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ORTEGA Y GASSET "MISERIA E SPLENDORE DELLA TRADUZIONE"

letteratura





ORTEGA Y GASSET

"MISERIA E SPLENDORE DELLA TRADUZIONE"



Veronica Borsari

N° matricola: 25921

C.d.L. Lingue e Culture Europee


Seminario di traduzione lingua inglese





Il libro, diviso in piccoli capitoli che vengono pubblicati come articoli su un quotidiano nel 1937, affronta in modo, a mio avviso, molto intelligente, leggero ma assolutamente serio e perspicace, il tema della traduzione. I capitoli rappresentano spezzoni di una conversazione avuta dall'autore stesso, a Parigi, con un linguista francese. Egli, spagnolo, si allontana dalla patria a causa della guerra civile. Proprio il suo "periodo francese" e le difficoltà che trova nel tradurre i suoi libri in questa lingua fanno nascere in lui l'idea che la traduzione sia utopia, proprio come tutte le altre azioni umane. È da questo punto di partenza che Ortega Y Gasset sviluppa altri pensieri che vanno a confluire in questa opera.

Il dialogo parte dalla constatazione che il suo interlocutore gli fa p 121f55b resente: alcuni filosofi tedeschi sono intraducibili. Ortega Y Gasset in risposta afferma che allora, così dicendo, si può supporre che la traduzione sia utopia, ma in questo non trova nulla di strano: tutto ciò che l'uomo fa, o meglio tenta di fare, è utopico, così come crede di amare ma successivamente si rende conto di essersi fermato alla promessa di questo. È un paragone amaro, ma può essere assolutamente vero.Volgendo il discorso in senso più ampio, il filosofo nota che gli animali sono resi felici da piccole azioni che per come la natura li ha creati e "equipaggiati" sono possibili e realizzabili per loro. Gli uomini, al contrario, esseri più complessi in quanto ad azioni e soddisfazioni, possono anche provare il sentimento avverso, cioè la tristezza. Questo è il destino per l'uomo: il non ottenere ciò che si desidera e diventare quindi mera pretesa e vivente utopia. A sostegno di questo pensiero, egli si chiede se un essere umano può essere felice potendo fare solo ciò che gli è possibile: la risposta è no. Inoltre questa idea addirittura suscita nel filosofo spagnolo senso di angoscia. Date queste premesse, si deduce che non sia un male affermare che la traduzione sia impossibile, anzi, questo riconoscimento dei suoi limiti la eleva a un livello più sublime, capace di "splendere". L'uomo, nella sua presa di coscienza dell'utopia di un'azione, si adopera a sfruttare al massimo le sue capacità, sebbene misere.Questo può essere reso possibile quindi solo da colui che è consapevole che l'impresa è ardua e forse irrealizzabile: infatti egli è il "buon utopista" di cui Ortega Y Gasset riconosce la figura. Egli,al contrario del "cattivo utopista", è conscio del fatto che è auspicabile liberare gli uomini da quella distanza che viene costruita ed imposta dalle diverse lingue, e proprio dalla sua presa di coscienza nasce la consapevolezza che si possa ottenere ciò solo in modo approssimativo.Tradurre è una fatica esorbitante e umile perché porta a continue erosioni,ad esempio verso la grammatica. Colui che traduce, dal canto suo, è "pusillanime",timido,uomo di poco conto. Egli si trova davanti a un testo e invece di essere in qualche modo ribelle ed andare contro le regole grammaticali, costringe e "ficca" lo scrittore nella "prigione del linguaggio normale",traducendolo. "Traduttore,traditore" dunque. L'autore del testo originario compie scrivendo due operazioni straordinarie: si rende intelleggibile al pubblico e usa l'idioma comune in modo speciale,straordinario,proprio nel senso di "fuori dall'ordinario". Come si potrebbe dunque esigere tale impresa da un traduttore?

È utopico inoltre credere che due vocaboli di due lingue diverse, che su un dizionario troviamo accoppiate,siano uno l'esatta traduzione dell'altro. Appropriato è il paragone di questa associazione di parole con l'azione di sovrapporre due fotografie dello stesso soggetto, ma scattate in due momenti diversi: possono combaciare,grosso modo,ma non coincidono totalmente. Così come le due immagini,anche due parole,che , per storie linguistiche e culturali diverse, hanno avuto diversa genesi,non possono corrispondere pienamente nel significato.Tradurre non è dunque semplice riproduzione di vocaboli. Il traduttore è intermediario da una lingua verso un'altra, deve saper scegliere le accezioni e gli usi più appropriati delle parole ed essere capace di trasmettere al lettore, che non è madrelingua, il senso del testo originale, nella sua dimensione contestuale ed extratestuale.

