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OBBLIGAZIONI PECUNIARIE

diritto



OBBLIGAZIONI PECUNIARIE

Il denaro è comunemente inteso quale misuratore di valori e quale strumento o mezzo di scambio. Ove si accentui nel denaro la funzione di "moneta di conto" si evidenzia l'attitudine del denaro ad essere il generale parametro secondo il quale si misura il valore di beni o l'ammontare di debiti. Ove invece si ravvisi nel denaro la funzione di essere uno strumento di scambio, si guarda evidentemente al denaro come merce. A ben riflettere le diverse accezioni di denaro hanno influenzato le dottrine sulle obbligazioni pecuniarie, accentuando più o meno il distacco di queste ultime dalle obbligazioni di cose. Le regole in astratto concorrono a risolvere i conflitti che possono sorgere con riguardo all'uso del denaro sono quelle di "appartenenza" e di "distribuzione". Occorre riflettere sul fatto che regole astratte di appartenenza presupporrebbero che il denaro possa essere considerato quale cosa che può formare oggetto di diritto e ciò ai sensi della regola di cui all'art. 810, mentre, con riguardo al denaro, è proprio l'ancoraggio ad una cosa ad essere opinabile. Nel codice tedesco è detto espressamente che cose nel senso della legge sono solo gli oggetti corporali. Non si tratta di insistere sul carattere intrinsecamente fungibile del denaro quanto sul fatto che esso, come entità, non rileva di per sé per la sua consistenza materiale ma in quanto simbolo o segno di un astratto potere patrimoniale. Secondo taluno il massimo di tutela che l'ordinamento può offrire a chi detenga legittimamente banconote corrisponde in parte alla tutela possessoria e non alla tutela proprietaria. Resta quale vantaggio che l'applicazione delle regole possessorie sarebbe in funzione della protezione dei terzi possessori di buona fede (1153) e quindi alla più agevole circolazione del denaro, senza impacci dovuti all'applicazione delle regole proprietarie. Ma ad una applicazione di regole siffatta osterebbe il fatto che il denaro è insofferente a figurare quale oggetto di vicende traslative, come qualsiasi altro bene mobile, ma di traditio meramente materiale. Insomma, la detenzione, pur illegittima di somma, non sembra possa essere rei-perseguita sul terreno della tutela possessoria né condizionare l'efficacia dei pagamenti. Eppure, anche in scritti significativi si è sempre prospettata l'esigenza che la tutela del denaro 131e44b non fosse solo quella assicurata ai creditori di somme ma anche a coloro che tali somme già detengono nel loro patrimonio e che aspirano a difenderle verso l'esterno. L'idea di fondo è che il denaro, se non oggetto di proprietà, come un qualsiasi altro bene, è tuttavia parte e\o oggetto del patrimonio e, come tale suscettibile di tutela in astratto come lo è il patrimonio o parti di esso. Ove si riconoscesse che anche le somme di denaro possono essere oggetto di considerazioni in termini di spettanza o di appartenenza, in quanto entità depositarie di valori, e quindi non solo quali somme dovute, si otterrebbero risultati operativi nella direzione di una effettiva tutela di coloro che quelle somme debbono essere riconosciuti sostanzialmente proprietari e non meri creditori. Lungo la via che porta a tale risultato vi è una estensione della tutela rei-persecutoria anche ad entità che non si rapportano a cose corporali et similia.



Il denaro si presenta alla soglia dei contratti pressoché esclusivamente quale sub specie di obbligazione o di debito. Anche questo è il risvolto della difficoltà ad accostare il denaro alle cose. La difficoltà sistematica e pratica di concepire una tutela rei-persecutoria della somma di denaro trova conferma anche per il diritto dei contratti. La qualificazione del denaro nella veste di interesse quale frutto civile della res potrebbe testimoniare del contrario, o meglio della possibilità che il denaro figuri appartenente a taluno e che da esso derivino frutti, appunto sub specie di interessi a favore del proprietario, così come frutti derivano dalla cosa mobile e\o immobile. Mentre nel codice ottocentesco gli interessi dei capitali rappresentavano i frutti civili che si ottengono per "occasione della cosa", il codice vigente fa menzione del corrispettivo del godimento dei capitali, con ciò alludendo alla vera e propria regola operazionale ivi sottesa, ove la spettanza dell'interesse è in funzione di corrispettivo del godimento dato ad altri del capitale. La "evaporazione" della regola di appartenenza fa sì che l'interesse figuri quale credito del titolare della somma di denaro, la cui soddisfazione è sottoposta alla regola del concorso degli altri creditori (2741) e al principio generale della responsabilità patrimoniale del comune debitore (2740).

I maggiori problemi giuridici della moneta si incentrano proprio, oltre che sulla qualità di mezzo di pagamento della stessa, sul divario di valore che può intervenire nel lasso di tempo che può intercorrere tra la nascita del debito e la sua soddisfazione. L'obbligazione pecuniaria, per definizione, è proprio l'espressione di una situazione che può definirsi di "moneta sospesa" ossia del trascorrere da mezzo di acquisto a mezzo di pagamento. Il fattore temporale è quello che distingue i due aspetti.

Una disciplina espressamente dedicata alle obbligazioni pecuniarie mancava nel codice del 1865, sempre sulla falsariga di quello francese. Ai principali problemi posti dalle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di denaro, rispondevano specifiche disposizioni, come quella che, in tema di prestito di denari, stabiliva che l'obbligazione risultante da un prestito di denaro è sempre della medesima somma numerica espressa nel contratto e che, anche nel caso di aumento o diminuzione della monete prima che scada il termine di pagamento, il debitore deve restituire la somma numerica prestata. Le dottrine riconoscevano in tali regole il principio del valore nominale. Il codice del 1942 eleva invece le obbligazioni pecuniarie a specie di obbligazioni, mettendo assieme disposizioni di varia origine e natura. Delle norme ivi riunite la principale, quella contenuta all'art. 1227, ribadisce la rilevanza anche civilistica, dell'obbligo del creditore di accettare in pagamento moneta avente corso legale (e per il valore nominale). Il vero è che l'affermazione del valore nominale non dovrebbe essere di pertinenza della legge della moneta ma semmai di quella dell'obbligazione. Le parti possono sottrarsi al principio nominalistico, introducendo nel contratto le clausole di salvaguardia. Le obbligazioni pecuniarie tornano ad essere richiamate sub specie damni all'art. 1224 nella sede dell'inadempimento, ove figura riprodotta la regola ottocentesca che l'obbligazione tardivamente adempiuta produce automaticamente interessi, senza che il creditore sia tenuto a dare la prova del danno subìto. La connessione tra l'obbligazione pecuniaria e la produzione di interessi trova in ciò consacrazione. Per altro verso sembra che il legislatore del 1942 abbia voluto accorciare la distanza tra l'obbligazione pecuniaria e quella avente per oggetto cose diverse dal denaro, allorquando, sempre sul terreno dell'inadempimento, ha ammesso il creditore a richiedere il risarcimento del maggior danno (1224 comma 2).

È ormai prassi citare, tra le più significative innovazioni apportate in materia di obbligazioni pecuniarie, quella recata all'art. 429 comma 3 c.p.c. quale risulta dal testo modificato con la legge n. 533 del 1973. Si afferma che il giudice, nel pronunciare condanna al pagamento di somme di denaro per i crediti di lavoro, deve determinare, oltre agli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subìto dal lavoratore per la diminuzione del valore del suo credito e ciò con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto. Vi sono state contrapposte interpretazione del testo dell'art. in esame: l'una diretta a dimostrare la rottura introdotta da tale regola con quella di diritto comune sul pagamento tardivo di debiti di denaro (1224); l'altra tendente invece a sostenere la compatibilità di tale regola con i principi di diritto comune e ciò nel senso di una possibile interpretazione autentica dell'art. 1224 comma 3 c.c.. L'esito di siffatta discussione non può certo diminuire il rilievo di una regola che ha introdotto uno jus singulare a favore dei crediti di retribuzione, il quale si è esteso anche ai crediti previdenziali per effetto di una pronuncia della Corte Costituzionale.

Si è soliti considerare gli interessi quale parte accessoria di una obbligazione principale di denaro. Essi costituisco il corso del decorso del tempo riferito alla disponibilità di una somma di denaro.

