

Il sogno del capitalista è sempre quello di poter mettere alle proprie merci un prezzo di molto superiore al loro effettivo valore; il suo incubo è quello di vedere come, proprio a causa dello sfruttamento perpetrato ai danni dei lavoratori, questi non sono in grado di acquistare le merci (da essi stessi prodotte) al prezzo che il capitalista impone.

Ecco perché diciamo che quando si parla di "vendita" si presuppone, di per sé, l'uso del denaro e quindi la possibilità di un guadagno che vada al di là del valore effettivo di una merce. Chi "vende" non lo fa solo per ottenere, attraverso il denaro, dei beni che non riesce a produrre (o che non trova conveniente produrre), ma lo fa anche per realizzare un guadagno.

Normalmente tale guadagno viene concepito come garanzia di sicurezza per la propria vita. L'uso del denaro, infatti, è tipico dei regimi antagonistici. Laddove è stata distrutta la comune proprietà dei mezzi produttivi, esiste sempre l'esigenza di sostituire una sicurezza venuta meno: quella offerta dalla comunità, con una nuova sicurezza: quella offerta dal denaro. Per ottenere il quale ogni mezzo viene considerato più o meno lecito: tant'è vero che in forza di tale accumulazione si giustifica lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Ora, come si può parlare di "giustizia" quando i prodotti che si vendono (proprio perché si vendono) sono la conseguenza di uno sfruttamento?

Perché ci fosse veramente uno scambio di equivalenti occorrerebbe anzitutto abolire la vendita qua talis o comunque la sua necessità: in tal caso tutta la valutazione del valore verrebbe affidata alle parti in causa dello scambio, sulla base di esigenze comuni e condivise, appartenenti a collettività differenti.

Quando i conquistadores scambiavano perline e specchietti contro l'oro degli indios, i contraenti erano entrambi soddisfatti della transazione avvenuta, anche se i primi avevano cercato d'ingannare i secondi. Evidentemente per gli indios l'oro non aveva altro valore che quello che si può attribuire a un ornamento estetico (è infatti un prodotto durevole e praticamente incorruttibile). Importante era la libera scelta della contrattazione, che, come noto, durò allora assai poco.

Ora, perché si possa realizzare e conservare nel tempo tale libera scelta, occorre che le parti in causa restino prevalentemente autonome. E' ovvio: se c'è bisogno di contrattazione commerciale, l'autonomia è relativa, poiché una comunità può aver bisogno dell'altra, almeno per determinati prodotti.

L'importante è che una comunità non debba dipendere da un'altra per le sue esigenze vitali (come il mangiare, il bere, il dormire, il vestirsi, il riprodursi...). Non si possono sottoporre a contrattazione beni di uso quotidiano, la cui mancanza, anche temporanea, metterebbe in pericolo la sussistenza di una comunità.

Certo, il sale e le spezie, nel Medioevo, erano di uso quotidiano, anche se venivano comprati sul mercato, ma una comunità non minacciava di scomparire se venivano meno quei due condimenti. Almeno non tanto quanto avveniva nel caso in cui la si privava della terra da coltivare per trasformarla in pascolo o in monocolture per il mercato.

In realtà il socialismo scientifico deve tornare a riflettere sul concetto di valore d'uso, che in sostanza significa "autoconsumo" e quindi indipendenza dalle fluttuazioni del mercato, dalle speculazioni dei produttori privati, dalle deviazioni verso l'alto dei prezzi delle merci, rispetto al loro effettivo valore, ecc. Il commercio per il (o sul) mercato deve ridiventare un aspetto secondario dell'attività economica di un collettivo.

Avendo sempre fatto coincidere "valore di scambio" con "forma sociale" del rapporto produttivo, il marxismo non è mai riuscito a vedere nel "valore d'uso" altro che un mero "contenuto materiale", cioè l'espressione di un interesse contingente o specifico.  Per Marx il valore d'uso, in sé, esprimeva qualcosa di rozzo, di arretrato, persino di individualistico, perché così gli appariva la vita rurale. Viceversa, il valore di scambio gli appariva come qualcosa di evoluto, progressivo, addirittura di "socializzante".

Il marxismo non ha mai visto il valore d'uso come espressione economica di un valore culturale (etico metafisico ontologico) molto più grande. E così è caduto nell'ingenuità di pensare che si potesse salvaguardare il migliore capitalismo (p.es. il primato dell'industria sull'agricoltura o della città sulla campagna), senza lo sfruttamento dei lavoratori.

Oggi invece bisogna affermare, nello stesso tempo, che non ci potrà essere la fine dello sfruttamento del lavoro senza la fine del capitalismo e che questo non implica soltanto (come nel leninismo) la fine della proprietà privata dei mezzi produttivi, ma anche la fine del primato dell'industria sull'agricoltura, della città sulla campagna, del lavoro intellettuale su quello manuale, del valore di scambio su quello d'uso, dell'uomo sulla natura, del maschio sulla femmina e così via.

Già il semplice fatto che sotto il capitalismo si "deve" produrre per il mercato, nel senso che non si è liberi di voler fare qualcosa che non sia un obbligo per le esigenze del mercato, cioè il semplice fatto di dover produrre anzitutto per il mercato e non per se stessi o per il collettivo cui si appartiene, è indice sicuro di un'alienazione sociale. L'alienazione sta proprio nel fatto che si finisce col produrre cose la cui quantità e qualità, il cui valore e prezzo vengono decisi altrove, da terze parti.

E' giusto produrre cose per un uso collettivo, è giusto considerare di valore cose che hanno soprattutto una finalità del genere, ma tra il collettivo e l'individuo vi dev'essere un'intesa stretta, in modo che ognuno possa dire la sua sul prodotto che vende o che compra.

La sicurezza di ogni singolo individuo può dipendere solo dalla comunità di appartenenza, e in questa comunità egli deve poter produrre ciò di cui ha bisogno, oppure deve poter acquistare agevolmente ciò che gli permette di sopravvivere, offrendo, nella misura in cui gli è possibile, qualcosa in cambio.

La sicurezza non può essere garantita dal mercato, che è sempre molto fluttuante nei prezzi, nella disponibilità delle merci, nel valore effettivo delle cose... Inoltre quando esistono dei monopoli produttivi, la libertà del mercato è praticamente vanificata. Oggi molto più di ieri. La trasformazione dei prezzi di produzione in prezzi di monopolio è un dato di fatto incontrovertibile e irreversibile.

Il mercato non solo è per sua natura instabile, ma in presenza dei monopoli diventa persino pericoloso, perché manda facilmente in rovina i piccoli produttori, obbliga a scelte indesiderate, fa pagare queste scelte a milioni di persone...

Poter consumare ciò che si produce è una forma di sicurezza che mai nessun mercato potrà dare. Ancora più grande è la soddisfazione di sapere che la comunità si preoccuperà di soddisfare i nostri bisogni anche nei momenti di maggiore difficoltà personale.

Quando esiste autoconsumo si sopportano meglio le possibili ingiustizie che avvengono nello scambio dei prodotti. La garanzia di sopravvivenza all'interno di un collettivo permette di attutire meglio gli inevitabili abusi generati dallo scambio.

Il problema quindi non è semplicemente quello di eliminare il primato del valore di scambio o l'uso della moneta o di ridurre gli scambi favorendo l'autoconsumo: è quello piuttosto di come ricostruire un collettivo i cui i singoli produttori e consumatori capiscano che il perseguimento dei loro interessi personali non è in contraddizione con quelli dell'intero collettivo.

Si tratta quindi di tornare al Medioevo, senza servaggio né clericalismo. Questo obiettivo è alla portata dell'Europa occidentale? o degli Stati Uniti? o del Giappone? Non è forse passato troppo tempo perché i lavoratori possano recuperare la memoria del valore d'uso?

Per poter riaffermare il primato del valore d'uso su quello di scambio, il primato del lavoro sul mercato, del valore sul prezzo, ecc. occorre che tutti gli uomini ripensino il modello generale della loro società, il significato stesso della parola "sviluppo".

Marx, partendo nel Capitale dal concetto di "merce", ha voluto far capire che il primato concesso dal capitale al valore di scambio si opponeva agli interessi del lavoratore soltanto perché questi era un salariato al servizio del capitalista, e non anche perché un qualunque primato concesso al valore di scambio, ai danni del valore d'uso, porta il lavoratore a non essere mai libero.

In tal senso dobbiamo francamente dire di non credere che "la prima legge economica" risieda nella tendenza insita nell'impiego del lavoro umano di "risparmiare il tempo" al fine di produrre determinati beni. E' vero che le innovazioni che alleviano il lavoro riducono il tempo di lavoro per unità di prodotto e in tal modo ne elevano la produttività. Ma questa non è una tendenza naturale.

Per una mentalità "naturale" ciò che conta è poter consumare ciò che produce o di poter ottenere dei beni di consumo in maniera relativamente agevole o sicura, e non tanto di far ciò nel minor tempo possibile, a meno che non lo richieda una necessità immediata, improvvisa, contingente.

Chi fa del "risparmio di tempo" un presupposto della produttività, già vive un rapporto alienato con la realtà. Non è il tempo infatti che appartiene all'uomo, ma il contrario.

Quando si dice che il risparmio del tempo di lavoro è la molla dello sviluppo delle forze produttive, non si dice nulla circa la "qualità" di questo sviluppo. Non dovrebbe essere molto difficile capire che uno sviluppo quantitativo delle forze produttive può non implicare affatto uno sviluppo della qualità della vita. E, viceversa, uno sviluppo della qualità della vita può anche non implicare quello delle forze produttive.

Le innovazioni che alleviano il lavoro e che riducono il tempo, nascono già da una vita che considera il lavoro come un peso insopportabile. E se il lavoro viene concepito come tale, allora significa che in quella società esistono dei rapporti sociali basati sull'antagonismo.

Nel capitalismo la tecnologia si sviluppa per migliorare la produttività, ma più si sviluppa la produttività e più occorre nuova tecnologia per superare l'alienazione del lavoro. E' un circolo chiuso. Gli operai lottano per avere migliori condizioni di lavoro e non si accorgono che quanto più lottano tanto più rischiano di essere sostituiti dalle macchine. Invece di combattere contro il sistema in generale, combattono i suoi singoli difetti, risolti i quali il sistema, dopo un certo tempo, diventa ancora più invivibile.

COMMENTO AL CAPITOLO VI DEL LIBRO I DEL "CAPITALE"

K. Marx, Risultati del processo di produzione immediato, Editori Riuniti, Roma 1984

(Il "Commento" avrà come scopo soltanto quello di verificare la fondatezza di alcune tesi espresse nell'analisi del I libro del Capitale).

Sin dall'inizio del capitolo, Marx cade nel circulus vitiosus secondo cui la merce va considerata come "presupposto per la genesi del capitale" e nel contempo come suo "prodotto"(p.49). Questa tautologia si rifletterà più avanti, nel modo di vedere il rapporto tra capitalista e salariato nell'ambito della circolazione del capitale. "Nella circolazione il capitalista e l'operaio stanno l'uno di fronte all'altro solo come venditori di merci..."(p. 93): la merce dell'operaio è -come noto- la sua stessa forza-lavoro. E si rifletterà anche nella differenza che Marx pone tra sussunzione formale e reale del lavoro sotto il capitale (cfr pp.125ss.).

Marx si rende conto che esiste una certa diversità fra la merce come "presupposto" e la merce come "prodotto", ma non riesce a spiegarsene la ragione culturale. E' questa la tesi che vogliamo dimostrare.

Egli afferma: "in precedenti stadi di produzione i prodotti assumono parzialmente la forma della merce. Invece il capitale produce necessariamente il suo prodotto come merce"(p.50). Detto altrimenti: i due presupposti fondamentali per la nascita del capitalismo sono, secondo Marx: 1) "che i membri concorrenti della società si fronteggino come persone che si stanno davanti solo in quanto possessori di merci e che solo in quanto tali entrano reciprocamente in contatto (ciò esclude la schiavitù, ecc.)"; 2) "che il prodotto sociale sia prodotto come merce. (Ciò esclude tutte le forme in cui, per i produttori immediati, il valore d'uso è lo scopo principale, e tutt'al più si trasforma in merce l'eccedenza del prodotto, ecc.)"(p.81).

Come si può notare, la differenza, fra un sistema e l'altro, è per Marx meramente quantitativa, anche se ciò comporta, ad un certo punto, una diversa qualità delle cose. Infatti, nessun sistema pre-capitalistico è in grado di produrre necessariamente delle merci. Marx lo dice esplicitamente a p.129: "ciò in cui il processo lavorativo sussunto anche solo formalmente sotto il capitale si differenzia sin da principio...pur sulla base del vecchio modo di lavoro tramandato, è la scala sulla quale questo processo lavorativo viene eseguito; quindi, da una parte, la massa dei mezzi di produzione anticipati, dall'altra il numero dei lavoratori comandati dallo stesso imprenditore".

Per Marx dunque il passaggio da un sistema pre-capitalistico a uno capitalistico avviene secondo i parametri dell'evoluzionismo, secondo la logica hegeliana della necessità storica. "L'autovalorizzazione del capitale... -dice Marx- è soltanto impulso e scopo razionalizzati del tesaurizzatore"(p.95). Il "modo di produzione specificamente capitalistico...si sviluppa...con il progredire della produzione capitalistica..."(p.128).

Questo naturalmente non significa ch'egli non abbia compreso la natura antagonistica del sistema capitalistico, ovvero l'ingiustizia di un'appropriazione privata del plusvalore. Ciò che dell'analisi marxiana si mette in discussione è l'affermazione secondo cui il capitale che all'inizio esiste solo come denaro, debba inevitabilmente valorizzarsi in direzione del capitalismo (cfr p.79).

Marx spiega questo "destino" riferendosi alla grandezza, in perenne crescita, del capitale (cfr p.80), nel senso che non si potrebbe accumulare del denaro se non si avesse intenzione di accumularne sempre più. Ma, come si può facilmente notare, questa spiegazione, che dovrebbe giustificare la genesi del capitalismo, è di tipo psicologico, certo non culturale. Essa non ha un fondamento propriamente storico e pertanto ha scarso valore epistemologico. Stando ad essa infatti il capitalismo è nato casualmente in Europa occidentale, e altrettanto casualmente esso poteva nascere in qualunque altra regione del mondo ove i commerci fossero discretamente sviluppati.

In pratica Marx non solo non vede "rotture" o "salti" da un sistema all'altro, ma vede persino "evoluzione" dal comunismo primitivo (che per lui coincide, almeno in questi anni, con la "comunità naturale" dell'India classica) al sistema schiavistico. "I momenti generali del processo lavorativo...sono determinazioni indipendenti da ogni carattere storico e specificamente sociale del processo di produzione, e determinazioni che rimangono ugualmente valide per tutte le sue possibili forme di sviluppo; di fatto, condizioni naturali immutabili del lavoro umano...non appena questo si sia spogliato del suo carattere puramente animale"(p.128).

Naturalmente, essendo un economista, Marx cerca di spiegare la differenza fra un sistema e l'altro anche dal punto di vista fenomenologico (che è anzi quello da lui privilegiato). In tal senso la sua osservazione è giusta: "la trasformazione del denaro in capitale...può aver luogo soltanto quando la capacità di lavoro sia trasformata, per l'operaio stesso, in una merce..."(p.50), cioè quando l'operaio stesso, con la sua forza-lavoro, si trasforma in una merce.

In nessun sistema pre-capitalistico s'era mai visto un potere economico che usa la libertà giuridica del lavoratore per farlo diventare socialmente schiavo lasciandolo libero! Su questo Marx avrà sempre una ragione in più rispetto agli economisti borghesi. Tuttavia, ciò ch'egli non riesce a spiegare è il motivo per cui il lavoratore ha accettato questa mistificazione, ovverosia qual è stata l'ideologia che ha indotto il lavoratore, illudendolo, ad accettare la mistificazione (quali sono stati gli argomenti persuasivi). Qui il lavoro da fare era nell'ambito della sovrastruttura, la cui importanza è sempre stata sottovalutata da Marx.


Per Marx "la produzione capitalistica supera la base della produzione di merci, la produzione isolata e indipendente e lo scambio tra possessori di merci o lo scambio di equivalenti"(p.52). Questo significa che il capitalismo, in quanto sistema produttivo finalizzato anzitutto al valore di scambio, va considerato superiore a qualunque altro sistema ove la produzione di merci avvenga in maniera "isolata e indipendente", tanto più dove si produce "per l'immediato consumo personale"(ib.).

Pur senza dirlo (ma è probabile che lo faccia inconsciamente), Marx tende sempre a confrontare due forme di capitalismo: quella commerciale e quella industriale. La forma commerciale -come noto- si trova anche nel sistema schiavistico. Qui la divisione del lavoro è "casuale"(p.51) e l'agricoltura non è interamente dominata dal capitale. "La trasformazione dei prodotti in merci si verifica solo in singoli punti, si estende solo all'eccedenza della produzione, o solo a sue singole sfere (prodotti manifatturieri) ecc."(p.54). "Il capitale mercantile -dice a p.130-...è la forma dalla quale si è sviluppato il moderno rapporto capitalistico, e che qui e là costituisce tuttora la transizione al vero e proprio rapporto capitalistico".

Ora, guardando le cose dal punto di vista dell'efficienza produttiva, Marx non ha difficoltà nel ritenere il moderno capitalismo di molto superiore a ogni altro sistema produttivo. Una società basata sull'"immediato consumo personale" è -per Marx- quasi sinonimo di barbarie o quanto meno di primitivismo semi-animalesco. Marx è stato così affascinato dalla potenza del capitalismo che non ha avuto nemmeno l'accortezza di precisare, in questo capitolo, che quando si parla di "lavoro produttivo" bisogna sempre mettersi nei panni del capitalista, per il quale qualunque lavoro finalizzato al "valore d'uso" è necessariamente "improduttivo"; ed evitare di dire che ogniqualvolta il lavoro "è consumato per il suo valore d'uso, non in quanto generatore di valore di scambio, è consumato improduttivamente..."(p.148). Si può forse definire "produttivo" un lavoro finalizzato al plusvalore e non al benessere della società? Anche solo dal punto di vista capitalistico: si può veramente considerare "improduttivo" un lavoro che produce "servizi" invece che beni materiali?

Certo Marx non ha la pretesa di dire, come gli economisti borghesi, che "il capitale è un momento necessario del processo lavorativo umano in generale, a prescindere da ogni forma storica di questo processo; il capitale è qualcosa di eterno, qualcosa di condizionato dalla natura del lavoro umano"(p.86). Né che "il processo lavorativo in quanto tale, in tutte le forme sociali, sia necessariamente processo lavorativo del capitale"(ib.). Egli sa bene che "la logica che conclude: poiché il denaro è oro, l'oro è di per sé denaro; poiché il lavoro salariato è lavoro, ogni lavoro è necessariamente lavoro salariato"(ib.), è una logica antistorica. Tuttavia, Marx non è mai riuscito a dimostrare sul piano storico-culturale come questa logica sia antistorica.

Persino sul piano strettamente economico, Marx non ha preso in sufficiente considerazione il fatto che fino a quando non s'è imposto il capitalismo industriale, il ramo in cui s'è esercitato, in prevalenza, il lavoro umano è stato quello dell'agricoltura - anche nella fase del capitalismo commerciale. I suoi studi sulla rendita fondiaria sono limitati a un singolo aspetto del sistema feudale, quello che non a caso mette più in luce i limiti del feudalesimo. Paradossalmente il Marx "evoluzionista" non è mai stato in grado di spiegare il motivo per cui l'autarchico feudalesimo va considerato un "progresso" rispetto allo schiavismo commerciale del mondo greco-romano.

