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Nuovi orientamenti del diritto penitenziario dal 1989

giurisprudenza



Nuovi orientamenti del diritto penitenziario dal 1989:




Nel 1989 si assiste ad un'inversione di tendenza da parte della Corte di Cassazione : il nuovo orientamento viene espresso, per la prima volta, in una decisione del 15 marzo 1989 (Cass., 15.3.1989, Comune, in Foro Italiano, 1990, II, c.22).

In tale occasione la Corte fa propria la posizione della prevalente giurisprudena dei Tribunali di sorveglianza, valorizzando le innovazioni apportate all'istituto dalla legge-Gozzini. Secondo la Cassazione, infatti, il tenore letterale del testo normativo novellato dalla l. 663/1986 indurrebbe a concludere che "la volontà del legislatore si sia indirizzata nel senso di consentire una valutazione frazionata".

Sono due i principali rilievi della Corte. Il primo riguarda le contraddizioni a cui si perverrebbe nell'accettare la tesi "unitaria", con riferimento a quanto statuito dal 4° comma dell'art. 54, così come modificato dalla legge del 1986. Esso stabilisce 616e41g che, ai fini del computo della parte di pena che occorre sia stata scontata per essere ammessi alla fruizione di alcuni benefici penitenziari, la parte di pena detratta, in applicazione della liberazione anticipata, si considera come espiata. Che senso avrebbe tale disposizione, se la concessione della riduzione di pena fosse operata in un'unica occasione, il più possibile vicina alla scadenza della pena detentiva, così come conseguirebbe all'accoglimento della tesi "unitaria" ?



Il secondo rilievo si fonda sul riferimento testuale ad "..ogni singolo semestre..", laddove la norma anteriore alla riforma prendeva in considerazione "ciascun semestre", sintomo rivelatore di una volontà di prendere in considerazione il semestre come parametro di valutazione. Una innovazione terminologica tanto più significativa se si tiene presente la circostanza della sua introduzione, avvenuta proprio dopo che si erano manifestati i contrasti interpretativi a cui si è accennato.

Precisate, attraverso questa digressione, natura e funzione della riduzione di pena, non resta che tornare al problema interpretativo che si pone in riferimento all'art. 4-bis: la riconducibilità o meno dell'istituto alle "misure alternative alla detenzione previste dal capo VI°" a cui fa riferimento la norma.

La Corte di Cassazione, appoggiandosi a dati testuali per nulla trascurabili, accoglie la tesi secondo cui anche la concessione della liberazione anticipata è soggetta alle limitazioni ex art. 4-bis.

Essa fa leva, soprattutto, sul tenore letterale della disposizione, la quale, facendo riferimento alle "misure alternative alla detenzione previste dal capo VI°", intende ricomprendere tutte quelle contemplate in tale capo, e quindi anche la liberazione anticipata. Quest'ultima, infatti, è disciplinata dall'art. 54 ord. penit., compreso nel titolo I°, capo VI°, il quale reca in rubrica: "misure alternative alla detenzione e remissione del debito". Ma c'è di più: "l'espresso richiamo al suindicato capo VI°, non contenuto nei dd.ll. 324 del 1990 nonchè 5 e 76 del 1991", ma inserito nell'ultimo decreto poi convertito, sta chiaramente a significare "che il legislatore ha inteso fornire ulteriori elementi testuali per evitare interpretazioni diverse da quella imposta dalla chiara lettera della norma" (Cass., 28.1.92, Gerace, in Cassazione penale, 1993, p.428).

Secondo la S.C., inoltre, anche a voler prescindere dalla lettera della norma, "non può dubitarsi della natura di misura alternativa della liberazione anticipata, poichè essa non si diversifica dalle altre nè quanto a struttura,
giacchè si riferisce ad una pena che in parte non viene espiata in stato di detenzione, ma in stato di lebertà, nè quanto a finalità che, al pari dell'affidamento in prova e della semilibertà, sono la rieducazione del soggetto ed il suo reinserimento nella società". Contenute in una sentenza del novembre del 1991 (Cass., 21.11.1991, Tortora, in Rivista penale, 1992, p. 992), tali affermazioni sono dalla stessa Corte smentite in una successiva decisione solamente due mesi più tardi: il permanere di legami fra il detenuto e la criminalità organizzata sarebbe di ostacolo all'applicazione di tutte le misure alternative, compresa la liberazione anticipata, anche se quest'ultima "costituisce una misura che solo ragioni di collocazione sistematica consentono di annoverare fra quelle alternative alla detenzione" (Cass., 13.1.1992, Branciforte, in Rivista penale, 1992, p. 992).