Ortega Y Gasset indica una lingua come sistema di segni verbali mediante il quale gli individui riescono a comprendersi "senza un previo accordo".: questo è un "mero baratto di meccanismi verbali". La lingua è convenzione e sono quindi le sfumature personali di un autore, che prende le distanze dalla norma,che lo rendono degno di essere tradotto.

Il filosofo dunque prende la questione della "miseria" della traduzione ,cioè il suo fallimento, come la "molla balistica" che porta dalla sconfitta allo "splendore",dove essa riesce ad eccellere. Proprio come quando un re muore e gli si reca rispetto, dobbiamo urlare "la traduzione è morta,viva la traduzione!". Questo è un altro paragone di  vita umana messa in relazione con la traduzione che mi ha impressionato per quanto è appropriata: è vero,secondo me,che giungere a un punto basso può essere la molla,la spinta che porta a fare meglio, a provare ad eccellere. Questo proprio forse per la tensione caratteristica dell'uomo verso l'impossibile,ciò che è arduo,perché appunto dal momento che lo vediamo difficile tentiamo di superare noi stessi, la tendenza a "rialzarsi" quando si "cade". Ortega Y Gasset , commentando con l'esclamazione "Che angoscia!" il pensiero di poter fare solo ciò che è possibile, rappresenta secondo me un pensiero direi quasi innato degli esseri umani. È un tema che ritorna fin dall'antichità nella letteratura e nella filosofia,dal "taedium vitae" alla "nausea" di Sartre, quindi non ci stupisce. Quello che egli aggiunge a questo pensiero è il mettere in relazione questa caratteristica umana con la pratica del tradurre. La traduzione diventa come qualsiasi altra azione dell'uomo e come tale è soggetta a quella tensione verso il miglioramento. Essa ha come proprietà intrinseca l'impossibilità quindi l'uomo può solo fare del suo meglio per attuarla,ma deve essere conscio dei suoi limiti.

L'uomo parla credendo di riuscire a dire ciò che pensa ma questo è illusorio. Possiamo avvalerci di una certa correttezza parlando in linguaggio scientifico ma se ciò che dobbiamo esprimere riguarda temi più umani,reali e importanti,la lingua ci crea impaccio e confusione. Due uomini parlandosi possono fraintendersi di più che se fossero rimasti zitti ed avessero provato ad indovinare l'uno i pensieri dell'altro.Infatti non è capitato a tutti di sentire almeno una volta qualcuno dire "So cosa voglio dire ma non so come farlo" oppure "Non so come esprimere questo pensiero a parole" ? A me sì,come è successo che io stessa non riuscissi per diversi motivi apparentemente inspiegabili ad esprimere a voce un concetto che nella mia testa sentivo così chiaro. L'affermazione di Ortega Y Gasset mi ha fatto pensare proprio a questo. Forse che la lingua non sia riuscita, e non riesca tuttora, a coniare parole che rappresentino la nostra idea mentale che ci creiamo? Probabilmente , anzi sicuramente, è così. Come lo scrittore nota, "il nostro pensiero è in gran misura ascritto alla lingua" ma questo fatto non è per lui totale ed assoluto,e io mi trovo d'accordo.A questo proposito,leggo dopo qualche pagina che Ortega Y Gasset prende come esempio proprio quello a cui avevo subito pensato io quando parla di "cose inesprimibili": la scena di due innamorati. A un certo punto uno dei due dice all'altro "Non riesco a spiegare quello che provo per te": tradizionalmente,ma forse ho solo vent'anni di vita come esperienza,quando si sente questa frase ci si riempie di gioia perché si è portati a pensare che questa affermazione nasconda dietro un amore smisurato. Invece il filosofo,non so quanto cinicamente, sostiene che questa frase dovrebbe essere un "segnale d'allarme" che indica che l'amato "è a un passo dal sentire qualche sproposito". Indica un'affermazione del genere come piccola ipocrisia degli innamorati: a sostegno di ciò egli asserisce che "le cose veramente umane sono chiare,precise,esplicite,comunicabili". Allora mi chiedo: a cosa si riferiva qualche paragrafo prima dicendo che la lingua non copre tutte le sfumature di significato e pensiero umano? Egli spiega che quello che è proprio dell'essere umano di certo si può e si deve esprimere per mezzo della lingua,mentre ciò che ci viene dall'istinto,che si muove goffamente in noi,proveniente da quell'"orango interiore che tutti portiamo aggrappato al nostro scheletro" non è cosa umana,e può non venire manifestato con segni linguistici. Questi pensieri provenienti da questa parte di noi sono solo "commozioni disarticolate" che "si levano dal fondo cupo della nostra vita organica". Non posso non dire che il ragionamento di Ortega Y Gasset sia acuto e interessante,ma non so se posso affermare di essere d'accordo:forse con qualche anno di vita in più potrei farmi qualche idea in più,o forse non troverò mai un pensiero definitivo dato che c'è probabilmente una larga dose di soggettività in questo.