Ora, sostenere -come lui sostiene- che nei sistemi pre-capitalistici la produzione era "isolata e indipendente", può avere un senso solo se ci si riferisce all'attività commerciale del mercanti di città, ma, in tal caso, si sarebbe dovuto specificare che si trattava di una minoranza di lavoratori. Infatti, la stragrande maggioranza (anche, p.es., nell'Italia comunale) continuava a svolgere un'attività in agricoltura, in forma né "isolata" né "indipendente".

Nel settore agricolo la produzione "isolata e indipendente" era patrimonio di poche unità familiari (patriarcali), in quanto la stragrande maggioranza dei lavoratori viveva "associata" (nelle comunità di villaggio) e "dipendente", in un modo o nell'altro, dalla forma economica del servaggio.

Persino l'artigianato urbano non è mai stato, per tutto il Medioevo, un'attività condotta in maniera "isolata e indipendente". Se tale è divenuto, ciò è dipeso dal condizionamento del capitalismo commerciale, il quale, in seguito, ha approfittato dell'indipendenza dell'artigiano sempre più isolato e debole per trasformarlo in operaio salariato.

Si badi, qui non si mette in discussione il fatto -come vuole Marx- che il rapporto di capitalista e operaio salariato sia subentrato "al posto di una precedente autonomia nel processo di produzione, come p.es. nel caso di tutti i contadini autosufficienti, dei farmers che dovevano pagare solo una rendita in profitti vuoi allo Stato vuoi al proprietario fondiario, oppure al posto dell'industria sussidiaria rurale-domestica o dell'artigianato autonomo...[ovvero] al posto del maestro delle corporazioni, dei suoi lavoranti e apprendisti"(p.135).

Qui si mette in discussione: 1) l'assolutezza di questa autonomia, in quanto nel sistema pre-capitalistico essa era piuttosto relativa. Marx stesso ricorda come nei "modi di produzione antichi, precedenti, i magistrati cittadini, ecc., proibivano p.es. delle invenzioni per non ridurre alla fame i lavoratori, perché il lavoratore in quanto tale valeva come scopo a sé, e la sua occupazione aveva il valore di un privilegio al cui mantenimento era interessato l'intero ordinamento tradizionale"(p.157); 2) la naturalezza del passaggio da questa autonomia al "rapporto di sovraordinazione e subordinazione" tra capitalista e salariato, in quanto senza "rivoluzione culturale" è impossibile una transizione a un sistema così violento come quello capitalista, il cui carattere antagonistico -come dice Marx- "appare ad esso immanente"(p.166).

Nessuna contraddizione, per quanto macroscopica fosse, di alcun sistema pre-capitalistico avrebbe potuto portare naturalmente, cioè per via diretta, senza un radicale rivolgimento nei modi di pensare e di agire, alla formazione capitalistica, che è quanto di più disumano gli uomini abbiano potuto inventare, dove lo "svuotamento" del lavoratore e la "pienezza" del capitalista "si corrispondono, vanno di pari passo"(p.169).

Per giustificare la transizione al capitalismo industriale, Marx s'è sentito indotto a delineare i contorni socio-economici di un sistema pre-capitalistico che in realtà non è mai esistito. Il suo modo di vedere l'evoluzione del capitale è analogo al modo hegeliano di vedere la formazione dell'idea. In origine vi è il "denaro", ovvero il capitale "in potenza"; poi, in virtù del valore di scambio e della produzione commerciale che si allarga sempre di più, nasce il lavoro salariato: il denaro così si nega trasformandosi in capitale, che si autovalorizza producendo plusvalore; infine il capitale si riproduce in un moto circolare praticamente perfetto, infinito, dove il plusvalore non è altro che un aspetto di un sistema molto più complesso.

La realtà invece è questa -dal nostro punto di vista-, che nessun lavoratore libero si può porre davanti al capitalista con l'obbligo (non giuridico, ma sociale) di vendergli la propria forza-lavoro, se già il capitalismo (manifatturiero) non s'è affermato come sistema. Ciò significa che il capitalismo vero e proprio non nasce anzitutto quando un lavoratore libero si trasforma in operaio, ma quando l'operaio che già lavora in fabbrica (e che in precedenza faceva il servo della gleba o il garzone a vita) obbliga, indirettamente, anche il lavoratore libero a seguire la stessa strada, proprio a causa del rapporto di sfruttamento ch'egli operaio ha col capitalista.

In altre parole, il libero incontrarsi sul mercato del capitalista coll'operaio -quale fattore di realizzazione del capitale produttivo-, in realtà non è mai avvenuto all'inizio del capitalismo. Esso non presuppone altro che un capitalismo già realizzato. Un capitalista in potenza non potrebbe mai diventare effettivo, tramite il suddetto rapporto "libero", se nella società non ci fossero già altri capitalisti effettivi. Questo per dire che la scelta della società di acconsentire ai metodi capitalistici deve necessariamente precedere la possibilità di continuare tali metodi attraverso un rapporto libero sul mercato.

In questo senso si può tranquillamente affermare che per il servo della gleba c'è stato, nell'illusione ovviamente di migliorare la propria condizione, un passaggio meno traumatico da un padrone all'altro, di quanto non sia avvenuto per il lavoratore libero, il quale, non senza drammi interiori (poiché l'alternativa avrebbe potuto essere un'altra), deve essersi deciso a rinunciare alla propria libertà personale, quella libertà che appunto poggiava sulla proprietà dei mezzi produttivi.

Qui si potrebbe citare una frase di T.R. Edmonds, ripresa da Marx in nota: "il motivo che spinge un uomo libero al lavoro è molto più violento di quello che spinge uno schiavo: un uomo libero deve scegliere tra il duro lavoro e l'inedia per sé e la sua famiglia; uno schiavo deve scegliere tra il duro lavoro e una buona frustata"(p.134). Edmonds però, e con lui Marx, non s'è accorto che: 1) la coscienza della libertà è stata possibile in virtù del cristianesimo (anche se il cristianesimo ha vissuto la libertà in maniera parziale e riduttiva); 2) sulla base di questa libertà, l'alternativa, per il cittadino "obbligato" a lavorare come schiavo, poteva anche essere un'altra (p.es. il superamento democratico, a livello politico e sociale, del servaggio); 3) il carattere "violento" dello schiavismo era più "fisico" che "morale", proprio perché l'ideologia dominante (religiosa e/o politica) era scarsamente democratica, e poco rilevanti erano le alternative a questa ideologia. Viceversa, il carattere "violento" del capitalismo è sia "fisico" che "morale", benché esso appaia assai più mistificato, in quanto, per doversi imporre, ha dovuto fare i conti con un'ideologia, quella cristiana, che, almeno sul piano dei princìpi, pretendeva d'essere molto democratica.

Per Marx "l'operaio risulta costretto a vendere, al posto di una merce, la sua propria capacità di lavoro come merce, appunto perché tutti i mezzi di produzione, tutte le condizioni oggettive del lavoro, e parimenti tutti i mezzi di sussistenza, gli stanno di fronte come proprietà estranea... Si presuppone ch'egli lavori come non-proprietario..."(p.108).

Ma in queste condizioni non c'è bisogno di un vero e proprio mercato del lavoro: è sufficiente che con un provvedimento legislativo le autorità politico-civili liberino giuridicamente dal servaggio i contadini per costringerli, in maniera indotta, a trasferirsi nelle fabbriche capitalistiche. Se le autorità hanno questo potere, il capitalismo c'è già; se invece non l'hanno, il capitalismo non può formarsi a partire dalla sfera della "circolazione delle merci", almeno non può farlo automaticamente.



Su questo però Marx non transige: "è solo in quanto possessore delle condizioni lavorative che il compratore porta qui il venditore alla sua dipendenza economica; non sussiste alcun rapporto politico e socialmente fissato di sovraordinazione e subordinazione"(p.132). Questo è il tipico modo ingenuo di vedere le cose di chi subordina la politica all'economia. Marx ha sempre considerato -a torto- i rapporti economici come più "immediati", più "diretti", più "evidenti" di quelli che avvengono nella sfera politica o ideologica. Questo gli impedito di scorgere le influenze della sovrastruttura sulla struttura.

In realtà, nei confronti di un "nullatenente" non è necessario, da parte del capitale, dare l'impressione che "le condizioni materiali necessarie per la realizzazione del lavoro...si presentino come feticci dotati di propria anima e volontà"(p.108). Questa illusione è necessaria per il lavoratore libero, proprietario dei suoi mezzi produttivi, che però non riesce a fronteggiare la concorrenza del grande capitale. E' appunto lui che deve credere nella realtà di questi feticci, e non-credere nella sua capacità di distruggerli.

Insomma, un vero "scambio di equivalenti" può essere percepito da entrambi i contraenti (compratore e venditore) solo in una società dove esiste il primato del valore d'uso e quindi l'esigenza di commerciare il surplus rimasto dopo l'autoconsumo. Al di fuori di questo contesto lo "scambio degli equivalenti" è solo un'illusione propinata dal capitale che il lavoratore libero non può che cogliere immediatamente come tale. Il problema, per questo lavoratore, semmai è un altro: come reagire all'illusione.

Marx ha tutte le ragioni di questo mondo quando sostiene che non ci sarebbe capitalismo se l'operaio non fosse costretto a vendere la sua forza-lavoro per vivere, ma non può sostenere che la compravendita della forza-lavoro "costituisce il fondamento assoluto del processo di produzione capitalistico"(p.110). E' un "fondamento assoluto" dal punto di vista fenomenologico, ma da quello ontologico il fondamento va ricercato nell'ideologia, e in particolare in quella religiosa. Finché non si individua questo "fondamento" non si uscirà mai dal circolo vizioso che considera come "cause" ciò che in realtà non sono che ulteriori "effetti".


Quando Marx delinea, con la maestria che gli è solita, il passaggio dal rapporto corporativo medievale al rapporto capitalistico, non v'è dubbio che se ci si limitasse, fenomenologicamente, ad esso, le cose non avrebbero potuto che seguire quella direzione. Val la pena anzi riprendere in dettaglio quella descrizione per mostrare meglio le incongruenze dell'analisi marxiana.

Marx dice che "il rapporto corporativo medievale...si è sviluppato, in forma analoga, anche in Atene e Roma, e che in Europa risultò d'importanza così decisiva da un lato per la formazione dei capitalisti, dall'altro per quella di un libero ceto operaio..."(pp.135-6). Si noti subito come Marx non riesca a spiegarsi il motivo per cui il capitalismo non sia nato già nelle grandi civiltà schiavistiche del mondo greco-romano, pur avendo esse analoghe forme di corporazioni artigiane.

Ma procediamo. Tale rapporto corporativo, per Marx, "è una forma limitata, non ancora adeguata, del rapporto di capitale e lavoro salariato"(p.136). I motivi di questo li vediamo dopo. Qui si noti soltanto come Marx osservi il feudalesimo o, se si vuole, lo sviluppo artigianale nei Comuni europei più avanzati, non con gli occhi dello storico che considera il Medioevo dall'interno, ma con quelli dell'economista che si serve di alcune caratteristiche del Medioevo per dimostrare il valore delle proprie tesi sul capitalismo. Il Medioevo cioè viene visto dall'esterno, a partire dalla "verità" di ciò che lo ha superato: il capitalismo. In tal modo la deformazione della realtà, viziata da un'interpretazione fortemente ideologizzata, è inevitabile.

Marx non solo sbaglia nel considerare il corporativismo artigianale un'anticipazione limitata del capitalismo, ma sbaglia anche nel considerare tale anticipazione come quella che assolutamente avrebbe portato, prima o poi, al capitalismo. Già si è detto che la sua importanza viene ritenuta "decisiva". "Il modo di produzione capitalistico ha inizio con la libera impresa artigiano-corporativa"(p.141).

In realtà il corporativismo artigianale può anche essere stato una prefigurazione del capitalismo, ma non fu certamente solo questo, anzi non fu anzitutto questo quand'esso nacque, anche se, bisogna ammetterlo, nel modo in cui viene descritto da Marx, esso non poteva che portare al capitalismo.

Vediamo ora in che senso la prefigurazione è "limitata". L'impresa artigiana medievale -secondo Marx- nasce con lo "spirito capitalistico", perché essa ha come fine il profitto individuale del maestro, il quale è proprietario delle condizioni lavorative e paga un salario a persone "libere", o comunque ha come fine il profitto dei maestri associati in una corporazione di arte e mestiere.

L'impresa va considerata "limitata", rispetto al capitalismo, perché il garzone e l'apprendista hanno col maestro un rapporto di subordinazione gerarchica, in forza della sua specifica competenza professionale: nel senso che il maestro può vendere il prodotto solo quando l'apprendista produce un "capolavoro", cioè un ottimo "valore d'uso". Quando poi l'apprendista diventa maestro, egli può realizzare dei profitti -come il suo maestro precedente- solo nel ramo professionale in cui s'è specializzato.

Al maestro è vietato "andare aldilà di un certo numero di lavoranti, in quanto la corporazione deve garantire a tutti i maestri un'aliquota di guadagno del loro mestiere"(p.137). I prodotti, che devono rispettare determinati criteri di qualità, non possono essere venduti a prezzi concorrenziali, perché la corporazione va difesa in quanto tale. Tutti i metodi di lavoro sono stabiliti non solo dall'esperienza del maestro, ma anche dalle regole della corporazione di appartenenza. L'ampiezza di valore del capitale impiegato, in sintesi, non può andare mai aldilà di un certo livello.

Marx dice che "la trasformazione puramente formale dell'impresa artigiana in impresa capitalistica, dove inizialmente il processo tecnologico rimane ancora lo stesso, consiste nell'abolizione di tutti questi limiti..."(p.137). Marx vede dei "limiti" là dove esistevano dei "vantaggi" per tutta la collettività. Egli non s'è accorto che la suddetta trasformazione presuppone la fine di regole stabilite in maniera collettiva, presuppone cioè l'affermazione di un arbitrio individuale in contrasto con una prassi sociale che, seppur entrata in crisi, poggiava su fondamenti teorici socialmente rilevanti e pubblicamente riconosciuti.

Per Marx il "passaggio" da un sistema all'altro è avvenuto semplicemente perché è bastata una "repentina espansione del commercio e quindi della domanda di merci da parte del ceto mercantile..."(p.138). In altre parole esso è avvenuto perché risultava essere una contraddizione insostenibile il fatto che da un lato si mirasse al profitto e dall'altro non si riuscisse a realizzarlo (in quanto si dovevano produrre valori d'uso, la produzione era determinata dal consumo ecc.). Lo "spirito capitalistico" dell'impresa artigiana aveva bisogno di darsi delle forme più libere per esprimersi al meglio.

In sostanza, Marx non vede l'artigianato in simbiosi con l'agricoltura, ma in antagonismo, sin dal suo sorgere; ed anche quando tale antagonismo è reale, egli non riesce a scorgere le motivazioni ideologiche che lo supportano. Il "passaggio", per Marx, è stato necessario non solo dal punto di vista del mastro artigiano, ma anche da quello dell'apprendista. Singolare, tuttavia, che qui Marx dimentichi la possibilità che l'apprendista aveva di diventare maestro, e che paragoni l'operaio salariato dell'impresa capitalistica non all'apprendista artigiano bensì allo "schiavo"! Certo, rispetto allo schiavo il lavoro diventa "più produttivo, perché più intenso, dal momento che lo schiavo lavora soltanto dietro la spinta di una paura esterna, ma non per la sua esistenza, che non gli appartiene e che comunque è garantita"(p.138).

Sul piano dell'efficienza produttiva, a dir il vero, il lavoro dell'operaio salariato è superiore anche a quello dell'apprendista artigiano (se si lega la "superiorità" alla mera "quantità" e al "macchinismo"): non c'era bisogno di risalire allo schiavo romano (per quanto oggi non poche persone sarebbero disposte a dubitare, dopo aver visto le ricadute del progresso scientifico e industriale sull'ambiente e sugli stessi rapporti umani, che il capitalismo sia sicuramente un sistema migliore di quello schiavistico o feudale).

Ma la domanda qui è un'altra: perché Marx ha messo a confronto l'operaio salariato con lo schiavo nel mentre parlava dei limiti della corporazione artigiana? Risposta: proprio perché se avesse messo a confronto l'operaio salariato con l'apprendista artigiano non avrebbe trovato motivazioni sufficienti per legittimare in modo assoluto la transizione al capitalismo. Questa transizione è stata voluta, fra gli altri soggetti, da singoli mastri artigiani che volevano arbitrariamente superare i limiti imposti dalla corporazione d'appartenenza. Ma resta singolare che Marx non abbia sottolineato quante battaglie abbiano dovuto sostenere garzoni e apprendisti per non diventare salariati a vita!

"Il libero lavoratore -dice Marx- è spinto dai suoi bisogni. La coscienza (o piuttosto la rappresentazione) della libera autodeterminazione, della libertà, e il connesso sentimento (consapevolezza) di responsabilità..."(p.138), fanno del salariato un individuo migliore dello schiavo. Qui Marx fa completa astrazione dalla storia e usa la dialettica alla maniera hegeliana. Stando infatti alla sua analisi, pare addirittura che garzoni e apprendisti abbiano acconsentito volontariamente a diventare salariati dell'impresa capitalistica! Solo perché potevano aspirare a un salario maggiore! Solo perché potevano dimostrare la loro professionalità individuale! Solo perché avevano la possibilità di cambiare continuamente lavoro, o meglio la possibilità di scegliersi il capitalista al quale sottomettersi! Solo perché, a forza di risparmiare sul salario, potevano illudersi di diventare un giorno come il loro imprenditore! (cfr pp.138-141)

In un certo senso è incredibile che uno storico dell'economia come Marx ritenga che "la trasformazione di servi della gleba o di schiavi in liberi operai salariati [costituisca] un'elevazione nel grado sociale"(p.140), quando nello schiavo un'emancipazione del genere sarebbe stata impossibile senza una forte consapevolezza della libertà (che solo il cristianesimo poteva dargli); quando nel servo della gleba un'emancipazione del genere ha comportato un peggioramento sensibile e irreversibile delle sue condizioni di vita.

Significativo è anche il fatto che Marx metta sullo stesso piano "schiavo" e "servo della gleba", senza rendersi conto che se la condizione del "libero" operaio salariato è evidentemente migliore di quello dello schiavo (per quanto una libertà "giuridica" senza una libertà "sociale" alla fine diventi un peso insopportabile), non la stessa cosa si può dire mettendo a confronto il salariato capitalistico col contadino medievale (rovinato, quest'ultimo, più che dal servaggio, dalla penetrazione del capitalismo nelle campagne).

Tuttavia, la cosa che Marx non ha assolutamente capito è che lo schiavismo risulta, tra i sistemi economici di sfruttamento, di gran lunga quello più immediato, più spontaneo e naturale: in un certo senso il più efficace, non tanto per la produzione quanto piuttosto per la "coscienza", proprio perché con esso si evita alla radice di tener conto di qualunque ideologia umanistica. Non a caso a partire dal colonialismo, gli europei lo ripristinarono, diffondendolo subito su vasta scala, nelle regioni ignare del cristianesimo, rinunciando, in un primo momento, non solo al servaggio ma anche al rapporto salariato, che è indiscutibilmente più vantaggioso per il capitalista.

Ciò comunque significa che nel passaggio dallo schiavismo al servaggio e dal servaggio al capitalismo, il cristianesimo ha giocato un ruolo decisivo, al punto che nei territori segnati dalla presenza di questa religione, un semplice ritorno ai vecchi metodi di produzione sarebbe stato impossibile. Il capitalismo riflette dunque una sofisticazione culturale, un approfondimento qualitativo -seppure in negativo- della religione cristiana. L'approfondimento in positivo è costituito dal socialismo democratico.