Di fronte alle prese di posizione contrarie a tale impostazione, da parte di ampi settori della magistratura di sorveglianza e agli argomenti da questa portati, la Cassazione si limita a rilevare che, in assenza di ambivalenze del testo normativo, non ha senso il ricorso a parametri ermeneutici quali il canone sistematico e quello inteso al vaglio della natura giuridica degli istituti disciplinati, dovendosi applicare invece il principio ricavabile dal 1° comma dell'art. 12 d.s.l. in g., secondo cui nell'interpretazione della legge l'operatore del diritto non può attribuire alla stessa altro significato che quello fatto palese dalla lettera della medesima (sent. n° 2891 resa in data 26 giugno - 25 luglio 1991).

Quella parte della magistratura di merito che ha, invece, accolto la tesi opposta, è probabilmente stata più coerente della Cassazione con l'orientamento, definitivamente prevalso anche presso i giudici di legittimità, che configura l'istituto della liberazione anticipata come un incentivo premiale, nel quale la rieducazione rappresenta solo uno scopo ultimo, e perciò non assimilabile alle misure alternative in senso stretto.

Sono numerosi gli argomenti portati a sostegno della propria tesi dal Tribunale di sorveglianza di Ancona nell'ordinanza di rinvio del 30 ottobre 1991. Fra questi, i principali sono sintetizzabili come segue:

a)Il Tribunale sottolinea come la locuzione "misure alternative alla detenzione" abbia una propria specificità tecnica, nel senso che il legislatore ha voluto riferirsi unicamente alle misure che rivestano natura di vera e propria alternatività alla pena detentiva ordinaria. Ciò si ricaverebbe dal fatto che lo stesso legislatore, non volendo prendere posizione a proposito del contrasto fra chi ritiene che la liberazione condizionale abbia natura di vera e propria misura alternativa e chi invece nega tale natura, ha menzionato tale istituto nell'ambito di un apposito articolo di legge, in virtù di equipararlo sic et simpliciter alle misure alternative in senso stretto.

Di fronte all'obiezione, peraltro fondata, secondo la quale un simile orientamento, accettabile se riferito al d.l. 5/1991, non sarebbe riproponibile nel vigore della disciplina ex art. 1 l. 203/1991 (che non fa più semplicemente riferimento alle"misure alternative alla detenzione", ma alle "misure alternative alla detenzione previste dal capo VI°"), il Tribunale ritiene di mantenere ferme le argomentazioni sostenute, in quanto la nuova formulazione adottata dal legislatore "non appare di portata e significatività tali da indurre a rivedere le posizioni già assunte", tenuto anche presente che "lo stesso testo della l. 203/1991 offre spunti che rafforzano tali posizioni". In altri termini, se il legislatore avesse davvero voluto accogliere un'accezione più ampia di "misura alternativa", non si sarebbe certo limitato ad inserire l'inciso "previste dal capo VI°", ma lo avrebbe fatto in modo tale da non lasciare alcun dubbio in proposito.

b) Non sarebbe poi da sottovalutare la natura spiccatamente premiale dell'istituto in questione, consistente in un incentivo alla condivisione di metodiche trattamentali orientate alla progressiva acquisizione di stadi rieducativi del soggetto, in accordo con l'orientamento giurisprudenziale che accoglie la concezione della "valutazione frazionata" del requisito della partecipazione all'opera di rieducazione.

Tutto ciò farebbe della liberazione anticipata un istituto non riconducibile alla categoria delle misure alternative in senso tecnico, alla quale fa invece riferimento l'art. 4-bis.



c) La subordinazione della concessione della liberazione anticipata all'acquisizione del parere del C.P.O.S. finirebbe per privare l'istituto di qualsivoglia valenza incentivante e pedagogica.

Il legislatore, infatti, prefigura in capo ai condannati per le fattispecie delittuose di cui alla prima parte del 1° comma dell'art. 4-bis una vera e propria presunzione di pericolosità sociale che si presenta, di fatto, come una presunzione iuris et de iure: ciò arriverebbe ad obliterare del tutto la funzione di incentivo pedagogico propria della liberazione anticipata, con pregiudizio del principio ex art. 27 3° comma Cost.