Ogni lingua è l'equazione differente tra manifestazioni e silenzi: la lingua sceglie di dire cose ma non altre,ne rende palesi alcune ma ne tace altre. Essa compie questa scelta come ogni madrelingua rinuncia quotidianamente a dire certe cose "perché la lingua non glielo permette": ciò vuol dire che egli non trova in essa i mezzi,siano grammaticali o fonetici,per manifestare quel tipo di cose,quel certo pensiero.Tutto ciò rende la traduzione difficile,dal momento che deve esporre ciò che una lingua tiene sotto silenzio. Questo tuttavia nasconde un "nobile" pregio sullo sfondo: " i segreti reciproci che i popoli e le epoche si celano a vicenda" possono essere svelati, e le genti possono essere rese più vicine. Qui si ritorna al postulato dell'abbattimento del muro immaginario che le diverse lingue ergono fra i popoli. È la traduzione che riesce a portare a questa caduta della differenza.Prendiamo ad esempio la frase considerata da Ortega Y Gasset, che porta a una constatazione che mi ha molto colpito: "il sole nasce a Oriente". Questo semplice enunciato ci fa capire che un ente di sesso maschile,capace di atti spontanei quale il nascere,esegue questa azione in un luogo preciso e determinato fra tutti quelli che sono siti di nascite. Questo è vero se torniamo indietro nel tempo e pensiamo a un vecchio uomo indoeuropeo che crede che il sole sia di sesso maschile,che l'atto di "nascita" sia  dettato dalla sua volontà e che esso possa realmente sorgere ogni giorno nella stessa regione dello spazio. Tutto ciò non è invece veritiero per noi,a seguito di evoluzione,progresso del pensiero e delle scienze: parliamo quindi ironicamente,non comunichiamo "sul serio". Il filosofo,con una sorta di scioglilingua,afferma che "oggi quando parliamo non diciamo quello che la lingua in cui parliamo dice". Fenomeno sorprendente di cui,a parer suo,i linguisti hanno tenuto poco conto. Inoltre la struttura fondante della lingua cambia di popolo in popolo:assistiamo alla classificazione indoeuropea dei nomi in maschili,femminili e neutri e contemporaneamente a quella dei popoli africani che introduce ben ventiquattro segni classificatori,al posto dei nostri soli tre generi. Le lingue ci separano proprio perché noi,esseri umani alla stesso modo biologicamente ma con storie,culture e processi di formazioni diversi,produciamo la lingua in base a quadri mentali differenti. Il mondo ci è stato presentato sciolto da classificazioni,siamo stati noi ad etichettare oggetti,persone,azioni con parole che designano verbi (per le azioni) o nomi (per gli agenti,coloro che compiono tali azioni). In questo processo di "catalogazione" abbiamo attribuito il genere sessuale a oggetti, e questa è l'altra grande ripartizione che abbiamo compiuto. Tuttavia, questo processo di identificazione verbale cambia da luogo a luogo,da paese a paese.

In conclusione di questo punto importante, la lingua, in quanto luogo dell'apertura al mondo, limita anche,dall'interno, le possibilità del dire, poiché delimita uno specifico insieme di modi di dire, un'equazione differente di manifestazioni e silenzi. La ricchezza del mondo dell'esperienza vissuta è talmente sovrabbondante che nessun sistema di significati potrebbe contenerla: la realtà è un continuum di diversità in cui operiamo tagli, delimitazioni, separazioni, stabilendo con carattere assoluto delle differenze che, in realtà, sono solo relative. Per il pensatore spagnolo, d'altra parte, la "deficienza del dire", la sua inadeguatezza rispetto all'intenzionalità vitale che lo fonda, rimanda alla sua "esuberanza", al suo essere debordante poiché è sempre un frammento che rinvia ad una totalità, a un contesto linguistico, ma, soprattutto, a un contesto vitale. La traduzione, nel suo essere trasferimento-trasposizione di significati, cioè metafora, è pertanto radicata nella natura stessa del linguaggio, che è sempre trasmigrazione.

