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Corte Costituzionale:
parzialmente incostituzionale
la Legge Pecorella
Corte Costituzionale |
Sentenza 06/02/2007, n.26 |
La Corte Costituzionale
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 10 della legge 20
febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di
inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promossi con ordinanze del
16 marzo 2006 dalla Corte d'appello di Roma nel procedimento penale a carico di
E. F. ed altri e del 16 marzo 2006 dalla Corte d'appello di Milano nel
procedimento penale a carico di A. M. ed altri, iscritte ai nn. 130 e 155 del
registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 19 e 22 prima serie speciale, dell'anno 2006.
Udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2007 il Giudice relatore
Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Roma ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio
2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di
inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non
consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di
proscioglimento, se non nel caso previsto dall'art. 603, comma 2, del codice di
procedura penale - ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il
giudizio di primo grado - e sempre che tali prove risultino decisive.
La Corte rimettente - investita dell'appello proposto dal Procuratore della
Repubblica avverso la sentenza del Tribunale di Roma, che aveva assolto tre
persone imputate del reato di ricettazione - rileva come, nelle more del
gravame, sia entrata in vigore la legge n. 46 del 2006, il cui art. 1,
sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., ha sottratto al pubblico ministero il
potere di appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per
l'ipotesi delineata dall'art. 603, comma 2, del codice di rito.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe diversi
precetti costituzionali.
Essa risulterebbe lesiva, anzitutto, del principio di eguaglianza, sancito
dall'art. 3 Cost.: consentire, infatti, all'imputato di proporre appello nei
confronti delle sentenze di condanna senza concedere al pubblico ministero lo
speculare potere di appellare contro «le sentenze di assoluzione», se non in un
caso estremamente circoscritto, significherebbe porre l'imputato in «una
posizione di evidente favore nei confronti degli altri componenti la
collettività»; questi ultimi vedrebbero fortemente limitato, in tal modo, il
diritto-dovere del pubblico ministero di esercitare l'azione penale, che tutela
i loro interessi. La possibilità, per l'organo dell'accusa, di proporre appello
nei casi previsti dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. risulterebbe, in
effetti, «poco più che teorica», perché legata alla sopravvenienza di prove
decisive nel ristretto lasso temporale tra la pronuncia della sen 525i89f tenza di primo
grado e la scadenza del termine per appellare.
La norma censurata si porrebbe, altresì, in contrasto con l'art. 24 Cost., non
consentendo alla «collettività», i cui interessi sono rappresentati e difesi
dal pubblico ministero, «di tutelare adeguatamente i suoi diritti»: e ciò anche
quando l'assoluzione risulti determinata da un errore nella ricostruzione del
fatto o nell'interpretazione di norme giuridiche.
Risulterebbe violato, ancora, l'art. 111 Cost., nella parte in cui impone che
ogni processo si svolga «nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parità davanti ad un giudice terzo e imparziale», posto che la disposizione
denunciata non permetterebbe all'accusa di far valere le sue ragioni con
modalità e poteri simmetrici a quelli di cui dispone la difesa.
Da ultimo, detta disposizione lederebbe l'art. 112 Cost. Ad avviso del
rimettente, infatti, la previsione di un secondo grado di giudizio di merito -
fruibile tanto dal pubblico ministero che dall'imputato (così come dall'attore
e dal convenuto nel giudizio civile) - sarebbe «consustanziale» al sistema
processuale vigente: con la conseguenza che la sottrazione all'organo
dell'accusa del potere di proporre appello avverso le sentenze assolutorie
eluderebbe i vincoli posti dal principio dell'obbligatorietà dell'azione
penale, «considerata nella sua interezza».
2. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Milano ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., questione
di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006,
nella parte in cui, rispettivamente, escludono che il pubblico ministero possa
appellare contro le sentenze di proscioglimento (art. 1); e prevedono che
l'appello proposto dal pubblico ministero, avverso una di dette sentenze,
anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge, venga dichiarato
inammissibile, con facoltà per l'appellante di proporre, in sua vece, ricorso
per cassazione (art. 10).
Il giudice a quo premette di essere chiamato a celebrare, a seguito di impugnazione
del pubblico ministero, il giudizio di appello nei confronti di numerosi
imputati, assolti in primo grado dal delitto di truffa aggravata perché il
fatto non sussiste. Medio tempore, era tuttavia sopravvenuta la legge n. 46 del
2006, la quale, all'art. 1, sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., aveva
precluso l'appello avverso le sentenze di proscioglimento, fuori del caso
previsto dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen.; e, all'art. 10, aveva
stabilito, con riguardo ai giudizi in corso, che l'appello anteriormente
proposto dal pubblico ministero vada dichiarato inammissibile, salva la facoltà
dell'organo dell'accusa di proporre ricorso per cassazione contro la sentenza
appellata.
Recependo, in parte qua, l'eccezione formulata dal Procuratore generale, la
Corte rimettente dubita, tuttavia, della compatibilità di tali previsioni
normative con gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost.
La questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, in quanto il suo
accoglimento consentirebbe l'esame nel merito del gravame, altrimenti destinato
alla declaratoria di inammissibilità, non avendo il pubblico ministero proposto
nuove prove ai sensi dell'art. 603, comma 2, cod. proc. pen.
Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente ritiene che
le disposizioni censurate violino, anzitutto, il principio di parità delle
parti nel processo, sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost. Inibendo tanto
al pubblico ministero che all'imputato l'appello avverso le sentenze di
proscioglimento, tali disposizioni attuerebbero, infatti, una parificazione
«solo formale»: giacché, nella sostanza, esse verrebbero a limitare il potere
di impugnazione di quella sola, fra le due parti, che ha interesse a dolersi
delle suddette sentenze, ossia il pubblico ministero.