Correlata a questo modo di vedere le cose è l'idea, da Marx sempre ribadita, che "inizialmente la sottomissione del processo lavorativo al capitale non cambia nulla nel modo di produzione effettivamente reale"(p.116). La rivoluzione tecnologica vera e propria avviene solo quando si ha "sussunzione reale del lavoro sotto il capitale". Marx deve per forza affermare un principio del genere, poiché ha posto la compravendita della forza-lavoro come presupposto assoluto del capitalismo. S'egli ammettesse che il capitalismo si afferma anzitutto come modo di produzione diverso dal precedente, la legge che regola lo scambio delle merci assumerebbe un'importanza relativa.

Cioè il lavoratore non penserebbe mai di essere libero nel mercato delle merci e schiavo nel mercato del lavoro. Il capitalismo non è giusto nella circolazione delle merci e ingiusto nella produzione di plusvalore. Il suo carattere antagonistico si esprime a tutti i livelli, seppur in modo più o meno mascherato. D'altra parte lo dice anche Marx: "con ciò svanisce anche l'apparenza..., secondo cui nella circolazione, nel mercato delle merci, si fronteggiano possessori di merci, dotati di eguali diritti, che si distinguono l'uno dall'altro, come tutti gli altri possessori di merci, solo per il contenuto materiale delle loro merci..."(p.169). Solo che Marx non arriva mai a chiedersi come si sia potuta formare un'apparenza del genere: di qui i suoi limiti nell'analisi storica e culturale del capitalismo. (L'ultima parte del cap.VI è quella da cui bisognerebbe partire per approfondire il marxismo sul versante culturale).

In tal senso è da escludere categoricamente che lo sviluppo del capitalismo abbia potuto favorire "una maggiore continuità e intensità del lavoro e una maggiore economia nell'impiego delle condizioni lavorative"(p.133), senza mutare, contemporaneamente, le condizioni tecnologiche della produzione. Dire che "considerato tecnologicamente, il processo lavorativo si svolge esattamente come prima, solo che adesso si svolge in quanto processo lavorativo subordinato al capitale"(ib.), è dire una frase senza senso, poiché o con essa ci si riferisce al capitalismo mercantile, e allora non è il caso di parlare di passaggio "automatico" al capitalismo industriale (in ogni caso Marx intende riferirsi alla "sussunzione formale del lavoro sotto il capitale", e quindi non al capitalismo mercantile), oppure con essa ci si riferisce al capitalismo industriale (o manifatturiero che dir si voglia), e allora bisogna ammettere che senza progresso tecnologico tale capitalismo non sarebbe mai nato, o non si sarebbe mai sviluppato come poi ha fatto. In altre parole, Marx, evitando l'esame sovrastrutturale delle cause che hanno generato il capitalismo, non è stato in grado di determinare le ragioni culturali che hanno portato l'uomo del XVI sec. a modificare completamente il proprio apparato tecnologico, ovvero il proprio rapporto con la natura e con l'ambiente sociale.

Con gli occhi del "fenomenologo", Marx ha saputo cogliere la contraddizione antagonistica del sistema capitalistico, ma non l'origine culturale del formarsi di tale contraddizione. E' vero, il capitalismo "risolve il rapporto tra il possessore delle condizioni lavorative e il lavoratore stesso in un puro e semplice rapporto di compravendita, o rapporto monetario, e separa il rapporto di sfruttamento da ogni mistione patriarcale e politica o anche religiosa"(p.133). Ma questa "separazione", in realtà, è solo formale, in quanto, nella sostanza, è stata proprio la religione (specie quella protestante) a offrire alle forze produttive il pretesto, la giustificazione teorica per originare una nuova formazione sociale.

Quando le condizioni di lavoro stanno "di fronte all'operaio come persone autonome, poiché il capitalista in quanto possessore di esse è soltanto la loro personificazione..."(p.123), ciò significa che, nei suoi fondamenti, il capitalismo s'è già compiutamente realizzato. L'operaio non scopre questa "personificazione" solo nel momento in cui entra in fabbrica, ma già nel momento in cui vende la propria forza-lavoro, ed è tanto più convinto di questa "personificazione" quanto più, prima di diventare operaio, svolgeva un lavoro servile.

In pratica Marx ha equiparato arbitrariamente l'economico col sociale, togliendo a questa dimensione la ricchezza della valenza culturale e la profondità delle scelte esistenziali, assiologiche che gli uomini possono compiere. Dal punto di vista "sociale" si sarebbe dovuto sostenere che, fino a quando il capitalismo non modifica il modo di produzione tradizionale, non è neanche il caso di parlare di "capitalismo", ma solo di attività mercantile, ovvero di attività artigianale (o anche agricola) intaccata dall'esigenza di un mero profitto commerciale: un'attività che di per sé non è affatto in grado di creare un "libero mercato delle merci" e che in presenza di una forte volontà politica democratica potrebbe essere facilmente smantellata. Il capitalismo, per potersi imporre, ha avuto bisogno di una rivoluzione culturale, quella del protestantesimo, e anche di una rivoluzione tecnologica, quella del macchinismo. Senza il macchinismo il protestantesimo ha prodotto, nella Germania di Lutero e di Hegel, una grande libertà di pensiero, ma non ha saputo generare il capitalismo. Il capitalismo nasce quando, fra le altre cose, "le condizioni del lavoro -come dice Marx-, con lo sviluppo del macchinario, si presentano anche tecnologicamente come dominatrici del lavoro e, nello stesso tempo, lo sostituiscono, lo schiacciano e lo rendono superfluo nelle sue forme autonome"(p.163).

Dunque i primati della quantità sulla qualità, del lavoro astratto su quello concreto, del lavoro morto su quello vivo, dello scambio sull'uso e così via, potevano essere affermati sul mercato e nella società civile solo dopo che si fossero imposti (anche tecnologicamente) nella produzione e nella...coscienza religiosa!


Paradossalmente Marx ha creduto di ravvisare nel capitalismo industriale (che è il sistema più individualistico della storia, e lo può essere in virtù della tecnologia) un carattere di "socialità" assai superiore a tutti i modi di produzione pre-capitalistici. Ma è forse un segno di "socialità" il fatto che la merce capitalistica faccia "comparire come qualcosa di completamente casuale, indifferente ed inessenziale la sua relazione immediata, in quanto valore d'uso, con il soddisfacimento del bisogno del produttore"(p.53)? Il primato assoluto del valore di scambio non è forse indice di un assoluto individualismo?

Certo, se si mette a confronto il capitalismo individualistico del mercante medievale (o dell'usuraio o della singola corporazione artigiana) con il capitalismo "sociale" dell'imprenditore privato, che impiega quanti più operai possibile (salvo poi decidere che un certo, esiguo, numero di operai è sufficiente per realizzare un determinato plusvalore...), nessuno può dubitare che il capitalismo industriale sia, nello sviluppo non solo delle forze produttive ma anche dell'antagonismo sociale, un passo avanti rispetto al capitalismo mercantile. Tuttavia, Marx dimentica di dire che i guasti che ha procurato il mercantilismo all'insieme della società feudale sono stati minori rispetto a quelli dell'industrialismo, semplicemente perché allora esisteva un'economia agricola che, essendo basata sull'autoconsumo, sapeva (naturalmente fino a un certo punto) attutire il peso di certe contraddizioni e di certi conflitti sociali. Viceversa, il capitalismo avanzato oggi ha ancora bisogno di sfruttare l'80% dell'umanità per poter sopravvivere.

Naturalmente Marx sa bene che il "sociale" del lavoro "si contrappone all'operaio in modo non solo estraneo, ma ostile e antagonistico, e come oggettivato e personificato nel capitale"(p.131). Persino "il lavoro produttivo, in quanto produttore di valore, sta sempre di fronte al capitale come lavoro di operai isolati, quali che siano le combinazioni sociali in cui questi operai entrano nel processo di produzione"(p.164). Tuttavia, è singolare come Marx non si sia accorto che un individualismo del genere poteva essere affermato solo in contrapposizione a un'esperienza di socializzazione entrata in crisi, a un'esperienza cioè il cui lato "sociale", peraltro indubitabile, non era stato politicamente usato per risolvere le contraddizioni antagonistiche del sistema feudale (o lo era stato solo in maniera insufficiente).

Ancora più paradossale è il fatto che proprio nel momento in cui Marx si avvicina a comprendere la natura antagonistica del sistema capitalistico, con la medesima intensità egli si allontana da una reale comprensione della sua genesi storica. Si legga ad es. questo significativo passo: "il dominio del capitalista sull'operaio è il dominio della cosa sull'uomo, del lavoro morto sul lavoro vivo, del prodotto sul produttore... Storicamente considerata, questa inversione si presenta come il punto di passaggio necessario [!] per promuovere coercitivamente, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, lo sviluppo inesorabile [!] di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono costituire la base materiale di una libera [!] società umana. E' necessario [!] passare attraverso questa forma antagonista proprio come è necessario [!] che, inizialmente, l'uomo si raffiguri in modo religioso, di fronte a sé, le sue forze intellettuali come potenze indipendenti. E' il processo di estraneazione del suo proprio lavoro"(p.94). Il lato "positivo" del capitalismo -dice Marx- è il fatto che i "limiti della produzione" vengono costantemente oltrepassati (p.144).

Qui Marx riprende i temi giovanili già delineati nei Manoscritti del '44, inclusa la critica di Feuerbach alla religione. Ma la dipendenza dall'hegelismo è netta, forse più adesso che allora, seppure qui l'hegelismo sia stato trasformato radicalmente in chiave fenomenologica. La dipendenza la si nota soprattutto laddove Marx considera il capitalismo come una formazione "necessaria", "inesorabile", per la creazione della ricchezza. Infatti non ci può essere "libera società umana" -dice Marx- senza sviluppo delle forze produttive, che ne costituiscono la base materiale. Qui, sinteticamente, è concentrata tutta la filosofia dell'economia di Marx, la quintessenza della sua visione deterministica della storia (che è filo-hegeliana proprio per l'uso della categoria della necessità, non, ovviamente, per aver considerato "necessario" il capitalismo. Hegel -come noto- era un conservatore del sistema feudale).

Il parallelo che Marx fa con l'alienazione religiosa non viene approfondito, né qui né altrove, semplicemente perché Marx ha sempre considerato l'alienazione religiosa un riflesso di quella economica. Marx pensò di superare l'antropologismo psicologistico di Feuerbach dal punto di vista storico, ma vi riuscì, in parte, solo fino a quando assegnò un certo primato alla politica (in pratica sino al Manifesto): quando invece cominciò a subordinare la politica all'economia, la sua dipendenza da Feuerbach nell'analisi della religione fu netta. In sostanza a Marx è mancato il momento dell'analisi culturale del fenomeno religioso: quello che gli avrebbe permesso: 1) di vivere la politica rivoluzionaria in maniera più democratica e non settaria; 2) di dare un vero senso storico agli studi di economia; 3) di superare non solo Feuerbach ma anche Hegel.

In altre parole Marx non è riuscito a cogliere la reciproca influenza che caratterizza i rapporti tra economia e religione, né, tanto meno, il fatto che la religione sia, sul piano culturale, una delle cause storiche in grado di giustificare determinati processi socio-economici.

Marx supera certamente l'hegelismo quando afferma, diversamente dalla dialettica servo/padrone, che "fin da principio l'operaio si trova in una posizione superiore rispetto al capitalista, perché quest'ultimo affonda le sue radici in quel processo di estraneazione e vi trova il suo assoluto soddisfacimento, mentre l'operaio, in quanto vittima di quel processo, rimane da sempre in un rapporto di ribellione verso di esso e lo esperimenta come processo di asservimento"(p.94).

Tuttavia Marx ricade nell'hegelismo proprio quando considera come "inevitabile" questo "processo di asservimento", ovvero quando non assegna esplicitamente al "rapporto di ribellione" il compito di por fine, con la rivoluzione politica, allo sfruttamento capitalistico, ancor prima che il sistema abbia esaurito tutte le proprie potenzialità produttive.


Marx era così influenzato dal metodo della Logica hegeliana che ne usava, anche durante la stesura del Capitale, taluni concetti, come ad es., in questo caso, quello di "sussunzione".

Parlando della "sussunzione formale" del lavoro sotto il capitale -che è quella decisiva, in quanto "condizione e presupposto della sussunzione reale"(p.133)- Marx ribadisce il suo punto di vista deterministico ed evoluzionistico, che già abbiamo visto nelle considerazioni su esposte. "E' nella natura delle cose [!] -egli afferma- che la sussunzione del processo lavorativo sotto il capitale subentri proprio sulla base di un processo lavorativo esistente, sorto prima di questa sussunzione...e configuratosi sulla base di precedenti e differenti processi produttivi...p.es., il lavoro artigiano o il tipo di agricoltura corrispondente alla piccola, autonoma economia contadina"(p.127).

Infatti, "se il rapporto di sovraordinazione e subordinazione [tra capitalista e operaio salariato] subentra al posto della schiavitù, servitù della gleba, vassallaggio, di forme patriarcali ecc., di subordinazione, si verifica solo un cambiamento nella sua forma. La forma diviene più libera, poiché essa rimane soltanto di naturale materiale, formalmente volontaria, puramente economica"(p.135).

Marx rifiuta categoricamente l'idea che in questo passaggio vi siano dei mutamenti, già all'inizio, di tipo sostanziale. Considerando il presente migliore del passato e il futuro migliore del presente, Marx non può che vedere le cose in maniera naturalistica: la differenza dall'ideologia borghese sta nel fatto che la sua considera "naturali" i drammi e le tragedie connesse allo sfruttamento capitalistico, perché proprio essi hanno permesso -a suo giudizio- di rendere più evidenti le contraddizioni del sistema e più pressante la necessità di superarle.

In ogni caso Marx non si rende conto che la "naturalità" della transizione al capitalismo avrebbe potuto verificarsi ben prima del sec. XVI (come, in effetti, accadde nell'Italia comunale, senza che però si verificasse il passaggio del capitalismo da "mercantile" a "industriale"). Oppure avrebbe potuto verificarsi, nello stesso secolo XVI, in altre regioni del globo, certo non meno avanzate, sul piano commerciale, dell'Europa occidentale: si pensi p.es. alla Cina o al mondo arabo che dominava i traffici nel Mediterraneo e nell'oceano Indiano. Perché qui il capitalismo non è mai nato spontaneamente, ma solo come sistema imposto dall'esterno o comunque importato contro le tradizioni nazionali delle popolazioni?

Perché l'India, nonostante la presenza di "interessi colossali" tratti dal "capitale usuraio" -come dice Marx- non ha sperimentato "la sussunzione formale del lavoro sotto il capitale"? In India il capitalismo è stato imposto dalla potenza coloniale inglese e, dopo la liberazione politica, esso continua a restare un corpo estraneo nel complesso della società civile para-feudale: perché? E' solo un "limite" dell'India o piuttosto un segno della sua "forza morale"?

"La produzione per la produzione - produzione come scopo a sé..."(p.144), ovvero la capacità che gli euroccidentali hanno avuto di passare dal possesso di schiavi a quello della terra (il feudo), sino a quello di capitali (il plusvalore), è stato davvero un segno di "progresso"? nel bene o nel male? Non è forse il caso di dire che queste forme sempre più sofisticate di sfruttamento dell'uomo sono in realtà dei tentativi di reagire, negativamente, alla domanda di libertà, di verità e di autenticità che il cristianesimo ha introdotto nella civiltà europea? E che laddove questi tentativi non sono nati spontaneamente, lì esisteva anche una consapevolezza limitata della grandezza dell'uomo, ossia di ciò che l'uomo è in grado di fare? Considerare il capitale "come personificazione e rappresentante, figura cosalizzata delle forze produttive sociali del lavoro o delle forze produttive del lavoro sociale"(p.164), sarebbe stato possibile senza il cristianesimo?

Se Marx avesse puntato l'attenzione sui processi ideologici e culturali che portano una determinata formazione sociale a trasformarsi in un'altra, spesso di segno opposto, avrebbe evitato di parlare di "naturalità delle cose" o almeno l'avrebbe considerata in modo relativo. Non è "naturale" che la scala della produzione venga determinata non sulla base di "bisogni reali", ma sulla base del modo di produzione stesso, finalizzato unicamente al profitto (p.144). E' evidente, infatti, che qualsiasi modo di produzione nasce sulle fondamenta di quello precedente, a meno che non siano avvenute delle catastrofi di tipo naturale o degli eventi di natura politico-militare così sconvolgenti da obbligare gli uomini a ripensare totalmente la loro esistenza.

In questo senso si può affermare che mentre in Europa occidentale la nascita del capitalismo non è stata particolarmente ostacolata dal feudalesimo (se non nel momento in cui le forze borghesi, consolidatesi sul piano economico, cominciavano a rivendicare un potere politico), nell'Europa orientale invece (specie in quella di religione ortodossa), il capitalismo, anche sul piano economico, ha sempre incontrato una forte resistenza da parte delle forze feudali (comunità di villaggio ecc.). E quando esso, approfittando delle contraddizioni feudali, ha cercato d'imporsi sul piano economico, sono nate più o meno immediatamente, nuove forze sociali che vi si sono opposte in maniera politica, costringendo il capitalismo a operare subito la transizione verso il socialismo.

In questo tentativo, purtroppo, tali forze hanno fatto affidamento più che in loro stesse, sulle teorie socialiste (marxiste in particolare) elaborate in Europa occidentale, cioè su quelle teorie che hanno sempre tenuto in scarsa considerazione il feudalesimo, il mondo contadino, le comunità di villaggio ecc. Sicché l'Europa dell'est ha sperimentato su di sé tutti gli effetti negativi della realizzazione delle teorie marxiste, risparmiandoli così all'Occidente, il quale, però, dal canto suo, continua a sperimentare su di sé (e a far sperimentare soprattutto sul Terzo Mondo) tutti gli effetti negativi delle teorie borghesi del capitalismo.

Ora, se da un lato l'Europa dell'est ha capito gli errori del marxismo, dall'altro l'Europa dell'ovest non ha ancora capito gli errori del liberalismo borghese. La democrazia occidentale oscilla continuamente fra due poli opposti: il laissez-faire e il Welfare State, e non s'accorge che in realtà sono due facce di una stessa medaglia, quella appunto del capitalismo.

COMMENTO AL CAPITOLO VI DEL LIBRO I DEL "CAPITALE"

K. Marx, Risultati del processo di produzione immediato, Editori Riuniti, Roma 1984

(Il "Commento" avrà come scopo soltanto quello di verificare la fondatezza di alcune tesi espresse nell'analisi del I libro del Capitale).

Sin dall'inizio del capitolo, Marx cade nel circulus vitiosus secondo cui la merce va considerata come "presupposto per la genesi del capitale" e nel contempo come suo "prodotto"(p.49). Questa tautologia si rifletterà più avanti, nel modo di vedere il rapporto tra capitalista e salariato nell'ambito della circolazione del capitale. "Nella circolazione il capitalista e l'operaio stanno l'uno di fronte all'altro solo come venditori di merci..."(p. 93): la merce dell'operaio è -come noto- la sua stessa forza-lavoro. E si rifletterà anche nella differenza che Marx pone tra sussunzione formale e reale del lavoro sotto il capitale (cfr pp.125ss.).

Marx si rende conto che esiste una certa diversità fra la merce come "presupposto" e la merce come "prodotto", ma non riesce a spiegarsene la ragione culturale. E' questa la tesi che vogliamo dimostrare.

