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Il "DE VULGARI ELOQUENTIA" - Dante Alighieri

dante



Il "DE VULGARI ELOQUENTIA"


Dante Alighieri


Il "De Vulgari Eloquentia" [L'eloquenza in lingua volgare] è un trattato, come dice il titolo, sull'arte del dire in volgare, sia in prosa che in poesia. Fu scritto probabilmente negli stessi anni in cui fu composto il "Convivio", 1303-1304, e, come il Convivio, è an 656i82g ch'esso incompleto: dei quattro libri inizialmente programmati, Dante compose solo il primo ed interruppe il secondo al quattordicesimo capitolo.

Al contrario del Convivio, però, è scritto in latino, perché, essendo di carattere strettamente scientifico, non è diretto al popolo, ma ai letterati e ai dotti.

Esso dibatte due importantissimi problemi, quello dell'origine della varietà delle lingue parlate, e quello della lingua volgare che deve essere adoperata dagli scrittori italiani nella composizione delle loro opere. Le due questioni costituiscono la materia del primo libro.

Per quanto riguarda il primo problema, Dante distingue fra la lingua "naturale" o volgare, senza regole che apprendiamo dalla madre e adoperiamo nella vita quotidiana, e la "secondaria" o artificiale, che è il latino regolato da norme precise, fissate dai dotti, e adoperato nelle opere di letteratura, scienza e diritto.

Dante poi traccia una storia universale delle lingue: inizialmente vi era l'ebraico, la lingua parlata da Adamo ed Eva e trasmessa ininterrottamente ai discendenti fino alla Torre di Babele, quando Dio volle punire la folle superbia degli uomini con la confusione delle lingue. Avvenne allora che la lingua d'Adamo fu ereditata dagli Ebrei, perché a suo tempo la usasse Cristo.

I popoli, invece, che dopo la confusione delle lingue emigrarono in Europa,

erano divisi in alcuni ceppi principali, ciascuno con un linguaggio particolare:

il ceppo che si stanziò nell'Europa orientale parlava il greco; quello che si stanziò nell'Europa occidentale si suddivise a sua volta in tre gruppi, ciascuno con una propria lingua, che prese il nome della particella affermativa adoperata:  

1) la lingua d'oc, parlata dagli Ispani

2) la lingua d'oïl, parlata dai Franchi

3) la lingua del sì, parlata nella nostra penisola (sarebbe, infatti, inesatto parlare d'Italia poiché questa si costituirà solo seicento anni dopo).

Dante comprese che queste tre lingue presentavano delle affinità che denotavano una loro origine comune ma non comprende che esse derivano dal latino, perché erroneamente ritiene che il latino sia una lingua convenzionale artificiale creata dai dotti, spinti dal bisogno di comunicare. 

Tra le lingue in questione Dante assegna il primato, per la prosa, alla lingua d'oïl, per la lirica alla lingua d'oc, ma considera poi la lingua del s superiore alle altre due per la sua dolcezza e musicalità e per la sua vicinanza al latino.

Per quanto riguarda poi il problema, quale lingua cioè debba essere adoperata dagli scrittori italiani nella composizione delle loro opere, esso scaturisce dalla necessità di individuare tra le innumerevoli parlate locali o dialetti in cui si frantuma "la lingua del sì", quella meritevole di assurgere a dignità letteraria.

A questo scopo Dante distingue 14 dialetti, 7 a destra e 7 a sinistra della catena appenninica, a nessuno dei quali (nemmeno al suo toscano!) riconosce la qualità da farlo preferire a tutti gli altri. Dante sembra qui proporre che la lingua letteraria italiana debba essere una lingua composita, costituita dal fior fiore delle parlate locali d'Italia, depurate cioè degli elementi più rozzi, goffi e grossolani, e selezionate da parte degli scrittori secondo i criteri del buon gusto, dell'eleganza, della finezza e dell'armonia.   



E' la lingua costruita dai poeti siciliani da Giacomo da Lentini, dal Guinizelli, dal Cavalcanti, da Cino da Pistoia e da lui stesso, che hanno depurato, selezionato ed arricchito le parlate locali con apporti svariati, creando un linguaggio qualitativamente diverso, egregio, limpido, urbano, perfetto, che non esiste in nessuna delle regioni d'Italia, ma si riflette in ciascun dialetto così come l'uno si riflette nei numeri ed il bianco nei vari colori.

Dante definisce il volgare illustre, cardinale, regale e curiale.