D'altro canto, alla luce dell'«unica interpretazione possibile» dell'art. 576
cod. proc. pen., come modificato dalla stessa legge n. 46 del 2006, le sentenze
di proscioglimento potrebbero formare invece oggetto di appello ad opera della
parte civile: donde un ulteriore profilo di disuguaglianza, venendo il pubblico
ministero a trovarsi in posizione deteriore anche rispetto a tale parte
privata.
Né l'evidenziata situazione di «assoluta disparità di trattamento» fra le parti
processuali risulterebbe elisa dalla facoltà di proporre appello avverso le
sentenze di proscioglimento nell'ipotesi prevista dall'art. 603, comma 2, cod.
proc. pen., la quale si connoterebbe come «del tutto residuale».
Le norme censurate si porrebbero, per altro verso, in contrasto con l'art. 3
Cost., sotto il profilo del difetto di ragionevolezza.
Alla luce delle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di questa Corte,
infatti - se pure il potere impugnazione del pubblico ministero non costituisce
estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all'esercizio dell'azione penale
- una asimmetria tra accusa e difesa, su tale versante, sarebbe compatibile con
il principio di parità delle parti solo ove contenuta nei limiti della
ragionevolezza, in rapporto ad esigenze di tutela di interessi di rilievo
costituzionale. Al riguardo, il giudice a quo ricorda come - alla stregua di
detta premessa - questa Corte abbia ritenuto costituzionalmente legittime le
disposizioni che non consentono al pubblico ministero di proporre appello, sia
in via principale che in via incidentale, avverso le sentenze di condanna
pronunciate a seguito di giudizio abbreviato (artt. 443, comma 3, e 595 cod.
proc. pen.): valorizzando, a tal fine, le peculiari caratteristiche di detto
rito alternativo. La medesima giustificazione non potrebbe tuttavia valere in
rapporto alle norme oggi censurate, le quali precludono l'appello del pubblico
ministero contro tutte le sentenze di proscioglimento, senza operare alcuna
distinzione tra giudizio abbreviato e giudizio ordinario.
A sostegno della soluzione normativa censurata, non varrebbe neppure invocare -
ad avviso del rimettente - il diritto della persona accusata alla rapida
definizione del processo a suo carico, in forza del principio di ragionevole
durata del medesimo (art. 111, secondo comma, Cost.): diritto che non potrebbe
essere realizzato tramite l'esclusivo sacrificio del potere d'appello della
parte pubblica, senza con ciò infrangere l'altro principio costituzionale - di
non minore rilievo - della parità delle parti nel processo. Sintomatico della
mancanza di ogni ragionevole contemperamento tra i due valori sarebbe, del
resto, il perdurante potere del pubblico ministero di impugnare le sentenze di
condanna, a differenza che nel giudizio abbreviato.
Parimenti, non potrebbe rinvenirsi una ragionevole giustificazione delle norme
censurate nel preteso diritto dell'imputato a fruire, sempre e comunque, di un
doppio grado di giudizio di merito, nel caso di condanna. Un simile diritto non
sarebbe riconosciuto né dalla Costituzione, né dalle convenzioni
internazionali; infatti, il paragrafo 2 dell'art. 2 del Protocollo addizionale
n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali - adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato
e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98 - prevede espressamente che il
diritto dell'imputato a far riesaminare l'affermazione della propria
colpevolezza possa essere escluso, quando tale affermazione promani da una
giurisdizione superiore, o abbia luogo a seguito di un ricorso avverso
l'originario proscioglimento dell'imputato medesimo.
Ancora, non si potrebbe sostenere che, riconoscendo al pubblico ministero il
potere di provare, davanti ad un giudice diverso, l'erroneità del primo giudizio
assolutorio, si incrementerebbe il rischio che venga condannato un innocente,
stante la «disparità di forze in gioco». L'assunto risulterebbe infatti valido
solo in rapporto agli ordinamenti processuali di tipo integralmente
accusatorio, nei quali l'assoluzione o la condanna conseguono ad un verdetto
non motivato; inoltre, dopo la sentenza di primo grado, la ventilata «disparità
delle forze» non sussisterebbe più, dato che «l'accusa non può più perquisire,
intercettare, sequestrare», ma «soltanto argomentare».
Onde legittimare, sul piano della ragionevolezza, i neointrodotti limiti al
potere di impugnazione del pubblico ministero, non gioverebbe nemmeno invocare
i principi del contraddittorio, dell'oralità e dell'immediatezza, avuto
riguardo al fatto che il giudice di appello - diversamente da quello di primo
grado - procederebbe ad una valutazione delle prove di tipo meramente
«cartolare». Tale asserzione non corrisponderebbe a verità in rapporto ad un
buon numero di processi a base «cartolare» (quali, ad esempio, quelli celebrati
con il rito abbreviato). Soprattutto, essa si tradurrebbe in un argomento che
«prova troppo»: rimarrebbe da spiegare, infatti, perché un «giudizio sulle
carte» di proscioglimento abbia maggiore dignità di un analogo giudizio di condanna;
sicché, a seguirlo fino in fondo, l'argomento dovrebbe comportare
l'inappellabilità di tutte le sentenze.
