|
|
Nel controllo giudiziale del principio nominalistico possono incontrarsi tecniche disparate e seguirsi vie differenziate. In sistemi ad es. propensi a dare ampio spazio all'autonomia dei privati sarà meno frequente il ricorso all'opera dei giudici. In sistemi invece che ammettono limitazioni all'autonomia dei privati il controllo dei giudici verrà sollecitato per verificare che i limiti posti dal sistema venano rispettati. Appartiene al primo modello il sistema italiano che conosce, almeno espressamente, un metodo generalizzato di limiti alle pattuizioni private tendenti a correggere gli effetti negativi del principio nominalistico. Questi limiti vengono ricavati da disposizioni di legge o di atti amministrativi che indirettamente divengono preclusive di pattuizioni private che si pongono l'opposto obbiettivo dell'adeguamento dei prezzi al mutato potere di acquisto della moneta. A correggere le rigidità derivanti da limiti siffatti è intervenuto anche il giudice costituzionale che ha fulminato di incostituzionalità disposizioni di legge che quelle rigidità avevano introdotto, senza contemporaneamente prevedere ripari. Appartiene al secondo modello il sistema tedesco che, avendo introdotto un metodo generalizzato di controllo, in via amministrativa, sull'autonomia dei privati vede i giudici impegnati in un'opera di demarcazione dell'ambito segnato dal controllo. Una delle vie che ha dato luogo a forme di controllo diretto del principio nominalistico è quella offerta dallo stesso diritto delle obbligazioni e dei contratti.
Il caso più vistoso di questa esperienza è offerto dalla giurisprudenza tedesca dell'epoca tra le due guerre mondiali che ha proceduto a politiche rivalutative dei crediti deprezzati, facendo riferimento ai principi di buona fede e correttezza del diritto dei contratti (242 B.G.B.). Nel 1973 in Germania si è avuto un significativo intervento giurisprudenziale che, con riferimento ad obblighi di carattere pensionistico derivanti dai contratti di lavoro, ha ritenuto che il principio nominalistico non è tale da esonerare il datore di lavoro, debitore di prestazioni assistenziali, dal dovere di tenere conto degli effetti della svalutazione monetaria. Il nominalismo, come ogni principio giuridico, è governato dal rispetto dei principi di correttezza e buona fede. Le critiche numerose che un tale indirizzo ha sollevato possono apparire ispirate ad una difesa troppo rigida del principio nominalistico. La rivalutazione giudiziale dei crediti torna ad essere un mezzo per adeguare singolo situazioni soggettive a valori sociali che l'ordinamento intende garantire.
La direzione presa dalla giurisprudenza francese è di senso opposto. Forse anche perché nell'esperienza francese hanno avuto largo spazio strumenti correttivi apprestati dalle parti. Autori lamentano che la giurisprudenza, pur avendo a disposizione gli stessi enunciati normativi di cui dispongono i giudici tedeschi, non li abbia poi valorizzati. Ma ex adverso si sottolinea come i giudici abbiano avuto timore delle conseguenze economiche della revisione g 454j93e eneralizzata dei contratti in periodi di deprezzamento monetario.
Il caso italiano è distante dall'una e dall'altra esperienza ricordata. Non avendo maturato la nostra giurisprudenza analoga e forte simpatia verso principi, come quelli della correttezza e della buona fede oggettiva, pur disseminati nel nostro codice, essa si è attestata sulla linea dell'applicazione dell'istituto della sopravvivenza del rimedio della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (1467). In primo luogo si può dire che le condizioni per questa forma di controllo sono state poste in coincidenza con il fatto che si è affidato ai giudici il compito di risolvere la questione dell'imprevedibilità dell'evento e tendendosi a sottolineare che l'apprezzamento di detta imprevedibilità concerne non solo il prodursi del fenomeno ma anche l'entità do esso. In secondo luogo preoccupazioni sono visibili nell'indirizzo giurisprudenziale che ha limitato il rimedio dell'eccessiva onerosità alle prestazioni non ancora eseguite, lasciando invece privo di tutela il debitore che avesse già eseguito la propria prestazione e che attenda dall'altro il corrispettivo svalutato. Il motivo addotto dai giudici è che, se il valore della prestazione è aumentato, chi ha eseguito la prestazione non può richiamare il rimedio della eccessiva onerosità, perché il suo sforzo debitorio non risulta aggravato, essendo stato compiuto anteriormente all'aumento di valore. Una recente decisione della Corte di cassazione, riguardante il problema della compatibilità tra il rimedio della sopravvivenza e quello apprestato dalla stessa autonomia delle parti ha reso ancor più trasparente quell'opera di controllo di cui si tenta di trattare le linee. I giudici sono giunti a delineare una sorta di contenuto minimo, a sfondo garantistico, del rimedio di cui all'art. 1467, inverandosi, detto contenuto, in casi limite e nella eccezionale entità dei fatti nuovi e imprevedibili sopravvenuti o in situazioni assolutamente eccezionali che renderebbero irragionevole la non applicazione del rimedio ex art. 1467.
Forme di controllo indiretto del principio nominalistico sono invece offerte da tecniche di adeguamento che utilizzano i principi sulla responsabilità per i danni. È questo il terreno più congeniale all'intervento dei giudici perché essi vengono chiamati a dare tutela a crediti insoddisfatti e\o tardivamente soddisfatti. Il diritto anglosassone ricorre al concetto di danno sostanziale, intendendosi per tale quel danno che, in presenza di fatti appropriati, ha rappresentato una vera e propria perdita economica per il creditore. I sistemi di diritto codificato appaiono invece su questo terreno più aperti a ventagli di soluzioni possibili e pongono così le condizioni propizie per l'opera dei giudici. Dovranno segnalarsi indirizzi che sono andati elaborando criteri e direttive per la individuazione del danno. Altri indirizzi invece offrono un quadro meno articolato ma forse anche più significativo sul terreno del controllo giudiziale del principio nominalistico. Il primo indirizzo è quello della giurisprudenza tedesca che sembra muoversi nell'ottica consueta di esigere dai creditori la prova del danno concreto da essi subito per effetto del pagamento tardivo. Il secondo indirizzo è quello della nostra giurisprudenza, che sembra tendente ad identificare il maggior danno con il danno da svalutazione. Operazioni di controllo del principio nominalistico con il mezzo di regole di responsabilità sono visibili, nella nostra giurisprudenza, sin dall'epoca immediatamente successiva all'entrata in vigore del codice del 1942. A partire da detta epoca, queste operazioni si sono in buona parte realizzate sul terreno delle regole riguardanti l'onere della prova del danno subito dal creditore e facendo ricorso alla tecnica delle presunzioni, ricavate dalle condizioni, oggettive e soggettive, dei creditori. Qualche ripensamento si ebbe tuttavia intorno agli anni '50 ove un indirizzo più restrittivo sembrò trovare la propria giustificazione politica nell'esigenza di non penalizzare coloro che erano soliti risparmiare e che, da buoni cittadini, sottoscrivendo titoli di stato, avevano concesso ad esso fiducia.