L'obbligazione di interessi è la forma che assume la dissociazione che può venire a crearsi tra proprietà e godimento del denaro. Essa può essere l'effetto di un godimento concordato di somme ma anche alla detenzione illegittima di esse, come ha luogo nell'indebito (2033). Anche nel pagamento ritardato di somme vi è tale dissociazione poiché il debitore, in realtà, trattiene somme dovute al creditore (1224). La stessa ratio opera a carico del mandatario che non restituisce puntualmente le somme riscosse per conto del mandante o a carico di quest'ultimo per le somme dovute al mandatario. Del ricorso all'obbligazione invece non c'è in fondo bisogne quando forme di appartenenza e di godimento si riuniscono nello stesso soggetto, come accade nel capitale gravato da usufrutto. In tal caso l'usufruttuario fa suoi gli interessi del capitale in base ad una regola di appartenenza. La letteratura è solita distinguere tra interessi corrispettivi, moratori e compensativi. Alla base vi sarebbe una differenza di funzioni. L'interesse è corrispettivo quando esso costituisce il naturale compenso per l'uso del capitale. Esso è invece moratorio quando tende a risarcire il danno da ritardo nel pagamento subìto dal creditore. L'interesse compensativo è invece di incerta definizione: la norma di legge ha riguardo, nel caso  della vendita, alla condizione di venditore, che pur avendo consegnato cosa fruttifera al compratore, non può ancora riscuotere il prezzo perché inesigibile (1499).sicuramente l'interesse compensativo sembra prescindere dalla mora e dalla scadenza del debito. La distinzione tra i debiti di valuta e debiti di valore costituisce altro dei punti topici che alimentano da tempo la tematica delle obbligazioni pecuniarie. Alla distinzione si rimprovera di costituire una singolarità del diritto italiano, che non trova equivalenti negli altri sistemi giuridici. Il principale rilievo è che i problemi che la distinzione intende risolvere possono essere tranquillamente risolti anche in altro modo. Tra i debiti di valore tradizionalmente si collocano quelli di risarcimento da fatto illecito e da inadempimento contrattuale, il rimborso di somme per miglioramenti o spese effettuate in ordine a cose nonché i debiti di arricchimento. I debiti ex negotio vengono invece solitamente annoverati tra quelli di valuta e tali sono anche quelli che derivano da negozio annullato, rescisso o risolto. I debiti assicurativi sono divisi tra l'una e l'altra categoria; nell'assicurazione della responsabilità civile è apparsa prevalente la considerazione della natura contrattuale del debito dell'assicuratore, anche con effetti verso il terzo danneggiato, nell'assicurazione contro danni si ripropone invece la dissociazione tra la valutazione del danno all'epoca del sinistro e la sua liquidazione in denaro. Tra le conseguenze negative dell'adozione dei debiti di valore si denuncia il cumulo tra la svalutazione e gli interessi, tranquillamente applicato dalla giurisprudenza in materia di risarcimento dei danni, e che induce, secondo taluno, ad ipotizzare un doppio lucro di cui goderebbe il creditore danneggiato. Di tale lucro non può giovarsi invece il creditore di valuta, il quale ha l'onere di dimostrare il maggior danno da svalutazione (1224 comma 2) e comunque questo danno non si cumula ma si integra con quello coperto dagli interessi. A colmare il divario, con riguardo ai crediti di retribuzione, ha provveduto la legge con l'art. 429 comma 3 c.p.c.. Il vero è che l'appunto critico rivolto alla categoria del debito di valore è di essere inconsistente, di non avere cioè la sostanza di una obbligazione pecuniaria. La valutazione dunque in denaro del danno e quindi la qualificazione della somma dovuta non possono che avere luogo che nel momento della liquidazione di esso ad opera del giudice.

Il diritto vigente si è incaricato di smantellare gradualmente la concezione reale di pagamento. Quanto alla prassi la direzione di marcia è di considerare, quali equivalenti e\o sostitutivi del trasferimento materiale di denaro, l'acquisto di diritto di credito e\o comunque di diritti di prelievo verso soggetti dotati di particolare "affidabilità", quali per antonomasia sono gli istituti bancari e simili. Passaggio intermedio può considerarsi l'uso di assegni e\o di titoli di credito, in cui il pagamento è ancora affidato al possesso di cose, equiparate ai beni mobili ai fini della regola "possesso vale titolo". Trattasi tuttavia di cose perché costituite da documenti rappresentativi di crediti in essi incorporati. Il vantaggio è di far circolare tali crediti alla stessa stregua di cose. La regola del diritto codificato secondo cui il pagamento con assegni necessità del consenso del creditore, trattandosi di datio in solutum, tende sempre ad essere erosa dalla contro regola di matrice consuetudinaria che giudica ormai superfluo quell'assenso e ciò anche alla stregua di un principio di correttezza e buona fede. Al binomio effetto solutorio-risultato satisfattorio sembra invece apportare deroga la normativa recente sull'uso del contante e dei titoli al portatore (n. 197 del 1991) la quale vieta il trasferimento tra privati di denaro contante e di titoli al portatore ove il valore da trasferire superi complessivamente i venti milioni e autorizza invece tale trasferimento per il tramite di intermediario abilitato. Ai sensi di tale normativa il debitore è liberato dall'obbligo allorquando ha comunicato al proprio creditore che l'intermediario ha accettato la disposizione recante l'incarico affidatogli. In linea di massima si può dire che la tendenza è di considerare un sistema di accordi e\o di intese purché intercorse con soggetti particolarmente abilitati e quindi affidabili, quali equipollenti delle forme tradizionali di trasferimento del denaro. In una delle prime trattazioni aventi per oggetto la moneta (1928) l'autore metteva le mani avanti, nel dichiarare di non voler offrire una minuta trattazione giuridica del tema ma, più modestamente, una serie di rilievi. Tuttavia l'opera dello studioso non si concluse negli anni trenta ma solamente trenta anni dopo (1063), allorquando iniziò a commentare le obbligazioni pecuniarie per il nuovo codice del 1942, pur nella consapevolezza che, trent'anni dopo, all'indomani della fine del secondo conflitto mondiale e nel contesto del boom economico degli anni sessanta, le preoccupazioni sarebbero state ben altre, e perciò anche diversi i caratteri del commento e del volume del 1928. La legislazione ha provveduto, essa, a demolire buona parte di un sistema teorico così faticosamente elaborato e, segnatamente, muovendo dal principio nominalistico, ha introdotto in esso brecce, più o meno significative, e così di volta in volta legittimando tecniche di valorizzazione dei crediti o manovrando il tasso di interesse. Ma il vero è che la manovra della moneta, specie ove considerata in un contesto europeo, sfugge ormai al manovratore nazionale, per passare a quello europeo. Il che induce a ritenere che un qualsiasi contributo sistematico sulle obbligazioni pecuniarie andrebbe oggi riscritto. La moderna dottrina delle obbligazioni pecuniarie sembra aver abbandonato il modello dell'obbligazione di cose, per tornare ad una forma di obbligazione che vede nell'obbligazione pecuniaria principalmente la garanzia del conseguimento di un astratto potere patrimoniale, ossia di un potere sulle cose del mondo. Ebbene il sistema giuridico e in particolare il diritto delle obbligazioni forniscono alla funzione universalmente accettata i congegni opportuni per assicurare l'osservanza e l'effettività dei risultati. Si può inoltre dire che lo stesso principio del valore nominale appartiene più alla legge della moneta, in quanto depositaria di un valore imposto dallo Stato, che a quella di obbligazione. Secondo la legge dell'obbligazione, la moneta, pur considerata quale mezzo di pagamento, dovrebbe mantenere costante la sua ragione di scambio con beni e utilità. Se quella ragione di scambio dovesse invece successivamente alterarsi e in misura non indifferente, l'obbligazione ne dovrebbe tenere di conto, anche per il rispetto dovuto alla volontà delle parti.