Egli afferma: "in precedenti stadi di produzione i prodotti assumono parzialmente la forma della merce. Invece il capitale produce necessariamente il suo prodotto come merce"(p.50). Detto altrimenti: i due presupposti fondamentali per la nascita del capitalismo sono, secondo Marx: 1) "che i membri concorrenti della società si fronteggino come persone che si stanno davanti solo in quanto possessori di merci e che solo in quanto tali entrano reciprocamente in contatto (ciò esclude la schiavitù, ecc.)"; 2) "che il prodotto sociale sia prodotto come merce. (Ciò esclude tutte le forme in cui, per i produttori immediati, il valore d'uso è lo scopo principale, e tutt'al più si trasforma in merce l'eccedenza del prodotto, ecc.)"(p.81).

Come si può notare, la differenza, fra un sistema e l'altro, è per Marx meramente quantitativa, anche se ciò comporta, ad un certo punto, una diversa qualità delle cose. Infatti, nessun sistema pre-capitalistico è in grado di produrre necessariamente delle merci. Marx lo dice esplicitamente a p.129: "ciò in cui il processo lavorativo sussunto anche solo formalmente sotto il capitale si differenzia sin da principio...pur sulla base del vecchio modo di lavoro tramandato, è la scala sulla quale questo processo lavorativo viene eseguito; quindi, da una parte, la massa dei mezzi di produzione anticipati, dall'altra il numero dei lavoratori comandati dallo stesso imprenditore".

Per Marx dunque il passaggio da un sistema pre-capitalistico a uno capitalistico avviene secondo i parametri dell'evoluzionismo, secondo la logica hegeliana della necessità storica. "L'autovalorizzazione del capitale... -dice Marx- è soltanto impulso e scopo razionalizzati del tesaurizzatore"(p.95). Il "modo di produzione specificamente capitalistico...si sviluppa...con il progredire della produzione capitalistica..."(p.128).

Questo naturalmente non significa ch'egli non abbia compreso la natura antagonistica del sistema capitalistico, ovvero l'ingiustizia di un'appropriazione privata del plusvalore. Ciò che dell'analisi marxiana si mette in discussione è l'affermazione secondo cui il capitale che all'inizio esiste solo come denaro, debba inevitabilmente valorizzarsi in direzione del capitalismo (cfr p.79).

Marx spiega questo "destino" riferendosi alla grandezza, in perenne crescita, del capitale (cfr p.80), nel senso che non si potrebbe accumulare del denaro se non si avesse intenzione di accumularne sempre più. Ma, come si può facilmente notare, questa spiegazione, che dovrebbe giustificare la genesi del capitalismo, è di tipo psicologico, certo non culturale. Essa non ha un fondamento propriamente storico e pertanto ha scarso valore epistemologico. Stando ad essa infatti il capitalismo è nato casualmente in Europa occidentale, e altrettanto casualmente esso poteva nascere in qualunque altra regione del mondo ove i commerci fossero discretamente sviluppati.

In pratica Marx non solo non vede "rotture" o "salti" da un sistema all'altro, ma vede persino "evoluzione" dal comunismo primitivo (che per lui coincide, almeno in questi anni, con la "comunità naturale" dell'India classica) al sistema schiavistico. "I momenti generali del processo lavorativo...sono determinazioni indipendenti da ogni carattere storico e specificamente sociale del processo di produzione, e determinazioni che rimangono ugualmente valide per tutte le sue possibili forme di sviluppo; di fatto, condizioni naturali immutabili del lavoro umano...non appena questo si sia spogliato del suo carattere puramente animale"(p.128).

Naturalmente, essendo un economista, Marx cerca di spiegare la differenza fra un sistema e l'altro anche dal punto di vista fenomenologico (che è anzi quello da lui privilegiato). In tal senso la sua osservazione è giusta: "la trasformazione del denaro in capitale...può aver luogo soltanto quando la capacità di lavoro sia trasformata, per l'operaio stesso, in una merce..."(p.50), cioè quando l'operaio stesso, con la sua forza-lavoro, si trasforma in una merce.

In nessun sistema pre-capitalistico s'era mai visto un potere economico che usa la libertà giuridica del lavoratore per farlo diventare socialmente schiavo lasciandolo libero! Su questo Marx avrà sempre una ragione in più rispetto agli economisti borghesi. Tuttavia, ciò ch'egli non riesce a spiegare è il motivo per cui il lavoratore ha accettato questa mistificazione, ovverosia qual è stata l'ideologia che ha indotto il lavoratore, illudendolo, ad accettare la mistificazione (quali sono stati gli argomenti persuasivi). Qui il lavoro da fare era nell'ambito della sovrastruttura, la cui importanza è sempre stata sottovalutata da Marx.


Per Marx "la produzione capitalistica supera la base della produzione di merci, la produzione isolata e indipendente e lo scambio tra possessori di merci o lo scambio di equivalenti"(p.52). Questo significa che il capitalismo, in quanto sistema produttivo finalizzato anzitutto al valore di scambio, va considerato superiore a qualunque altro sistema ove la produzione di merci avvenga in maniera "isolata e indipendente", tanto più dove si produce "per l'immediato consumo personale"(ib.).

Pur senza dirlo (ma è probabile che lo faccia inconsciamente), Marx tende sempre a confrontare due forme di capitalismo: quella commerciale e quella industriale. La forma commerciale -come noto- si trova anche nel sistema schiavistico. Qui la divisione del lavoro è "casuale"(p.51) e l'agricoltura non è interamente dominata dal capitale. "La trasformazione dei prodotti in merci si verifica solo in singoli punti, si estende solo all'eccedenza della produzione, o solo a sue singole sfere (prodotti manifatturieri) ecc."(p.54). "Il capitale mercantile -dice a p.130-...è la forma dalla quale si è sviluppato il moderno rapporto capitalistico, e che qui e là costituisce tuttora la transizione al vero e proprio rapporto capitalistico".

Ora, guardando le cose dal punto di vista dell'efficienza produttiva, Marx non ha difficoltà nel ritenere il moderno capitalismo di molto superiore a ogni altro sistema produttivo. Una società basata sull'"immediato consumo personale" è -per Marx- quasi sinonimo di barbarie o quanto meno di primitivismo semi-animalesco. Marx è stato così affascinato dalla potenza del capitalismo che non ha avuto nemmeno l'accortezza di precisare, in questo capitolo, che quando si parla di "lavoro produttivo" bisogna sempre mettersi nei panni del capitalista, per il quale qualunque lavoro finalizzato al "valore d'uso" è necessariamente "improduttivo"; ed evitare di dire che ogniqualvolta il lavoro "è consumato per il suo valore d'uso, non in quanto generatore di valore di scambio, è consumato improduttivamente..."(p.148). Si può forse definire "produttivo" un lavoro finalizzato al plusvalore e non al benessere della società? Anche solo dal punto di vista capitalistico: si può veramente considerare "improduttivo" un lavoro che produce "servizi" invece che beni materiali?

Certo Marx non ha la pretesa di dire, come gli economisti borghesi, che "il capitale è un momento necessario del processo lavorativo umano in generale, a prescindere da ogni forma storica di questo processo; il capitale è qualcosa di eterno, qualcosa di condizionato dalla natura del lavoro umano"(p.86). Né che "il processo lavorativo in quanto tale, in tutte le forme sociali, sia necessariamente processo lavorativo del capitale"(ib.). Egli sa bene che "la logica che conclude: poiché il denaro è oro, l'oro è di per sé denaro; poiché il lavoro salariato è lavoro, ogni lavoro è necessariamente lavoro salariato"(ib.), è una logica antistorica. Tuttavia, Marx non è mai riuscito a dimostrare sul piano storico-culturale come questa logica sia antistorica.

Persino sul piano strettamente economico, Marx non ha preso in sufficiente considerazione il fatto che fino a quando non s'è imposto il capitalismo industriale, il ramo in cui s'è esercitato, in prevalenza, il lavoro umano è stato quello dell'agricoltura - anche nella fase del capitalismo commerciale. I suoi studi sulla rendita fondiaria sono limitati a un singolo aspetto del sistema feudale, quello che non a caso mette più in luce i limiti del feudalesimo. Paradossalmente il Marx "evoluzionista" non è mai stato in grado di spiegare il motivo per cui l'autarchico feudalesimo va considerato un "progresso" rispetto allo schiavismo commerciale del mondo greco-romano.

Ora, sostenere -come lui sostiene- che nei sistemi pre-capitalistici la produzione era "isolata e indipendente", può avere un senso solo se ci si riferisce all'attività commerciale del mercanti di città, ma, in tal caso, si sarebbe dovuto specificare che si trattava di una minoranza di lavoratori. Infatti, la stragrande maggioranza (anche, p.es., nell'Italia comunale) continuava a svolgere un'attività in agricoltura, in forma né "isolata" né "indipendente".

Nel settore agricolo la produzione "isolata e indipendente" era patrimonio di poche unità familiari (patriarcali), in quanto la stragrande maggioranza dei lavoratori viveva "associata" (nelle comunità di villaggio) e "dipendente", in un modo o nell'altro, dalla forma economica del servaggio.

Persino l'artigianato urbano non è mai stato, per tutto il Medioevo, un'attività condotta in maniera "isolata e indipendente". Se tale è divenuto, ciò è dipeso dal condizionamento del capitalismo commerciale, il quale, in seguito, ha approfittato dell'indipendenza dell'artigiano sempre più isolato e debole per trasformarlo in operaio salariato.

Si badi, qui non si mette in discussione il fatto -come vuole Marx- che il rapporto di capitalista e operaio salariato sia subentrato "al posto di una precedente autonomia nel processo di produzione, come p.es. nel caso di tutti i contadini autosufficienti, dei farmers che dovevano pagare solo una rendita in profitti vuoi allo Stato vuoi al proprietario fondiario, oppure al posto dell'industria sussidiaria rurale-domestica o dell'artigianato autonomo...[ovvero] al posto del maestro delle corporazioni, dei suoi lavoranti e apprendisti"(p.135).

Qui si mette in discussione: 1) l'assolutezza di questa autonomia, in quanto nel sistema pre-capitalistico essa era piuttosto relativa. Marx stesso ricorda come nei "modi di produzione antichi, precedenti, i magistrati cittadini, ecc., proibivano p.es. delle invenzioni per non ridurre alla fame i lavoratori, perché il lavoratore in quanto tale valeva come scopo a sé, e la sua occupazione aveva il valore di un privilegio al cui mantenimento era interessato l'intero ordinamento tradizionale"(p.157); 2) la naturalezza del passaggio da questa autonomia al "rapporto di sovraordinazione e subordinazione" tra capitalista e salariato, in quanto senza "rivoluzione culturale" è impossibile una transizione a un sistema così violento come quello capitalista, il cui carattere antagonistico -come dice Marx- "appare ad esso immanente"(p.166).

Nessuna contraddizione, per quanto macroscopica fosse, di alcun sistema pre-capitalistico avrebbe potuto portare naturalmente, cioè per via diretta, senza un radicale rivolgimento nei modi di pensare e di agire, alla formazione capitalistica, che è quanto di più disumano gli uomini abbiano potuto inventare, dove lo "svuotamento" del lavoratore e la "pienezza" del capitalista "si corrispondono, vanno di pari passo"(p.169).

Per giustificare la transizione al capitalismo industriale, Marx s'è sentito indotto a delineare i contorni socio-economici di un sistema pre-capitalistico che in realtà non è mai esistito. Il suo modo di vedere l'evoluzione del capitale è analogo al modo hegeliano di vedere la formazione dell'idea. In origine vi è il "denaro", ovvero il capitale "in potenza"; poi, in virtù del valore di scambio e della produzione commerciale che si allarga sempre di più, nasce il lavoro salariato: il denaro così si nega trasformandosi in capitale, che si autovalorizza producendo plusvalore; infine il capitale si riproduce in un moto circolare praticamente perfetto, infinito, dove il plusvalore non è altro che un aspetto di un sistema molto più complesso.

La realtà invece è questa -dal nostro punto di vista-, che nessun lavoratore libero si può porre davanti al capitalista con l'obbligo (non giuridico, ma sociale) di vendergli la propria forza-lavoro, se già il capitalismo (manifatturiero) non s'è affermato come sistema. Ciò significa che il capitalismo vero e proprio non nasce anzitutto quando un lavoratore libero si trasforma in operaio, ma quando l'operaio che già lavora in fabbrica (e che in precedenza faceva il servo della gleba o il garzone a vita) obbliga, indirettamente, anche il lavoratore libero a seguire la stessa strada, proprio a causa del rapporto di sfruttamento ch'egli operaio ha col capitalista.

In altre parole, il libero incontrarsi sul mercato del capitalista coll'operaio -quale fattore di realizzazione del capitale produttivo-, in realtà non è mai avvenuto all'inizio del capitalismo. Esso non presuppone altro che un capitalismo già realizzato. Un capitalista in potenza non potrebbe mai diventare effettivo, tramite il suddetto rapporto "libero", se nella società non ci fossero già altri capitalisti effettivi. Questo per dire che la scelta della società di acconsentire ai metodi capitalistici deve necessariamente precedere la possibilità di continuare tali metodi attraverso un rapporto libero sul mercato.

In questo senso si può tranquillamente affermare che per il servo della gleba c'è stato, nell'illusione ovviamente di migliorare la propria condizione, un passaggio meno traumatico da un padrone all'altro, di quanto non sia avvenuto per il lavoratore libero, il quale, non senza drammi interiori (poiché l'alternativa avrebbe potuto essere un'altra), deve essersi deciso a rinunciare alla propria libertà personale, quella libertà che appunto poggiava sulla proprietà dei mezzi produttivi.

Qui si potrebbe citare una frase di T.R. Edmonds, ripresa da Marx in nota: "il motivo che spinge un uomo libero al lavoro è molto più violento di quello che spinge uno schiavo: un uomo libero deve scegliere tra il duro lavoro e l'inedia per sé e la sua famiglia; uno schiavo deve scegliere tra il duro lavoro e una buona frustata"(p.134). Edmonds però, e con lui Marx, non s'è accorto che: 1) la coscienza della libertà è stata possibile in virtù del cristianesimo (anche se il cristianesimo ha vissuto la libertà in maniera parziale e riduttiva); 2) sulla base di questa libertà, l'alternativa, per il cittadino "obbligato" a lavorare come schiavo, poteva anche essere un'altra (p.es. il superamento democratico, a livello politico e sociale, del servaggio); 3) il carattere "violento" dello schiavismo era più "fisico" che "morale", proprio perché l'ideologia dominante (religiosa e/o politica) era scarsamente democratica, e poco rilevanti erano le alternative a questa ideologia. Viceversa, il carattere "violento" del capitalismo è sia "fisico" che "morale", benché esso appaia assai più mistificato, in quanto, per doversi imporre, ha dovuto fare i conti con un'ideologia, quella cristiana, che, almeno sul piano dei princìpi, pretendeva d'essere molto democratica.

Per Marx "l'operaio risulta costretto a vendere, al posto di una merce, la sua propria capacità di lavoro come merce, appunto perché tutti i mezzi di produzione, tutte le condizioni oggettive del lavoro, e parimenti tutti i mezzi di sussistenza, gli stanno di fronte come proprietà estranea... Si presuppone ch'egli lavori come non-proprietario..."(p.108).

Ma in queste condizioni non c'è bisogno di un vero e proprio mercato del lavoro: è sufficiente che con un provvedimento legislativo le autorità politico-civili liberino giuridicamente dal servaggio i contadini per costringerli, in maniera indotta, a trasferirsi nelle fabbriche capitalistiche. Se le autorità hanno questo potere, il capitalismo c'è già; se invece non l'hanno, il capitalismo non può formarsi a partire dalla sfera della "circolazione delle merci", almeno non può farlo automaticamente.

Su questo però Marx non transige: "è solo in quanto possessore delle condizioni lavorative che il compratore porta qui il venditore alla sua dipendenza economica; non sussiste alcun rapporto politico e socialmente fissato di sovraordinazione e subordinazione"(p.132). Questo è il tipico modo ingenuo di vedere le cose di chi subordina la politica all'economia. Marx ha sempre considerato -a torto- i rapporti economici come più "immediati", più "diretti", più "evidenti" di quelli che avvengono nella sfera politica o ideologica. Questo gli impedito di scorgere le influenze della sovrastruttura sulla struttura.

In realtà, nei confronti di un "nullatenente" non è necessario, da parte del capitale, dare l'impressione che "le condizioni materiali necessarie per la realizzazione del lavoro...si presentino come feticci dotati di propria anima e volontà"(p.108). Questa illusione è necessaria per il lavoratore libero, proprietario dei suoi mezzi produttivi, che però non riesce a fronteggiare la concorrenza del grande capitale. E' appunto lui che deve credere nella realtà di questi feticci, e non-credere nella sua capacità di distruggerli.

Insomma, un vero "scambio di equivalenti" può essere percepito da entrambi i contraenti (compratore e venditore) solo in una società dove esiste il primato del valore d'uso e quindi l'esigenza di commerciare il surplus rimasto dopo l'autoconsumo. Al di fuori di questo contesto lo "scambio degli equivalenti" è solo un'illusione propinata dal capitale che il lavoratore libero non può che cogliere immediatamente come tale. Il problema, per questo lavoratore, semmai è un altro: come reagire all'illusione.

Marx ha tutte le ragioni di questo mondo quando sostiene che non ci sarebbe capitalismo se l'operaio non fosse costretto a vendere la sua forza-lavoro per vivere, ma non può sostenere che la compravendita della forza-lavoro "costituisce il fondamento assoluto del processo di produzione capitalistico"(p.110). E' un "fondamento assoluto" dal punto di vista fenomenologico, ma da quello ontologico il fondamento va ricercato nell'ideologia, e in particolare in quella religiosa. Finché non si individua questo "fondamento" non si uscirà mai dal circolo vizioso che considera come "cause" ciò che in realtà non sono che ulteriori "effetti".


Quando Marx delinea, con la maestria che gli è solita, il passaggio dal rapporto corporativo medievale al rapporto capitalistico, non v'è dubbio che se ci si limitasse, fenomenologicamente, ad esso, le cose non avrebbero potuto che seguire quella direzione. Val la pena anzi riprendere in dettaglio quella descrizione per mostrare meglio le incongruenze dell'analisi marxiana.

Marx dice che "il rapporto corporativo medievale...si è sviluppato, in forma analoga, anche in Atene e Roma, e che in Europa risultò d'importanza così decisiva da un lato per la formazione dei capitalisti, dall'altro per quella di un libero ceto operaio..."(pp.135-6). Si noti subito come Marx non riesca a spiegarsi il motivo per cui il capitalismo non sia nato già nelle grandi civiltà schiavistiche del mondo greco-romano, pur avendo esse analoghe forme di corporazioni artigiane.

Ma procediamo. Tale rapporto corporativo, per Marx, "è una forma limitata, non ancora adeguata, del rapporto di capitale e lavoro salariato"(p.136). I motivi di questo li vediamo dopo. Qui si noti soltanto come Marx osservi il feudalesimo o, se si vuole, lo sviluppo artigianale nei Comuni europei più avanzati, non con gli occhi dello storico che considera il Medioevo dall'interno, ma con quelli dell'economista che si serve di alcune caratteristiche del Medioevo per dimostrare il valore delle proprie tesi sul capitalismo. Il Medioevo cioè viene visto dall'esterno, a partire dalla "verità" di ciò che lo ha superato: il capitalismo. In tal modo la deformazione della realtà, viziata da un'interpretazione fortemente ideologizzata, è inevitabile.

Marx non solo sbaglia nel considerare il corporativismo artigianale un'anticipazione limitata del capitalismo, ma sbaglia anche nel considerare tale anticipazione come quella che assolutamente avrebbe portato, prima o poi, al capitalismo. Già si è detto che la sua importanza viene ritenuta "decisiva". "Il modo di produzione capitalistico ha inizio con la libera impresa artigiano-corporativa"(p.141).