A poca distanza di tempo dalla pronuncia con la quale si era ribadito il principio secondo cui, in materia di ritardo nel pagamento di somme pecuniarie, il rilievo della svalutazione monetaria è condizionato alla prova che deve dare il creditore di aver risentito un particolare pregiudizio per non aver potuto disporre, in modo da sottrarla alla svalutazione monetaria, della somma a lui dovuta, il cui reimpiego era stato effettivamente apprestato e concretamente predisposto, è intervenuta pronuncia che ha affermato l'opposto. La via scelta dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 5670 del 1978 per superare un indirizzo trentennale può apparire abbastanza insolita, consistendo essa nel tenere fermo questo indirizzo quando il creditore abbia chiesto il risarcimento del mancato guadagno e nel considerarlo invece indifendibile quando il creditore si sia limitato a chiedere il risarcimento della perdita subita. Sembra che la ratio decidendi posta a base della pronuncia della Cassazione distingua tra la richiesta del danno emergente e\o invece del lucro cessante, risarcibile il primo senza particolare onere probatorio, risarcibile invece il secondo ma a condizione che il creditore dimostri di avere seriamente programmato un reimpiego della somma. Tale indirizzo solleva dubbi in ordine alla fedeltà rispetto a quello che si può definire un vero e proprio topos della letteratura giuridica sull'incidenza della svalutazione monetaria nel pagamento dei debiti pecuniari. Quando si assegna alla svalutazione la rilevanza del danno emergente, danno che sarà a carico del debitore inadempiente, si viene a negare implicitamente il principio secondo cui tra la somma dovuta e quella pagata vi è un rigoroso rapporto di identità. La novità dell'indirizzo è comunque nel fatto che esso non ha riguardo a debito risarcitorio ma a debito di valuta di cui si lamenta il pagamento tardivo con moneta medio tempore svalutata. Anche tale pronuncia è sensibile al facile argomento secondo cui l'originario debito di valuta si sarebbe trasformato in debito di valore. L'asserita trasformazione, se può certamente valere con riguardo ad ipotesi di danno diverse dalla svalutazione non può valere per la svalutazione considerata in se stessa.
Il nuovo indirizzo, inaugurato con la sentenza n. 5760 del 1978 non potrà non indurre gli interpreti ad una riflessione sul ruolo che può esercitare l'interpretazione dei giudici in merito a materia così delicata, quale quella da assegnare alla svalutazione monetaria nei rapporti tra privati e in un ordinamento che, come il nostro, ha espressamente codificato il principio nominalistico, (1277) avendolo ritenuto il più rispondente ad una esigenza razionale della vita economica. Si tende a ribadire il principio secondo cui, in materia di rapporti di scambio e cioè con riguardo all'estinzione di crediti di lunga durata, non sono ammissibili misure rivalutative, ma bisogna tener fede al vigore del principio che rende costanti ed immutabili le ragioni di scambio. La discussione è andata al di là dell'amministrazione dei singoli rapporti tra privati, per investire il più generale problema dei limiti che incontra il potere dei giudici in un settore, quale quello monetario, che appare sin troppo legato a più generali scelte di politica economica. Non si è mancato di ribadire in varie occasioni l'esclusiva competenza del legislatore in ordine all'introduzione di misure rivalutative di crediti deprezzati, perché è l'unico organo ad essere democraticamente legittimato a verificare il grado di compatibilità tra le misure di rivalutazione e le esigenze di stabilità del sistema. Segni di maggiore vivacità doveva fornire la giurisprudenza in materia di debiti di valore che è la categoria caratterizzata dal fatto che l'entità del debito non è nominalmente fissata a priori ma resta aperta e sensibile al mutato potere di acquisto della moneta in ordine al bene o al valore che si vuole assicurare al creditore e dove dunque il conflitto debitore e creditore non si presenta risolto nel momento stesso del sorgere del debito ma è rinviato al momento successivo della concreta liquidazione di esso. È così potuto apparire che una tale esigenza garantista degli interessi dei danneggiati postulasse il richiamo di una diversità di disciplina e\o di regime tra debiti pecuniari. Un indirizzo più riduttivo e pragmatico, emerso negli anni '50, proponeva invece di riassorbire tale problema in quello riguardante l'individuazione del momento al quale riferire la valutazione e liquidazione del danno da risarcire. Il principio che ormai tende ad essere massima da tramandarsi è quello del massimo di tutela offerto ai soggetti danneggiati e alle obbligazioni relative. Si teorizza la regola che solo per le obbligazioni intrinsecamente pecuniarie sono tollerabili limiti al principio dell'integrale risarcibilità del danno prodotto dall'inadempimento. Tale prassi giurisprudenziale ha accolto la tesi della natura di debito contrattuale di valuta di tali somme. In un tale contesto non può non inserirsi una riflessione sull'interpretazione e sulla prassi vigente in materia di somme dovute dall'assicuratore per rivalere l'assicurato di un danno e per pagare allo stesso un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana (1882). E non può apparire una contraddizione crescente quella insita in un indirizzo giurisprudenziale consolidato che tiene stabile e ferma la frontiera del debito di valore delle somme dovute all'assicuratore perché aventi ad oggetto il risarcimento di un danno e non apparendo a tale scopo preclusivo il riferimento ad un determinato massimale per le indennità connesse a vicende riguardanti la persona o la vita dell'assicurato considera invece invalicabile la frontiera del debito di valuta. Il criterio della natura e della fonte contrattuale del debito, quale limite preclusivo ad una sensibilizzazione del debito ai fenomeni di deprezzamento monetario, è un criterio sempre meno attendibile in un contesto normativo che sembra voler riservare attenzione alla particolare funzione dei singoli debiti.