NOZIONI PRELIMINARI

Si può dire che l'obbligazione pecuniaria sia venuta a ricoprire i due massimi settori dei rapporti di diritto privato: essa è presente ab origine nei rapporti di scambio; è il risultato altresì della conversione in valore di scambio di valori d'uso rimasti irrealizzati. Occorre chiedersi se sia il denaro a determinare la peculiarità dell'obbligazione che lo ha per oggetto o se è l'obbligazione ad assegnare una peculiare forma giuridica al denaro. Una risposta appagante non potrebbe essere data né nell'uno né nell'altro. Le diverse funzioni sembrano corrispondere a quelle del denaro quale strumento di scambio e\o unità di misura dei valori. I giuristi sono molto attenti a distinguere queste funzioni, che danno luogo peraltro a strutture e tecniche diverse, giacché i problemi sollevati ad es. dal denaro quale mezzo di pagamento sono diversi da quelli sollevati dall'esigenza di dare espressione monetaria al valore di beni o di redditi, distinguendosi dunque dalla tematica dei debiti pecuniari quella del ricorso alla moneta per meri fini di valutazione.

La dottrina che si è occupata di obbligazioni pecuniarie si è cimentata nel raffronto tra le obbligazioni pecuniarie e la teoria delle obbligazioni. I termini posti a raffronto sono stati il denaro e l'obbligazione. Tale indirizzo è stato contestato da chi ha osservato che non esiste una nozione di denaro in funzione della teoria dell'obbligazione ma che il problema principale resta quello della forma di denaro e che la diversità dell'obbligazione avente oggetto denaro è diversità dipendente dalla peculiarità dell'oggetto. Potrebbe ricondursi questa diversità di indirizzi ad una diversità d'angolo visuale, tendendosi, secondo una prima prospettiva, a privilegiare l'analisi della forme di denaro, a prescindere dagli impieghi giuridici cui il denaro è sottoposto e, per contrapposto, secondo altra, a guardare al singolo impiego giuridico del denaro. È naturale che l'inclinazione dei giuristi sia per questa seconda prospettiva. L'elaborazione indubbiamente più nota del concetto di obbligazione pecuniaria risale al Savigny. Possono assumersi quali passaggi significativi di tale elaborazione, la critica di una considerazione di denaro sub specie della prestazione di cose generiche ossia della prestazione di cose rilevanti per la loro appartenenza ad un genus. La critica savignyana muoveva dalla piena consapevolezza che i problemi posti dall'obbligazione pecuniaria fossero altri da quelli posti da una qualsiasi obbligazione generica. Si dovrebbe risolvere il problema alla stregua dei principi sull'interpretazione dei negozi giuridici, specificandosi ulteriormente il problema nel compito di verificare se il contenuto di un debito di denaro sia da intendere nel senso del valore nominale, di quello metallico o di quello corrente della somma di denaro espressa nel negozio. La risposta del Savigny è nel senso che la somma di denaro espressa è in funzione del valore corrente al tempo del negozio. Di questa elaborazione sono stati evidenziati di volta in volta la scelta antinominalistica, consistente nel negare una qualsiasi funzione creativa allo stato in ordine all'attribuzione della qualità di denaro a singole cose, giacché l'acquisto di tale unità deve ricondursi al generale riconoscimento sociale del valore di denaro degli oggetti considerati e ciò nella comune convinzione di ciascuno di dovere accettare cose in ragione di quel valore perché anche tutti gli altri le accettano per la stessa ragione. Il ricorso invece alla categoria generica è difeso invece da altri autori, i quali argomentano dalla naturale fungibilità del denaro. Tale natura è accentuata da quegli autori che definiscono il debito di denaro come debito di valore. Se l'obbligazione pecuniaria è obbligazione generica, non vi sarà più obbligazione pecuniaria se i pezzi monetari da prestare vengono presi in considerazione per le loro caratteristiche individuali, e non in quanto unità pertinenti ad un genus più ampio. Ma la riconducibilità dell'obbligazione pecuniaria alla categoria dell'obbligazione generica appare tesi difficilmente difendibile. Contraddittoria appare infine quella concezione che, dopo aver definito il denaro qual mezzo di pagamento, pretende di assumere tale definizione all'interno di uno schema tradizionale di obbligazione, dandosi così come risultato, contraddittorio, uno schema di obbligazione che ha ad oggetto un mezzo di pagamento. Le dottrine successive al Savigny cercheranno di riaccostare l'obbligazione pecuniaria e l'obbligazione di cose. Chiave di lettura è l'esigenza che la prestazione venga quantitativamente determinata. La differenza non sta tanto nell'oggetto della prestazione, come sempre si è ritenuto, ma nel criterio per misurarla quantitativamente, mensura e mensuratum debbono ritenersi distinti. Per il debito di denaro si ricorre invece ad una unità legale (lira) o materiale (oro o argento) di misura dei valori. Tali misure sono alterabili. Questo è il pensiero dell'Ascarelli, il quale ha dedicato al tema delle obbligazioni pecuniarie apporti significativi. Ascarelli perviene a caratterizzare la forma del debito di denaro in base a questo triplice criterio:

dell'oggetto della prestazione (consistente in pezzi monetari);

della sua appartenenza allo schema delle prestazioni di genere;

della determinazione quantitativa di esso nei termini di unità di misura dei valori.

È necessario il contemporaneo concorso di queste caratteristiche per aversi l'applicabilità della normativa dei debiti di denaro. La particolare ricostruzione concettuale dell'Ascarelli è destinata ad avere riflessi non trascurabili:

sul significato e portata da assegnare al principio del valore nominale della moneta;

sulla distinzione di tale principio da quello dell'obbligo di accettazione nel pagamento di moneta per il suo valore nominale;

sul ruolo da assegnare al ricorso ad unità di misura diversa da quella legale.

Ad essere opinabile è il criterio metodico di fondo consistente nello sforzo di ricondurre il debito di denaro al modello della obbligazione generica di cose e alla problematica posta dal ricorso ai criteri di determinazione quantitativa della prestazione. Si dovrà ritenere superata la distinzione tra mensura e mensuratum col progressivo distacco della prestazione di denaro da quella di cose, giacché il problema della unità di misura avrebbe finito con l'identificarsi col problema stesso del mensuratum. Avrebbe contribuito a tale identificazione il fatto che gli stessi pezzi monetari sarebbero stati denominati in funzione dell'unità di misura, così da far apparire una inutile complicazione teorica la distinzione tra mensura e mensuratum.

Altro scrittore ha osservato come il problema che pone l'obbligazione pecuniaria non è quello della determinazione del suo oggetto ma della quantità di moneta da corrispondere al momento della scadenza del debito. La circostanza che la legislazione (1277 c.c.) si incarichi di definire quale è la specie di moneta con la quale il debitore ha l'obbligo di pagare e il creditore l'onere di accettare (money of payment) non ancora risolve il problema della quantità di moneta da corrispondere per estinguere il debito (money of contract). Si può dire che, se il primo tipo di problema è proprio e comune di ogni obbligazione generica, il secondo è peculiare dei debiti di denaro. I concetti richiamati trovano un preciso referente materiale nell'andamento degli scambi o meglio nella evoluzione subita dal processo di circolazione delle marci e nel diverso ruolo e funzione che è andato assumendo, in tale processo, il denaro. Possono apparire considerazioni ovvie ma è certo che, essendosi venuto sempre più accentuando il fenomeno della separazione tra la cessione della merce e la realizzazione del suo prezzo, il denaro è venuto assumendo la funzione di mezzo di pagamento. Il che significa che il denaro, se inizialmente aveva la funzione di rappresentare il valore della merce oggetto di scambio, diventa ora fine a sé stesso della vendita, per una necessità sociale che sorga dalle condizioni stesse del processo di produzione. A ciò si accompagna anche un mutamento nei ruoli giuridici tradizionali, giacché al venditore tenderà a sostituirsi il creditore e al compratore il debito.