In realtà il corporativismo artigianale può anche essere stato una prefigurazione del capitalismo, ma non fu certamente solo questo, anzi non fu anzitutto questo quand'esso nacque, anche se, bisogna ammetterlo, nel modo in cui viene descritto da Marx, esso non poteva che portare al capitalismo.

Vediamo ora in che senso la prefigurazione è "limitata". L'impresa artigiana medievale -secondo Marx- nasce con lo "spirito capitalistico", perché essa ha come fine il profitto individuale del maestro, il quale è proprietario delle condizioni lavorative e paga un salario a persone "libere", o comunque ha come fine il profitto dei maestri associati in una corporazione di arte e mestiere.

L'impresa va considerata "limitata", rispetto al capitalismo, perché il garzone e l'apprendista hanno col maestro un rapporto di subordinazione gerarchica, in forza della sua specifica competenza professionale: nel senso che il maestro può vendere il prodotto solo quando l'apprendista produce un "capolavoro", cioè un ottimo "valore d'uso". Quando poi l'apprendista diventa maestro, egli può realizzare dei profitti -come il suo maestro precedente- solo nel ramo professionale in cui s'è specializzato.

Al maestro è vietato "andare aldilà di un certo numero di lavoranti, in quanto la corporazione deve garantire a tutti i maestri un'aliquota di guadagno del loro mestiere"(p.137). I prodotti, che devono rispettare determinati criteri di qualità, non possono essere venduti a prezzi concorrenziali, perché la corporazione va difesa in quanto tale. Tutti i metodi di lavoro sono stabiliti non solo dall'esperienza del maestro, ma anche dalle regole della corporazione di appartenenza. L'ampiezza di valore del capitale impiegato, in sintesi, non può andare mai aldilà di un certo livello.

Marx dice che "la trasformazione puramente formale dell'impresa artigiana in impresa capitalistica, dove inizialmente il processo tecnologico rimane ancora lo stesso, consiste nell'abolizione di tutti questi limiti..."(p.137). Marx vede dei "limiti" là dove esistevano dei "vantaggi" per tutta la collettività. Egli non s'è accorto che la suddetta trasformazione presuppone la fine di regole stabilite in maniera collettiva, presuppone cioè l'affermazione di un arbitrio individuale in contrasto con una prassi sociale che, seppur entrata in crisi, poggiava su fondamenti teorici socialmente rilevanti e pubblicamente riconosciuti.

Per Marx il "passaggio" da un sistema all'altro è avvenuto semplicemente perché è bastata una "repentina espansione del commercio e quindi della domanda di merci da parte del ceto mercantile..."(p.138). In altre parole esso è avvenuto perché risultava essere una contraddizione insostenibile il fatto che da un lato si mirasse al profitto e dall'altro non si riuscisse a realizzarlo (in quanto si dovevano produrre valori d'uso, la produzione era determinata dal consumo ecc.). Lo "spirito capitalistico" dell'impresa artigiana aveva bisogno di darsi delle forme più libere per esprimersi al meglio.

In sostanza, Marx non vede l'artigianato in simbiosi con l'agricoltura, ma in antagonismo, sin dal suo sorgere; ed anche quando tale antagonismo è reale, egli non riesce a scorgere le motivazioni ideologiche che lo supportano. Il "passaggio", per Marx, è stato necessario non solo dal punto di vista del mastro artigiano, ma anche da quello dell'apprendista. Singolare, tuttavia, che qui Marx dimentichi la possibilità che l'apprendista aveva di diventare maestro, e che paragoni l'operaio salariato dell'impresa capitalistica non all'apprendista artigiano bensì allo "schiavo"! Certo, rispetto allo schiavo il lavoro diventa "più produttivo, perché più intenso, dal momento che lo schiavo lavora soltanto dietro la spinta di una paura esterna, ma non per la sua esistenza, che non gli appartiene e che comunque è garantita"(p.138).

Sul piano dell'efficienza produttiva, a dir il vero, il lavoro dell'operaio salariato è superiore anche a quello dell'apprendista artigiano (se si lega la "superiorità" alla mera "quantità" e al "macchinismo"): non c'era bisogno di risalire allo schiavo romano (per quanto oggi non poche persone sarebbero disposte a dubitare, dopo aver visto le ricadute del progresso scientifico e industriale sull'ambiente e sugli stessi rapporti umani, che il capitalismo sia sicuramente un sistema migliore di quello schiavistico o feudale).

Ma la domanda qui è un'altra: perché Marx ha messo a confronto l'operaio salariato con lo schiavo nel mentre parlava dei limiti della corporazione artigiana? Risposta: proprio perché se avesse messo a confronto l'operaio salariato con l'apprendista artigiano non avrebbe trovato motivazioni sufficienti per legittimare in modo assoluto la transizione al capitalismo. Questa transizione è stata voluta, fra gli altri soggetti, da singoli mastri artigiani che volevano arbitrariamente superare i limiti imposti dalla corporazione d'appartenenza. Ma resta singolare che Marx non abbia sottolineato quante battaglie abbiano dovuto sostenere garzoni e apprendisti per non diventare salariati a vita!

"Il libero lavoratore -dice Marx- è spinto dai suoi bisogni. La coscienza (o piuttosto la rappresentazione) della libera autodeterminazione, della libertà, e il connesso sentimento (consapevolezza) di responsabilità..."(p.138), fanno del salariato un individuo migliore dello schiavo. Qui Marx fa completa astrazione dalla storia e usa la dialettica alla maniera hegeliana. Stando infatti alla sua analisi, pare addirittura che garzoni e apprendisti abbiano acconsentito volontariamente a diventare salariati dell'impresa capitalistica! Solo perché potevano aspirare a un salario maggiore! Solo perché potevano dimostrare la loro professionalità individuale! Solo perché avevano la possibilità di cambiare continuamente lavoro, o meglio la possibilità di scegliersi il capitalista al quale sottomettersi! Solo perché, a forza di risparmiare sul salario, potevano illudersi di diventare un giorno come il loro imprenditore! (cfr pp.138-141)

In un certo senso è incredibile che uno storico dell'economia come Marx ritenga che "la trasformazione di servi della gleba o di schiavi in liberi operai salariati [costituisca] un'elevazione nel grado sociale"(p.140), quando nello schiavo un'emancipazione del genere sarebbe stata impossibile senza una forte consapevolezza della libertà (che solo il cristianesimo poteva dargli); quando nel servo della gleba un'emancipazione del genere ha comportato un peggioramento sensibile e irreversibile delle sue condizioni di vita.

Significativo è anche il fatto che Marx metta sullo stesso piano "schiavo" e "servo della gleba", senza rendersi conto che se la condizione del "libero" operaio salariato è evidentemente migliore di quello dello schiavo (per quanto una libertà "giuridica" senza una libertà "sociale" alla fine diventi un peso insopportabile), non la stessa cosa si può dire mettendo a confronto il salariato capitalistico col contadino medievale (rovinato, quest'ultimo, più che dal servaggio, dalla penetrazione del capitalismo nelle campagne).

Tuttavia, la cosa che Marx non ha assolutamente capito è che lo schiavismo risulta, tra i sistemi economici di sfruttamento, di gran lunga quello più immediato, più spontaneo e naturale: in un certo senso il più efficace, non tanto per la produzione quanto piuttosto per la "coscienza", proprio perché con esso si evita alla radice di tener conto di qualunque ideologia umanistica. Non a caso a partire dal colonialismo, gli europei lo ripristinarono, diffondendolo subito su vasta scala, nelle regioni ignare del cristianesimo, rinunciando, in un primo momento, non solo al servaggio ma anche al rapporto salariato, che è indiscutibilmente più vantaggioso per il capitalista.

Ciò comunque significa che nel passaggio dallo schiavismo al servaggio e dal servaggio al capitalismo, il cristianesimo ha giocato un ruolo decisivo, al punto che nei territori segnati dalla presenza di questa religione, un semplice ritorno ai vecchi metodi di produzione sarebbe stato impossibile. Il capitalismo riflette dunque una sofisticazione culturale, un approfondimento qualitativo -seppure in negativo- della religione cristiana. L'approfondimento in positivo è costituito dal socialismo democratico.


Correlata a questo modo di vedere le cose è l'idea, da Marx sempre ribadita, che "inizialmente la sottomissione del processo lavorativo al capitale non cambia nulla nel modo di produzione effettivamente reale"(p.116). La rivoluzione tecnologica vera e propria avviene solo quando si ha "sussunzione reale del lavoro sotto il capitale". Marx deve per forza affermare un principio del genere, poiché ha posto la compravendita della forza-lavoro come presupposto assoluto del capitalismo. S'egli ammettesse che il capitalismo si afferma anzitutto come modo di produzione diverso dal precedente, la legge che regola lo scambio delle merci assumerebbe un'importanza relativa.

Cioè il lavoratore non penserebbe mai di essere libero nel mercato delle merci e schiavo nel mercato del lavoro. Il capitalismo non è giusto nella circolazione delle merci e ingiusto nella produzione di plusvalore. Il suo carattere antagonistico si esprime a tutti i livelli, seppur in modo più o meno mascherato. D'altra parte lo dice anche Marx: "con ciò svanisce anche l'apparenza..., secondo cui nella circolazione, nel mercato delle merci, si fronteggiano possessori di merci, dotati di eguali diritti, che si distinguono l'uno dall'altro, come tutti gli altri possessori di merci, solo per il contenuto materiale delle loro merci..."(p.169). Solo che Marx non arriva mai a chiedersi come si sia potuta formare un'apparenza del genere: di qui i suoi limiti nell'analisi storica e culturale del capitalismo. (L'ultima parte del cap.VI è quella da cui bisognerebbe partire per approfondire il marxismo sul versante culturale).

In tal senso è da escludere categoricamente che lo sviluppo del capitalismo abbia potuto favorire "una maggiore continuità e intensità del lavoro e una maggiore economia nell'impiego delle condizioni lavorative"(p.133), senza mutare, contemporaneamente, le condizioni tecnologiche della produzione. Dire che "considerato tecnologicamente, il processo lavorativo si svolge esattamente come prima, solo che adesso si svolge in quanto processo lavorativo subordinato al capitale"(ib.), è dire una frase senza senso, poiché o con essa ci si riferisce al capitalismo mercantile, e allora non è il caso di parlare di passaggio "automatico" al capitalismo industriale (in ogni caso Marx intende riferirsi alla "sussunzione formale del lavoro sotto il capitale", e quindi non al capitalismo mercantile), oppure con essa ci si riferisce al capitalismo industriale (o manifatturiero che dir si voglia), e allora bisogna ammettere che senza progresso tecnologico tale capitalismo non sarebbe mai nato, o non si sarebbe mai sviluppato come poi ha fatto. In altre parole, Marx, evitando l'esame sovrastrutturale delle cause che hanno generato il capitalismo, non è stato in grado di determinare le ragioni culturali che hanno portato l'uomo del XVI sec. a modificare completamente il proprio apparato tecnologico, ovvero il proprio rapporto con la natura e con l'ambiente sociale.

Con gli occhi del "fenomenologo", Marx ha saputo cogliere la contraddizione antagonistica del sistema capitalistico, ma non l'origine culturale del formarsi di tale contraddizione. E' vero, il capitalismo "risolve il rapporto tra il possessore delle condizioni lavorative e il lavoratore stesso in un puro e semplice rapporto di compravendita, o rapporto monetario, e separa il rapporto di sfruttamento da ogni mistione patriarcale e politica o anche religiosa"(p.133). Ma questa "separazione", in realtà, è solo formale, in quanto, nella sostanza, è stata proprio la religione (specie quella protestante) a offrire alle forze produttive il pretesto, la giustificazione teorica per originare una nuova formazione sociale.

Quando le condizioni di lavoro stanno "di fronte all'operaio come persone autonome, poiché il capitalista in quanto possessore di esse è soltanto la loro personificazione..."(p.123), ciò significa che, nei suoi fondamenti, il capitalismo s'è già compiutamente realizzato. L'operaio non scopre questa "personificazione" solo nel momento in cui entra in fabbrica, ma già nel momento in cui vende la propria forza-lavoro, ed è tanto più convinto di questa "personificazione" quanto più, prima di diventare operaio, svolgeva un lavoro servile.

In pratica Marx ha equiparato arbitrariamente l'economico col sociale, togliendo a questa dimensione la ricchezza della valenza culturale e la profondità delle scelte esistenziali, assiologiche che gli uomini possono compiere. Dal punto di vista "sociale" si sarebbe dovuto sostenere che, fino a quando il capitalismo non modifica il modo di produzione tradizionale, non è neanche il caso di parlare di "capitalismo", ma solo di attività mercantile, ovvero di attività artigianale (o anche agricola) intaccata dall'esigenza di un mero profitto commerciale: un'attività che di per sé non è affatto in grado di creare un "libero mercato delle merci" e che in presenza di una forte volontà politica democratica potrebbe essere facilmente smantellata. Il capitalismo, per potersi imporre, ha avuto bisogno di una rivoluzione culturale, quella del protestantesimo, e anche di una rivoluzione tecnologica, quella del macchinismo. Senza il macchinismo il protestantesimo ha prodotto, nella Germania di Lutero e di Hegel, una grande libertà di pensiero, ma non ha saputo generare il capitalismo. Il capitalismo nasce quando, fra le altre cose, "le condizioni del lavoro -come dice Marx-, con lo sviluppo del macchinario, si presentano anche tecnologicamente come dominatrici del lavoro e, nello stesso tempo, lo sostituiscono, lo schiacciano e lo rendono superfluo nelle sue forme autonome"(p.163).

Dunque i primati della quantità sulla qualità, del lavoro astratto su quello concreto, del lavoro morto su quello vivo, dello scambio sull'uso e così via, potevano essere affermati sul mercato e nella società civile solo dopo che si fossero imposti (anche tecnologicamente) nella produzione e nella...coscienza religiosa!


Paradossalmente Marx ha creduto di ravvisare nel capitalismo industriale (che è il sistema più individualistico della storia, e lo può essere in virtù della tecnologia) un carattere di "socialità" assai superiore a tutti i modi di produzione pre-capitalistici. Ma è forse un segno di "socialità" il fatto che la merce capitalistica faccia "comparire come qualcosa di completamente casuale, indifferente ed inessenziale la sua relazione immediata, in quanto valore d'uso, con il soddisfacimento del bisogno del produttore"(p.53)? Il primato assoluto del valore di scambio non è forse indice di un assoluto individualismo?

Certo, se si mette a confronto il capitalismo individualistico del mercante medievale (o dell'usuraio o della singola corporazione artigiana) con il capitalismo "sociale" dell'imprenditore privato, che impiega quanti più operai possibile (salvo poi decidere che un certo, esiguo, numero di operai è sufficiente per realizzare un determinato plusvalore...), nessuno può dubitare che il capitalismo industriale sia, nello sviluppo non solo delle forze produttive ma anche dell'antagonismo sociale, un passo avanti rispetto al capitalismo mercantile. Tuttavia, Marx dimentica di dire che i guasti che ha procurato il mercantilismo all'insieme della società feudale sono stati minori rispetto a quelli dell'industrialismo, semplicemente perché allora esisteva un'economia agricola che, essendo basata sull'autoconsumo, sapeva (naturalmente fino a un certo punto) attutire il peso di certe contraddizioni e di certi conflitti sociali. Viceversa, il capitalismo avanzato oggi ha ancora bisogno di sfruttare l'80% dell'umanità per poter sopravvivere.

Naturalmente Marx sa bene che il "sociale" del lavoro "si contrappone all'operaio in modo non solo estraneo, ma ostile e antagonistico, e come oggettivato e personificato nel capitale"(p.131). Persino "il lavoro produttivo, in quanto produttore di valore, sta sempre di fronte al capitale come lavoro di operai isolati, quali che siano le combinazioni sociali in cui questi operai entrano nel processo di produzione"(p.164). Tuttavia, è singolare come Marx non si sia accorto che un individualismo del genere poteva essere affermato solo in contrapposizione a un'esperienza di socializzazione entrata in crisi, a un'esperienza cioè il cui lato "sociale", peraltro indubitabile, non era stato politicamente usato per risolvere le contraddizioni antagonistiche del sistema feudale (o lo era stato solo in maniera insufficiente).

Ancora più paradossale è il fatto che proprio nel momento in cui Marx si avvicina a comprendere la natura antagonistica del sistema capitalistico, con la medesima intensità egli si allontana da una reale comprensione della sua genesi storica. Si legga ad es. questo significativo passo: "il dominio del capitalista sull'operaio è il dominio della cosa sull'uomo, del lavoro morto sul lavoro vivo, del prodotto sul produttore... Storicamente considerata, questa inversione si presenta come il punto di passaggio necessario [!] per promuovere coercitivamente, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, lo sviluppo inesorabile [!] di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono costituire la base materiale di una libera [!] società umana. E' necessario [!] passare attraverso questa forma antagonista proprio come è necessario [!] che, inizialmente, l'uomo si raffiguri in modo religioso, di fronte a sé, le sue forze intellettuali come potenze indipendenti. E' il processo di estraneazione del suo proprio lavoro"(p.94). Il lato "positivo" del capitalismo -dice Marx- è il fatto che i "limiti della produzione" vengono costantemente oltrepassati (p.144).

Qui Marx riprende i temi giovanili già delineati nei Manoscritti del '44, inclusa la critica di Feuerbach alla religione. Ma la dipendenza dall'hegelismo è netta, forse più adesso che allora, seppure qui l'hegelismo sia stato trasformato radicalmente in chiave fenomenologica. La dipendenza la si nota soprattutto laddove Marx considera il capitalismo come una formazione "necessaria", "inesorabile", per la creazione della ricchezza. Infatti non ci può essere "libera società umana" -dice Marx- senza sviluppo delle forze produttive, che ne costituiscono la base materiale. Qui, sinteticamente, è concentrata tutta la filosofia dell'economia di Marx, la quintessenza della sua visione deterministica della storia (che è filo-hegeliana proprio per l'uso della categoria della necessità, non, ovviamente, per aver considerato "necessario" il capitalismo. Hegel -come noto- era un conservatore del sistema feudale).

Il parallelo che Marx fa con l'alienazione religiosa non viene approfondito, né qui né altrove, semplicemente perché Marx ha sempre considerato l'alienazione religiosa un riflesso di quella economica. Marx pensò di superare l'antropologismo psicologistico di Feuerbach dal punto di vista storico, ma vi riuscì, in parte, solo fino a quando assegnò un certo primato alla politica (in pratica sino al Manifesto): quando invece cominciò a subordinare la politica all'economia, la sua dipendenza da Feuerbach nell'analisi della religione fu netta. In sostanza a Marx è mancato il momento dell'analisi culturale del fenomeno religioso: quello che gli avrebbe permesso: 1) di vivere la politica rivoluzionaria in maniera più democratica e non settaria; 2) di dare un vero senso storico agli studi di economia; 3) di superare non solo Feuerbach ma anche Hegel.

In altre parole Marx non è riuscito a cogliere la reciproca influenza che caratterizza i rapporti tra economia e religione, né, tanto meno, il fatto che la religione sia, sul piano culturale, una delle cause storiche in grado di giustificare determinati processi socio-economici.

Marx supera certamente l'hegelismo quando afferma, diversamente dalla dialettica servo/padrone, che "fin da principio l'operaio si trova in una posizione superiore rispetto al capitalista, perché quest'ultimo affonda le sue radici in quel processo di estraneazione e vi trova il suo assoluto soddisfacimento, mentre l'operaio, in quanto vittima di quel processo, rimane da sempre in un rapporto di ribellione verso di esso e lo esperimenta come processo di asservimento"(p.94).