Stando così le cose, di fronte a diverse possibili interpretazioni della norma di cui si tratta, è senz'altro da preferire quella più aderente al dettato costituzionale.

d) Un ulteriore aspetto da considerare riguarda il 2° comma dell'art. 4-bis il quale, nell'imporre l'obbligo della previa acquisizione del motivato parere del comitato, fa riferimento alle misure indicate al 1° comma con il termine "benefici".

L'art. 58-quater 1° comma, interpolato nell'ambito della l. 354/1975 dalla l. 203/1991, la cui rubrica recita "divieto di concessione dei benefici", elenca i suddetti benefici escludendo la menzione tanto dell'affidamento in prova in casi particolari, quanto della riduzione di pena per liberazione anticipata. Se la prima esclusione è spiegabile con la volontà del legislatore di non precludere al condannato, resosi responsabile del reato di evasione, l'adizione di un istituto improntato al tentativo di reintegrare socialmente soggetti tossico o alcooldipendenti, la seconda esclusione è priva di una qualsiasi giustificazione, che non sia quella della inutilità di una esclusione espressa, dovendosi ritenere l'istituto della riduzione di pena non incluso nel novero dei benefici ex art. 4-bis.

E' fondamentalmente sulla base di questi elementi che il Tribunale di sorveglianza di Ancona ritiene di poter escludere che anche per la liberazione anticipata valgano le limitazioni di cui all'art. 4-bis.Tuttavia, prendendo atto dell'orientamento contrario fatto proprio dalla Cassazione, e quindi sul presupposto della riconducibilità della liberazione anticipata alle misure alternative alle quali fa riferimento l'art. 4-bis, solleva questione di illegittimità costituzionale della norma in questione per contrasto con gli artt. 27 3° comma e 3 1° comma Cost.

Sotto il profilo del principio rieducativo, infatti, la subordinazione della concessione dell'istituto all'acquisizione di prove positive dell'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata creerebbe, in capo ai soggetti di cui alla prima parte dell'art 4-bis 1° comma, una presunzione di impraticabilità nei loro confronti di uno fra i più rilevanti strumenti del trattamento penitenziario. In questo modo, la finalità rieducativa della pena ne risulterebbe completamente svalutata, in un momento (quello dell'esecuzione) particolarmente connesso a tale finalità. Infatti, si arriverebbe a limitare il trattamento rieducativo, nei confronti dei soggetti individuati dall'art. 4-bis, alla sola offerta degli strumenti intramurari, la cui efficacia risocializzante ha da sempre suscitato numerosi dubbi e perplessità

Il Tribunale è consapevole che il legislatore è libero di introdurre normative che abbiano lo scopo di valorizzare la funzione general-preventiva e di difesa sociale della pena; tuttavia, ritiene altresì necessario sottoporre la normativa al vaglio del giudizio di costituzionalità, perchè possa essere constatata l'eventuale completa obliterazione da parte della stessa della funzione rieducativa ex art. 27 3° comma della Costituzione, con il quale, in questo caso, il conflitto sarebbe indiscutibile.

Sotto il profilo del principio di uguaglianza, l'art. 4-bis 1° comma arriverebbe a creare un'ingiustificata disparità trattamentale fra i soggetti indicati nella prima parte e quelli individuati dalla seconda parte del primo comma, i quali potrebbero risultare responsabili di delitti di non minore o maggiore disvalore sociale e tuttavia fruire di un trattamento più favorevole. Ciò perchè la presunzione di pericolosità ex art 4-bis si fonda esclusivamente sul titolo del reato commesso.

La Corte Costituzionale dichiara la manifesta infondatezza della questione sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Ancona con una decisione (Corte cost., ord. 3 giugno 1992, n°271) che, nella sua sinteticità, si allontana dalle ben precise istanze dello stesso Tribunale, limitandosi ad osservare che il giudice rimettente, muovendo dal presupposto che l'informativa del Comitato provinciale sarebbe di per sè sufficiente a fondare una pronuncia di rigetto dell'istanza diretta all'ottenimento della riduzione di pena, senza che siano necessari ulteriori e più approfonditi accertamenti circa l'effettiva sussistenza dei collegamenti, non tiene in realtà conto della costante linea interpretativa della Cassazione. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, la verifica della sussistenza degli elementi in grado di escludere la sussistenza dei collegamenti è di esclusiva competenza della magistratura di sorveglianza, essendo, l'informativa del Comitato, obbligatoria ma non vincolante. Allo scopo di acquisire gli elementi necessari per la valutazione della sussistenza di legami con la criminalità organizzata, il 2° comma dell'art. 4-bis impone al giudice di sorveglianza di chiedere informazioni dettagliate al Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica del luogo di detenzione, che le può dare nel termine di trenta giorni.