Costituirebbe, infine, «pura petizione di principio» l'affermazione secondo cui
il proscioglimento a seguito del giudizio di primo grado farebbe sorgere, in
ogni caso, un «ragionevole dubbio» circa la colpevolezza dell'imputato,
impedendo quindi che si concretizzi il presupposto per la pronuncia di una
sentenza di condanna ai sensi del novellato art. 533, comma 1, cod. proc. pen.
Il dubbio derivante dalla difformità degli esiti dei due gradi di giudizio
sarebbe, difatti, necessariamente insito in un ordinamento che preveda più
gradi di giurisdizione di merito; d'altro canto, se l'appellabilità della
sentenza di condanna da parte dell'imputato si giustifica a fronte della
possibilità che la decisione di primo grado sia errata, non si comprenderebbe
perché una analoga eventualità non debba imporre, per il principio di parità,
l'appellabilità delle sentenze di assoluzione.
Nessuna ragionevole giustificazione potrebbe scorgersi, poi, alla base
dell'evidenziata disparità di trattamento del pubblico ministero rispetto alla
parte civile, posto che quest'ultima persegue, nel processo penale, un
interesse meramente risarcitorio, che potrebbe essere bene azionato davanti al
giudice civile: quando, invece, il pubblico ministero è la parte pubblica che
«fa valere, anche in sede di impugnazione, la pretesa punitiva dello Stato e
l'interesse pubblico al ripristino dell'ordine violato dal reato».
Considerato in diritto
1. - La Corte d'appello di Roma dubita della legittimità costituzionale
dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di
procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di
proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di
procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa proporre appello
avverso le sentenze di proscioglimento, salvo che ricorrano le ipotesi previste
dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. - ossia quando sopravvengano o si
scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado - e sempre che tali prove
siano decisive.
Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata risulterebbe incompatibile
con gli artt. 3 e 24 Cost., giacché - consentendo all'imputato di appellare
contro le sentenze di condanna, senza accordare al pubblico ministero lo
speculare potere di proporre appello contro le sentenze assolutorie, se non in
una ipotesi talmente circoscritta da apparire «poco più che teorica» - porrebbe
l'imputato in «una posizione di evidente favore nei confronti degli altri
componenti la collettività», i cui interessi vengono tutelati dal
diritto-dovere del pubblico ministero di esercitare l'azione penale, impedendo,
al tempo stesso, una esplicazione adeguata di tale tutela.
Verrebbe violato, inoltre, il precetto dell'art. 111 Cost., in forza del quale
ogni processo deve svolgersi «nel contraddittorio tra le parti, in condizioni
di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale», in quanto la norma
denunciata non consentirebbe all'accusa di far valere le sue ragioni con
strumenti simmetrici a quelli di cui dispone la difesa.
La medesima norma eluderebbe, da ultimo, il vincolo posto dal principio di
obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.), cui dovrebbe ritenersi
connaturata la previsione di un secondo grado di giudizio di merito anche a
favore del pubblico ministero.
2. - La Corte d'appello di Milano dubita anch'essa della legittimità
costituzionale, in parte qua, dell'art. 1 della legge n. 46 del 2006, coinvolgendo
peraltro nello scrutinio di costituzionalità anche la norma transitoria di cui
all'art. 10 della medesima legge. Quest'ultima norma viene censurata nella
parte in cui rende applicabile la nuova disciplina nei procedimenti in corso
alla data della sua entrata in vigore, stabilendo, in particolare - ai commi 2
e 3 - che l'appello già proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di
proscioglimento debba essere dichiarato inammissibile, salva la facoltà
dell'appellante di proporre, in sua vece, ricorso per cassazione entro
quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità.
Dette disposizioni - a giudizio della Corte rimettente - violerebbero gli artt.
3 e 111, secondo comma, Cost., in quanto accorderebbero al pubblico ministero
un trattamento palesemente deteriore sia rispetto all'imputato, che è ammesso a
proporre appello avverso le sentenze di condanna; sia rispetto alla parte
civile, la quale, in base all'art. 576 cod. proc. pen., come modificato
dall'art. 6 della stessa legge n. 46 del 2006, conserverebbe invece - secondo
il giudice a quo - il potere di appellare contro le sentenze di
proscioglimento.
Tale asimmetria non risulterebbe assistita da alcuna ragionevole
giustificazione, che valga a renderla compatibile con il principio di parità
delle parti nel processo, in rapporto ad esigenze di tutela di altri valori di
rango costituzionale.
Quanto, infatti, alla disparità di trattamento tra accusa e difesa, la scelta
legislativa non potrebbe trovare un fondamento razionale nell'interesse
dell'imputato ad una rapida definizione del processo a suo carico: interesse
che non potrebbe essere realizzato a mezzo di una mera menomazione dei poteri
della controparte processuale. Né tale scelta potrebbe fondarsi su di un preteso
diritto dell'imputato medesimo ad un doppio grado di giurisdizione di merito in
caso di condanna: diritto in realtà privo di riconoscimento tanto nella
Costituzione, che nelle convenzioni internazionali in tema di diritti dell'uomo
cui l'Italia ha aderito. Né, ancora, essa potrebbe fondarsi sull'ipotetico
incremento del rischio della condanna di un innocente, indotto dall'appello del
pubblico ministero contro la sentenza di proscioglimento a fronte della
«disparità di forze in gioco», posto che la ventilata «disparità di forze»
verrebbe comunque meno dopo la sentenza di primo grado.