Tuttavia Marx ricade nell'hegelismo proprio quando considera come "inevitabile" questo "processo di asservimento", ovvero quando non assegna esplicitamente al "rapporto di ribellione" il compito di por fine, con la rivoluzione politica, allo sfruttamento capitalistico, ancor prima che il sistema abbia esaurito tutte le proprie potenzialità produttive.


Marx era così influenzato dal metodo della Logica hegeliana che ne usava, anche durante la stesura del Capitale, taluni concetti, come ad es., in questo caso, quello di "sussunzione".

Parlando della "sussunzione formale" del lavoro sotto il capitale -che è quella decisiva, in quanto "condizione e presupposto della sussunzione reale"(p.133)- Marx ribadisce il suo punto di vista deterministico ed evoluzionistico, che già abbiamo visto nelle considerazioni su esposte. "E' nella natura delle cose [!] -egli afferma- che la sussunzione del processo lavorativo sotto il capitale subentri proprio sulla base di un processo lavorativo esistente, sorto prima di questa sussunzione...e configuratosi sulla base di precedenti e differenti processi produttivi...p.es., il lavoro artigiano o il tipo di agricoltura corrispondente alla piccola, autonoma economia contadina"(p.127).

Infatti, "se il rapporto di sovraordinazione e subordinazione [tra capitalista e operaio salariato] subentra al posto della schiavitù, servitù della gleba, vassallaggio, di forme patriarcali ecc., di subordinazione, si verifica solo un cambiamento nella sua forma. La forma diviene più libera, poiché essa rimane soltanto di naturale materiale, formalmente volontaria, puramente economica"(p.135).

Marx rifiuta categoricamente l'idea che in questo passaggio vi siano dei mutamenti, già all'inizio, di tipo sostanziale. Considerando il presente migliore del passato e il futuro migliore del presente, Marx non può che vedere le cose in maniera naturalistica: la differenza dall'ideologia borghese sta nel fatto che la sua considera "naturali" i drammi e le tragedie connesse allo sfruttamento capitalistico, perché proprio essi hanno permesso -a suo giudizio- di rendere più evidenti le contraddizioni del sistema e più pressante la necessità di superarle.

In ogni caso Marx non si rende conto che la "naturalità" della transizione al capitalismo avrebbe potuto verificarsi ben prima del sec. XVI (come, in effetti, accadde nell'Italia comunale, senza che però si verificasse il passaggio del capitalismo da "mercantile" a "industriale"). Oppure avrebbe potuto verificarsi, nello stesso secolo XVI, in altre regioni del globo, certo non meno avanzate, sul piano commerciale, dell'Europa occidentale: si pensi p.es. alla Cina o al mondo arabo che dominava i traffici nel Mediterraneo e nell'oceano Indiano. Perché qui il capitalismo non è mai nato spontaneamente, ma solo come sistema imposto dall'esterno o comunque importato contro le tradizioni nazionali delle popolazioni?

Perché l'India, nonostante la presenza di "interessi colossali" tratti dal "capitale usuraio" -come dice Marx- non ha sperimentato "la sussunzione formale del lavoro sotto il capitale"? In India il capitalismo è stato imposto dalla potenza coloniale inglese e, dopo la liberazione politica, esso continua a restare un corpo estraneo nel complesso della società civile para-feudale: perché? E' solo un "limite" dell'India o piuttosto un segno della sua "forza morale"?

"La produzione per la produzione - produzione come scopo a sé..."(p.144), ovvero la capacità che gli euroccidentali hanno avuto di passare dal possesso di schiavi a quello della terra (il feudo), sino a quello di capitali (il plusvalore), è stato davvero un segno di "progresso"? nel bene o nel male? Non è forse il caso di dire che queste forme sempre più sofisticate di sfruttamento dell'uomo sono in realtà dei tentativi di reagire, negativamente, alla domanda di libertà, di verità e di autenticità che il cristianesimo ha introdotto nella civiltà europea? E che laddove questi tentativi non sono nati spontaneamente, lì esisteva anche una consapevolezza limitata della grandezza dell'uomo, ossia di ciò che l'uomo è in grado di fare? Considerare il capitale "come personificazione e rappresentante, figura cosalizzata delle forze produttive sociali del lavoro o delle forze produttive del lavoro sociale"(p.164), sarebbe stato possibile senza il cristianesimo?

Se Marx avesse puntato l'attenzione sui processi ideologici e culturali che portano una determinata formazione sociale a trasformarsi in un'altra, spesso di segno opposto, avrebbe evitato di parlare di "naturalità delle cose" o almeno l'avrebbe considerata in modo relativo. Non è "naturale" che la scala della produzione venga determinata non sulla base di "bisogni reali", ma sulla base del modo di produzione stesso, finalizzato unicamente al profitto (p.144). E' evidente, infatti, che qualsiasi modo di produzione nasce sulle fondamenta di quello precedente, a meno che non siano avvenute delle catastrofi di tipo naturale o degli eventi di natura politico-militare così sconvolgenti da obbligare gli uomini a ripensare totalmente la loro esistenza.

In questo senso si può affermare che mentre in Europa occidentale la nascita del capitalismo non è stata particolarmente ostacolata dal feudalesimo (se non nel momento in cui le forze borghesi, consolidatesi sul piano economico, cominciavano a rivendicare un potere politico), nell'Europa orientale invece (specie in quella di religione ortodossa), il capitalismo, anche sul piano economico, ha sempre incontrato una forte resistenza da parte delle forze feudali (comunità di villaggio ecc.). E quando esso, approfittando delle contraddizioni feudali, ha cercato d'imporsi sul piano economico, sono nate più o meno immediatamente, nuove forze sociali che vi si sono opposte in maniera politica, costringendo il capitalismo a operare subito la transizione verso il socialismo.

In questo tentativo, purtroppo, tali forze hanno fatto affidamento più che in loro stesse, sulle teorie socialiste (marxiste in particolare) elaborate in Europa occidentale, cioè su quelle teorie che hanno sempre tenuto in scarsa considerazione il feudalesimo, il mondo contadino, le comunità di villaggio ecc. Sicché l'Europa dell'est ha sperimentato su di sé tutti gli effetti negativi della realizzazione delle teorie marxiste, risparmiandoli così all'Occidente, il quale, però, dal canto suo, continua a sperimentare su di sé (e a far sperimentare soprattutto sul Terzo Mondo) tutti gli effetti negativi delle teorie borghesi del capitalismo.

Ora, se da un lato l'Europa dell'est ha capito gli errori del marxismo, dall'altro l'Europa dell'ovest non ha ancora capito gli errori del liberalismo borghese. La democrazia occidentale oscilla continuamente fra due poli opposti: il laissez-faire e il Welfare State, e non s'accorge che in realtà sono due facce di una stessa medaglia, quella appunto del capitalismo.

Gli schemi di riproduzione di Marx e la teoria della crisi

le crisi permanenti non esistono - Marx

1. Introduzione

L'analisi dell'economia come flusso circolare di risorse nasce nel diciottesimo secolo con il Tableau Economique di Quesnay, capo della scuola fisiocratica francese. La formazione scientifica di Quesnay, che era il medico di corte di Luigi XV, lo aiutò a concepire l'analogia tra sistema economico e flusso sanguigno. Marx riprese questa intuizione e la approfondì descrivendo l'analisi della circolazione e rotazione del capitale nel II volume del Capitale. Per portare a termine tale compito sviluppò uno strumento analitico eccezionalmente fecondo: gli schemi di riproduzione.

Gli schemi di riproduzione permettono di comprendere le condizioni di cui il capitalismo ha bisogno per crescere. Essi mostrano la compresenza di fattori che avvicinano e di fattori che allontanano il sistema produttivo da queste condizioni. L'interazione di queste forze fa sì che nel capitalismo l'equilibrio, ovvero una crescita proporzionata dell'economia, sia estremamente improbabile e solo momentanea. Il capitalismo trova l'equilibrio per un attimo fugace, durante le sue oscillazioni periodiche.

Gli schemi di riproduzione, nel descrivere come il capitalismo può crescere in modo equilibrato spiegano effettivamente perché ciò non avviene. Questo non ha impedito ad alcuni "socialisti" di dare agli schemi un'interpretazione ben diversa. I riformisti, che nella teoria economica erano rappresentati dai cosiddetti neoricardiani (per tutti, il russo Tugan Baranovskij), cercavano di dimostrare che il capitalismo può svilupparsi senza fine, e che dunque il socialismo è solo un desiderio morale, non una necessità storica. Gli schemi di riproduzione vennero utilizzati a questo fine attraverso un'operazione di cattiva logica.

Secondo il noto detto, se mio nonno avesse avuto le ruote, sarebbe stato una cariola. I riformisti si limitarono a questo ragionamento, senza indagare la possibilità storica che un uomo abbia delle ruote. Per i riformisti la cosa era semplice. "Purché" si diano certe proporzioni, la produzione può andare avanti per sempre. La loro idea di "astrazione" manca totalmente di dialettica, è davvero pura matematica, pura fantasia. I riformisti non comprendevano l'essenza del concetto marxiano di produzione in generale sviluppato da Marx nell'Introduzione a Per la critica dell'economia politica. Non comprendevano che il capitalismo, come ogni altro modo di produzione, in ultima analisi, deve produrre valori d'uso. Non è lo scopo della produzione, non è lo scopo dei capitalisti, ma alla fine, se le merci prodotte non servono, non si vendono.

Ora, gli "ottimisti" alla Tugan Baranovskij eliminano ogni problema di realizzo con questa semplice trovata: basta espandere il settore dei mezzi di produzione [1]. Se anche gli operai si riducono (o meglio, se il capitale variabile si riduce come proporzione del capitale complessivo), non c'è problema: i capitalisti si vendono le merci l'un l'altro. Ma poiché nessun capitalista può mangiare per mille operai, di che merci stiamo parlando? Di mezzi di produzione. E che se ne fa il capitalista? Ci produce altri mezzi di produzione che vende ad altri capitalisti. Tutti producono macchine che servono a produrre altre macchine che servono a produrre altre macchine che inevitabilmente servono a produrre altre macchine, perché una simile concentrazione di mezzi di produzione, se si dedicasse alla produzione di merci finali, saturerebbe rapidamente il mercato. Ma si può escludere che si arrivi a questo perché una simile montagna di capitale costante, manovrata da una sparuta quantità di operai, implicherebbe una composizione organica del capitale così elevata che il saggio di profitto dovrebbe inevitabilmente ridursi rapidamente a zero. Molto prima di quel momento i capitalisti avrebbero smesso di investire, a prescindere dagli eleganti e armonici modelli dei riformisti. La prima guerra mondiale, l'imperialismo in generale, sono la dimostrazione storica che gli "ottimisti" non avevano idea di come funzioni il capitalismo.

Reagendo a questa degenerazione del marxismo, Rosa Luxemburg cercò di mostrare che gli schemi di riproduzione erano un'astrazione eccessiva del capitalismo, ne perdevano alcuni aspetti essenziali. In particolare, secondo Rosa Luxemburg, solo attraverso lo scambio con settori extracapitalistici la borghesia aveva la possibilità di realizzare il plusvalore, ovvero trovare sufficiente domanda solvibile.

Rosa Luxemburg si sbagliava, il motore del capitalismo è endogeno. Ma su almeno due punti la sua idea sull'"esaurimento" dello spazio extracapitalistico ha molto da dire. Innanzitutto, la crisi dell'imperialismo (la prima guerra mondiale) si ebbe grosso modo quando finì l'occupazione dell'Africa e del Medio Oriente, sostanzialmente la parte di mondo che ancora andava spartita tra le grandi potenze. Che questo abbia reso insuperabili i dissidi tra i paesi imperialisti non c'è dubbio. In secondo luogo, il capitalismo si espande assorbendo nuova forza-lavoro e questa forza-lavoro, se è "nuova", significa che non proviene dalle file del proletariato. Si tratta dunque di contadini (di paesi avanzati e arretrati) e di altri ceti non già compresi nell'orbita della produzione capitalistica. Che il capitalismo tenda molto presto ad espandersi per cercare manodopera a basso costo, materie prime, sbocchi per merci e capitali è indubbio. Già Marx osservò:

"La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto stesso di capitale. Ogni limite si presenta qui come un ostacolo da superare"[2].

E ancora

"Non appena comincia ad avere la sensazione e la consapevolezza di essere esso stesso un ostacolo allo sviluppo, subito [il capitale] cerca scampo verso forme le quali, mentre danno l'illusione di perfezionare il dominio del capitale imbrigliando la libera concorrenza, annunciano nello stesso tempo la dissoluzione sua e del modo di produzione che su di esso si fonda. Ciò che è implicito nella natura del capitale viene solo reso realmente esplicito, come una necessità esterna; e il mezzo è la concorrenza, la quale poi non è altro che questo: che i molti capitali si impongono reciprocamente e impongono a se stessi le determinazioni immanenti del capitale"[3],

Allo stesso modo, è indubbio che l'inglobamento di paesi non capitalisti nell'orbita capitalista abbia conseguenze economiche e politiche di prim'ordine, ma le ragioni di questo processo non solo quelle ipotizzate da Rosa Luxemburg. Da queste errate premesse Rosa Luxemburg traeva anche una conseguenza: una volta terminate le "terze persone", il capitalismo sarebbe imploso, affogato in una ineludibile crisi di realizzo.

Rosa Luxemburg sbagliava a ritenere necessaria la presenza delle "terze persone". Sotto il profilo teoretico è possibile ridurre il capitalismo a due classi. Infatti, Marx spiega che il rapporto di produzione capitalistico, come ogni rapporto, è una relazione dialettica tra due classi sociali: i proprietari dei mezzi di produzione e i proprietari della forza lavoro. Questo rapporto non ha logicamente e storicamente bisogno di altro. Ovviamente, il capitalismo, come sistema storico, per le necessità complessive della sua sopravvivenza, sviluppa altre classi, il cui ruolo è economicamente non necessario alla produzione di plusvalore. L'astrazione compiuta da Marx è corretta: essa delinea il fondamento del problema e dunque consente poi allo storico e al politico di ricondurre verso il concreto l'analisi effettuata. Saltare i passaggi verso il concreto significa compiere errori di schematismo, ma impostare male l'astrazione significa escludersi la possibilità di capire.

2. La crisi economica

La sintesi degli schemi di riproduzione è che le crisi capitalistiche sono crisi di sproporzione:

"i nostri schemi dimostrano che nella produzione capitalistica sia la riproduzione semplice che la riproduzione allargata possono svolgersi indisturbatamente, solo a patto che vengano mantenute tali proporzioni"[4].

Ma occorre capire che cosa si intende per sproporzione. Tale concetto abbraccia non solo la crescita relativa tra i settori economici (e dunque crisi di sovracapacità, bolle speculative, ecc.) ma anche il rapporto tra consumo sociale e produzione, e dunque la distribuzione del reddito e il saggio del profitto. Pertanto le crisi sono insieme crisi di sovrapproduzione, sottoconsumo, sovrainvestimento, sovracapacità, sproporzione, domanda, saggio del profitto. L'impostazione tipica degli economisti "marxisti" accademici è di prendere uno di questi fattori e isolarlo dal resto. Così abbiamo i teorici del sottoconsumo, i teorici della sproporzione, i teorici del calo del saggio del profitto, ecc. Questi signori confondono la forma fenomenica della crisi con la sua essenza. In ultima analisi, ogni crisi del capitalismo non è che la manifestazione della sua contraddizione chiave: la contraddizione tra forma sociale della produzione e carattere privato della appropriazione. Le circostanze storiche fanno emergere questa contraddizione in modalità specifiche, ad esempio lo scoppio di una bolla speculativa finanziaria, una guerra, una recessione "classica", una combinazione di tutte queste cose.

Hilferding ha tratteggiato così l'andamento del ciclo di sviluppo capitalistico:

"Ogni ciclo industriale inizia con una espansione della produzione, le cui cause variano di volta in volta a seconda del concreto momento storico, ma che, in generale, possono essere ricondotte all'apertura di nuovi mercati, al sorgere di nuovi rami produttivi, all'introduzione di nuove tecniche, all'aumento del fabbisogno conseguente all'incremento della popolazione. Tutto ciò determina l'aumento della domanda, che provoca, a sua volta, in singoli rami produttivi, l'aumento di prezzi e profitti. Aumenta così la produzione de settori interessati.il ciclo si inizia così, con il rinnovamento e la crescita del capitale fisso, il che costituisce la causa principale della incipiente prosperità.da questo ciclo, abbracciante una serie di anni di rotazioni in connessione fra loro, nelle quali il capitale è vincolato dalla sua parte costitutiva fissa, deriva un fondamento materiale delle crisi periodiche, in cui la vita economica percorre successivi periodi di ristagno, di vitalità media, di precipitazione, di crisi. I periodi nei quali viene investito capitale sono bensì molto differenti e non coincidono affatto. Ma tuttavia la crisi costituisce sempre il punto di partenza di un nuovo grande investimento, quindi costituisce anche, più o meno,.un nuovo fondamento materiale per il prossimo ciclo di rotazione"[5].

Come detto, l'aspetto immediato della crisi dipende dalle specifiche circostanze storiche. Ad esempio, la carenza di domanda può sentirsi nel settore delle merci di consumo, se nel periodo precedente i salari si sono ridotti, oppure nel settore dei mezzi di produzione, se un calo del saggio del profitto ha condotto alla tesaurizzazione dei profitti. Ma da qualunque settore parta la crisi, le sue conseguenze saranno un crollo della produzione, dell'occupazione e degli investimenti, un acuirsi della concorrenza, e infine un calo generalizzato di prezzi che ristabilisce un qualche ordine nel sistema. Gli eccessi di produzione, che segnalano le difficoltà della produzione capitalistica a realizzare quanto è stato portato sul mercato, sono i termini della sproporzione della crisi. Questa sproporzione emerge alla coscienza reificata dell'economista come uno squilibrio tra la domanda e l'offerta in un mercato e nel sistema complessivamente. Ma questo squilibrio non è altro che l'inevitabile risultato di scelte autonome di milioni di produttori e consumatori, composte a livello sociale nella circolazione delle merci. Una recessione avviene per la sproporzione dei mercati, ovvero perché non c'è una scelta degli obiettivi quantitativi e qualitativi che orienti le azioni dei soggetti che producono, scambiano, consumano.

All'interno di questo meccanismo inesorabile del ciclo, giocano un ruolo crescente il credito e i monopoli. Il credito consente un allungamento della durata del ciclo a costo di una crescita della fragilità dei bilanci delle imprese. La crescente monopolizzazione dell'economia consente alle aziende, di solito multinazionali, di scaricare la crisi sulla picola media borghesia:

"I cartelli non eliminano affatto gli effetti della crisi: tutt'al più essi riescono a modificarli, in quanto possono rovesciare il peso della crisi sulle industrie indipendenti"[6].

Ma c'è un aspetto in cui la monopolizzazione dell'economia può anche peggiorare i picchi del ciclo: l'innovazione tecnologica. Marx spiega che il valore del capitale costante non è determinato dai suoi costi di produzione storici ma dai suoi costi di produzione attuali. Se i monopoli, per aumentare il proprio saggio di profitto, introducono delle innovazioni, svalutano parte del capitale costante che loro stessi e i loro concorrenti detengono perché riducono non il lavoro in essi oggettivato (che è stato erogato da lungo tempo), ma il lavoro vivo che serve oggi per produrli. L'innovazione, distruggendo parte del valore del capitale costante, accresce la concentrazione del capitale come strumento per contrastare la caduta del saggio del profitto.