Tale disposizione ha sollevato problemi interpretativi circa la natura dell'informativa del Comitato ed il rapporto fra questa ed il potere discrezionale del Tribunale di sorveglianza.

Secondo la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, le informazioni fornite dal C.P.O.S. non hanno un valore nè vincolante, nè esclusivo nei confronti della decisione giurisdizionale: pur essendo fonte informativa privilegiata, "non costituiscono una prova legale dell'effettiva sussistenza delle condizioni stabilite dalla legge per la fruizione dei benefici penitenziari, in quanto devono essere liberamente valutate ed apprezzate dal giudice di merito e poste in relazione con la gravità dei reati commessi dal condannato, nonchè con tutte le altre emergenze processuali" (Cass., 26.5.1992, Minzi, in Cassazione penale 1993, p. 2619).

In questo senso pare del resto militare un dato testuale: il 2° comma dell'art. 4-bis prevede espressamente che, in caso di mancata comunicazione delle informazioni da parte del C.P.O.S., il giudice debba decidere comunque, attingendo aliunde gli elementi necessari al giudizio.



D'altra perte, se fosse altrimenti, "ne deriverebbe che il giudice sarebbe condizionato, nell'esercizio della sua funzione giurisdizionale, da una valutazione espressa da organi appartenenti al potere esecutivo", in contrasto con l'art. 111 2° comma Cost. Di conseguenza, al Tribunale di sorveglianza è concesso disattendere le indicazioni provenienti dal Comitato, sulla base però di una "idonea, rigorosa e dettagliata spegazione" (Cass., 201.1992, Forte, in Cassazione Penale, 1993, p. 1550).

Sebbene venga ribadito più volte che si tratta di un parere obbligatorio ma non vincolante, è pacifico che le informazioni rese dai C.P.O.S. costituiscano, di fatto, dei pareri in senso tecnico (Cass., 24.3.1992, Adelfio, in Cassazione Penale, 1992, 1555). La Cassazione, infatti, richiede espressamente che la motivazione del giudice vi faccia sempre riferimento (Cass., 6.3.1992, La Marca, in Cassazione Penale, 1993, p. 1222) e, d'altra parte, una motivazione che vi prescinda del tutto è nulla per difetto di motivazione (Cass., 25.2.1992, Sodano, in Giurisprudenza italiana, 1993, II, c.128).

Le informazioni del C.P.O.S. devono essere "dettagliate": anche a proposito di questo requisito la S.C. è più volte intervenuta a precisarne il significato.

Con una decisione del dicembre del 1991 ha annullato l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza, rilevando come l'informativa del C.P.O.S. fosse troppo generica e la motivazione del Tribunale apodittica, in quanto "acriticamente ripetitiva del contenuto" della prima, e non enunciante gli elementi su cui la decisione era stata fondata (Cass., 17.3.1991, Granata, in Cassazione penale, 1993, p. 434).

Sempre secondo l'opinione della Cassazione, il Comitato non può nè limitarsi ad esprimere un parere, nè affermare semplicemente l'esistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata.

Infatti, le "dettagliate informazioni" che il Comitato deve fornire, devono riguardare 'elementi' "in base ai quali il giudice possa formare il suo convincimento in ordine alla sussistenza o all'insussistenza dei predetti collegamenti" (Cass., 13.4.1992, Romano, in Cassazione penale, 1993, p. 1831). Non possono perciò essere considerate "dettagliate" quelle "generiche e meramente assertorie, che non indicano fatti e circostanze specifiche dai quali sono desunte" (Cass., 8.6.1992, Avignone, in Cassazione penale, 1993, p. 2399).

In presenza di un parere negativo che si presenti generico e immotivato, il Tribunale non potrà, quindi, limitarsi semplicemente a negare il beneficio oggetto dell'istanza; dovrà, invece, prendere in considerazione anche altri elementi, quali quelli addotti dalla difesa (cass., 13.4.1992, Giampaolo, in Giurisprudenza italiana, 1993, II, c. 94).

Può però accadere che il Comitato non riesca ad acquisire gli elementi necessari a fondare il giudizio sulla sussistenza di legami con la criminalità organizzata: in tal caso dovrà comunicare le indagini disposte e le informazioni ottenute, in modo da mettere il Tribunale in condizione di valutare se la mancata assunzione degli elementi in questione non sia da attribuire alla loro mancata ricerca (Cass., 13.4.1992, Romano, cit.).