Del pari, non varrebbe evocare i principi del contraddittorio, dell'oralità e
dell'immediatezza, in rapporto alla valutazione puramente «cartolare» del
materiale probatorio operata dal giudice di appello: giacché - al di là del
rilievo che numerosi processi (ad esempio, quelli celebrati con il rito
abbreviato) sono a base «cartolare» in entrambi i gradi di giudizio - non si
comprenderebbe perché un «giudizio sulle carte» di proscioglimento abbia
maggiore dignità di un analogo giudizio di condanna; sicché, ove portato alle
sue logiche conseguenze, l'argomento dovrebbe determinare l'inappellabilità di
tutte le sentenze.
Né avrebbe pregio l'assunto per cui il proscioglimento in primo grado non
consentirebbe comunque di ritenere l'imputato colpevole «al di là di ogni
ragionevole dubbio» - come attualmente richiesto dall'art. 533, comma 1, cod.
proc. pen. ai fini della condanna - posto che la possibile difformità degli
esiti del giudizio sarebbe necessariamente insita nella previsione di più gradi
di giurisdizione di merito. D'altra parte, se l'appellabilità della sentenza di
condanna da parte dell'imputato trova fondamento nell'eventualità che la
decisione di primo grado sia errata, una analoga eventualità non potrebbe non
giustificare, per il principio di parità, l'appellabilità anche delle sentenze
di assoluzione.
Manifestamente illogica risulterebbe, infine, l'evidenziata disparità di
trattamento rispetto alla parte civile, la quale è portatrice, nel processo
penale, di un interesse meramente risarcitorio, utilmente azionabile davanti al
giudice civile: mentre il pubblico ministero è la parte pubblica che fa valere,
anche in sede di impugnazione, la pretesa punitiva dello Stato e l'interesse
pubblico al ripristino dell'ordine violato dal reato.
3. - Le ordinanze di rimessione sollevano analoghe questioni, onde i relativi
giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
4. - In riferimento all'art. 111, secondo comma, Cost., la questione è fondata.
Giova premettere come, secondo quanto reiteratamente rilevato da questa Corte,
il secondo comma dell'art. 111 Cost., inserito dalla legge costituzionale 23
novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell'articolo
111 della Costituzione) - nello stabilire che «ogni processo si svolge nel
contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità» - abbia conferito veste
autonoma ad un principio, quello di parità delle parti, «pacificamente già
insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali» (ordinanze n. 110 del
2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
Anche dopo la novella costituzionale, resta pertanto pienamente valida
l'affermazione - costante nella giurisprudenza anteriore della Corte (ex plurimis,
sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e n. 363 del 1991; ordinanze n. 426
del 1998, n. 324 del 1994 e n. 305 del 1992) - secondo la quale, nel processo
penale, il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente
l'identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli
dell'imputato: potendo una disparità di trattamento «risultare giustificata,
nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale
del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da
esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia» (ordinanze n.
46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
Alla luce di tale consolidato indirizzo, le fisiologiche differenze che
connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale,
correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei
quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono
portatrici - essendo l'una un organo pubblico che agisce nell'esercizio di un
potere e a tutela di interessi collettivi; l'altra un soggetto privato che
difende i propri diritti fondamentali (in primis, quello di libertà personale),
sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna - impediscono di
ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi,
nella cornice di ogni singolo segmento dell'iter processuale, in un'assoluta
simmetria di poteri e facoltà. Alterazioni di tale simmetria - tanto nell'una
che nell'altra direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di
quella privata) - sono invece compatibili con il principio di parità, ad una
duplice condizione: e, cioè, che esse, per un verso, trovino un'adeguata ratio
giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in
esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in
vista del completo sviluppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti;
e, per un altro verso, risultino comunque contenute - anche in un'ottica di
complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparità di segno
opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui
s'innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira (si vedano le sentenze
n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994) - entro i limiti della ragionevolezza.
Tale vaglio di ragionevolezza va evidentemente condotto sulla base del rapporto
comparativo tra la ratio che ispira, nel singolo caso, la norma generatrice
della disparità e l'ampiezza dello "scalino" da essa creato tra le posizioni
delle parti: mirando segnatamente ad acclarare l'adeguatezza della ratio e la
proporzionalità dell'ampiezza di tale "scalino" rispetto a quest'ultima.
Siffatta verifica non può essere pretermessa, se non a prezzo di un sostanziale
svuotamento, in parte qua, della clausola della parità delle parti: non
potendosi ipotizzare, ad esempio, che la posizione di vantaggio di cui
fisiologicamente fruisce l'organo dell'accusa nella fase delle indagini
preliminari, sul piano della ricchezza degli strumenti investigativi -
posizione di vantaggio che riflette il ruolo istituzionale di detto organo,
avuto riguardo anche al carattere "invasivo" e "coercitivo" di determinati
mezzi d'indagine - abiliti di per sé sola il legislatore, in nome di
un'esigenza di "riequilibrio", a qualsiasi deminutio, anche la più radicale,
dei poteri del pubblico ministero nell'ambito di tutte le successive fasi. Una
simile impostazione - negando, di fatto, l'esistenza di limiti di compatibilità
costituzionale alla distribuzione asimmetrica delle facoltà processuali tra i
contendenti - priverebbe di ogni concreta valenza la clausola di parità:
risultato, questo, tanto meno accettabile a fronte della sua attuale assunzione
ad espresso ed autonomo precetto costituzionale.
5. - All'indicata chiave di lettura si è, in effetti, costantemente ispirata la
giurisprudenza di questa Corte relativa alla tematica - che viene qui
specificamente in rilievo - delle possibili dissimmetrie a sfavore del pubblico
ministero in punto di poteri di impugnazione.