FENOMENOLOGIA DEI DEBITI DI DENARO

Sin da quando il denaro è venuto distaccandosi dal mondo delle merci ed è venuto sempre più acquisendo il valore di segno o simbolo di un astratto potere di acquisto, si è posto il problema del valore da attribuire alle somme offerte in pagamento, se quello recato nominalmente dalla somma dovuta o il valore effettivo risultante dal suo potere di acquisto riguardato al tempo del contratto o al tempo dello scioglimento. Si sono così contrapposte nel tempo dottrine "nominalistiche" e "valoristiche". Alla stregua del primo indirizzo, l'affermazione del principio nominalistico può assumere l'aspetto di una vera e propria dottrina ossia di una concezione di denaro tendente a dissociare lo stesso dal suo contenuto metallico per ancorarne il valore al puro nomen. Trattasi di un predicato, quello nominalistico, derivante dalla filosofia scolastica e contrapposto a quello realistico. È stato altresì riferito il principio nominalistico alla teoria statuale della moneta, giacché, in una circolazione monetaria manovrata e controllata dallo stato, non potrebbe non prevalere una considerazione nominalistica di essa. Ma si è obbiettato che una teoria "societaria" può essere compatibile con il principio nominalistico, ove si tenga presente che la stessa concezione della moneta come ideal unit è il prodotto di un processo avente origini psicologiche e che si svolge a livello della società. Alla stregua invece dell'indirizzo tendente a privilegiare i problemi dei debiti di denaro l'alternativa diventa corposa e concreta, risolvendosi nel problema della determinazione della somma di denaro che il debitore deve offrire in pagamento e dovendosi dunque decidere se bisogna avere riguardo al valore di scambio della moneta ossia al potere di acquisto di essa e quindi alle oscillazioni che essa può subire nel corso del tempo ovvero, e in alternativa, al valore nominale da essa portato e che si assume costante tra il tempo del contratto e quello del pagamento. Venendo all'alternativa tra valorismo e nominalismo, contro l'adozione di un principio valoristico nei debiti di denaro si possono addurre argomenti diversi. Il giurista sarà più sensibile a quell'argomento che fa riferimento alle origini incerte e molteplici delle oscillazioni monetarie, dandosi la possibilità che tali oscillazioni siano da porre in relazione con un fenomeno di generale aumento dei prezzi di beni o servizi oppure, in alternativa, di un aumento della entità del medio circolante, attraverso l'allargamento del credito e altre forme conosciute di surriscaldamento della economia. I fenomeni di deprezzamento della moneta hanno origini più complesse, spesso non sono riconducibili a politiche ben definite, rendendo dunque estremamente difficile anche stabilire la misura della modificazione dell'ammontare nominale dei debiti. Esemplare può considerarsi il fenomeno di deprezzamento del dollaro nel 1939. Nessuno è mai riuscito a capire quali fossero le cause immediate di tale deprezzamento e non prospettandosi dunque neanche lontanamente l'idea che un creditore del 1938 potesse pretendere una maggiore quantità di dollari per il periodo successivo al 1939. Un più generale favore va dunque al principio nominalistico, quale principio che è l'unico compatibile con il modo di produzione capitalistico, e in difetto del quale le contrattazioni si svolgerebbero all'insegna della incertezza e della confusione. In epoche a noi più vicine e in ambienti meno sensibili alla tradizione regalista si è cercato di assegnare al principio nominalistico un fondamento più oggettivo e cioè legato allo stesso movimento dei traffici e degli scambi. Questi gli indirizzi diversi:

la postulata oggettività del principio deriverebbe dal carattere legale di esso, pur sottolineandosi che il principio non viene creato dal nulla, ma dedotto, in via empirica, da una considerazione generalizzante della normale situazione di fatto, in cui le parti contraenti non pensano né comunque hanno riguardo alle oscillazioni monetarie; infatti se vi avessero riguardo introdurrebbero delle clausole di salvaguardia, mentre la legge non può dare valore ad ipotesi non prese in considerazione dalle parti. Si deve ritenere che le parti abbiano inteso contrattare tenendo presente il valore nominale della moneta, così come espresso al corso legale del tempo del pagamento. Il principio nominalistico trova in tal modo la sua giustificazione nell'intenzione, legalmente rilevante, delle parti. È questa la tesi più privatistica e negoziale tendente ad ancorare il principio nominalistico alla volontà delle parti, così da poterne sancire la derogabilità ad opera delle parti medesime.

Una visione antinegoziale vuole offrire invece alla concezione che ravvisa nel principio nominalistico una risposta contro una eventuale rilevanza dei motivi e ponendosi esso dunque in alternativa nei riguardi di un principio valoristico col quale si verrebbe a dare rilievo ai diversi e mutevoli motivi delle parti. Essa tende in realtà a ravvisare nel principio nominalistico l'effetto automatico della scelta, fatta dalle parti, di una unità legale di misura e dovendosi dunque affermare che, per effetto di tale scelta, hanno deciso le parti di correre il rischio delle oscillazioni dell'unità di misura prescelta.

Altra tesi mira a ricondurre il fondamento del principio nominalistico agli stessi principi generali delle obbligazioni, apparendo del tutto naturale e normale, alla stregua di tali principi, che il creditore, di denaro , così come quello di merce, subisca il danno delle oscillazioni monetarie, nell'intervallo di tempo tra la nascita del debito e il pagamento, così come un qualsiasi creditore potrebbe subire il danno derivante dal diminuito valore di mercato della merce acquistata. Ma si dovrà replicare, contro tale tesi, che essa è afflitta dal vizio del considerare il debito di denaro alla stessa stregua di quello di cose, venendosi così a trascurare una evoluzione storica imponente.

Dalle considerazioni che precedono dovrebbe risultare difficile privilegiare l'una o l'altra tesi. Il grado di credibilità delle stesse è direttamente proporzionale alla loro intrinseca coerenza rispetto alle premesse generali da cui muovono. Un fondamento decisivamente pubblicistico al principio nominalistico assegnano quelle teorie che appoggiano il principio all'ordinamento valutario del singolo paese e cioè a quel complesso di norme che regolano la produzione di moneta e il suo uso. È quanto avviene nell'esperienza tedesca con le concezioni pubblicistiche che richiamano il concetto di sovranità monetaria dello Stato. Sul terreno delle manifestazioni di sovranità si colloca il concetto giuridicamente rilevante di denaro, in quanto mezzo legale di pagamento assegnato ad una certa unità di conto.

NOMINALISMO E VALORISMO

A favore del principio nominalistico si sogliono portare diversi argomenti. Nella ricerca di assegnare a tale principio una fondazione non strettamente politica si colloca quella tendenza che collega l'affermazione del principio alla funzione e ruolo del denaro nelle economie sviluppate. Su di un terreno più realistico e di pratica politica si collocano quelle posizioni che esprimono dubbi in ordine alla stessa possibilità razionale di un principio di valorismo generalizzato operante in forma automatica, apparendo invece indispensabile affinché talune categorie di creditori possano godere del beneficio del valorismo. Ma riserve di carattere sia etico che politico potrebbero manifestarsi, specialmente negli attuali modelli di stato sociale, nei riguardi di un'applicazione del principio nominalistico che fosse in stridente contrasto con i più elementari principi di giustizia distributiva. Si dovrà dire tuttavia che tale principio convive e coesiste con l'adozione di sistemi di valorismo parziale, e operanti in forme automatiche o semiautomatiche. Si riconduce in buona sostanza ad una forma di valorismo contrattuale la pratica, introdotta nel nostro paese della contrattazione collettiva per i lavoratori dell'industria, e consistente nella indicizzazione del salario ossia nell'aggancio della entità di esso alle variazioni del prezzo di beni definiti essenziali. Ed è nota altresì la resistenza opposta dai sindacati ad un intervento della legge in tale settore, che finirebbe con il sostituire ad un sistema elastico e contrattato di valorismo uno più rigido e sottratto ad ogni influenza delle organizzazioni sindacali. Alle forme di valorismo che operano in via preventiva si contrappongono forme di valorismo operanti a posteriori o meglio definite di rivalutazione e il cui spazio di manovra è quello non occupato dall'autonomia delle parti. E sarebbe superfluo osservare che l'autonomia delle parti non potrà operare che per singoli casi. Le forme di valorizzazione possono trovare la loro origine in provvedimenti di legge o nelle pronunce dei giudici, dando vita a forme di valorizzazione legale o giudiziale, ma operano soltanto le prime generaliter laddove le pronunce dei giudici diventano significative quando non sono apprezzate per i singoli casi ma si iscrivono in un più complessivo disegno di politica giudiziale. Esemplare comunque di una forma di rivalutazione legale dei crediti è rimasta l'esperienza lasciataci dalla legislazione tedesca degli anni della grande crisi del 1924\25. È invece evidente che il ricorso a forme di rivalutazione, operanti in via legislativa, sarà più frequente nella vasta area del settore di prezzi e\o di canoni bloccati o amministrati. Può chiamarsi, a titolo di esempio, la complessa e contraddittoria legislazione vincolistica la quale stabiliva le percentuali di aumento dei canoni, a seconde della data della locazione. Tale forma non sarà più abbandonata dal legislatore, per cui si assommerà all'effetto della proroga quello dell'aumento dei canoni. In un'ottica singolare sembra essersi posto il legislatore del 1970 che, in occasione della emanazione di nuove norme sul processo di lavoro ha introdotto una forma di valorizzazione dei crediti di lavoro operante a posteriori e per le vie di un giudizio, diretto ad ottenere una condanna del datore al pagamento di somme in favore del lavoratore (429 c.p.c.) e con riguardo alla quale si può parlare dell'adozione di una forma mista che mette assieme l'automatismo della rivalutazione legale con l'aspetto individualizzante della rivalutazione giudiziale.