Illustre perché dà gloria ai poeti che lo adoperano e risplende nelle loro opere; cardinale, perché su di esso ruotano i vari volgari, come la porta sul cardine; regale o aulico, perché sarebbe il linguaggio della reggia, se l'Italia avesse una corte, curiale perché sarebbe il linguaggio dei rappresentanti della Curia[1], se la penisola avesse un Senato.

Inoltre nel secondo libro Dante definisce gli usi possibili del volgare illustre e pertanto i poeti di cultura e d'ingegno elevati sono degni di fare uso del volgare, nella trattazione di temi elevati: politici, amorosi e morali.

La forma più nobile per utilizzare il volgare illustre è la canzone, questa deve essere costituita da regole rigorose, stile tragico, endecasillabo o il settenario.

Dopo alcune considerazioni sulla canzone e sugli elementi costitutivi il trattato s'interrompe bruscamente. Si pensa che il terzo libro dovesse essere dedicato agli usi in prosa del volgare illustre, il quarto allo stile comico.

Quanto detto finora ci consente di trarre delle conclusioni sull'intento di Dante e sull'importanza di questo trattato.

Il "De vulgari" è il primo trattato scientifico, con tutti i suoi limiti, peraltro, dovuti al livello della cultura medievale, sulla lingua e metrica italiana. Ciò ci fa comprendere anche la personale poetica di Dante , perché ragionando sul volgare illustre e sugli stili, ci rivela il criterio da lui seguito nella composizione delle opere. Durante il Medioevo quest'opera non ebbe molta fortuna. Nell'Ottocento fu ripresa da molti autori, ma una corretta valutazione dell'opera spetta a Manzoni, il quale in una lettera del 1868 ne coglie il significato di trattato d'eloquenza, centrato perciò sulla lingua letteraria e non sulla lingua comune.























1295-1300 partecipazione alla vita politica del Comune, in seguito all'iscrizione alla corporazione dei Medici e Speziali.


1300 15 giugno-15 agosto: è priore insieme a Dino Compagni, con atteggiamento severo verso i capi delle fazioni rivali (Bianchi e Neri) e in difesa dell'autonomia fiorentina dalle ingerenze del Papa.

La fazione dei Neri voleva che la città di Firenze fosse sotto la protezione del Papa; quella dei Bianchi che fosse libera dal Pontefice. I Neri erano per lo più banchieri che avevano fatto prestiti al Papa e avrebbero ottenuto benefici con questo sodalizio mentre i Bianchi erano intellettuali che volevano la libertà.


1301 19 giugno: interviene al consiglio dei Cento per opporsi a intese con il Papa. Ottobre: partecipa, forse, a un'ambasceria presso Bonifacio VIII (a Roma o ad Anagni) per saggiarne le reali intenzioni.



 















1301 1 novembre: le truppe angioine alleate del Papa, guidate da Carlo di Valois, entrano di forza a Firenze depongono il governo bianco, riportando i Neri, che operano una violenta repressione nei confronti dei membri della fazione avversa.

Dante non si trova in città.


1302 27 gennaio: prima condanna di Dante, per corruzione: interdizione perpetua dai pubblici uffici, 5000 fiorini di multa e due anni d'esilio. Dante non si presenta.

10 marzo: seconda condanna alla confisca dei beni e al rogo.


1303-1304 dopo inutili tentativi, diplomatici e militari, di rientrare a Firenze, compiuti insieme agli altri esuli di parte bianca, Dante se ne separa per profonde ragioni di disaccordo, prendendo a fare parte per se stesso. Si è intanto spostato tra Forlì, Verona e Arezzo.


1305-1308 soggiorna a Treviso, in Lunigiana, in Casentino, a Lucca. Nel 1305 abbandona incompleto il "De vulgari eloquentia"; nel 1308 il Convivio. Conclude forse in questi anni l'Inferno.


1310-1313 la discesa dell'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo accende le speranze in una rinascita del potere imperiale in Italia. Completa forse in questi anni il Purgatorio.


1311 2 settembre: è escluso da un'amnistia indirizzata agli esuli fiorentini a causa della dichiarata posizione filoimperiale.



 
























1312-1318(1320) soggiorna a Verona presso Casagrande della Scala, dedicandosi alla composizione del Paradiso che conclude poco prima della morte.


1315 rifiuta di avvantaggiarsi di un'amnistia pur di non umiliarsi riconoscendosi formalmente colpevole, così che il 15 ottobre né confermata la condanna a morte per lui e per i suoi figli.


1318(o 1320) si trasferisce a Ravenna, ospite di Guido Polenta.


1321 13 settembre: muore di  ritorno da un'ambasceria a Firenze.

 











































 























Sede del Senato





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