Si è discusso dell'ammissibilità di un profilo di tutela costituzionale del potere d'acquisto di somme oggetto di crediti e ciò specialmente nei riguardi di indirizzi legislativi tendenti a comprimere e\o vanificare tale potere attraverso tecniche più diverse che vanno dal blocco generalizzato dei crediti al divieto fatto alle parti di fare ricorso a misure di salvaguardia. Attorno agli anni '60 fu di grande attualità la questione riguardante la costituzionalità di interventi legislativi miranti a de-sensibilizzare la misura dell'indennità di esproprio rispetto a fenomeni speculativi che si sarebbero inevitabilmente messi in moto con l'inizio delle procedure di esproprio. Di qui la decisione di stabilire il valore venale delle aree di espropriazione con riferimento ai due anni precedenti alla deliberazione comunale di adozione dei piani stessi (l. n. 167 del 1962). Il ricorso delle parti private alla Corte costituzionale si basava sui concetti giuridici che anacronisticamente legalizzano in Italia la speculazione fondiaria ma prospettava anche, come in corso di svalutazione della moneta un prezzo non riferito al mercato corrente e bloccato invece ad una data certa, poteva diventare irrisorio. La Corte costituzionale ebbe a dichiarare illegittimo il metodo per cui il credito dell'indennità sarebbe stato esposto ai contraccolpi della svalutazione per un periodo la cui durata era quanto meno incerta. Il varco era ormai aperto per l'affermazione di indirizzi giurisprudenziali che hanno teso alla difesa garantistica del potere di acquisto di somme oggetto di crediti, derivanti o meno da contratti o da provvedimenti dell'autorità e ciò argomentando dalla tutela che la costituzione riserva al contenuto minimo della proprietà e\o meglio alla redditività della stessa in termini di cambio. Volendo tentare un bilancio di tali indirizzi, si può dire che la direttrice lungo la quale si sono mossi è quella della difesa dei valori di scambio di beni in quelle evenienze in cui tali valori figuravano consegnati ad entità monetarie che non potevano ritenersi espressive di giuste ed adeguate ragioni di scambio, anche in considerazione del fatto che dette entità erano sottratte a qualsiasi misura di aggiornamento e\o di adeguamento al mutato potere di acquisto della moneta.
Potrà interpretarsi in vario modo il significato e la qualificazione teorica di una norma, come quella che ha introdotto la possibilità di tenere conto, nella condanna del datore di lavoro al pagamento di somme pecuniarie (429 comma 3 c.p.c.) anche del diminuito valore del credito a seguito della svalutazione monetaria. A risultare modificati sono i principi generali sulla distribuzione del rischio della svalutazione tra debitore e creditore in punto di tutela del credito e dove è pacifico che tale rischio, secondo i principi di diritto comune, avrebbe dovuto ricadere sul creditore, pur con il correttivo della responsabilità debitoria per i danni. Un indirizzo invece più rigoristico e restrittivo si è affermato con riguardo alla estensibilità della stessa misura di rivalutazione ai crediti del lavoratore verso gli istituti previdenziali. È certo che l'indirizzo segnalato ha utilizzato tra l'altro, come argomento quello fondato sulla natura sanzionatoria e\o comunque di prevenzione della misura di rivalutazione introdotta dall'art. 429 comma 3, trascurandosi invece di considerare la finalità di sostentamento anche del credito pensionistico, così da dovere riconoscere che gli stessi presupposti non ricorrono nel ritardo di pagamento da parte degli istituti preposti all'erogazione di prestazioni previdenziali. La stessa ratio decidendi è stata alla base, del resto, dell'indirizzo giurisprudenziale che ha negato l'estensione della misura rivalutativa prevista all'art. 429 c.p.c. ai dipendenti di enti pubblici.
La maggiore contraddizione dell'indirizzo giurisprudenziale inaugurato con la sentenza 5670 del 1978 sta nella difficile coesistenza di indirizzi giurisprudenziali che non possono non apparire di segno opposto. La contraddizione è tra un indirizzo che sembra attestato sulla linea del carattere eccezionale di una misura rivalutativa, introdotta dall'art. 429 c.p.c., e dove l'eccezionalità è nell'automatismo della rivalutazione ivi prevista e un indirizzo, come quello inaugurato con la sentenza 5670 del 1978, che lo stesso automatismo finisce con l'introdurre generaliter in altra zona dell'ordinamento.
I termini del problema che si ponevano di fronte ai giudici della Cassazione, in riferimento alla sentenza delle Sezioni Unite n. 3776 del 1979, riguardavano l'incidenza della svalutazione monetaria sul pagamento tardivo dei debiti pecuniari ossia di debiti che sono sin dall'inizio espressi in somma di denaro e per i quali invece cale il principio della immutabilità della somma nominalmente dovuta quale che sia il mutato potere di acquisto della moneta tempore solutionis, principio questo che, anche se non espressamente sancito, sicuramente risulta essere presupposto nell'art. 1277 del codice. Le sezioni unite della Cassazione sono state chiamate a mitigare le conseguenze di un indirizzo troppo liberale di precedente pronuncia (quella n. 5670 del 1978) ed hanno così tentato un'opera di non facile mediazione tra l'alternativa di dover riconfermare un orientamento tradizionale troppo rigoroso nei riguardi dei creditori ed uno più liberale cui poteva rivolgersi un uso disinvolto di principi e criteri stabilmente radicati nel nostro sistema. I limiti opposti dal sistema ad una considerazione della svalutazione monetaria sono rappresentati massimamente dall'esistenza di un principio nominalistico che non governa soltanto i pagamenti puntuali ma anche quelli tardivi, dacché la norma contenuta nell'art. 1277 fa riferimento al tempo del pagamento e non a quello della scadenza. L'ultra-efficacia del principio non è mai stata dubitata in dottrina: né è sicura testimonianza anche la tradizione codicistica la quale proprio in ragione del fatto che limitava il risarcimento dei danni da mora alla sola attribuzione degli interessi legali (art. 1231 codice del 1865), era definita di applicazione eccezionale da un autorevole scrittore e non estendibile oltre l'ambito per la quale era stata dettata. L'altra variante alla tesi è quella che ragiona nei termini di una obbligazione risarcitoria di valore che subentra a quella originariamente di valuta e ciò secondo il modello del debito di valore che ha carattere sostitutivo di debito primario inadempiuto. È questa un'altra tentazione cui potrebbe indurre una lettura indifferenziata di quelli che sono gli effetti del pagamento tardivo. Ma vi è una risposta anche su questo terreno. Ed è quella che ribadisce l'inammissibilità di una equiparazione del debito pecuniario a quello di cose e postulandosi una sorta di perimento dell'oggetto a rischio del debitore per effetto della svalutazione (art. 1221). Vero invece che il ritardo nel pagamento lascia inalterato il debito pecuniario originario, definito da taluno indistruttibile questo aggiungendosi soltanto l'obbligazione di interessi e quella di maggior danno.