5.1. - Nello scrutinare le questioni di legittimità costituzionale sollevate a
tal proposito, questa Corte ha sempre recepito come corretta la premessa
fondante di esse: che, cioè, la disciplina delle impugnazioni, quale capitolo
della complessiva regolamentazione del processo, si collochi anch'essa - sia
pure con le peculiarità che poco oltre si evidenzieranno - entro l'ambito
applicativo del principio di parità delle parti; premessa, questa, la cui
validità deve essere confermata.
Il principio in parola non è infatti suscettibile di una interpretazione
riduttiva, quale quella che - facendo leva, in particolare, sulla connessione
proposta dall'art. 111, secondo comma, Cost. tra parità delle parti,
contraddittorio, imparzialità e terzietà del giudice - intendesse negare alla
parità delle parti il ruolo di connotato essenziale dell'intero processo, per
concepirla invece come garanzia riferita al solo procedimento probatorio: e ciò
al fine di desumerne che l'unico mezzo d'impugnazione, del quale le parti
dovrebbero indefettibilmente fruire in modo paritario, sia il ricorso per
cassazione per violazione di legge, previsto dall'art. 111, settimo comma,
Cost.
Una simile ricostruzione finirebbe difatti per attribuire al principio di parità
delle parti, in luogo del significato di riaffermazione processuale dei
principi di cui all'art. 3 Cost., una antitetica valenza derogatoria di questi
ultimi: soluzione tanto meno plausibile a fronte del tenore letterale della
norma costituzionale, nella quale la parità delle parti è enunciata come regola
generalissima, riferita indistintamente ad «ogni processo» e senza alcuna
limitazione a determinati momenti o aspetti dell'iter processuale. Né può
trarsi argomento, in contrario, dallo specifico risalto che il legislatore
costituzionale ha inteso assegnare al valore del contraddittorio nel processo
penale, attestato dalle puntuali "direttive" al riguardo impartite nel quarto e
nel quinto comma dell'art. 111 Cost.: non potendosi ritenere, anche sul piano
logico, che tale distinto valore - anziché affiancarsi, rafforzandolo, al
principio di parità - sia destinato ad esplicare un ruolo limitativo del
medesimo; così da legittimare l'idea - palesemente inaccettabile rispetto ad
altri tipi di processo, quale, ad esempio, il processo civile - per cui, nel
processo penale, la clausola di parità opererebbe solo nei confini del
procedimento di formazione della prova.
5.2. - Ciò posto, questa Corte ha ribadito che, anche per quanto attiene alla
disciplina delle impugnazioni, parità delle parti non significa, nel processo
penale, necessaria omologazione di poteri e facoltà.
A tal proposito - sulla premessa che la garanzia del doppio grado di
giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale (ex
plurimis, sentenza n. 280 del 1995; ordinanza n. 316 del 2002) - questa Corte
ha in particolare rilevato come il potere di impugnazione nel merito della
sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenti margini di
"cedevolezza" più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli
che connotano il simmetrico potere dell'imputato. Il potere di impugnazione
della parte pubblica trova, infatti, copertura costituzionale unicamente entro
i limiti di operatività del principio di parità delle parti - "flessibile" in
rapporto alle rationes dianzi evidenziate - non potendo essere configurato come
proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell'esercizio
dell'azione penale, di cui all'art. 112 Cost. (sentenza n. 280 del 1995; ordinanze
n. 165 del 2003, n. 347 del 2002, n. 421 del 2001 e n. 426 del 1998); mentre il
potere di impugnazione dell'imputato viene a correlarsi anche al fondamentale
valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.), che ne accresce la forza
di resistenza di fronte a sollecitazioni di segno inverso (sentenza n. 98 del
1994).
Ciò non toglie, tuttavia, che le eventuali menomazioni del potere di
impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere
dell'imputato, debbano comunque rappresentare - ai fini del rispetto del
principio di parità - soluzioni normative sorrette da una ragionevole
giustificazione, nei termini di adeguatezza e proporzionalità dianzi
lumeggiati: non potendosi ritenere, anche su questo versante - se non a prezzo
di svuotare di significato l'enunciazione di detto principio con riferimento al
processo penale - che l'evidenziata maggiore "flessibilità" della disciplina
del potere di impugnazione del pubblico ministero legittimi qualsiasi
squilibrio di posizioni, sottraendo di fatto, in radice, le soluzioni normative
in subiecta materia allo scrutinio di costituzionalità.
5.3. - In simile ottica, questa Corte si è quindi ripetutamente pronunciata -
tanto prima che dopo la modifica dell'art. 111 Cost. - nel senso della compatibilità
con il principio di parità delle parti della norma che escludeva l'appello del
pubblico ministero avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di giudizio
abbreviato, anche nella sola forma dell'appello incidentale, salvo si trattasse
di sentenza modificativa del titolo del reato (artt. 443, comma 3, e 595 cod.
proc. pen.).