Un sistema di valorismo contrattuale è indubbiamente quello assicurato dalla introduzione nei contratti delle cosiddette clausole di salvaguardia. Tra le clausole di salvaguardia un posto privilegiato ha avuto storicamente la clausola-oro e ciò in relazione al valore più stabile e costante dell'oro rispetto ad altri metalli o a merci, valore riconosciuto in tutti i mercati. Gli autori sogliono anche esprimere una differenza in termini di un diverso uso della moneta, moneta di pagamento e moneta dell'obbligazione. Distinzione che assume rilievo nei periodi di instabilità, potendosi dare l'eventualità che, in regime di corso legale caratterizzato da inconvertibilità della moneta, il creditore sia costretto ad accettare una quantità di moneta legale rispondente all'ammontare nominale del debito, mentre invece, per contrapposto, se la clausola è definitoria della sostanza dell'obbligazione, il creditore potrà pretendere una quantità di monete corrispondente al "tertium comparationis" a cui si fa riferimento nella clausola. Il vero è che il problema della generale ammissibilità delle c.d. clausole di salvaguardia e cioè di un sistema di valorismo contrattuale ossia di un valorismo in cui siano arbitri i privati non può essere affrontato in termini schematici e riduttivi. Il metodo più appropriato e realistico consiste nel distinguere gli aspetti molteplici del problema. E si dovrà affermare che il problema posto dalle clausole c.d. monetarie non è lo stesso di quello posto da clausole di tipo diverso. Di qui la distinzione tra sistemi che hanno introdotto un regime di corso legale e sistemi che hanno aggiunto al corso legale anche il divieto di ottenere la conversione della moneta (corso forzoso). Approccio più concreto è poi fornito da una considerazione differenziata delle clausole monetarie rispetto alle clausole di tipo diverso. Approccio concreto alla problematica del controllo delle clausole di salvaguardia è invece offerto da quelle esperienze che prevedono forme di controllo amministrativo delle clausole con cui si faccia dipendere l'entità del debito pecuniario dal corso di valuta diversa da quella nazionale ovvero dal prezzo o dalla quantità di oro o altri beni. L'indirizzo giurisprudenziale è per una interpretazione restrittiva di tale forma di controllo in quanto introduttiva di un limite all'autonomia delle parti.

Dal modello descritto non si distacca, se non per alcuni aspetti, la nostra giurisprudenza. Anche essa è tendenzialmente espressione di un indirizzo liberale con riguardo all'ammissibilità dell'introduzione di clausole con cui le parti si premuniscono contro il deprezzamento della moneta legale. Un indirizzo meno favorevole ai privati e che si può definire più fiscale potrà giustificarsi solo quando lo richiedano le esigenze della difesa economica della Nazione, in armonia del resto con le stesse parole delle Relazione del codice civile. È attorno agli anni '40 che si colloca un tale indirizzo nell'intento di tutelare, contro le ragioni dei privati, quelle dello stato e riguardanti l'obbiettivo di una più generale stabilizzazione del livello dei prezzi interni. Il terreno di elezione ideale per l'introduzione di clausole-merci è quello della fissazione del canone di locazione o del corrispettivo di prestazioni di servizi o nella fissazione convenzionale di alimenti, tendendo poi la giurisprudenza ad affermare altresì la validità delle clausole che, pur menzionando direttamente il pagamento in merci, danno al debitore la possibilità di pagare in moneta ragguagliata al valore di un certo quantitativo di merci (canone a riferimento). Si dovrà tenere conto della persistenza di un indirizzo liberale anche con riguardo a regimi di prezzi vincolati e blocco dei canoni (materia di locazione sottoposta a regime vincolistico e a far tempo degli anni '50), ove da attendersi sarebbe semmai un indirizzo diverso. Detto indirizzo ha fatto ricorso, a seconda dei casi, a distinzioni concettuali non sempre pienamente comprensibili. La più nota di queste distinzioni concettuali introdotta dalla giurisprudenza degli anni '40, in materia di locazioni, è tra le clausole di riferimento e di rivedibilità, efficaci le prime e inefficaci le seconde, e sostenendosi l'efficacia delle prime in base al concetto che in esse la volontà iniziale regge automaticamente il succedersi della prestazione corrispettiva che si svolge invariabile nel contenuto economico che è a base del riferimento, solo variando l'espressione monetaria data dal termine del raffronto. Ma si è sostenuto che una tale distinzione ha scarsa consistenza con riguardo ad un regime di blocco dei canoni, perché il problema posto dalla legislazione vincolistica non è quello della differenza tra la predeterminazione o meno del parametro ma quello dell'efficacia di clausole con cui le parti, in forma più o meno diretta, si sottraggono a quei vincoli o a quei criteri di aumento posti dalla legislazione vincolistica.

Sulle forme di rivalutazione giudiziale dei crediti esistono storie separate per i diversi ordinamenti. Il comune indirizzo è di considerare comunque eccezionale l'intervento del giudice in tale materia perché causa od occasione di insicurezza nelle contrattazioni e fonte di un decisionismo che sovente potrà apparire arbitrario. Critici a fautori dell'intervento giudiziale fanno in genere riferimento all'esperienza della giurisprudenza tedesca degli anni '20 come modello alternativo a quello della rivalutazione operante per le vie legislative, gli uni per evidenziarne i rischi e gli svantaggi, gli altri, per esaltarne i meriti. Si è trattato di una forma di rivalutazione non riconducibile ad alcun concetto legale ma affidata al puro apprezzamento del giudice. Questo indirizzo giurisprudenziale i contrappone ad altro indirizzo che aveva invece rifiutato di fare uso di teorie e di principi praticabili alla stregua del postulato secondo cui non poteva considerarsi di pertinenza dei giudici di prendere in considerazione tempi e circostanze per modificare le convenzioni delle parti e sostituire delle clausole accettate dalle parti. La funzione è di correggere rapporti obbligatori ma in situazioni date, tendendosi a sottolineare che la ragione giustificativa di tale intervento va ricercata in specifiche ragioni di carattere sociale. Sotto il vigore del codice attuale, la giurisprudenza ha potuto esercitare una funzione per così dire di supplenza rispetto ad un carente intervento legislativo e ad una iniziativa delle parti che non mostrava eccessiva fiducia nella efficacia di clausole di salvaguardia. Il principio cui la giurisprudenza ha fatto richiamo è quello della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (1467) a seguito del verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, principio non contemplato nel codice abrogato, sotto il vigore del quale si era invece arrovellata la dottrina per individuare analogo principio di sostegno.

Ma no è certo dall'applicazione del rimedio costituito dalla modificazione equitativa delle condizioni del contratto (1467 comma 3) che ci si poteva attendere un significativo indirizzo giurisprudenziale a tutela dei crediti deprezzati. Ben più significativa dovrà apparire l'opera della giurisprudenza costituzionale in quelle evenienze in cui si trattava di difendere il valore economico di un credito contro disposizioni di legge che quel valore finivano con il vanificare proprio attraverso il vigore generalizzato del principio nominalistico, corazzato dal divieto di deroga. E così si può dire che esiste un filo diretto che lega un indirizzo risalente della Corte costituzionale in difesa del valore reale e non meramente simbolico dell'indennità di esproprio ad un indirizzo più recente che, su diverso terreno, si è preoccupato della salvaguardia del valore economico dei crediti ai quali in teoria si dovrebbe ritenere essere applicabile il principio nominalistico. L'indirizzo esposto vede la Corte costituzionale assumersi il ruolo della difesa del valore economico di ragioni di credito alle quali, pure in teoria, sarebbe applicabile il principio nominalistico e cioè quello dell'irrilevanza delle oscillazioni monetarie. E si può dire che, di volta in volta, la Corte costituzionale sia ricorsa a diversi metodi razionali di decisione. Il pericolo temuto è che, attraverso interventi sulla libertà contrattuale ne risulti pregiudicata la garanzia costituzionale del valore economico della proprietà di beni produttivi. È in tale direzione che si viene a forzare anche la normativa sulle obbligazioni pecuniarie, postulando una copertura costituzionale anche al valore economico di tali obbligazioni, ed introducendosi dunque una deroga, pur implicita, al vigore generalizzato del principio nominalistico che quel valore economico può mettere in discussione.