Si è dato carico altresì una sentenza della Cassazione di rispondere alla sollecitazione fortissima di interpretare in chiave risarcitoria, e quindi valoristica, anche l'obbligazione legale di interessi, che è la forma tradizionale di tutela dell'obbligazione pecuniaria. La sollecitazione è di riferire anche l'obbligazione di interessi alla grande famiglia delle obbligazioni risarcitorie. In questa prospettiva si tende a recuperare una nozione di interesse quale frutto civile prodotto dall'uso del danno che altri, legittimamente o illegittimamente, ne abbia. Il danno subito dal creditore non potrà essere stimato che alla stregua dell'utilità reale che la somma tempestivamente pagata avrebbe ad esso fruttato con riferimento alle comprovate possibilità del creditore di farla fruttare. Ma una tale ipotesi si rivela difficilmente sostenibile. Anche volendo restare sul terreno del danno subito dal creditore, l'ostacolo più corposo è rappresentato da una "vuluntas legis" che, nel disporre il pagamento di interessi e le regole conseguenti (v. tasso legale), ha dettato una disciplina compiuta in tema di danni presuntivi relativi all'inadempimento di obbligazioni pecuniarie. Il predicato di interesse compensativo potrebbe essere in grado di adattarsi ad ogni tipo di interesse, ove questo venisse definito, senza troppe pretese, come "un pagamento periodico da parte del debitore al creditore come compensazione per l'uso che il debitore ha fatto della somma del creditore". Una lettura abbastanza recente del sistema composito e non del tutto lineare risultante dalla nuova normativa sui danni nelle obbligazioni pecuniarie (1224) ha indotto a scorgere nell'obbligazione legale di interessi e in quella di maggior danno due regole diverse, tra di loro alternative, nel senso che il creditore avrà la scelta tra il diritto agli interessi legali e quello al risarcimento del danno secondo le regole generali sulla responsabilità contrattuale. Questa interpretazione rappresenta il punto di maggior distacco rispetto ad ipotesi tendenti a recuperare in senso valoristico l'obbligazione legale di interessi. In tale prospettiva la regola sulla produzione di interessi si differenzia nettamente da quella sul risarcimento dei danni e non sarà allora possibile che la determinazione dell'interesse venga resa funzionale alla estimazione del danno, pur valutato, questo danno, nei termini dell'utilità reale perduta dal creditore. Alla progressiva astrattizzazione di tale obbligazione ha corrisposto un sempre più marcato controllo dell'ordinamento nella misura degli interessi (1284).
La tesi non nuova del denaro quale mezzo di scambio ossia strumento destinato a fare da medium nello scambio di merci, ripropone gli indirizzi liberali in tema di svalutazione monetaria sul pagamento dei debiti. Il significato di danno del deprezzamento monetario è appunto connesso al fatto di ricevere moneta che non è più depositaria o rappresentativa del medesimo valore che essa aveva in partenza. Una impostazione enfatizza più del dovuto la funzione del denaro quale mezzo di scambio, ma ne trascura altra che forse è di interesse maggiore per il giurista e cioè quella di fungere da mezzo di pagamento dei pagamenti differiti. Una tale riflessione non deve apparire troppo distante dal problema che ci interessa. Vengono in mente collegamenti più o meno immediati con esso. Basterebbe rammentare che il principio nominalistico si afferma storicamente nei codici con riguardo a debito di restituzione di somme. Inoltre la connessione tra il principio nominalistico e la funzione del denaro quale mezzo di pagamento trova un riflesso nella concezione stessa di denaro che, in quanto mezzo di pagamento, tende a sottrarsi agli stessi termini di scambio e a diventare esistenza autonoma del valore di scambio. In un'ottica prevalentemente legale si potrà osservare che la connessione tra il principio nominalistico e funzione del denaro quale mezzo di pagamento è ancora dovuta alla scarsa praticabilità di un concetto di denaro sul quale, al tempo del pagamento, gravi tutta l'incertezza della determinazione del potere di acquisto della somma offerta in pagamento. Nelle impostazioni ispirate ad ideologie valoristiche fa capolino la riserva che il denaro, in quanto strumento di scambio, debba essere merce dotata di valore, tale appunto da garantire nei contratti un principio di equivalenza delle prestazioni. È l'ottica canonica e tardo medioevale che si contrappone al nominalismo del diritto romano e al "valor imposus" del sistema feudale e nella quale il denaro sarà quello di metallo i cui pezzi monetari sono composti. Di qui la distinzione tra mensura e mensuratum. Improponibili nei tempi più vicini concezioni metalliste, le dottrine valoristiche hanno via via fatto riferimento al valore corrente del denaro, cosicché l'obbligazione dovrà assicurare al creditore lo stesso valore che aveva la somma dovuta al tempo del contratto. Ma tornando al problema che ci occupa, non si è tanto lontani dal vero se si scorge nell'indirizzo favorevole ad una considerazione della svalutazione quale danno subito dal creditore per il peggioramento della cosa, del quale quindi il debitore moroso deve sopportare le conseguenze, un revival di tesi valoristiche, riaffioranti sul terreno dell'inadempimento di obbligazioni pecuniarie. E la critica va esercitata in questa direzione confrontandosi ancora una volta teorie valoristiche e nominalistiche.