Al riguardo, si è infatti osservato come la soppressione del potere della parte
pubblica di impugnare nel merito decisioni che segnavano «comunque la
realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel processo attraverso
l'azione intrapresa» - essendo lo scarto tra la richiesta dell'accusa e la
sentenza sottratta all'appello non di ordine «qualitativo», ma meramente
«quantitativo» - risultasse razionalmente giustificabile alla luce
dell'«obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi
svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo di cui si tratta» (sentenza
n. 363 del 1991; ordinanze n. 305 del 1992 e n. 373 del 1991): rito che - sia
pure per scelta esclusiva dell'imputato, dopo le modifiche attuate dalla legge
16 dicembre 1999, n. 479 - «implica una decisione fondata, in primis, sul
materiale probatorio raccolto dalla parte che subisce la limitazione censurata,
fuori delle garanzie del contraddittorio» (ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del
2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
Tali caratteristiche del giudizio abbreviato - che conferiscono un particolare
risalto alla dissimmetria di segno opposto, riscontrabile a favore del pubblico
ministero nella fase delle indagini preliminari, le cui risultanze sono
direttamente utilizzabili ai fini della decisione (al riguardo, si veda la
sentenza n. 98 del 1994) - valevano, dunque, a rendere la scelta normativa in
discorso «incensurabile sul piano della ragionevolezza in quanto proporzionata
al fine preminente della speditezza del processo» (sentenza n. 363 del 1991).
Fine al quale non avrebbe potuto essere invece sacrificato - per la ragione
dianzi indicata - lo speculare potere di impugnazione dell'imputato (sentenza
n. 98 del 1994).
6. - Ben diversa è la situazione nel caso oggetto dell'odierno scrutinio di
costituzionalità.
6.1. - Al di sotto dell'assimilazione formale delle parti - «il pubblico
ministero e l'imputato possono appellare contro le sentenze di condanna» (ergo,
non contro quelle di proscioglimento) - la norma censurata racchiude una
dissimmetria radicale. A differenza dell'imputato, infatti, il pubblico
ministero viene privato del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza
che lo veda totalmente soccombente, negando per integrum la realizzazione della
pretesa punitiva fatta valere con l'azione intrapresa, in rapporto a qualsiasi
categoria di reati.
Né varrebbe, al riguardo, opporre che l'inappellabilità - sancita per entrambe
le parti - delle sentenze di proscioglimento si presta a sacrificare anche
l'interesse dell'imputato, segnatamente allorché il proscioglimento presupponga
un accertamento di responsabilità o implichi effetti sfavorevoli. Tale
conseguenza della riforma - in ordine alla quale sono stati prospettati
ulteriori e diversi problemi di costituzionalità, di cui la Corte non è
chiamata ad occuparsi in questa sede - non incide comunque sulla
configurabilità della rilevata sperequazione, per cui una sola delle parti, e
non l'altra, è ammessa a chiedere la revisione nel merito della pronuncia a sé
completamente sfavorevole.
È evidente, poi, come tale sperequazione non venga attenuata, se non in modo
del tutto marginale, dalla previsione derogatoria di cui al comma 2 dell'art.
593 cod. proc. pen., in forza della quale l'appello contro le sentenze di
proscioglimento è ammesso nel caso di sopravvenienza o scoperta di nuove prove
decisive dopo il giudizio di primo grado: previsione non presente nel testo
originariamente approvato dal Parlamento, ma introdotta a fronte dei rilievi su
di esso formulati dal Presidente della Repubblica con il messaggio trasmesso
alle Camere il 20 gennaio 2006 ai sensi dell'art. 74, primo comma, Cost., nel
quale si era segnalato, tra l'altro, come «la soppressione dell'appello delle
sentenze di proscioglimento» determinasse - stante la «disorganicità della
riforma» - una condizione di disparità «delle parti nel processo [.] che supera
quella compatibile con la diversità delle funzioni svolte dalle parti stesse».
Risulta, infatti, palese come l'ipotesi considerata - sopravvenienza o scoperta
di nuove prove decisive nel corso del breve termine per impugnare (art. 585
cod. proc. pen.) - presenti connotati di eccezionalità tali da relegarla a priori
ai margini dell'esperienza applicativa (oltre a non coprire, ovviamente,
l'errore di valutazione nel merito).
Altrettanto evidente, ancora, è come l'eliminazione del potere di appello del
pubblico ministero non possa ritenersi compensata - per il rispetto del
principio di parità delle parti - dall'ampliamento dei motivi di ricorso per
cassazione, parallelamente operato dalla stessa legge n. 46 del 2006 (lettere d
ed e dell'art. 606, comma 1, cod. proc. pen., come sostituite dall'art. 8 della
legge): e ciò non soltanto perché tale ampliamento è sancito a favore di
entrambe le parti, e non del solo pubblico ministero; ma anche e soprattutto
perché - quale che sia l'effettiva portata dei nuovi e più ampi casi di ricorso
- il rimedio non attinge comunque alla pienezza del riesame di merito,
consentito dall'appello.
6.2. - La rimozione del potere di appello del pubblico ministero si presenta,
per altro verso, generalizzata e "unilaterale".
È generalizzata, perché non è riferita a talune categorie di reati, ma è estesa
indistintamente a tutti i processi: di modo che la riforma, mentre lascia
intatto il potere di appello dell'imputato, in caso di soccombenza, anche
quando si tratti di illeciti bagatellari - salva la preesistente eccezione
relativa alle sentenze di condanna alla sola pena dell'ammenda (art. 593, comma
3, cod. proc. pen.; si veda, altresì, per i reati di competenza del giudice di
pace, l'art. 37 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274) - fa invece cadere quello
della pubblica accusa anche quando si discuta dei delitti più severamente
puniti e di maggiore allarme sociale, che coinvolgono valori di primario
rilievo costituzionale.
È "unilaterale", perché non trova alcuna specifica "contropartita" in
particolari modalità di svolgimento del processo - come invece nell'ipotesi già
scrutinata dalla Corte in relazione al rito abbreviato, caratterizzata da una
contrapposta rinuncia dell'imputato all'esercizio di proprie facoltà, atta a
comprimere i tempi processuali - essendo sancita in rapporto al giudizio
ordinario, nel quale l'accertamento è compiuto nel contraddittorio delle parti,
secondo le generali cadenze prefigurate dal codice di rito.
