Lessico famigliare è la storia di
una famiglia ebrea, quella della stessa scrittrice, che si svolge a Torino fra
gli anni Trenta e Cinquanta.
Natalia, l'ultima dei cinque figli Levi, è la voce narrante.
Con assoluto rispetto della verità, e, per certi versi, mantenendo l'incanto
della fanciullezza, l'autrice non solo ripercorre con la memoria le vicende dei
suoi cari, ma ne fissa per sempre anche il linguaggio (che, come sappiamo, è
unico per ogni nucleo famigliare), i motti, le abitudini radicate.
Ne è protagonista il padre Giuseppe: la casa riecheggia sia
delle sue urla che delle sue risate. Egli è ten 939j95j ero e dispotico al tempo stesso:
non tollera, a tavola, che s'intinga il pane nel sugo (gesti chiamati potacci
o sbrodeghezzi); e mal sopporta i modi goffi e impacciati, da lui
inesorabilmente definiti negrigure.
«Il divertimento che il diavolo dà ai suoi figli», secondo la
madre Lidia, sono le gite in montagna che il marito "infligge" a
tutta la famiglia. Queste sono precedute dai preparativi estenuanti, e innumerevoli
sono i divieti, talvolta davvero risibili, imposti ai figli.
Tentare anche solo un breve riassunto del Lessico non
è semplice: è una storia che ruota su se stessa, proponendo, a brevi
intervalli, lo stesso frasario, che a mano a mano conquista il lettore, col
risultato di diventargli, alla fine, per l'appunto, famigliare.
Natalia annota, apparentemente con un certo distacco, le liti
tra fratelli, i primi amori della sorella Paola, le leziosaggini della madre
Lidia.
Una casa molto frequentata, quella dei Levi. Ci vive
Natalina, la fedele cameriera; spesso le fa compagnia la sarta, chiamata dalla
padrona di casa per rivoltare un cappotto o confezionare abiti a domicilio.
Numerosi gli amici di famiglia, quelli dei figli, i colleghi
del professor Levi (docente di anatomia comparata): l'elenco delle amicizie è
davvero ampio e sorprendente. Nel salotto di casa si raduna il fior fiore del
mondo intellettuale torinese.
Alberto Asor Rosa, scrivendo una recensione dell'opera, puntò
il dito su un supposto "snobismo" della Ginzburg, accusata di sciorinare, con
assoluta naturalezza, e chiamandoli semplicemente col nome di battesimo, un
ragguardevole elenco di intellettuali e politici della scena torinese di quegli
anni.
Vittorio Foa, Adriano e Camillo Olivetti, Filippo Turati, Cesare Pavese,
Felice Balbo, solo per citarne alcuni. Si intuisce, d'altra parte, che le
frequentazioni includono anche altre persone: Anna Kuliscioff, Franco Rasetti,
Felice Casorati e persino Eugenio Montale,
che, in veste di compagno della zia Drusilla (colei che "rompeva sempre gli
occhiali") ne era quasi parente.
Come tanti altri scrittori, anche la Ginzburg è debitrice di
Proust; nel 1937 tradusse, prima fra tutti in Italia, Du côté de chez Swann.
Del resto, il Lessico lo testimonia, Natalia conobbe fin da ragazzina il
capolavoro di Proust, essendo, questo, oggetto di vivaci discussioni in seno
alla famiglia. Effettivamente vi sono, fra la Recherche e il
libro della Ginzgurg, dei punti di contatto. Alla narrazione delle vicende
famigliari fa da sfondo la
Storia: l'ascesa di Mussolini, le leggi razziali, la lotta
antifascista. Nel suo libro, la
Ginzburg affronta con un certo pudore la prigionia del padre,
la fuga oltre confine dei fratelli, la reclusione e l'uccisione del primo
marito, riuscendo a conservare la semplicità e la freschezza che
contraddistinguono i suoi scritti.
Come definire Lessico famigliare? Un libro di memorie,
un'autobiografia?
Da sempre si considera l'autobiografia l'ambito preferito
dalla letteratura femminile. Nel caso di Natalia, i ricordi dell'infanzia si
concentrano esclusivamente nella sfera famigliare, poiché non frequentò le
scuole elementari e per i primi anni ebbe come maestra la madre. Il Lessico,
però, non può considerarsi una semplice autobiografia, come scrive la stessa
Ginzburg nell'Avvertenza.
È soprattutto un insieme di ricordi, che il trascorrere del
tempo può avere reso imprecisi, labili. Con la sua opera l'autrice ha inteso
lanciare un chiaro messaggio, di fronte al disperdersi della propria famiglia
d'origine a causa della guerra, delle morti, della lontananza.
«Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni
di noi stanno all'estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo,
possiamo essere, l'uno con l'altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra
noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche,
sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: "Non
siamo venuti a Bergamo per fare campagna" o "De cosa spussa
l'acido solfidrico", per ritrovare ad un tratto i nostri antichi
rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle
frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere
l'uno con l'altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di
persone. Quelle frasi sono il nostro latino, [.] testimonianza di un nucleo
vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati
dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il
fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo,
ricreandosi e resuscitando nei punti piú diversi della terra, quando uno di noi
dirà - egregio signor Lippman - e subito risuonerà al nostro orecchio la
voce impaziente di mio padre: "Finitela con questa storia! L'ho sentita
già tante di quelle volte!"»
Ecco il messaggio, inequivocabile, contenuto nel Lessico
famigliare: i nostri genitori, i nostri fratelli, gli amici di allora sono
i soli testimoni di quello che siamo stati, e che ora non siamo più.
E forse è proprio questo il segreto del libro, vincitore del Premio Strega,
che ottenne da subito un grande successo editoriale grazie, oltre alle numerose
recensioni positive, anche e soprattutto al passaparola degli stessi lettori.