L'interprete incontra sulla sua strada forme di concreta risposta che danno gli ordinamenti positivi al fenomeno dei pagamenti tardivi e dei danni conseguenti. Si è già detto come la tesi secondo cui questo problema sarebbe inesistente, dacché al posto dell'obbligazione pecuniaria inadempiuta subentrerebbe autonoma obbligazione risarcitoria è tesi che la Cassazione ha provveduto a confutare. Questa tradizione è, tendenzialmente, in favore della liquidazione dei danni da mora in termini esaustivi dell'attribuzione di interessi. lo scopo perseguito è di evitare contestazioni a non finire tra debitori e creditori in ordine all'uso che il creditore avrebbe compiuto dalla somma dovuta, ove ricevuta puntualmente. Anomalo si può considerare il caso italiano. Mentre il codice del 1865 aveva pedissequamente seguito il modello francese nell'escludere che il creditore, oltre il pagamento di interessi, potesse richiedere il risarcimento del danno(art. 1231 codice del '65), il codice del '42 ha scelto una via di mezzo tra il modello francese e quello tedesco, disponendo che il creditore può anche richiedere il risarcimento del maggior danno, ove ne dia la prova (art. 1224 comma 2). Lo stesso art. 288 del BGB si può leggere che il debito di denaro durante la mora produce interessi nella misura del quattro per cento e che la richiesta del risarcimento del danno ulteriore non è esclusa. Dottrina e giurisprudenza hanno utilizzato il varco aperto dal legislatore del 1942 per affermare il principio che anche la svalutazione monetaria può ritenersi un'ipotesi di maggior danno, ove essa naturalmente sia di entità tale da non risultare coperta dal pagamento degli interessi al tasso legale purché il creditore dia la prova che vi è un nesso di causalità tra il pagamento tardivo e il danno da svalutazione. Questo indirizzo giurisprudenziale non è isolato. A tale modello sembra che si sia ispirata la pronuncia della Cassazione (5760 del 1978) la cui portata si è inteso ora limitare, la quale ha ritenuto che il danno da svalutazione possa presumersi e cioè non abbia bisogno di prova riguardante la concreta incidenza della svalutazione sul patrimonio del singolo creditore. Tra un modello, come quello tedesco degli anni '20, di rivalutazione giudiziale dei crediti e quello di rivalutazione legale, si collocano modelli misti alla stregua dei quali è la legge a conferire ai giudici il potere di procedere alla rivalutazione di crediti deprezzati. A tale modello sembra ispirarsi quello introdotto dal legislatore italiano con le nuove norme sul processo del lavoro (art. 429 c.p.c.). Il modello cui è sembrato ispirarsi la ormai nota sentenza della Cassazione 5670 del '78 è quello di forma di rivalutazione giudiziale dei crediti deprezzati, il cui fondamento sarebbe da ricercare non già nel generale diritto dei contratti ma nei principi sulla responsabilità contrattuale per i danni.
Tra un indirizzo giudicato troppo liberale e uno troppo rigoristico, che rischia di lasciare privo di tutela il creditore contro il rischio della svalutazione, fa opera di difficile mediazione la Cassazione, scendendo sul terreno delle figure sociologicamente più significative di creditori pecuniari. Un indirizzo troppo liberale è quello che non distingue tra categorie di creditori in relazione all'impiego delle somme dovute ma ritiene che, per tutte, la svalutazione abbia un significato presunto di danno. Ma un indirizzo troppo rigoristico sarebbe quello che esigesse dal singolo creditore la prova del danno, concreto ed effettivo, subito a seguito dell'incontro tra il pagamento tardivo e la svalutazione e non potendo valere allo scopo neanche presunzioni fondate su qualità, personali o professionali, del creditore. Il perpetuarsi dell'indirizzo più rigoroso, anche in epoca in cui la stabilità della moneta è diventata un fatto obsoleto, poteva essere interpretato sia come un "fin de non ricevoir" da parte dei giudici ma anche come frutto della convinzione che, quello, della disciplina dei debiti di denaro, è un terreno troppo scoperto e pericoloso per consentire operazioni di politica del diritto travestite da interpretazioni può o meno evolutive del diritto vigente. Così come il revirement che ci occupa è dovuto certamente al deliberato proposito di ristabilire una forma di controllo dei giudici su materia i cui termini non potevano essere lasciati allo status quo ante, con il rischio che l'intero problema si sarebbe sottratto ad ogni forma di mediazione. Si è detto del tentativo di individuare figure sociologicamente significative di creditori e rispetto a queste di ritagliare uno spazio per una opera di mediazione giudiziale che abbia una sua credibilità sul terreno operativo. Si ha fiducia che alla individuazione di tali categoria corrispondano modi di impiego del denaro che siano coerenti con le rispettive qualità professionali e con bisogni che le personali possibilità finanziarie consentono di soddisfare e con le abitudini derivate dalla mentalità e dell'ambiente di vita. Ma è proprio sullo spazio reale per questa mediazione e nella direzione di una pratica di "case-law" che possono sorgere dubbi, in considerazione dei noti limiti che caratterizzano l'operato dei giudici e massimamente in questa materia. Resta da chiedersi, specialmente con riferimento ai creditori occasionali, se a prevalere sarà il criterio tipizzato e normale di impiego del denaro ovvero il criterio desunto dal singolo impiego allegato. Si potrebbe obiettare che un quadro di popolato di creditori di somme inaspettate, di creditori occasionali, di modesti consumatori, di creditori di entrate sufficienti e di creditore risparmiatori, non è poi il più coerente con un disegno iniziale volto a delineare una mappa, la più completa possibile, di figure professionali di creditori dalle quali desumere modi coerenti di impiego del denaro.
CORTE DI CASSAZIONE (772\48)
Il danno da inadempimento della obbligazione pecuniaria, per effetto di una svalutazione monetaria generalizzata ad ogni uso del denaro, salvo prova diversa o contraria, può essere determinato sulla base di indici uffici ufficiali di svalutazione monetaria in relazione al costo della vita.