7. - A fronte delle evidenziate connotazioni, l'alterazione del trattamento
paritario dei contendenti, indotta dalla norma in esame, non può essere
giustificata, in termini di adeguatezza e proporzionalità, sulla base delle
rationes che, alla stregua dei lavori parlamentari, si collocano alla radice
della riforma.
7.1. - A sostegno della soluzione normativa censurata, si è rilevato,
anzitutto, che l'avvenuto proscioglimento in primo grado - rafforzando la
presunzione di non colpevolezza - impedirebbe che l'imputato, già dichiarato
innocente da un giudice, possa essere considerato da altro giudice colpevole
del reato contestatogli «al di là di ogni ragionevole dubbio», secondo quanto
richiesto, ai fini della condanna, dall'art. 533, comma 1, cod. proc. pen.,
come novellato dall'art. 5 della stessa legge n. 46 del 2006. In simile
situazione, la reiterazione dei tentativi dello Stato per condannare un
individuo già risultato innocente verrebbe dunque ad assumere una connotazione
"persecutoria", contraria ai «principi di uno Stato democratico» (in questo
senso, in particolare, l'illustrazione della proposta di legge A.C. 4604 da
parte dei relatori alla Commissione giustizia della Camera dei deputati).
Al riguardo, è peraltro sufficiente osservare come la sussistenza o meno della
colpevolezza dell'imputato «al di là di ogni ragionevole dubbio» rappresenti la
risultante di una valutazione: e la previsione di un secondo grado di
giurisdizione di merito trova la sua giustificazione proprio nell'opportunità
di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo
grado, che non avrebbe senso dunque presupporre esatte, equivalendo ciò a
negare la ragione stessa dell'istituto dell'appello. In effetti, se il doppio
grado mira a rafforzare un giudizio di "certezza", esso non può non riflettersi
sui diversi approdi decisori cui il giudizio di primo grado può pervenire:
quello di colpevolezza, appunto, ma, evidentemente, anche quello - antitetico -
di innocenza.
In tale ottica, l'iniziativa del pubblico ministero volta alla verifica dei
possibili (ed eventualmente, anche evidenti) errori commessi dal primo giudice,
nel negare la responsabilità dell'imputato, non può qualificarsi, in sé,
"persecutoria"; essa ha, infatti, come scopo istituzionale quello di assicurare
la corretta applicazione della legge penale nel caso concreto e - tramite
quest'ultima - l'effettiva attuazione dei principi di legalità e di
eguaglianza, nella prospettiva della tutela dei molteplici interessi, connessi
anche a diritti fondamentali, a cui presidio sono poste le norme
incriminatrici.
7.2. - A fondamento della scelta legislativa in esame viene allegata, per altro
verso, l'esigenza di uniformare l'ordinamento italiano alle previsioni
dell'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottato a
Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile
1990, n. 98; nonché dell'art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966,
ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881. Tali norme
internazionali pattizie prevedono che ogni persona condannata per un reato ha
diritto a che l'accertamento della sua colpevolezza o la condanna siano
riesaminati da un tribunale superiore o di seconda istanza: principio che - si
sostiene - verrebbe vulnerato nel caso di condanna dell'imputato in secondo
grado, conseguente all'appello del pubblico ministero avverso la sentenza di
proscioglimento emessa in primo grado (in questa prospettiva, si veda la
relazione del proponente alla proposta di legge A.C. 4604).
Con riguardo ad entrambe le norme, questa Corte ebbe, peraltro, già in
precedenza a rilevare come il riesame ad opera di un tribunale superiore, da
esse previsto a favore dell'imputato, non debba necessariamente coincidere con
un giudizio di merito, anziché con il ricorso per cassazione; e ciò perché
l'obiettivo perseguito è quello di «assicurare comunque un'istanza davanti alla
quale fare valere eventuali errori in procedendo o in iudicando commessi nel
primo giudizio, con la conseguenza che il riesame nel merito interverrà solo
ove tali errori risultino accertati» (sentenza n. 288 del 1997; si veda,
altresì, la sentenza n. 62 del 1981). Al riguardo, non è, d'altro canto, senza
significato la circostanza che il legislatore costituzionale del 1999 - nel
riformulare l'art. 111 Cost., nell'ottica di un suo adeguamento ai principi del
«giusto processo» - non sia intervenuto sul tema delle impugnazioni,
continuando a riferirsi al ricorso per cassazione per violazione di legge come
unico rimedio impugnatorio costituzionalmente imposto.
Dirimente è, peraltro, il rilievo che, alla luce della disciplina - più recente
ed analitica di quella del Patto internazionale - dell'art. 2 del Protocollo
addizionale n. 7 alla Convezione europea (su cui soprattutto fanno leva i
lavori parlamentari), il diritto della persona dichiarata colpevole di un reato
al riesame della «dichiarazione di colpa o di condanna», da parte di un
tribunale superiore, può essere oggetto di eccezioni - oltre che «in caso di
infrazioni minori» e «in casi nei quali la persona interessata sia stata
giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione più elevata» -
anche quando essa «sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un
ricorso avverso il suo proscioglimento» (paragrafo 2 del citato art. 2).