Analizzando la teoria marxiana della crisi è dunque necessario vedere come le leggi di movimento del capitalismo portino a trasformazioni irreversibili del processo produttivo e riproduttivo. Il ciclo capitalistico non è una semplice alternanza di crescita e recessione, ma una spirale, la cui direzione muta, a un dato momento, dall'alto al basso e viceversa [7]. Questi macromovimenti a loro volta sono inseriti in un unico processo fondamentale che è lo sviluppo e il declino del modo di produzione capitalistico. Inoltre, la crisi termina con un'accelerazione delle tendenze di fondo del capitalismo. Portando alla morte molte imprese, soprattutto le più piccole, spinge alla concentrazione del capitale. Aumentando la dimensione delle aziende, la quantità del capitale accumulato, si fa inesorabile la ricerca di nuovi mercati in patria e all'estero. Il ruolo del credito diviene così decisivo, nasce il capitale finanziario, fusione del capitale creditizio e industriale. Si conquista lo Stato, che da camera di compensazione della borghesia diviene marionetta del complesso industriale e finanziario. Nasce l'imperialismo.

3. L'imperialismo

Sebbene Rosa Luxemburg avesse torto nel ritenere inevitabile lo scambio con "terze persone" per il realizzo del plusvalore, è indubbio che la nascita dell'imperialismo abbia prodotto una profonda modificazione storica nel funzionamento del modo di produzione capitalistico. L'analisi di questi cambiamenti impegnò le diverse correnti del movimento operaio dalla fine del diciannovesimo secolo. Come nel caso dell'interpretazione degli schemi di riproduzione, la storia sancì quale analisi corrispondesse meglio all'effettivo cammino del capitalismo a livello mondiale. Mentre si stava ancora asciugando l'inchiostro sui libri dei revisionisti che parlavano di come i monopoli e il capitalismo di Stato avrebbero eliminato le crisi e le guerre, si udirono i boati dei cannoni che annunciavano la prima guerra mondiale.

Allo stesso tempo, il boom postbellico si incaricò di dimostrare che anche la teoria di Rosa Luxemburg era errata. Il capitalismo era sì stato immerso per trent'anni in una profondissima crisi economica e politica, ma seppure a costo di due guerre mondiali, degli orrori del nazifascismo e della perdita di un quarto del pianeta a favore dello stalinismo, era riuscito ad emergere dalla crisi. La dimostrazione storica definitiva che l'imperialismo è orrore senza fine, come disse Lenin, ma anche che esso può essere distrutto solo dalla classe operaia armata delle idee del marxismo, non da un inesorabile processo storico. La "crisi finale" del capitalismo è la rivoluzione e dunque il partito rivoluzionario.

Furono i bolscevichi a tratteggiare le caratteristiche essenziali del capitalismo nella sua ultima fase, che tuttora attraversa. Tuttavia, Marx aveva già fornito alcune intuizioni interessanti in proposito. Nelle sue Teorie sul plusvalore, parlando del rapporto tra Say e Ricardo, Marx spiega che non appena si instaura il commercio mondiale, la legge del valore "è sottoposta a modificazioni essenziali" perché le giornate lavorative stanno fra di loro sulla base delle diverse produttività relative e dunque "il paese più ricco sfrutta quello più povero". Questa è la nascita della teoria dell'imperialismo. Se vogliamo è un'estensione dell'analisi di come le grandi aziende si impadroniscono di nuovi settori: vi investono e dunque realizzano profitti, devastando o comprando i produttori "locali". Lo scambio di più lavoro con meno lavoro è appunto l'essenza dell'imperialismo, sia verso i paesi coloniali ed ex coloniali sia verso la piccola e media borghesia. Spettò a Lenin nell'analisi dell'imperialismo e a Trotskij con la teoria della rivoluzione permanente trarre compiutamente le conseguenze politiche di questo sviluppo.

4. La riproduzione semplice

Introducendo gli schemi di riproduzione, Marx distingue la riproduzione semplice, che è uno stato in cui il ciclo economico si ripete sempre uguale a se stesso, e la riproduzione allargata, che introduce l'aspetto dell'accumulazione e della crescita economica. Sarebbe un errore ritenere che la riproduzione semplice sia solo un artificio didattico, usato da Marx per introdurre l'accumulazione del capitale. Marx spiega infatti che la riproduzione semplice esiste in ogni contesto ed è alla base dell'accumulazione. Senza riproduzione semplice sarebbe infatti impossibile procedere ad una espansione delle forze produttive. Allo stesso tempo, l'essenza del capitalismo sta nel fatto che i proprietari dei mezzi di produzione sono delle macchine per accumulare, il loro scopo è massimizzare la quota di lavoro non pagato da destinare a nuovi investimenti. La borghesia, come "funzionario del capitale", assolve la funzione storica di accrescere lo sviluppo delle forze produttive. In questo senso il passaggio dalla riproduzione semplice alla riproduzione allargata è anche un processo storico da società in cui l'accrescimento del plusvalore non era lo scopo della produzione, al capitalismo.

Per analizzare le caratteristiche di sviluppo del capitalismo, Marx divide l'economia in due settori. Il settore 1 produce i mezzi di produzione, il settore 2 produce le merci per il consumo. Ovviamente nella realtà vi è una certa sovrapposizione perché una merce puo avere più funzioni, ma si può pensare, in linea teorica, che una parte della produzione di quella merce ricada nel settore 1, l'altra nel settore 2. Integrando le singole porzioni di capitale costante, capitale variabile e plusvalore nei settori 1 e 2 possiamo scrivere:

(1)

(2)

(dove P sta per produzione totale, c per capitale costante v per capitale variabile e s per plusvalore)

Ora, perché la riproduzione di questo sistema avvenga con regolarità vi sono due condizioni di equilibrio. La prima è che il valore della produzione del settore 1 corrisponda ai mezzi di produzione impiegati dall'economia. La seconda è che il valore della produzione del settore 2 corrisponda alla domanda complessiva del sistema. Ovvero, il valore del settore dei mezzi di produzione deve corrispondere ai mezzi di produzione esistenti e, allo stesso modo, il valore del settore delle merci di consumo deve corrispondere alla domanda complessiva. In formule le due condizioni sono:

(3)

(4)

Sostituendo la (1) nella (3) e la (2) nella (4), ovvero scrivendo per esteso il valore della produzione dei due settori, osserviamo che le due condizioni si riducono a una:

(A)

Questa è la condizione di equilibrio che, se raggiunta, è necessaria e sufficiente al regolare funzionamento del sistema.

Da un punto di vista analitico, occorre analizzare che cosa succede quando il capitalismo non si trova in questa condizione. Poniamo ad esempio di osservare che: v1+s1>c2.

Ciò significa che la grandezza del settore 1 supera il valore complessivo del capitale costante. Vi è dunque domanda solvibile non corrisposta dalla produzione. In una situazione del genere, le merci tenderanno a vendersi ad un prezzo superiore al loro costo di produzione. Questo aumenterà i profitti e dunque gli investimenti per ampliare la scala della produzione. I mezzi di produzione tenderanno perciò a crescere, riequilibrando la domanda potenziale. Si noti che questa è soltanto una tendenza.

Nulla garantisce, nonostante la spinta della concorrenza, che ciò accada nel tempo e nella dimensione adatti a equilibrare il sistema. Al contrario, i produttori espanderanno tutti insieme la produzione, guidati dalla crescita del saggio di profitto, e questo avrà come effetto di aumentare la capacità dei mezzi di produzione oltre la domanda solvibile (c1>v1+s1), provocando una riduzione dei prezzi e dunque una riduzione dei profitti, degli investimenti e così via. Le oscillazioni attorno all'equilibrio potranno essere più o meno violente a seconda della situazione dell'economia mondiale, del sistema creditizio, della politica economica e così via. Ma in linea di massima le forze che riequilibrano il sistema non garantiscono il raggiungimento di una situazione armonica.

Da questa analisi, pure matematicamente elementare, è possibile trarre profonde indicazioni analitiche. Notiamo ad esempio che il rapporto tra i settori 1 e 2 - che si può leggere in un certo senso come l'ampiezza dello sviluppo della società rispetto alla sua attuale dimensione - si connette ai due aspetti chiave del capitalismo: il saggio di profitto e la composizione organica del capitale. Possiamo infatti scrivere:

(5)

(dove C=c1+c2, ecc.)

Ora definendo con q la composizione organica e con e il saggio di plusvalore, possiamo scrivere

(6)

Questo significa che lo sviluppo decresce con q e sale con e. Il che è del tutto in linea con quello che è successo nella storia del capitalismo e con quello che succede nelle diverse fasi del ciclo.

5. La riproduzione allargata

Se nulla garantisce l'equilibrio nella riproduzione semplice, in cui tutto procede immutato di anno in anno, a maggior ragione ciò varrà introducendo l'accumulazione. Ipotizziamo ora che i capitalisti, da veri funzionari del capitale, capitalizzino una parte del plusvalore con cui acquistano nuovo capitale costante e nuovo capitale variabile. Seguendo la notazione introdotta da Bucharin, dividiamo il plusvalore come segue: s=ac+av+b, dove: ac rappresenta l'accumulazione di capitale costante, av l'accumulazione di capitale variabile e b il consumo personale della popolazione non proletaria. A questo punto riscriviamo la (1) e la (2):

(1a)

(2a)

Come si vede, la riproduzione allargata si basa sempre sulla riproduzione semplice. Infatti:


riproduzione semplice


riproduzione allargata

P1=


P2=


Allo stesso modo, le condizioni di equilibrio diventano

(3a)

(4a)

Anche qui, sostituendo la scrittura estesa della produzione ricaviamo un'unica condizione, analoga a quella già vista:

(B)

Questa condizione significa che la crescita della domanda e la crescita della capacità produttiva devono andare di pari passo. Una conclusione abbastanza logica, persino scontata, e nel capitalismo assai difficilmente raggiungibile.

6. Un esempio numerico

Ricordiamo che l'equilibrio della riproduzione semplice implica tre condizioni:

- uguaglianza del saggio di plusvalore

- uguaglianza del saggio di profitto

- la condizione (A)

L'esempio più semplice che si può immaginare di un'economia che rispetti queste condizioni è quello in cui i due settori hanno le stesse proporzioni ma diverse dimensioni. Infatti, se immaginiamo che il settore 2 sia identico al settore 1 ma grande il doppio (cioè, c2=2c1 ecc.), le tre condizioni risultano immediatamente rispettate. In particolare la terza è: c2=v1+s1=>20=10+10.

Più in generale, vediamo qui ripresentarsi la questione della proporzione. Infatti le tre condizioni sono rispettate quando P1=xP2. Come visto, possiamo scrivere x come q/1+e. Questo è il fattore di proporzionalità tra i due settori. Esso incorpora la composizione organica del capitale e il saggio di plusvalore, i due cardini dello sviluppo del capitalismo, rappresenta la proporzione tra gli investimenti passati (la composizione organica) e quelli possibili (il saggio del plusvalore). In una parola, la storia dell'ascesa e del declino del modo di produzione capitalistico.

MARX
Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica
(1857-58)
(Ed. La Nuova Italia, Firenze 1997, vol. I)

I

Premessa

L'Introduzione ai Grundrisse è uno spaccato dei più macroscopici errori di metodologia ovvero di analisi storico-economica compiuti dagli economisti borghesi.

E' singolare che, per svelarli, ci sia stato bisogno di un filosofo tedesco preveniente da un paese, la Prussia, che sicuramente, sul piano capitalistico, non era avanzato come Francia e Inghilterra e che pertanto non poteva permettere a nessun intellettuale, per quanto illuminato fosse, di avere una consapevolezza così critica delle contraddizioni del capitale, tant'è che Marx dovette per così dire farsi le ossa studiando economia prima in Francia poi in Inghilterra. Quando approdò per la prima volta a Parigi nel suo bagaglio culturale aveva solo la critica della religione e della filosofia del diritto pubblico (in cui aveva però già capito il ruolo negativo della proprietà privata e il ruolo illusorio dello Stato), e ovviamente aveva la piena padronanza della dialettica hegeliana.

Stessa cosa però si potrebbe dire del "russo" Lenin, che pur provenendo da un paese economicamente arretrato come il suo, riuscì a dare delle indicazioni molto più precise degli "intellettuali" tedeschi o dei politici per definizione, quali sono sempre stati i francesi, sul modo in cui si doveva compiere una rivoluzione proletaria.

La cosa che soprattutto stupisce è che Marx, a differenza degli economisti borghesi, aveva chiarissima l'idea che il capitalismo andava considerato come una pura e semplice formazione storica, destinata, come tutte quelle che l'avevano preceduta, ad essere superata da una più avanzata.

Marx doveva misurarsi con intellettuali che o si erano messi smaccatamente al servizio della borghesia, oppure le erano al servizio semplicemente perché partivano da presupposti sbagliati, frutto di vari pregiudizi. Quand'egli scrive che gli economisti moderni non erano in grado di isolare "le determinazioni che valgono per la produzione in generale" dalla "diversità essenziale" che permette di capire quando alcune determinazioni appartengono a tutte le epoche storiche e quando altre invece appartengono solo ad epoche particolari (p. 7), e mostra così che sulla base di questo errore essi finivano col sostenere l'eternizzazione del capitalismo, sembra di assistere a un confronto tra un maestro e i suoi scolaretti.

E non si può neanche sostenere che, siccome il capitalismo era appena nato, detti economisti vedevano inevitabilmente più gli aspetti positivi di quelli negativi. Basta leggersi il cap. XXIV del Capitale per rendersi conto che le tragedie maggiori il capitalismo europeo (in questo caso inglese) le ha subite proprio nei suoi primi secoli di sviluppo. Persino T. More, cancelliere di re Enrico VIII, mostrava d'essere perfettamente consapevole dei disastri delle enclosures a lui coeve.

Il livello di consapevolezza critica di Marx, rispetto a questi economisti borghesi, forse può essere paragonato a quello che aveva, sul piano filosofico, Hegel nei confronti di tutti i filosofi che l'aveva preceduto e, se vogliamo essere onesti, anche di tutti quelli che lo seguiranno, poiché, se si esclude lo stesso Marx, noi non vediamo alcun altro intellettuale in grado di competergli. Ancora per moli secoli la filosofia hegeliano avrebbe potuto continuare a egemonizzare la Germania se questa avesse dimostrato d'essere superiore, sul piano dell'organizzazione della società, ai suoi concorrenti anglo-francesi. Si può in un certo senso sostenere che il rifiuto dell'idealismo assoluto di lasciarsi superare dal socialismo scientifico, porterà detta filosofia ad appoggiare, più o meno direttamente, soluzioni estreme come quella nazista, o ad involversi (il che poi è sostanzialmente lo stesso) in situazioni ideologicamente non meno estreme come quella dell'irrazionalismo di Nietzsche.

Probabilmente questo limite di fondo nella metodologia dell'economia politica borghese trova le sue radici nel fatto che gli economisti avevano bisogno di dimostrare l'impossibile pur di convincere l'intera società civile che la strada intrapresa, nonostante le immani tragedie, era quella giusta. Oggi una posizione del genere o sarebbe difficilmente sostenibile, dopo il marxismo, per quanto il crollo del "socialismo reale" abbia di nuovo posto le premesse per un suo revival in grande stile, oppure sarebbe inutile sostenerla, in quanto il capitalismo, al proprio interno, dopo le catastrofi delle due guerre mondiali (e il crac del '29), ha praticamente esportato il grosso delle proprie contraddizioni nel Terzo Mondo, e se di questa area geografica i media occidentali non parlano, è molto difficile che le masse popolari occidentali abbiano bisogno di intellettuali borghesi disonesti per essere convinte di ciò di cui sono già convinte, e cioè che il capitalismo è al momento, se non il migliore sistema sociale di tutti i tempi, certamente l'unico a non avere alternative praticabili.

E' fuor di dubbio comunque che quando un economista difende la proprietà privata come un totem da adorare, è perché egli stesso è proprietario di qualcosa di sufficientemente significativo da indurlo a comportarsi così. Questa non è una congettura psicologica ma una constatazione sociologica. A questi economisti difetta la coscienza storica semplicemente perché sono schiacciati sotto il peso del presente e del loro interesse personale e di ceto privilegiato.

MACCHINARIO E GRANDE INDUSTRIA (cap. XIII)

Leggendo il cap. XIII del I libro del Capitale, intitolato "Macchinario e grande industria", salta subito agli occhi la grande differenza che separa Marx da Lenin.

Dopo la sconfitta del proletariato industriale nella rivoluzione del 1848, Marx smise di credere nella possibilità di una vittoriosa rivoluzione comunista a breve termine, anzi arrivò a teorizzare che prima di tutto occorreva attendere l'esaurirsi della spinta propulsiva del capitalismo. Di qui il suo dedicarsi agli studi approfonditi di economia politica. La Comune di Parigi infatti lo coglierà del tutto impreparato.

Sotto questo aspetto ci si chiede quale valore possa avere un testo come il Capitale. Sul piano scientifico, quello appunto dell'economia politica, ne ha indubbiamente uno grandissimo, ma su quello politico? Potrà mai nascere una rivoluzione proletaria dalla lettura del Capitale?

Sino al confronto col populismo il Marx maturo restò fermo nella convinzione che la transizione al socialismo sarebbe potuta avvenire solo sulla base dell'acuirsi delle contraddizioni del capitalismo. Quale discepolo di Hegel, egli era convinto che il motore della storia fosse la "contraddizione", che deve svilupparsi al massimo livello, al fine di poter generare una nuova formazione sociale.

Come tale formazione concretamente si generi Marx lo lascia spesso al caso, al moto spontaneo delle circostanze. Saranno gli uomini a trovare, al momento opportuno, in forza di nuove condizioni storiche, i mezzi e i metodi migliori per superare le loro contraddizioni.

Marx ha fiducia piena nella storia, ritenuta una sorta di deus ex-machina, in grado di agire motu proprio, al punto che gli operai del Capitale sembrano doversi limitare a una mera lotta sindacale, riformistica, contro gli imprenditori privati.

Viceversa, Lenin si chiedeva se avesse ancora senso aspettare l'acuirsi delle contraddizioni capitalistiche quando quelle già esistenti erano più che sufficienti per capire che la battaglia andava condotta immediatamente contro il "sistema" del capitalismo e non tanto contro le sue storture più evidenti.

Non era infatti possibile accettare, in Russia, il passaggio dalla crisi strutturale del feudalesimo alla nascita del capitalismo, senza rendersi conto che il capitalismo produceva, nelle città ma anche nelle campagne, dei guasti superiori allo stesso servaggio.

Lenin ebbe subito chiaro, e con lui migliaia di bolscevichi, che più tempo si dava al capitalismo di mettere radici e più tempo ci sarebbe voluto per estirparle.

Più in generale si può dire che la superiorità di Lenin rispetto a Marx è pari a quella che separa un politico da un teorico. Lo stesso Capitale, che pur vede il capitalismo quasi esclusivamente nella sua fase concorrenziale, è stato scritto quando ormai il capitalismo era entrato nella fase monopolistica. Viceversa l'Imperialismo è stato scritto da Lenin quando i monopoli avevano dato vita al loro impetuoso sviluppo.


Marx afferma che "l'estensione universale della legislazione sulle fabbriche" (§ 9 di "Macchinario e grande industria", ed. Newton Compton del Capitale, p. 657) servì "per proteggere fisicamente e intellettualmente la classe operaia", tuttavia essa favorì pure "la concentrazione e il dominio esclusivo del regime di fabbrica".

Tale contraddizione, dal punto di vista del leninismo, sarebbe dovuta bastare per convincere la classe operaia sul fatto che qualunque rivendicazione sindacale, se non sostenuta da una forte esigenza rivoluzionaria, finisce col sortire l'effetto contrario a quello voluto.