IL PROBLEMA DEI DEBITI DI VALORE

Il problema della individuazione di una categoria di debiti, definiti do valore, contrapposta a quella di denaro, è il problema stesso della sottrazione di determinare categorie di debiti al principio nominalistico e cioè al principio dell'imputabilità dell'ammontare dei debiti nonostante le oscillazioni della moneta. In ordinamenti, come in quello tedesco, la categoria dei debiti di valore è riconosciuta, nel senso appunto di debiti la cui entità non è commisurata ad una espressione monetaria ma al valore di un bene o di una partecipazione, valore che si tratterà poi di esprimere in denaro. Il creditore, in questi tipi di debiti, non subisce le oscillazioni della moneta. Tra tali debiti si annoverano quelli di risarcimento, i debiti derivanti da arricchimento ingiustificato. Negli ambienti di Common Law l'espressione è utilizzata per descrivere quelle situazioni nelle quali i giudici non possono fare a meno di tenere conto delle oscillazioni monetarie. Nel nostro ordinamento la categoria è massimamente di formazione giurisprudenziale, restando l'apporto della dottrina piuttosto marginale. L'alternativa dottrinale all'empirismo dei giudici è consistita nello sforzo di elaborare un criterio di individuazione della categoria che fosse contrapposto al criterio della categoria del debito di denaro. Si è criticato l'indirizzo giurisprudenziale proprio nella misura in cui detto indirizzo ha rifiutato di indicare in positivo un criterio, essendosi limitato a contrapporre alla unitaria categoria dei debiti di denaro un insieme di debiti diversi. Si può spiegare questo indirizzo giurisprudenziale con l'imponenza della svalutazione della moneta nel periodo bellico immediatamente successivo all'ultima guerra. Preoccupazione dei giudici è stata di porre in qualche modo riparo alle conseguenze disastrose del deprezzamento della moneta nei rapporti interprivati. Motivi di congiuntura hanno impedito l'elaborazione di criteri di individuazione più affidanti di quelli rappresentati:

dal riferimento al criterio del debito illiquido;

dal riferimento al criterio dell'esistenza di un bene del quale il debito di denaro rappresenta soltanto un valore succedaneo;

dal riferimento, nei debiti di valore, a cosa diversa dal denaro, quale oggetto diretto ed originario della prestazione.

La dottrina dei debiti di valore intende far capo alla distinzione tra due momenti, quello della valutazione-determinazione di un certo valore astratto e quello della traduzione, in espressione monetaria, di un valore così determinato. Questa impostazione è la più interessante perché si sforza di cogliere il tipo di esigenza cui il ricorso al debito di valore vuole rispondere. Essa non condivide il facile empirismo dei giudici, tendendo a chiedersi, di fronte ad un'espressione monetaria, se essa sia indicativa di una unità di misura dei valori e\o invece di un valore o di una ragione di scambio con beni o con cose, definendosi poi tale valore nei termini di potere di acquisto di beni o cose.

I DEBITI DI RISARCIMENTO

È noto come la problematica dei debiti di risarcimento abbia finito col coincidere con la stessa problematica dei debiti di valore. È più che evidente come su di un indirizzo giurisprudenziale pressoché costante nel riconoscere natura di debito di valore all'obbligo di risarcimento del danno, tanto contrattuale che extracontrattuale e sia che si tratti di perdite di somme o di redditi o di danneggiamento di cose o persone, abbia influito una considerazione dell'interesse dei soggetti danneggiati quale interesse meritevole di particolare tutela. Più empirica e semplicistica sarebbe invece la tendenza a risolvere il problema facendo ricorso al criterio della liquidazione di un debito che si presenta illiquido nel momento in cui viene ad esistenza, onde, anche volendo, la intrinseca impossibilità di applicare ad esso il principio del valore nominale. Tale tendenza lascia del tutto irrisolto il problema riguardante il momento della valutazione e liquidazione, apparsi a qualche autore momenti fondamentali per intendere il significato del problema posto dai debiti di valore. Il rilievo critico appare decisivo: se il momento della determinazione e della valutazione del danno non dovesse avere alcuna autonomia rispetto a quello della sua liquidazione, la problematica dei debiti di valore risulterebbe vanificata. A tale indirizzo non poteva non opporsi un indirizzo tendente ad assegnare generale natura valoristica ai debiti di valore. Ci si riferisce a quell'indirizzo giurisprudenziale che trova la sua summa teorica in una pronuncia del 1966 e avente ad oggetto il risarcimento dei danni per appropriazione indebita di somma e alla stregua del quale si tende ad affermare il principio della eguale natura giuridica dell'obbligazione di risarcimento, quale che sia o possa essere in concreto la fonte e il titolo di essa o la natura del danno. Indirizzo che inspiegabilmente viene disapplicato con riguardo alla sola obbligazione avente ad oggetto il rimborso di spese sostenute dal danneggiato per eliminare o alleviare le conseguenze pregiudizievoli di un fatto illecito. Occorre rilevare che vi per certi versi il ricorso al debito di valore sia più che altro una tecnica di soluzione di particolari conflitti di interessi. Sul terreno del risarcimento del danno questo conflitto riguarda la restaurazione di un equilibrio turbato, restaurazione per la quale non si reputa idonea la forma del debito di denaro quale mezzo di pagamento di un debito già prefissato.

I DEBITI NEGOZIALI

Non esiste una ricetta sicura per discriminare debiti di valuta da debiti di valore. Si possono indicare taluni criteri in presenza dei quali è da ritenere normale e probabile l'esistenza di un debito di valore e\o di valore. Si osserva ad es. da taluno che il discrimen tra debiti di valuta e debiti di valore passa attraverso il filo della distinzione tra debiti da contratto e debiti derivanti dalla legge, giacché solo per i primi potrà aversi il ricorso a quella unità di misura dei valori. L'assegnare invece una base volontaristica, più o meno diretta, all'assunzione di un debito di denaro non aiuta a risolvere quella serie di ipotesi in cui il debito di pecuniario si presenta nella veste di un effetto riflesso di un rapporto di scambio mancato. La circostanza che la giurisprudenza, nella determinazione del supplemento di prezzo necessario per ricondurre ad equità il contratto rescindibile (1450), ritenga rilevante il mutato potere di acquisto della moneta al momento dell'offerta e\o della pronuncia giudiziale non contrasta con i principi sopra elencati. Non contrasta con tali principi per il semplice fatto che, con l'offerta di reductio ad aequitatem, si tende ad uscire dai termini concordati dello scambio. Controversa è la natura dei debiti aventi ad oggetto il pagamento di indennità derivanti da contratto d'assicurazione. L'origine negoziale di un debito pur definito di risarcimento nella forma dell'assicurazione contro i danni (1905)dovrebbe far propendere per il debito di valuta. Si argomenta a contrario del fatto che, nell'accertamento del danno, il valore della cosa assicurata deve essere quello del momento del sinistro (1908) e del mutamento di tale valore bisognerà tenere conto nella liquidazione dell'indennità.

I CREDITI RETRIBUTIVI DI LAVORO

Nell'ambito dei crediti negoziali una posizione particolare spetta ai crediti di lavoro e cioè al credito di retribuzione che rappresenta il corrispettivo della prestazione lavorativa. La tesi prevalente è che si tratti di credito di valuta e cioè di credito pecuniario, cui è applicabile il principio nominalistico (1277) e trovando il suo supporto, tale tesi, nell'originaria concezione, elaborata dall'economia classica e borghese, della retribuzione quale prezzo del lavoro al quale è applicabile la forma di merce. È sulla base di una nozione di retribuzione in senso sociale, quale risultante dal precetto Costituzionale di cui all'art. 36, che si è potuto sostenere la conversione del credito del lavoratore da credito di valuta in credito di valore e così il passaggio dal salario nominale al salario reale.