Non contribuisce a portare chiarezza la sentenza in epigrafe nell'annosa questione del risarcimento del danno da svalutazione per inadempimento di obbligazioni pecuniarie. Ancora una volta la questione è prospettata in termini quasi azzerati, e cioè senza tenere conto di una copiosa elaborazione, giurisprudenziale e dottrinale, anche recente sul punto. Il problema oggetto di esame, cioè quello del danno da svalutazione, tende ad essere posto e risolto più in termini empirici che sistematici. L'iter giurisprudenziale sulla questione della rilevanza della svalutazione sub specie damni è iniziato con la sentenza della Cassazione 5670 del '78 che statuiva il principio della perdita del potere di acquisto della moneta, in armonia con i principi della scienza economica alle quale deve adeguarsi quella giuridica, rappresenta un danno concreto e reale, non bisognoso di prova da parte del creditore, essendo la svalutazione un fatto notorio e la cui misura può desumersi da indici pubblicizzati di sicura attendibilità. A pochi mesi di distanza da detta pronuncia, le Sezioni Unite della Cassazione ritornavano sulla questione con una statuizione che, mentre faceva salvi i principi andava incontro ai creditori di somme sul terreno della prova attraverso l'identificazione di figure sociologicamente significative di creditori pecuniari, in ordine alle quali è ragionevole attendere che corrispondano determinati modi di impiego del denaro. Il pericolo era che tale modello decisionale rimanesse pressoché inoperante e che le decisioni dei giudici tornassero ad adagiarsi su tecniche presuntive spinte al limite delle loro possibilità operative o di credibilità. È quanto ha avuto luogo successivamente per merito di pronunce ove se si escludono da un lato le forme di risarcimento automatico, si ritorna tuttavia a riciclare criteri, come quelli della normalità e della possibilità integrati, ove occorra, da criteri equitativi. Tra le pronunce occorre citare quella della Corte di Appello di Napoli, la quale si è sobbarcata al difficile compito di verificare la redditività dell'attività imprenditoriale del creditore, giungendo a ritenere che questo creditore avrebbe potuto mediamente assumere un appalto l'anno, tenuto conto delle crisi ricorrenti nelle pubbliche amministrazioni in taluni anni e perciò dell'andamento del mercato del settore edilizio, onde si poteva ritenere sulla base anche di tariffe del genio civile che prevedono un utile per l'impresa lordo del 24% e netto del 20% che la redditività netta dell'impresa Rizzo per la propria attività aziendale sia stata negli anni in considerazione appunto del 20%. Una pronuncia del tribunale di Sala Consilina del 29 agosto 1979, pur prestando formalmente adesione alla pronuncia della Cassazione, se ne discostava poi nella sostanza, introducendo quale criterio di determinazione, in via presuntiva, del danno, il tasso di sconto praticato dalla Banca d'Italia oppure l'interesse praticato dalla Pubblica Amministrazione sui buoni postali fruttiferi. l'obbiettivo è di predeterminare criteri generali per la liquidazione del danno.
Venendo alla decisione in epigrafe, sembra che essa voglia riproporre la tesi secondo cui l'obbligazione pecuniaria, ove inadempiuta, si converte in debito di valore. È questa tentazione alla quale indulgono molte sentenze. Contestarne la legittimità oltre che la coerenza sistematica è dunque un onere dell'interprete. La premessa da cui muove tale tesi è sostanzialmente l'assimilabilità del debito pecuniario a quello di cose; deve allora rispondersi che il debito pecuniario non è un debito di cose ma di somme e che il principio nominalistico non governa soltanto i pagamenti puntuali ma anche quelli tardivi. La rilevanza riconosciuta al maggior danno (art. 1224 comma 2) dal creditore subito non contrasta con questa visuale. Sub specie del maggior danno l'obbligazione pecuniaria si comporta come un debito di cose, ma compatibilmente con lo schema del debito di somme. Il che peraltro non ha luogo in tutti i sistemi giuridici; nel nostro sistema e in quello tedesco ha trovato applicazione. È su questo punto che la sentenza in epigrafe ha riportato le maggiori incertezze. Se è vero che il debito di somme, sub specie del maggior danno, si comporta come un debito di cose, è anche vero che ciò ha luogo compatibilmente con la sua natura di debito di valuta, governato dal principio nominalistico. Ma ciò evidentemente impedisce che possa avere ingresso una espressione la cui contraddittorietà è evidente, come quella di "valore della valuta".
Occorre interrogarsi sulla funzionalità del rimedio giudiziario a tutelare i creditori di somme dal rischio derivante dalla svalutazione monetaria. Si è visto che il rimedio giudiziario si fonda sulle regole della responsabilità, per una giurisprudenza poco propensa ad utilizzare il diritto dei contratti. Ma è naturale pensare che il rimedio giudiziario appaia insoddisfacente, specialmente in una materia in cui i valori di mercato debbono apparire prevalenti. È questo il senso di critiche recenti agli indirizzi della giurisprudenza nostrana. I vantaggi derivanti da un indirizzo di politica del diritto consentono, in primo luogo, di sanzionare per così dire, la parte che è colpevole del ritardo. Possono funzionare altresì da deterrente ove il giudizio di colpevolezza non venga considerato come qualcosa di assolutamente indolore e irrilevante. Per altro verso, la imprevedibilità della misura risarcitoria ex art. 1224 comma 2 non potrà riservare preoccupazione ai debitori solitamente morosi laddove un appiattimento nei termini di costo economico può essere riversato, data la sua prevedibilità, su altre categorie di soggetti, e quindi essere fonte di ulteriori spinte inflattive.
CORTE DI CASSAZIONE - Sezione lavoro; ordinanza 7 febbraio 1990, n. 74.
Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 429 c.p.c., nella parte in cui esclude la sua applicazione ai crediti per prestazioni previdenziali, in relazione agli art. 3, 36 e 38 della Costituzione.
CORTE DI CASSAZIONE - Sezioni Unite civili; sentenza 1 dicembre 1989, n. 5299.
Qualora il creditore previdenziale, anche alla stregua della sua qualità di pensionato e della non rilevante entità del credito, deduca la sua appartenenza alla categoria dei modesti consumatori al fine di conseguire il risarcimento del maggior danno derivante dal deprezzamento della moneta nel periodo di mora, e tale risarcimento gli sia accordato con il sistema della rivalutazione del credito previdenziale in base agli indici ISTAT di variazione dei prezzi al consumo, il relativo importo copre l'intera area del danno, fino al momento della sua liquidazione, e non può più essere cumulato con gli interessi moratori che, se già attribuiti o corrisposti, devono essere detratti dal risarcimento quantificato con l'anzidetto sistema (ferma restando la spettanza degli interessi legali a partire dal giorno della pronuncia giudiziale di liquidazione del danno fino alla data dell'effettivo soddisfo).