In ogni caso, non può essere in alcun modo censurata la motivazione di un provvedimento di rigetto di un'istanza di concessione di un beneficio penitenziario, incentrata sulla mancanza di elementi positivi idonei a far ritenere esclusa l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Su questo punto vi è, del resto, una costante giurisprudenza: la legge ha introdotto, per i soggetti di cui alla prima parte del 1° comma dell'art. 4-bis, una presunzione iuris tantum superabile solo attraverso l'acquisizione di elementi negativi sull'attualità dei collegamenti (è la cosiddetta "prova negativa") (Cass., 15.5.1992, Sorbi, in Cassazione penale, 1993, p. 2101; Cass., 22.11.1991, Malfattore, in Cassazione penale, 1993, p. 1223).

Nonostante le numerose e reiterate precisazioni della Cassazione circa la pluralità di elementi conoscitivi, non necessariamente ed esclusivamente coincidenti con le informazioni acquisibili dal Comitato, su cui si deve fondare il giudizio del Tribunale di sorveglianza, da più parti si è notato come il legislatore, prevedendo intromissioni da parte di organi amministrativi, contraddica pesantemente il processo di giurisdizionalizzazione dell'esecuzione penale cui la l. 354/1975 aveva dato avvio.

Nè è chiaro come, e facendo riferimento a quali fonti, il Tribunale di sorveglianza, di fronte al parere di non sussistenza di elementi idonei a far escludere l'attualità dei collegamenti, possa acquisire le informazioni necessarie al giudizio. Perciò, quello che, in teoria, è un parere non vincolante, di fatto, assume la forza di prova legale, assolutamente incompatibile con il principio del libero convincimento che è cardine indiscutibile del processo penale.

Ancorare il giudizio del Tribunale alle determinazioni di un organo amministrativo significa, per di più, impedire all'interessato una effettiva conoscenza del procedimento che lo riguarda, con evidente pregiudizio del suo diritto di difesa.

Emergono, in definitiva, nuovi possibili motivi di contrasto dell'art. 4-bis con il dettato costituzionale: in particolare si può ipotizzare una violazione degli artt 101 2° comma Cost. ("I giudici sono soggetti soltanto alla legge"), 25 1° comma Cost ("Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge"), 111 Cost. ("Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati"), 104 1° comma Cost. ("La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere") e 24 2° comma ("La difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento").



In sede di elaborazione della normativa in esame, l'aspetto dell'efficacia temporale da attribuire alle disposizioni dirette a modificare in senso peggiorativo l'ordinamento penitenziario è stato tenuto ben presente: proprio da esso, infatti, dipendeva in larga misura la portata delle nuove disposizioni introdotte.

Il d.l. 324/1990 ha costituito il testo che con maggior risolutezza ha perseguito una chiara inversione di rotta rispetto alla disciplina fino allora vigente: ai sensi dell'art. 3 comma 2°, le modifiche peggiorative sarebbero risultate operanti solo nei confronti dei provvedimenti già emessi alla data di entrata in vigore del decreto.

Con tale disposizione veniva sostanzialmente scongiurata l'eventualità che, nell'assenza di una qualsiasi disposizione transitoria, la questione sull'efficacia temporale delle norme peggiorative fosse risolta facendo ricorso all'art. 2 3° comma c.p. che, con riferimento alla successione delle leggi penali nel tempo, sancisce il principio della prevalenza della lex mitior. La conseguenza sarebbe stata quella di un' applicabilità delle modifiche peggiorative esclusivamente nei confronti dei condannati per fatti commessi dopo l'entrata in vigore del decreto. Esisteva, infatti, un precedente, manifestato in sede legislativa, che avvalorava la tesi secondo cui l'art. 2 3° comma sarebbe applicabile anche alla successione fra leggi penitenziarie.

A partire dal decreto 5/1991, tuttavia, viene adottata una soluzione meno severa: si stabilisce che gli inasprimenti dei requisiti di carattere temporale, previsti in relazione ai vari benefici, operino solo in relazione a fatti commessi successivamente l'entrata in vigore del decreto, omettendo di prevedere alcunchè riguardo a norme come l'art. 1 1° comma del d.l. 152/1991, che subordina la concessione dei benefici penitenziari all'acquisizione di elementi tali da escludere la sussistenza di collegamenti con la criminalità, o come il 1° e 3° comma dell'art. 58-quater ord. penit., introdotto dall'art. 6 del decreto, che contempla una serie di divieti temporali assoluti di concessione di taluni benefici.