I DEBITI DI RIMBORSO

Tra i debiti riguardanti un rapporto di scambio e la vasta gamma dei debiti risarcitori si colloca una vasta serie di debiti aventi ad oggetto pagamento di somme e che presentano una connessione più o meno diretta con beni e cose. Questa connessione può presentare forme diverse, la più nota riguardando erogazioni compiute per effettuare riparazioni o miglioramenti. Qualche chiarimento potrà ottenersi riflettendo sul fatto che l'indirizzo vuole essere quello di introdurre una netta differenziazione a seconda o meno che una certa erogazione sia diretta ad aumentare il valore del bene e si sia dunque risolta in un miglioramento ovvero sia diretta a preservare la sola consistenza del bene e privilegiandosi, nel primo caso, quell'erogazione perché diretta all'incremento dei fondi e volendosi, d'altro canto, evitare che di tale incremento abbia ingiustamente a beneficiare il solo debitore dell'indennità. Con un debito così concepito si ottiene il duplice risultato di ragguagliare l'entità del debito al prezzo di mercato del bene e di sottrarre l'avente diritto ai rischi delle oscillazioni della moneta.

LA DISCIPLINA CODICISTICA

La disciplina delle obbligazioni pecuniarie è contenuta negli art. 1227 e seguenti del codice civile. La stessa disciplina sembra ammettere la distinzione tra debiti pecuniari, che sono oggetto della disposizione contenuta nell'art. 1227, e debiti monetari, che sono oggetto della disposizione contenuta nell'art. 1280. Sotto il vigore del codice abrogato non esisteva una disciplina complessiva delle obbligazioni pecuniarie, essendo dettata questa disciplina in occasione del mutuo ed affermandosi tuttavia degli scrittori che tale disciplina sarebbe stata applicabile anche al di fuori del mutuo. L'art. 1227 non sancisce espressamente il principio del valore nominale e si limita a sancire il principio del potere liberatorio della moneta avente corso legale nello stato e per il suo valore nominale. Risulta che al legislatore del 1942 è riuscito stabilire un non facile innesto tra un principio di origine extralegislativa, come quello del valore nominale, ed uno di origine legislativa, come quello del potere liberatorio della moneta legale. Completa la disciplina la regola secondo cui se la somma dovuta è determinata in una moneta non avente corso legale nello stato, il debitore ha facoltà di pagare in moneta legale, ragguagliata per valore alla prima (1277).

L'art. 1280 prevede il debito di specie monetaria avente valore intrinseco. Non è un mistero che la formulazione dell'art. 1280 direttamente si colleghi a quella dell'art. 1822 c.c. abrogato che prevedeva il debito di restituzione di monete d'oro o di argento. È noto altresì che l'art. 1822 del codice del 1865 aveva introdotto una deroga al principio nominalistico. È questa derivazione storica tuttavia a giustificare i limiti della formulazione dell'art. 1280. È discutibile il tentativo di ricomprendere nell'art. 1280 anche la fattispecie di debiti aventi ad oggetto pezzi monetari ma non qualificati in ragione del loro contenuto metallico. E si dovrà concludere che l'art. 1280 è più rivolto al passato che al presente, risultando esso collegato ad un tipo di circolazione monetaria in cui poteva avere un carattere alternativo il riferimento della volontà delle parti al valore intrinseco della specie monetaria convenuta e ciò in deroga all'affermazione della bonitas extrinseca di essa.

L'art. 1278 tratta della fattispecie di moneta estera. Il diretto referente storico dell'art. 1278 era l'art. 39 c.comm. che dettava, come vedremo, regola analoga. L'art. 1278 sancisce il principio della facoltà del debitore di liberarsi con il pagamento in moneta nazionale anziché in moneta estera. Trattasi della regola che viene definita del pagamento in moneta locale. Detta regola non autorizza il creditore a domandare esso il pagamento in moneta locale. Se con il contratto si intende privare il debitore di tale privilegio, la formula usata è quella che il pagamento deve avere luogo effettivamente nella moneta estera convenuta. Degna di attenzione è la ricostruzione teorica dalle dottrine, abbastanza concordi nell'escludere che il debito di moneta estera diventi per ciò solo un'obbligazione alternativa.

La regola accolta dall'art. 1278 è che bisogna tenere presente il corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento, escludendo dunque che tale corso possa essere quello della costituzione del debito ed addossando in tale modo al creditore il rischio del deprezzamento della moneta tra il giorno della costituzione del debito e quello della scadenza. Il senso dell'indirizzo giurisprudenziale è abbastanza chiaro. Quando il debitore intende avvalersi della facoltà di pagare in moneta nazionale, il privilegio che la legge gli concede non lo sottrae all'obbligo di garantire, sino al momento del pagamento, il ragguaglio tra la moneta nazionale e al moneta estera. La regola, tuttavia, del corso del cambio del giorno di scadenza non è quella adottata dalla maggior parte degli ordinamenti. La regola che fa capo al giorno del pagamento è parsa più convincente, giacché il creditore consegue il pieno valore del suo credito.

Il pagamento dei debiti in moneta estera si complica a seguito della legislazione particolare sui cambi con l'estero e che mira ad evitare l'esodo di capitali dal territorio nazionale e a rifornire al tempo stesso lo stato, attraverso le esportazioni, della valuta estera che gli occorre per il commercio con gli altri stati. Tendenza restrittiva è quella che vede la valuta estera come res extra commercium a seguito appunto delle restrizioni valutarie e dovendosi dunque considerare l'obbligazione come obbligazione avente oggetto impossibile o illecito. Le disposizioni restrittive in materia valutaria non determinano l'invalidità del debito espresso in moneta estera ma incidono sulle modalità del pagamento, nel senso che, al di fuori dei casi tassativamente previsti, questo deve essere regolato in valuta italiana, ragguagliato al cambio di quella estera al momento della scadenza del debito attraverso l'ufficio italiano dei cambi. Trattasi di una tendenza più liberale e più adeguata alle esigenze degli scambi internazionali.

SOLVERE EST ALIENARE NEI PAGAMENTI PECUNIARI

L'adempimento dell'obbligazione pecuniaria non solleva particolari problemi. In sede teorica esso ha sollecitato l'interesse dei giuristi per la natura giuridica dell'adempimento, dando alimento alle tesi negoziali, implicando tale adempimento il trasferimento della proprietà dal debitore al creditore. Il principio richiamato è "solvere est alienare". Con il progressivo diradarsi degli obblighi di dare, e ciò a seguito dell'imporsi del principio dell'efficacia traslativa del mero consenso, è potuto apparire che l'obbligazione pecuniaria fosse rimasta il più sicuro modello di obbligazione di dare. Di qui la tesi della natura negoziale del pagamento nel senso dell'esigenza di un peculiare animus trasferendi da parte del solvens.

IL LUOGO DEL PAGAMENTO

Il codice attuale stabilisce che le obbligazioni pecuniarie devono essere adempiute al domicilio che il creditore ha nel momento della scadenza (1182) e cioè sono obbligazioni portables. Si può dire che la regola enunciata dall'art. 1182 comma 3 abbia riguardo al luogo dell'adempimento dell'obbligazione nel senso più rigoroso del termine e comprendendosi nella individuazione di tale luogo anche l'accollo del rischio a carico del debitore. A questo riguardo si distingue agevolmente l'obbligazione pecuniaria dall'obbligazione di merce, nella quale il debitore è liberato da ogni rischio quando, attraverso la consegna della merce al vettore e\o allo spedizioniere, ha luogo il trasferimento della proprietà (1378). L'interpretazione della regola di cui al comma terzo dell'art. 1182 non solleva particolari problemi, solleva invece problemi l'uso o l'impiego che della regola viene compiuto, e ciò secondo criteri estensivi o restrittivi. Il favore dei giudici è per una interpretazione restrittiva della regola, probabilmente in ragione che si temono abusi da parte dei creditori. Questa interpretazione passa attraverso una definizione assai ristretta di obbligazione pecuniaria, definendosi tale quella obbligazione derivante da titolo convenzionale o giudiziale che ne abbia stabilito la misura e la scadenza, in modo che non sia necessaria per la sua determinazione alcuna altra indagine. Una siffatta interpretazione ha naturalmente indotto a escludere, dall'ambito della regola di cui all'art. 1182 comma 3 tutti quei debiti, in cui i quantum non fosse prefissato ma costituisca il risultato di una valutazione effettuata dal giudice. Sono eccettuate le ipotesi in cui la determinazione del credito può avere luogo in base ad elementi già noti e determinati dalle parti, dalla legge, dai contratti collettivi o dagli usi. Altrettanto larga è la maglia delle deroghe convenzionali e costituendo una deroga ad es. il fatto che il creditore abbia accettato di ricevere il pagamento per mezzo di "tratta" e implicando per taluni, questa accettazione, una rinuncia ad avvalersi del foro preferenziale stabilito dall'art. 1182.