Il problema si identifica con quello della coesistenza con l'obbligazione di interessi e quella risarcitoria, con tutto il corredo degli elementi conseguenti. A risultare sempre escluso è l'effetto cumulativo, nel senso di poter cumulare interessi e maggior danno. È evidente che a questo punto le cose si ingarbugliano e non poco. Il predicare, come si fa in molte sentenze, che il sistema previsto all'art. 1224 è da interpretare nel senso di una relazione di continenza tra interessi e ulteriore risarcimento, inteso quale misura complessiva della copertura del danno, non è più tale se contraddittoriamente si assume che il maggior danno è da intendersi come pregiudizio autonomo ed eterogeneo rispetto a quello rappresentato dal lucro cessante presunto, onde è giocoforza ritenere che i due pregiudizi possano cumularsi.
CASSAZIONE CIVILE - Sezione lavoro; 19 maggio 1995, n. 5525.
Per i creditori previdenziali, dovendo valere anche per essi il principio di indifferenza e cioè il principio secondo cui i criteri legali o presuntivi di risarcimento non debbono avvantaggiare o nuocere al creditore in dipendenza del tempo in cui vengono applicati, non può ritenersi applicabile il criterio del cumulo degli interessi legali sulle somme rivalutate via via e ciò in base all'art. 429 c.p.c. E' invece applicabile, ma con riguardo alla sola obbligazione risarcitoria da ritardo, e per la durata di tale ritardo, il regime degli interessi alla quota di interessi e il regime della rivalutazione alla quota di rivalutazione. Trattandosi di un debito di valore non risarcitorio, il danno subito dal creditore per il ritardo nell'adempimento non può essere automaticamente commisurato agli interessi legali ma può essere risarcito, in via equitativa, nella misura dell'eccedenza di detti interessi rispetto alla rivalutazione.
Tale sentenza segue un percorso abbastanza autonomo rispetto ad indirizzi giurisprudenziali precedenti che pure la possibilità di tale cumulo avevano negato. Sembra porsi in contrasto con quanto deciso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 12 aprile 1991, n. 156, la quale ha ritenuto illegittimo l'art. 442 c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice, anche per l'inadempimento di crediti previdenziali, abbia a condannare il datore di lavoro, non solo al pagamento degli interessi legali, ma anche al maggior danno da svalutazione. La sentenza muove da una osservazione che può ritenersi abbastanza elementare. Allorquando si verifica un danno da ritardo, al creditore va garantito non solo l'adempimento del debito c.d. primario, ma anche il danno da esso subito per il ritardo con cui ha ricevuto quanto gli spetta. Poiché il danno da ritardo è destinato ad incrementarsi con il decorso del tempo, è logico inferirne che al danno prodotto in un determinato prodotto si aggiunge quello prodotto per il protrarsi del ritardo, in un periodo immediatamente successivo. Il ragionamento, pur corredato da esemplificazioni, ha difficoltà ad essere tradotto in termini agevolmente commestibili per il lettore medio. In realtà, questi manifesta poca familiarità con l'arbitraria divisibilità della sequenza dell'adempimento tardivo in periodi o intervalli o in frazioni di tempo, giacché egli è portato a pensare che il danno da ritardo sia unico e che esso va stabilito con riguardo al momento dell'adempimento tardivo e che il risarcimento strettamente fa corpo con l'obbligazione principale. Più praticabile allora, per ottenere l'esito desiderato, è un'altra via che la sentenza percorre. Ed è quella di guardare alle regole di risarcimento che sono proprie delle obbligazioni diverse da quelle pecuniarie. Ebbene la determinazione del danno è messa in relazione con il comportamento che il creditore avrebbe tenuto in caso di adempimento tempestivo, giacché non possono presupporsi, nella liquidazione del danno, comportamenti contraddittori.
Ma il cumulo di rivalutazione e interessi non ha miglior sorte ove si guardi ai debiti di valore ossia a quei debiti il cui oggetto non è una somma di denaro quantitativamente determinata nella veste di un astratto strumento di soluzione dei debiti bensì il valore di un bene o di un'utilità al quale andrà commisurata la quantità di moneta dovuta. Come è noto, in ordine a tali debiti la possibilità del cumulo di rivalutazione e interessi è pressoché concordemente riconosciuta. All'annosa disputa riguardante il problema se gli interessi vanno calcolati sulla intera somma rivalutata al momento della liquidazione giudiziale o invece sul capitale originario, pur rivalutato anno per anno, secondo gli indici ISTAT hanno risposto di recente le Sezioni Unite della Cassazione, accreditando la seconda ipotesi dell'alternativa. Ma anche questa interpretazione, dice la sentenza, se astrattamente in regola con il postulato principio di indifferenza e cioè con il principio secondo cui deve essere indifferente per il creditore il momento in cui viene soddisfatto il suo credito risarcitorio, purché esso sia coperto anche per il danno da ritardo, contrasta scopertamente con superiori principi di logica e di diritto. La sentenza ha buon gioco nell'enunciare quali sono queste contraddizioni:
non può esservi, in primo luogo, la possibilità di interessi su un debito in itinere, quale è quello rivalutato che sorgerà in concreto al momento della liquidazione;
d'altro canto, interessi non ancora maturati non possono essere oggetto di rivalutazione.
CASSAZIONE CIVILE - Sezioni Unite, 4 dicembre 1992, n. 12942.
L'obbligazione del venditore di restituire al compratore la somma ricevuta a titolo di prezzo, in conseguenza della risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento, configura un debito di valuta, avente ad oggetto l'originaria prestazione pecuniaria, del tutto distinto dal risarcimento del danno spettante in ogni caso all'adempiente. Non può, dunque, procedersi alla rivalutazione automatica della somma dovuta in restituzione, ma della svalutazione monetaria dovrà tenersi conto nella liquidazione dei danni derivanti dalla mancata disponibilità di quella somma.