In relazione al fenomeno della successione delle leggi penitenziarie nel tempo, il problema è quello di stabilire se ad esso siano applicabili gli stessi principi e le stesse norme che disciplinano la successione fra le leggi penali: in particolare l'art. 25 2° comma Cost. che sancisce il divieto di retroattività della legge penale.

La lettura più tradizionale dell'art. 25 2° comma riferisce tale disposizione alle sole "norme penali incriminatrici".

Sul versante opposto c'è chi, invece, sostiene che il divieto di retroattività debba essere esteso anche al complesso delle norme processuali penali, proponendo un'interpretazione estensiva dell'art. 25 2° comma. Allo stesso modo potrebbe essere sostenuto che il verbo "punire", utilizzato dal legislatore costituente, è idoneo a ricomprendere anche tutto ciò che viene compiuto per dare attuazione concreta ad una sentenza di condanna, e che l'esecuzione della pena altro non è se non la pena stessa nel suo momento dinamico.

Se perciò il divieto di retroattività dovrebbe valere anche per le leggi penitenziarie, non è possibile, secondo Franco Della Casa, non distinguere fra ipotesi che si presentano come non equiparabili fra loro: da un lato le modalità peggiorative che si risolvono in un complessivo inasprimento del normale regime carcerario, dall'altro quelle che riguardano la disciplina dei benefici penitenziari, i quali costituiscono delle misure premiali e non punitive, perciò più difficilmente riconducibili al disposto dell'art. 25 2° comma Cost.

Il problema è facilmente risolvibile facendo riferimento alla ratio dell'art. 25 2° comma: questa consiste nell'esigenza di tutelare il ragionevole affidamento del singolo sulla fissità del quadro normativo. Si tratta, allora, di individuare il momento in cui tale ragionevole affidamento nasce e che, allorchè non si tratti di norme incriminatrici, non potrà sempre coincidere con quello del fatto delittuoso.

Nel caso delle misure alternative, all'inizio della fase esecutiva della pena, lo Stato propone al condannato un vero e proprio "patto": il primo acconsente ad un ridimensionamento della pretesa punitiva in cambio dell'adesione, da parte del secondo, ad un programma rieducativo. E' quindi questo il momento in cui sorge un affidamento meritevole di essere tutelato.

Chiariti i termini della questione, è possibile constatare che, in relazione alle norme da noi prese in considerazione (art 4-bis, introdotto dall'art. 1 1° comma, e art 58-quater 1° e 3° comma, introdotto dall'art. 6), non si pone alcun problema di costituzionalità: infatti, in relazione al problema della loro efficacia nel tempo, la l. 203/1991 nulla ha disposto. Di conseguenza non resta che fare riferimento al principio generale ex art. 11 d.s.l. in g., secondo il quale "la legge non dispone che per l'avvenire", che equivale a dire che l'efficacia della legge coincide con la sua vigenza.

Tenendo presente l'esatta formulazione degli artt. 4 bis e 58-quater 1° e 3° comma, i quali pongono inequivocabilmente l'accento sul momento della concessione del beneficio, è evidente che sono sottratte all'operatività delle disposizioni in questione tutte le misure alternative già concesse ed in corso di esecuzione. Ne deriva che non possa essere negata la loro applicabilità solamente con riferimento ai procedimenti di sorveglianza non ancora definiti al momento dell'entrata in vigore del d.l.

Non è d'accordo con una simile ricostruzione la Corte di Cassazione, la quale ritiene invece applicabili i commi 1 e 3 dell'art. 58-quater anche alle pene la cui esecuzione sia in corso al momento della loro entrata in vigore, "senza che ciò possa implicare un'applicazione retroattiva delle norme" (Cass., 5.12.1991, Mangiavillano, in Cassazione penale, 1993, p. 431). Evidentemente la S.C. non ha attribuito un sufficiente rilievo al dato normativo consistente nell'accento, dato dalle disposizioni in parola, al momento della "concessione", nè tantomeno ha creduto di aderire all'opinione secondo la quale l'art. 25 2° comma vale anche per le leggi penitenziarie, avendo essa precisato che la norma costituzionale in questione "si riferisce alla legge sostanziale che prevede la pena e non alle norme che disciplinano l'esecuzione della stessa..".






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