Quest'ultima eccezione presuppone, evidentemente, che la legge interna
contempli un potere di impugnazione contra reum, e quindi a favore dell'organo
dell'accusa; essa implica pertanto il riconoscimento che tale potere - anche
quando si tratti di impugnazione di merito - è compatibile con il sistema di
tutela delineato dalla Convenzione e dallo stesso Protocollo, come del resto
conferma la legislazione vigente in buona parte dei Paesi dell'Europa
continentale.
7.3. - Si pone l'accento, da ultimo, sul rapporto solo «mediato» che il giudice
dell'appello ha con le prove (in tale ottica, si veda nuovamente la citata
illustrazione dei relatori della proposta di legge A.C. 4604): reputandosi, in
specie, che comporti una situazione di diminuita garanzia - in rapporto ai
principi di oralità e immediatezza, ispiratori del processo penale nel modello
accusatorio - un assetto nel quale la decisione di proscioglimento di un
giudice (quello di primo grado), che ha assistito alla formazione della prova
nel contraddittorio fra le parti, può essere ribaltata da altro giudice (quello
di appello), che fonda invece la sua decisione su una prova prevalentemente
scritta.
Ai fini della risoluzione dell'odierno incidente di costituzionalità, non è
peraltro necessario scrutinare la condivisibilità o meno di tale affermazione,
la quale evoca tensioni interne al vigente ordinamento processuale, connesse al
mantenimento di impugnazioni di tipo tradizionale nell'ambito di un processo a
carattere tendenzialmente accusatorio. A prescindere, difatti, dal rilievo che
l'ipotizzata distonia del sistema - ove effettivamente riscontrabile -
sussisterebbe anche in rapporto alle sentenze di condanna, per le quali il
pubblico ministero mantiene il potere di appello, avuto riguardo alla possibile
modifica in peius della decisione da parte del giudice di secondo grado come
conseguenza di divergenti valutazioni di fatto (le quali portino, ad esempio,
al mutamento del titolo del reato o al riconoscimento di una circostanza
aggravante); è assorbente la considerazione che il rimedio all'eventuale
deficit delle garanzie che assistono una parte processuale va rinvenuto - in
via preliminare - in soluzioni che escludano quel difetto, e non già in una
eliminazione dei poteri della parte contrapposta che generi un radicale
squilibrio nelle rispettive posizioni.
All'obiezione, poi, che le possibili soluzioni alternative al problema dianzi
evidenziato, almeno ove calibrate sull'attuale assetto del sistema delle
impugnazioni, peserebbero negativamente sui tempi di definizione del giudizio,
è agevole replicare che neppure la ragionevole durata del processo - principio
che, per costante affermazione di questa Corte, va contemperato con il
complesso delle altre garanzie costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 219 del
2004; ordinanze n. 420 e n. 418 del 2004, n. 251 del 2003, n. 458 e n. 519 del
2002) - può essere perseguita, come nella specie, attraverso la totale
soppressione di rilevanti facoltà processuali di una sola delle parti. E ciò a
prescindere dalla possibilità - da più parti prospettata e che resta aperta
alla valutazione del legislatore - di una revisione organica del regime delle
impugnazioni, intesa ad eliminare le tensioni da cui, per quanto accennato, il
problema stesso trae origine.
8. - Nel suo carattere settoriale, per contro, la novella censurata ha,
inoltre, alterato il rapporto paritario tra i contendenti con modalità tali da
determinare anche una intrinseca incoerenza del sistema.
Per effetto della riforma, infatti, mentre il pubblico ministero totalmente
soccombente in primo grado resta privo del potere di proporre appello, detto
potere viene invece conservato dall'organo dell'accusa nel caso di soccombenza
solo parziale, vuoi in senso "qualitativo" (sentenza di condanna con mutamento
del titolo del reato o con esclusione di circostanze aggravanti), vuoi anche in
senso meramente "quantitativo" (sentenza di condanna a pena ritenuta non
congrua).
9. - Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque ribadire che,
nella cornice dei valori costituzionali, la parità delle parti non corrisponde
necessariamente ad una eguale distribuzione di poteri e facoltà fra i
protagonisti del processo. In particolare, per quanto attiene alla disciplina
delle impugnazioni - ferma restando la possibilità per il legislatore, dianzi
accennata, di una generale revisione del ruolo e della struttura dell'istituto
dell'appello - non contraddice, comunque, il principio di parità l'eventuale
differente modulazione dell'appello medesimo per l'imputato e per il pubblico
ministero, purché essa avvenga nel rispetto del canone della ragionevolezza,
con i corollari di adeguatezza e proporzionalità, che si sono a più riprese
ricordati.
Nella specie, per contro, la menomazione recata dalla disciplina impugnata ai
poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell'imputato,
eccede il limite di tollerabilità costituzionale, in quanto non sorretta da una
ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e "unilaterale"
della menomazione stessa: oltre a risultare - per quanto dianzi osservato -
intrinsecamente contraddittoria rispetto al mantenimento del potere di appello
del pubblico ministero contro le sentenze di condanna.
Le residue censure dei giudici rimettenti restano di conseguenza assorbite.
10. - L'art. 1 della legge n. 46 del 2006 va dichiarato, pertanto,
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 cod.
proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le
sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art.
603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva.
Correlativamente, va dichiarata l'illegittimità costituzionale anche dell'art.
10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che
l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico
ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è
dichiarato inammissibile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio
2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di
inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui,
sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico
ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta
eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice,
se la nuova prova è decisiva;
2) dichiara l'illegittimità costituzione dell'art. 10, comma 2, della citata
legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l'appello
proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima
della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato
inammissibile.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 24 gennaio 2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2007.
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