Viceversa, Marx è convinto che quanto più si favorisce il "dominio esclusivo" del capitale, tanto più si "universalizza" la lotta contro tale dominio.

In altre parole, la lotta anticapitalistica, nella fase della manifattura o del capitalismo commerciale, non approdò al socialismo semplicemente perché il capitalismo non era ancora sufficientemente "concentrato" e quindi non lo era nelle fabbriche il proletariato.

L'unità organizzativa utile alla rivoluzione di sistema Marx la riteneva possibile solo come conseguenza della concentrazione dei capitali nelle imprese maggiori. Gli operai si sarebbero sentiti tanto più uniti politicamente quanto più lo sarebbero stati "fisicamente".

Questa logica deterministica è ben visibile anche a p. 639, laddove Marx ribadisce, con un'affermazione lapidaria, che "lo sviluppo delle contraddizioni di una forma storica della produzione è l'unico mezzo che offre la storia per la sua dissoluzione e trasformazione". L'istanza e quindi la prassi di liberazione vengono subordinate all'evolversi storico delle contraddizioni antagonistiche.

Essendo per sua natura "anarchico", il capitalismo, secondo Marx, era destinato all'autodistruzione o comunque al superamento da parte di quella classe che in ultima istanza non avrebbe accettato di lasciarsi coinvolgere in quella inevitabile rovina.

Lenin, pur partendo da premesse marxiste, perverrà a conclusioni praticamente opposte: il proletariato, anche se tutto concentrato nelle imprese capitalistiche, al massimo può giungere a una consapevolezza sindacale, in quanto non ha sufficienti possibilità (scientifiche, organizzative) per comprendere (agendo di conseguenza) che il sistema è in sé irriformabile. Sicché la coscienza che porta l'operaio a lottare in maniera irriducibile per il superamento del sistema, può essere sollecitata solo dall'esterno dei rapporti di lavoro.

Detto altrimenti: senza rivoluzione politica il capitalismo sarebbe stato in grado di superare le proprie crisi all'infinito, anche perché ne avrebbe sempre fatto portare il peso ai lavoratori.

Lenin capì chiaramente questo, ma non arrivò ad accettare, con pari risolutezza, il passaggio successivo, e cioè che gli uomini (non solo i militanti del partito ma l'intero popolo di una nazione), pur avendo coscienza della necessità della rivoluzione, vanno lasciati liberi di usare tale coscienza anche contro gli interessi della stessa rivoluzione.


Nel cap. XIII Marx ribadisce a chiare lettere che l'introduzione del macchinismo è servita unicamente ad aumentare il plusvalore del capitale (e non tanto -come voleva l'economia politica borghese- ad alleviare le fatiche degli operai). Tuttavia, egli non ha spiegato il motivo culturale del passaggio dalla manifattura alla grande industria, cioè delle cause di fondo che portarono alla rivoluzione tecnico-scientifica, che poi servì da volano alla rivoluzione industriale vera e propria.

La manifattura esprimeva certamente un rapporto mutato tra uomo e uomo, ma l'industrializzazione esprime anche un rapporto profondamente mutato tra uomo e natura. La grande industria infatti ha la pretesa di superare tutti quei limiti naturali che in qualche modo ostacolavano lo sviluppo su grande scala della produzione manifatturiera. Il capitale presume di trionfare non solo sul lavoro ma anche sull'ambiente in cui esso si manifesta.

Marx lo dice nella nota 89 (ed è singolare che sia solo una nota): "La tecnologia mette in luce la condotta dell'uomo nei confronti della natura...". E tuttavia egli non compie alcuna analisi critica nei confronti della tecnologia in sé. Anzi, qualunque tecnologia che assoggetti la natura alle esigenze dell'uomo viene giustificata, con l'ovvia eccezione ch'essa non venga utilizzata per sfruttare il lavoro altrui.

Con lo sviluppo della macchina-utensile, che determinerà tecnicamente la nascita della rivoluzione industriale, s'inverte il rapporto di dipendenza del macchinario dal lavoratore. Questo non può essere considerato un processo naturale, anche se indubbiamente le scelte operate in determinate direzioni possono portare a conseguenze inevitabili.

I limiti "culturali" di Marx sono ben visibili laddove afferma, a proposito della fine della famiglia contadina o patriarcale, che "pur apparendo orrenda e disgustosa l'oppressione della vecchia famiglia operata dal sistema capitalistico, ciononostante la grande industria, con la parte grandissima che è attribuita alle donne, agli adolescenti e ai bambini d'entrambi i sessi nei processi produttivi che vengono svolti socialmente al di fuori della cerchia familiare, crea la nuova base economica per una forma più evoluta della famiglia e del rapporto tra i due sessi"(p. 641).

Cioè a dire, mentre prima le donne e i figli erano nettamente subordinati agli uomini e tutti al patriarca della famiglia allargata, ora, essendo tutta la famiglia ugualmente sottomossa al capitale, è di conseguenza aumentata la possibilità di costruire dei rapporti più democratici tra i sessi.

E' singolare che Marx non abbia sottolineato come, da un lato, nelle famiglie rurali del feudalesimo il dominio del signore o del patriarca era strettamente legato alla fisicità della sua persona e quindi a rapporti di tipo personale, la cui "forza" era in rapporto alle terre possedute o al ruolo riconosciuto per tradizione e non poteva comunque essere illimitata come sotto il capitalismo, dove il capitale si riproduce a prescindere dalla volontà del capitalista, e come, dall'altro, la nuova subordinazione al giogo del capitale non è sul piano fisico e sociale meno "orrenda" e "disgustosa" di quella feudale, mentre lo è senza dubbio molto di più sul piano morale, essendo mascherata dall'ipocrisia della libertà giuridica. Questo nei paesi del Terzo mondo è ancora oggi piuttosto evidente.


GENESI DELLA RENDITA FONDIARIA CAPITALISTICA
(Marx, Il Capitale, Ed. Newton Compton, Roma 1976, III libro, cap. 47)

Marx delinea estesamente il concetto di rendita feudale (cosa che peraltro aveva già fatto alle pp. 285-296 del I libro del Capitale): è pluslavoro non retribuito; rendita e plusvalore coincidono in quella parte di tempo che il contadino è costretto a impiegare per il proprietario terriero. Cioè fintantoché il contadino lavora per sé, coi mezzi e la terra che possiede, non c'è sfruttamento. L'eccedenza del prodotto ottenuto dal lavoro nel proprio campo, dipende dalla differenza del tempo impiegato per sé e il feudatario.

Ovviamente la rendita è servaggio. Il produttore non è libero, non lo è neppure quando le corvées si trasformano in obbligo tributario. Non lo è semplicemente perché il produttore non è "proprietario" della terra che lavora, ma solo "possessore". La terra gli viene concessa in usufrutto, sub conditione della prestazione gratuita di lavoro o di prodotti, e in tale concessione egli esercita la propria autonomia (sempre relativa), sino alla gestione di una sorta di industria domestica rurale.

Non c'è vera e propria divisione del lavoro nel mondo rurale, che possa portare allo sfruttamento del lavoro nel tempo che il produttore può riservare a se stesso, alla riproduzione di sé e della propria famiglia.

Marx si rende conto che questo modo di produzione è diverso da quello schiavistico di epoca romana o delle piantagioni americane a lui coeve: "lo schiavo lavora in condizioni di produzione che appartengono ad altri e che quindi non sono autonome"(p. 1057).

In Asia -prosegue Marx- il principale schiavista è lo stesso Stato, "il più alto proprietario terriero", per cui "rendita e imposte coincidono": "non vi è proprietà privata della terra, pur essendovi il possesso e l'uso sia privato che comune di essa"(ib.).

Nel feudalesimo la rendita è frutto di una coercizione extraeconomica (il rapporto di dipendenza personale) ed è limitata da vari fattori: "il produttore diretto deve possedere abbastanza forza lavorativa... il terreno che egli coltiva deve essere sufficientemente fertile"(p. 1059), altrimenti non potrebbe lavorare gratis su quello del feudatario.

In una situazione del genere (che prescinde da guerre, carestie e pestilenze), è abbastanza normale che il servo della gleba viva in condizioni di sicurezza economica. Il feudatario, infatti, non ha interesse a sfruttarne il lavoro oltre un certo limite, in quanto la rendita che ottiene gli è di regola sufficiente a condurre un'esistenza agiata.

Un indizio di progressiva emancipazione economica del produttore è dato dalla trasformazione della corvée in rendita in prodotti. Quando si è obbligati a cedere un certo quantitativo di prodotti, stabilito preventivamente, il contadino "svolge il pluslavoro sotto la propria responsabilità"(p. 1061) e non ha più bisogno d'essere sorvegliato.

Ovviamente tale mutamento conserva i caratteri tipici della rendita in lavoro, e cioè: "quasi assoluta autosufficienza acquisita dalla famiglia agricola"(p. 1063), "indipendenza dal mercato e dal movimento produttivo e storico della porzione della società estranea ad essa"(ib.); "condizioni sociali stazionarie"(ib.); "condizioni di stagnazione tanto nel processo di produzione quanto nei rapporti sociali corrispondenti ad esso, tramite la semplice continua riproduzione di se stessi"(p. 1060). Tutto ciò per Marx non costituisce un vantaggio, come a prima vista può sembrare, ma un grande limite.

"Per fortuna" -direbbe Marx- che la stagnazione viene compromessa quando i proprietari pretendono una rendita in prodotti che eccede i limiti naturali, come fanno p.es. i colonizzatori inglesi in India. Quando accade questo nelle colonie, è perché nella madrepatria s'è già verificata un'altra trasformazione della rendita, da quella naturale a quella monetaria.

Il mutamento progressivo della rendita in prodotti (che, dice Marx, non sostituisce mai completamente le corvées) in rendita in denaro è un segnale preciso della presenza invadente del mercato, in cui il denaro può essere speso e guadagnato. Ora non solo il contadino deve andare sul mercato per trasformare i suoi prodotti in merci contro denaro, al fine di pagare il tributo o il prezzo della rendita, ma anche il proprietario terriero, il latifondista, accede al mercato per spendere il denaro ottenuto dal contadino. "Il carattere di tutto il modo di produzione viene più o meno alterato"(p. 1064).

Finisce in sostanza il primato dell'autosufficienza alimentare, dell'autogestione del processo produttivo... e l'eccedenza viene vincolata ai meccanismi del mercato. Il prezzo della rendita è chiaro, ma non altrettanto il modo in cui si riuscirà a pagarlo, in quanto sul mercato le fluttuazioni dei prezzi delle merci dipendono dal gioco della domanda e dell'offerta.

La rendita in denaro dunque presuppone:

  1. "un notevole sviluppo del commercio, dell'industria cittadina, della produzione di merci in genere e quindi della circolazione monetaria"(p. 1065);
  2. "che il prodotto possegga un prezzo di mercato e che venga venduto più o meno al suo valore"(ib.);
  3. una trasformazione del possesso in proprietà di tutte quelle condizioni di lavoro estranee alla terra, come attrezzi agricoli, bestiame, cose mobili ecc.

Marx dice che questa trasformazione della rendita, quando si cercò d'introdurla in epoca romana, finì sempre coll'essere sostituita nuovamente dalla tradizionale rendita in prodotti. Anche in Francia prima della rivoluzione. Infatti, "la rendita monetaria deve provocare nel suo ulteriore sviluppo la trasformazione della terra in libera proprietà del contadino oppure deve generare la forma tipica del modo di produzione capitalistico, la rendita pagata al fittavolo capitalista"(p. 1066).

Il rapporto padrone-servo si trasforma da "personale" a "contrattuale". Dunque il contadino si deve trasformare o in fittavolo o in proprietario: in entrambi i casi egli dovrà servirsi di operai salariati, lavoratori agricoli a giornata. La terra può addirittura essere affittata a capitalisti di città, "fino ad allora rimasti estranei alla campagna"(p. 1067).

"Il fittavolo diventa il vero comandante di questi operai agricoli e il vero sfruttatore del loro pluslavoro, mentre il proprietario terriero non si mantiene in rapporto diretto... monetario e contrattuale che con tale fittavolo capitalista"(p. 1068). Il fittavolo sfrutta come un capitalista i salariati agricoli e quindi ricava dei profitti, dopodiché cede una quota prestabilita di canone al proprietario della terra, che la riceve come rendita, come parte del plusprofitto. "La cifra più o meno grande da lui consegnata è in media determinata, come limite, dal profitto medio che il capitale rende nelle sfere di produzione non agricole e dai prezzi di produzione non agricoli regolati da tale profitto medio"(ib.). Cioè in pratica si tratta di quel profitto medio e di quel prezzo di produzione da esso regolato che "sorgono nella sfera del commercio urbano e della manifattura"(p. 1069).

La rendita in denaro presuppone la divisione tra città e campagna. "Mentre nel Medioevo -dice Marx- la campagna sfrutta politicamente la città, laddove il feudalesimo non ha dovuto cedere il passo a uno straordinario sviluppo delle città, come accadde in Italia, la città dal canto suo, ovunque e universalmente, sfrutta da un punto di vista economico la campagna coi suoi prezzi di monopolio, il suo sistema fiscale, la sua organizzazione corporativa, la sua diretta frode commerciale e la sua usura"(ib.).

Marx non prende in esame le contestuali lotte politiche condotte dai contadini. La sua analisi economica non s'intreccia con quella politica, sociale e culturale, neppure in un caso così drammatico come il passaggio alla rendita in denaro, che indica, incontestabilmente, la metamorfosi di un'economia prevalentemente rurale in una prevalentemente mercantile, che le è in tutto opposta. Sembra che Marx qui voglia limitarsi a una sorta di "fenomenologia dell'economia" che ha più basi filosofiche che storiche. C'è un passo in cui egli afferma che la rendita, per trasformarsi in profitto, ha bisogno non solo del modo di produzione capitalistico, ma anche di "importare idee da paesi capitalistici"(p. 1073): questo aspetto però non lo approfondisce. Beninteso, non gli sfuggiva il fatto che nei paesi cattolici tendesse a predominare la rendita, mentre in quelli protestanti tendesse a predominare il profitto, ma si è sempre rifiutato di collegare, in un'analisi sistematica, gli aspetti economici a quelli religiosi.

La mezzadria viene esaminata come forma intermedia tra la rendita in prodotti naturali e la rendita monetaria; essa comunque fa parte, in generale, di una società votata all'accumulazione di capitali, ed è, nella fattispecie, in relazione alla debolezza del fittavolo, il quale ha bisogno dei capitali del proprietario (anche solo come beni strumentali: mezzi di lavoro, bestiame, sementi ecc.). Il risultato della lavorazione della terra viene ripartito secondo certe proporzioni.

Più interessante sono le pagine dedicate alla proprietà parcellare, in cui il contadino è del tutto autonomo, il capitalismo poco sviluppato, il capitale poco concentrato e con una netta prevalenza della campagna sulla città. Il contadino vende sul mercato solo l'eccedenza, in quanto lo standard produttivo è l'autoconsumo.

Questa forma di proprietà, che indubbiamente è la più significativa risposta ai limiti del servaggio e a tutte le forme di rendita feudale, e che costituisce un efficace muro di sbarramento contro le pretese del mercato, non viene analizzata da Marx in riferimento a contesti storici, politici, culturali; per lui è soltanto una variante delle altre forme di gestione della terra.

Marx sembra apprezzarne il lato autonomo del lavoro, che rende i contadini autosufficienti economicamente, ma poi li vede solo come persone "isolate" e quindi "deboli", incapaci di contrastare la forza del capitale, che avanza inesorabile. Infatti essi -dice Marx- si dissolveranno dopo che la grande industria avrà mandato in rovina l'industria domestica rurale (p. 1077); dopo l'esaurirsi delle capacità produttive dei terreni; dopo l'usurpazione delle terre comuni (boschi, pascoli...) da parte dei latifondisti; dopo l'affermarsi della concorrenza della produzione agricola su ampia scala, condotta con metodi di tipo capitalistico.

Marx si dilunga come non mai nell'elencare gli aspetti negativi di questa gestione autonoma della terra. "La proprietà parcellare esclude per sua stessa natura: lo sviluppo delle forze produttive sociali del lavoro, le forme sociali di quest'ultimo, la concentrazione sociale dei capitali, l'allevamento del bestiame su larga scala e un'applicazione progressiva della scienza"(ib.).

Marx non vede una lotta di resistenza da parte di questa categoria di contadini, ma solo un limite economico rispetto alla forza del capitale. Questa proprietà viene rifiutata perché non abbastanza capitalistica. In realtà tutti i motivi addotti come pretesto per giustificarne il superamento, ivi inclusi quelli citati a p. 1078: "usura" e "sistema fiscale", non sono motivi endogeni a questa forma di proprietà ma esogeni. E' una proprietà limitata nel senso che il suo limite è la forza del capitale, che si sviluppa esternamente.

Marx rifiuta la proprietà parcellare attribuendole dei limiti che non le appartengono e che acquistano un senso solo se vengono rapportati alle pretese del capitale borghese. E non s'avvede che la proprietà capitalistica della terra si sviluppa appunto perché quella parcellare non viene difesa politicamente (e militarmente). Marx dà per scontata la dissoluzione della proprietà parcellare nell'ambito della società borghese, quando proprio questa proprietà avrebbe potuto ostacolare enormemente lo sviluppo della proprietà capitalistica.

E' molto strano che Marx non abbia pensato che tale proprietà avrebbe dovuto essere rivendicata politicamente, ovvero espropriata con una riforma agraria che spezzasse il latifondo e la grande proprietà, invece che essere acquistata economicamente, con capitali che ovviamente il contadino non poteva avere e per i quali rischiava di finire nelle mani degli usurai.

E' evidente che una terra parcellare formatasi non in seguito a lotte politiche antifeudali, ma in seguito a una transizione inevitabile verso il capitalismo, non faceva che impoverire i suoi acquirenti, se questi la finalizzavano unicamente all'autoconsumo.

L'opposizione unilaterale di Marx alla proprietà privata gli ha impedito di vedere come potesse essere regolamentata quantitativamente una determinata proprietà agricola rispetto ai bisogni riproduttivi effettivi di una famiglia o di gruppi di famiglie rurali. Marx vuole soltanto una proprietà sociale della terra; tuttavia una proprietà del genere presume il recupero di molte tradizioni del precapitalismo.

In realtà bisogna porre unicamente il principio secondo cui nessuno può sfruttare arbitrariamente il lavoro altrui. Che poi un lavoratore preferisca una gestione sociale della terra e non quella individuale o familiare, non deve essere questo un motivo per impedirgli di avere una proprietà privata.

L'importante è di permettere ai lavoratori di esistere nella sicurezza di una proprietà, sociale o individuale non importa. E' assurdo sostenere che una conduzione "razionale" delle colture agricole sia possibile solo nella proprietà "sociale" della terra. Marx vuole imporre il collettivismo sull'individualità nella gestione della terra.

E' molto sconsolante la conclusione di Marx: "Se la piccola proprietà terriera genera una classe di barbari [sic!] che per metà sono estranei alla società [qui sottintesa quella borghese], in cui sono mischiati tutta la rozzezza delle forme primitive della società [!] e tutti i dolori e la misère dei paesi civili, la grande proprietà terriera corrompe la forza lavorativa nell'ultima sfera in cui essa riversa le proprie forze naturali e in cui si presenta come fondo di riserva per il rinnovamento della linfa vitale delle nazioni, nella stessa campagna"(p. 1085).

Per Marx insomma dalla campagna, sia essa di Scilla o di Cariddi, non può venir nulla di buono, almeno finché non sarà il proletariato industriale a dettarne le nuove regole di gestione.









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