LA PATOLOGIA DELLE OBBLIGAZIONI PECUNIARIE

È affermazione comune che le obbligazioni pecuniarie si sottraggono ai principi che regolano l'inadempimento delle obbligazioni. Il distacco di tali principi riguarda la incondizionata responsabilità del debitore di denaro per il mancato adempimento nonché, nell'ipotesi di ritardo, una particolare forfettizzazione legale della misura del danno attraverso gli interessi moratori e ciò a prescindere dalla prova di esso (1224). Per ciò che riguarda la responsabilità del debitore per il mancato pagamento, una dottrina risalente tendeva a spiegare questa responsabilità con i principi delle obbligazioni generiche, nell'ambito delle quali trova vigore il principio "genus numquam perit". Sotto la vigenza del codice attuale, questa incondizionata responsabilità è presupposta nella regola che dichiara il mutuatario di cose diverse dal denaro, la cui restituzione sia divenuta impossibile o notevolmente difficile per causa ad esso non imputabile, tenuto a pagarne il valore al mutuante (1818). A maggior ragione si osserva che tale regola varrà per il mutuatario di somme di denaro. L'affermazione dunque della incondizionata responsabilità del debitore di denaro per il mancato pagamento del debito si converte facilmente in quella dell'irrilevanza, dal punto di vista giuridico, della impotenza finanziaria del debitore. Un tale principio di irrilevanza è indirettamente presupposto nella regola, pertinente alla normativa sulla responsabilità, alla stregua della quale la responsabilità patrimoniale del debitore è illimitata, sia dal punto di vista dell'oggetto come della sua permanenza nel tempo. Tanto vale dire che la responsabilità del debitore acquista carattere di permanenza sino al momento in cui non saranno soddisfatte le ragioni creditorie.

Sul versante dei danni nelle obbligazioni pecuniarie l'interprete incontra la disposizione contenuta nell'art. 1224. L'origine della disposizione si trova in un passo del Pothier che, in risposta al divieto canonistico delle usure, aveva giustificato il pagamento di interessi moratori facendo ricorso al concetto di presunzione di danno provocato dal ritardo nel pagamento di somme di denaro. L'attenzione degli interpreti è richiamata dal fatto che l'articolo corrispondente del nostro codice (1231 c.c. abrogato), con il limitare la liquidazione dei danni ai soli interessi di mora, veniva a sancire l'irrilevanza del deprezzamento della moneta anche sul terreno della liquidazione dei danni oltre che su quello de l pagamento del debito. Se non si ha presente questa evoluzione, non si può intendere significato e portata della nuova formulazione dell'art. 1224. Detto articolo ha l'occhio rivolto al soggetto su cui far gravare le conseguenze del deprezzamento della moneta. La disposizione viene dunque ad iscriversi nella storia delle deroghe al principio nominalistico.

L'allagamento della forma di tutela dell'obbligazione pecuniaria ha determinato non poche complicazioni, specie di ordine sistematico. La formulazione dell'art. 1224, la sua collocazione sono il segno tangibile del tentativo di recuperare le obbligazioni pecuniarie alle forme storiche di tutela delle obbligazioni comuni. La contraddizione principale sarebbe stata nella coesistenza, dentro la stessa forma di tutela, dell'obbligazione di interessi con tutto il corredo di relativi principi, e delle regole generali sulla responsabilità contrattuale per danni. Persuasiva appare la posizione di quanti si oppongono a questa estensione, facendo presente che a risultato non dissimile si può pervenirsi, eliminando inutili forzature interpretative, attraverso i comuni principi sulla responsabilità extracontrattuale per danni e ritenendo ad es. che gli interessi sulla somma non goduta possano rientrare nella comune accezione di mancato guadagno valutato dal giudice con equo apprezzamento ai sensi dell'art. 2056, e sempre che l'adeguamento monetario della somma liquidata dal giudice non sia tale da fornire già adeguata soddisfazione  al creditore danneggiato. Il recupero delle obbligazioni pecuniarie ai comuni principi sulla responsabilità per danni ha trovato il suo punto di appoggio nell'art. 1224, che introduce la possibilità del risarcimento del maggior danno, ove di questo il creditore dia prova secondo i comuni principi. La possibilità d risarcire il maggior danno è esclusa quando è stata convenuta la misura degli interessi moratori. La dottrina non ha dimostrato incertezze nel ritenere compatibile con la forma del debito di denaro una tutela sub specie del danno. Tale tutela viene ad aggiungersi a quella fornita dall'obbligazione di interessi. Le difficoltà potranno riguardare la coesistenza tra due forme di tutela così diverse tra loro. A qualche giudice è parso indiscutibile che della svalutazione si debba tenere conto, ex officio, con riguardo al maggior danno del creditore subito (1224). Alla dimostrazione della compatibilità tra questa enunciazione e il rispetto del principio nominalistico si è adoperata buona parte della nostra dottrina. L'argomento cui essa di preferenza ha fatto ricorso è quello fondato sull'autonomia della mora, fattispecie che si inserisce tra l'obbligazione pecuniaria e il danno da svalutazione. Consapevole che un tale argomento poteva prestare facile bersaglio alle critiche, la stessa dottrina è corsa ai ripari, trasferendo il discorso sul terreno della prova e mirando ad affermare che la svalutazione non è fatto dannoso ma potenziale causa di danno, da dimostrarsi, in concreto, da parte del creditore attraverso la prova di non essere riuscito ad impedire, attraverso un pronto investimento, gli effetti dannosi della svalutazione o di averli direttamente patiti in conseguenza di alienazioni, resesi necessarie, di beni. È conosciuto altresì quell'indirizzo giurisprudenziale risalente agli anni '50 e dominante negli anni successivi, e passato alla storia per l'elencazione di precise condizioni fatte ai creditori: a) la prova di avere risentito un particolare pregiudizio dal fatto di non aver potuto disporre nel momento opportuno della somma; b) e la prova altresì che, trattandosi di inadempimento non dipendente da dolo, il danno derivato più il fenomeno aggravante della svalutazione della moneta poteva essere preveduto dal debitore al tempo del contratto.

La problematica dell'incidenza della svalutazione monetaria sulle obbligazioni pecuniarie è tornata di attualità per effetto dell'introduzione, nel nostro ordinamento dell'art. 429 comma 3 c.p.c., quale modificato dalla legge n. 533 del 1973. Tale norma ha stabilito che il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre agli interessi nella, nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione del suo credito e ciò con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto. L'interpretazione della norma non è affatto pacifica. Si sono fronteggiate diverse interpretazioni:

una prima interpretazione è nel senso della trasformazione della natura del credito, da credito di valuta in credito di valore;

altra interpretazione insiste sulla conciliabilità tra la nuova normativa e la forma di tutela delle obbligazioni pecuniarie, incentrata sull'art. 1224 e ribadisce l'argomento della rilevanza della svalutazione monetaria sub specie damni, con particolari agevolazioni concesse al creditore ritenuto danneggiato, quali, principalmente, la superfluità dell'atto di costituzione in mora e della prova del danno subito. Alla liquidazione di questo dovrà procedere il giudice sulla base del fatto notorio della svalutazione e calcolando la misura di essa in base all'indice ISTAT;

infine vi è chi ritiene che tale art. abbia assegnato alla svalutazione rilevanza di danno causale presunto e avendo in tal modo contribuito a separare la tutela dei crediti di lavoro dalle altre situazioni tutelabili ancora attualmente attraverso il ricorso all'art. 1224.

A fronte delle difficoltà di collocazione sistematica e interpretative, diventa più convincente quel metodo che rifiuta ogni forzatura interpretativa e prende atto del carattere eccezionale del principio introdotto, nel senso di regola che costituisce eccezione al principio della irrilevanza delle oscillazioni per i crediti di valuta. Ad una fase si predominio di vero e proprio diritto pretorio in ordine all'incidenza della svalutazione è subentrata una fase i certezza legislativa, nella quale non vi è più spazio per esercizio di potere discrezionale da parte dei giudici.





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