Con la sentenza in epigrafe le Sezioni Unite della Cassazione prendono posizione relativamente alla natura del debito derivante dalla risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento di una parte. Che il rapporto tra restituzioni e risarcimento a seguito della risoluzione del contratto non sia tra i più pacifici è testimoniato dallo stato delle dottrine al riguardo, che ha visto il succedersi di diverse prospettazioni. D'altro canto, ha sempre rappresentato un nodo dilemmatico il rapporto tra la natura indubbiamente costitutiva della pronuncia di risoluzione e gli effetti retroattivi di cui la stessa è dotata (art. 1458), retroattività la cui valenza, tuttavia, in termini di risarcimento e\o restituzioni può apparire ambigua. l'attribuzione di una funzione sanzionatoria e\o risarcitoria al congegno delle restituzioni si è avvalsa di argomenti teorici molteplici e non privi di forza persuasiva. E così, al contraente fedele si deve garantire non solo il risarcimento del c.d. danno positivo, ossia il profitto che esso avrebbe conseguito qualora il contratto avesse avuto esecuzione ma anche voci o componenti del danno negativo, quali i frutti o le utilità da esso perduti per la mancata disponibilità della prestazione a suo carico. Il compito di assicurare il risarcimento delle voci di danno negativo sarebbe spettato al regime delle restituzioni raccordato alla normativa dell'indebito (art. 2033). La principale contraddizione cui un siffatto sistema perviene è stata denunciata da una attenta dottrina quando ha osservato che si viene a garantire al contraente risolvente la possibilità di cumulare il danno positivo con voci rilevanti di danno negativo, così da lucrare complessivamente un profitto complessivo addirittura superiore a quello che avrebbe realizzato tanto se il contratto avesse avuto regolare esecuzione quanto se non lo avesse concluso.
Più mature riflessioni inducono a condividere quel già la maggioranza della dottrina ha enunciato e che ora riceve anche l'autorevole avvallo della Corte di Cassazione. In realtà è il frutto di più adeguati approfondimenti sul versante restituzione-risarcimento e, in particolare, della raggiunta autonomia di cui si gode la tutela restitutoria a fronte di quella risarcitoria. La diversa struttura dei rimedi è del resto confacente alla diversa funzione da essi esercitata. Mentre il rimedio a carattere restitutorio obbedirà tendenzialmente all'esigenza di assicurare al solvens la stessa prestazione da esso eseguita o il valore di essa ove la restituzione non sia possibile, il risarcimento ha come esclusivo parametro la perdita patrimoniale dal soggetto subita, onde sarà dovuta una somma a compensazione del danno prodotto.
CASSAZIONE CIVILE - Sezioni Unite, 17 febbraio 1995, n. 1712.
Nei debiti di valore, come in quelli di risarcimento, l'equivalente pecuniario rivalutato soddisfa il credito per il bene perduto ma non anche il mancato godimento della utilità che avrebbe potuto dare il bene, a rimpiazzare le quali, tra gli altri criteri presuntivi ed equitativi, può soccorrere la corresponsione di interessi. detti interessi, il cui tasso non deve essere necessariamente quello legale, vanno calcolati, anno per anno, sul valore della somma via via rivalutata nell'arco del ritardo.
La Corte di Cassazione torna sul tema dei debiti di valore nelle obbligazioni pecuniarie e del rapporto intrattenuto da tale forma di debiti con l'obbligazione degli interessi e con la rivalutazione monetaria. Si trattava, nel caso di specie, di un tipico debito di valore a carico dell'Amministrazione statale per avere ordinato la demolizione di un edificio pericolante, e ciò in assenza dei presupposti di legittimità del provvedimento. Il danno subito dal proprietario dell'immobile era costituito dal valore del bene e proprio tale valore doveva reintegrare l'obbligazione di risarcimento gravante sull'Amministrazione. A tale forma di danno (danno emergente) doveva aggiungersi il corrispettivo del mancato tempestivo godimento dell'equivalente pecuniario del bene predetto (lucro cessante). Ne esce confermata in primo luogo la tesi che il debito di valore, a differenza di quello di valuta, non costituisce una particolare categoria di debito pecuniario ma una figura pretoria che deve consentire per debiti aventi causa diversa dalla dazione di somme di denaro che la liquidazione di denaro tempore solutionis sia esattamente commisurata a tale causa. Nella sentenza in epigrafe si fa riferimento al debito di valore quale "categoria che il diritto giurisprudenziale ha creato da alcuni decenni". In altra precedente statuizione si aveva riguardo all'origine empirica e casistica del debito di valore che continua a dimostrare una notevole capacità espansiva, legittimandosi sul piano dell'effettività giurisprudenziale (Cass. 20 giugno 1990, n. 6209).
La compatibilità dell'obbligazione di interessi con il debito di valore è un capitolo tormentato del tema che ci occupa. L'obbligazione degli interessi nasce quale debito accessorio dell'obbligazione pecuniaria, strettamente incollato alla stessa. L'obbligazione di interessi trova collocazione più nella sede della proprietà, con riguardo ai frutti civili delle cose che non in quella delle obbligazioni e dei contratti. Si spiega in tal modo la difficile convivenza di una regola, come quella codificata all'art. 1282, e alla cui stregua tutti i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto, salvo che la legge o il titolo stabiliscono diversamente e l'art. 1224 che tiene fermo all'opposto, il principio degli interessi da mora. Con riguardo ai debiti di valore il diritto giurisprudenziale ha coniato gli interessi compensativi, destinati a compensare il creditore del ritardo con cui le somme vengono corrisposte. La dottrina non ha fatto buon viso alla categoria degli interessi compensativi, perché ritenuta spuria mentre nessun ostacolo ha ravvisato nell'addossare anche al debitore da risarcimento la responsabilità da ritardo giacché, trattandosi di fatto illecito, esso dovrà ritenersi in mora a far tempo dal fatto illecito e cioè nei termini del pagamento di interessi moratori. Ma più recenti passi indietro della giurisprudenza hanno avuto cura di meglio correggere il tiro, criticando la formula meramente equitativa dell'interesse compensativo per recuperare quella del rimedio contro il ritardo, e cioè quale rimedio contro una parte di danno autonoma e diversa rispetto a quella costituita dal danno emergente. In questo filone si colloca anche la sentenza che qui si commenta, anche se essa tenta una felice mediazione linguistica nei termini di una compensazione del ritardo, il che dovrebbe avvertire che, tra i presupposti di esso, non vi ha la normale imputabilità. Di qui resta ferma l'inapplicabilità ai debiti di valore del rimedio di cui all'art. 1224.
Negli indirizzi segnalati si dà per scontato che, per i debiti di valore, possa esservi cumulabilità tra la rivalutazione del debito e gli interessi. L'aver ribadito che sia l'una che gli altri rispondono a diverse funzioni, l'una al risarcimento del danno emergente, gli altri a quello del lucro cessante, è il migliore argomento in favore di tale cumulabilità.
Privacy |
Articolo informazione
Commentare questo articolo:Non sei registratoDevi essere registrato per commentare ISCRIVITI |
Copiare il codice nella pagina web del tuo sito. |
Copyright InfTub.com 2024