Dopo questa digressione sul discorso della lingua più in generale, Ortega Y Gasset,che prima aveva parlato di"miseria" della traduzione,ora chiarisce dove si realizza il suo "splendore". Quando si altera il testo di partenza, per attualizzarlo, nel senso deteriore del termine, se ne realizza la miseria. Lo splendore emerge quando si riesce a coniugare la fedeltà al testo di partenza con l'efficacia e la freschezza di quello d'arrivo. Viene fuori allora la parola necessaria. Ed è quasi un miracolo.

Schleiermacher sostiene che la traduzione può muoversi in due diverse direzioni: si può avvicinare l'autore al linguaggio del lettore oppure portare il lettore alla lingua dell'autore. Nel primo modo di tradurre facciamo una mera interpretazione o parafrasi del testo,mentre il secondo caso è realmente traduzione,poiché "strappiamo il lettore dai suoi abiti linguistici e lo costringiamo a muoversi dentro quelli dell'autore". La traduzione non deve dunque essere controfigura del testo originale, vale a dire lo stesso testo ma con diverso lessico. Essa non deve essere un'opera poetica ma "un artifizio tecnico che si avvicina ad essa senza mai pretendere di ripeterla o sostituirla". Và da sé che possono, o quasi devono,esistere vari tipi di traduzioni della stessa opera a seconda "degli spigoli di essa che vogliamo tradurre con precisione". Ortega Y Gasset nota come opere di Platone siano state accantonate nella lettura perché varie traduzioni non sono riuscite a riprodurre con efficacia il periodare del grande filosofo greco, finché proprio Schleiermacher non ne diede una sua versione che,seguendo i principi precedenti, riuscì ad interessare anche l'attenzione dei filologi.Una volta gli scritti antichi erano utili in senso pragmatico,gli scrittori moderni dovevano riprendere le loro opere ed attualizzarle,dovevano imparare da essi molte cose e quindi la traduzione era assimilata al presente. Ora le cose sono diverse,possiamo tradurre sottolineando in questi testi il loro carattere "esotico",tradurli proprio perché sono dissimili da noi e per mostrare questa distanza.

Concludendo questo capitolo,lo scrittore spagnolo ricorda che il pubblico di un certo paese non è interessato a leggere un'opera straniera portata nella sua lingua,perché in tal caso potrebbe leggere direttamente testi di autori connazionali. Piuttosto, esso cerca di venire a contatto con "culture altre" e immergersi nel modo di pensare di uno scrittore che scrive in un idioma diverso,anche se questo porta a uno sforzo di comprensione maggiore,proprio per mettersi negli abiti linguistici dello straniero.

Ortega Y Gasset affronta successivamente il tema della nascita delle lingue e della causa di differenziazione di esse da popolo in popolo. Il filosofo spagnolo ricorda il suo "collega" tedesco Schelling che si è posto la domanda : "Come sono nati i popoli?Come è scaturita la differenziazione di essi dalla omogeneità iniziale?". Egli si risponde che la causa della diversificazione debba essere stata spirituale. Non è possibile pensare a popoli diversi senza lingue diverse e il linguaggio è una cosa prettamente spirituale. La lingua è ciò che più intimamente distingue i popoli. Inoltre,proprio nella Bibbia,la nascita dei linguaggi è attribuita alla maledizione babelica. Mentre gli uomini,che costituivano allora una e una sola umanità, costruivano la Torre di Babele, la lingua era la medesima per tutti. In seguito,dopo la maledizione mandata da Dio per punire l'atto di superbia dell'umanità, questa si sparge e si divide in popoli differenti,con lingue differenti. Secondo questo episodio,i popoli nascono quando anche le lingue si formano,e non sono due elementi scissi. Schelling però sostiene che la confusione babelica non sia possibile a meno che non fosse successo qualcosa di particolare proprio nell'intimo dell'uomo, "una commozione della coscienza". Secondo lui questo evento è precedente alla dispersione umana e linguistica. Una presenza di questo moto nell'animo umano si può riconoscere nel motivo per cui la Torre venne innalzata: i suoi costruttori volevano farla giungere fino al cielo,volevano farsi un nome,per la paura di essere sparsi sulla Terra. Era questo un presagio di quel che sarebbe accaduto?Schelling pensa sia una germinazione di un intimo dissenso negli spiriti.

Come si frammentarono popoli e lingue,anche la fede per un unico Dio si tramutò in varie religioni,con vari dei,dee e divinità. Ogni popolo esiste come tale quando ha deciso e fissato la sua mitologia,sempre secondo il pensatore tedesco,che ritiene inoltre che i periodi di maggiore crisi mistico-religiosa siano coincisi con fasi di anomalia del linguaggio.

Nel terminare questo piccolo saggio in cui riassume la teoria romantica di Schelling, Ortega Y Gasset conclude affermando che "non sono le condizioni diverse né il trovarsi in uno stadio diverso nell'evoluzione umana -che capricciosamente si suppone unica- a distinguere i popoli,ma un diverso orientamento radicale dello spirito". Parlare di una "eterogeneità vitale" costante nella storia dei popoli mi è sembrata un'ipotesi molto "affascinante". Assumendo come ipotesi non quella proposta dalla Bibbia,ma quella più scientifica che fa risalire la dispersione dei popoli a cause naturali e non a una maledizione,io ho sempre pensato che la diversità linguistica fosse causata da questa lontananza instauratasi tra gli uomini per le migrazioni. Una domanda però mi era sempre rimasta: "Ma anche se fosse stata solo questione di distanza,perché comunque parliamo diversamente?Perché il linguaggio non è innato e abbiamo,lontani,etichettato oggetti,fenomeni e quant'altro in modo diverso. Questo è giusto,penso,ma rimane il fatto che per aver fatto questo diverso processo di creazione di lessico,sintassi ecc.. abbiamo dovuto avere alla base di noi stessi,nella nostra interiorità, una difformità:che questa però si sia creata con il raggruppamento di un primo ceppo umano in diverse "razze" che si sono sparse per la Terra, o a causa di qualcos'altro,non ci è dato sapere. Non conoscevo il pensiero di Schelling riguardo a questo tema, ma l' ho trovato interessante.

L'ultimo punto che vorrei mettere in luce di questa opera di Ortega Y Gasset è il piccolo saggio in cui egli si trova a riflettere sulla domanda "che cos'è leggere". Egli anche a questa azione attribuisce la caratteristica di utopia,poiché leggere significa in prima istanza il progetto di capire pienamente un testo,ma è impossibile,secondo il filosofo. Possiamo leggere un libro,estrarre una porzione di testo,ma una parte di esso rimarrà sempre "illeggibile". D'altro canto è possibile che mentre compiamo il nostro sforzo di comprendere il testo,leggiamo cose che l'autore non ha voluto dire,rivelate a noi involontariamente. Nasce quindi una "doppia condizione del dire",antitetica:ogni dire è deficiente,poiché dice meno di quanto vuole ma nel contempo è esuberante,poiché dà a intendere più di quanto si propone. Quest'ultimo punto tuttavia non riesce a compensare ed equilibrare il primo,cioè la mancanza,la carenza del dire. Dobbiamo sapere molto di più su quello che non riusciamo a intendere: "leggere sul serio è riferire le parole patenti a quel tutto latente all'interno del quale vengono precisate e, con ciò,capite".

Cosa vuol dire con ciò Ortega Y Gasset? Come è solito fare in tutto il libro,anche qua propone un esempio pratico che ci faccia capire: prende ad esempio la "Geometria" di Euclide. Noi oggi capiamo questo testo, tuttavia ciò non vuol dire che esso abbia senso sempre ma piuttosto che "certe componenti della nostra situazione presente continuano ad essere le stesse che facevano parte della situazione in cui Euclide visse e che lo indusse al suo dire geometrico". Se Omero avesse potuto leggere Euclide avrebbe capito con qualche sforzo la lingua, ma non gli enunciati che vi trovava, poiché ignorava la situazione in cui essi erano sorti. Ho inteso questo punto come un'importanza fondamentale del contesto ed extra-testo, che a mio avviso rientra nella pratica del tradurre: la lettura è, secondo me, una sorta di traduzione, mentale e immediata, ma comunque traduzione, che ci spinge ad interpretare ciò che leggiamo, in base ai dati che abbiamo e altri che dobbiamo cercare e integrare.

Ortega Y Gasset riesce a fare rientrare in questo piccolo libro una grande quantità di informazioni, pensieri e ragionamenti, in modo brillante ed espressivo. Ho dovuto fare una selezione sul materiale,ma ho,quando non condiviso pienamente,almeno apprezzato il suo punto di vista e le sue considerazioni.




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