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IL PERIODO ELLENISTICO - LE INIZIATIVE CULTURALI

letteratura



IL PERIODO ELLENISTICO


Il periodo ellenistico abbraccia gli anni dal 323 al 31 a.C. Il 323 a.C. è la data della morte di Alessandro Magno, in seguito alla quale il mondo greco subisce un cambiamento totale. Il 31a.C. è l'anno della caduta del regno d'Egitto sotto il dominio di Roma. L'Egitto riceve un ordinamento particolare e diventa dominio diretto dell'imperatore, in quanto viene governato dal prefetto dell'Egitto che è funzionario dell'imperatore. Nel 323 a.C. Alessandro Magno muore e lascia una situazione critica, avendo conquistato molti territori ed essendo morto troppo presto senza dare un ordinamento; il suo intento sembrava quello di fare un solo popolo dai tanti che aveva conquistato.

La situazione è precaria anche per il fatto che manca un erede di suo sangue. Sua moglie Roxane è in attesa di un figlio, il quale però potrebbe regnare solo dopo tanto tempo. Il fratello Filippo Arrideo non è in grado di regnare. Gli ufficiali di Alessandro propongono che siano il figlio e Filippo Arrideo a regnare sotto la loro supervisione. Tuttavia uno di questi generali, Perdicca, cui Alessandro aveva affidato l'anello con il sigillo, diventa reggente; gli altri generali si dividono l'impero e diventano autonomi. I generali eliminano i parenti di Alessandro e incominciano le lotte per la divisione (lotte dei diadochi - generali diretti di Alessandro -, e in seguito degli epigoni, figli dei generali).

Intorno al 275 a.C. la situazione si stabilizza e l'impero appare diviso in tre regni:



Il regno d'Egitto, dominato dalla famiglia dei Lagidi sotto Tolomeo I Soter, figlio di un generale di nome Lago. È il regno più potente, delimitato da confini ben definiti, difeso dal mare e dal deserto e ha un'economia fiorente.

Il regno di Siria, sotto la dinastia dei Seleucidi, figli di Seleuco. Alla Siria corrisponde tutto il territorio dell'Asia Minore e dell'Impero Persiano. È molto grande, ma politicamente ed economicamente fragile, tende a dividersi. Cominciano a staccarsi il regno di Pergamo degli Attalidi, di Bitinia, del Ponto, dei Parti, ecc.

Il regno di Macedonia, sotto gli Antigoni, figli di Antigono Monoftalmo. Aveva alle sue dipendenze la Grecia, anche se in realtà in Grecia vi erano ancora molte città indipendenti tra cui Sparta, Atene, Tebe ecc. (le poleis) e due leghe: la lega Etolica (in Etolia), e la lega Achea (nel Peloponneso) che controllavano molti territori.

In questo periodo in Grecia si ha un cambiamento radicale per quanto riguarda la politica: scompare la città-stato vista come polis; Atene, Sparta e Tebe continuano ad esistere, ma politicamente non contano nulla. Nel mondo ellenistico si diffonde la monarchia, nella quale il cittadino diventa suddito ed estraneo alla politica, poiché a governare sono il re e i suoi funzionari. I regni ellenistici dovettero arrendersi quando nel Mediterraneo si fece avanti Roma.


LE INIZIATIVE CULTURALI

In questo periodo la cultura ha un grande sviluppo: la lingua greca diventa veramente tale. Ognuno prima aveva un suo dialetto mentre ora comincia a prevalere la koinè, cioè la lingua comune, il dialetto attico purificato da alcuni elementi: tendono a scomparire l'ottativo e il duale, vi sono influenze orientali, diventa una lingua universale. Anche i Romani utilizzano la lingua greca.

Nel regno d'Egitto la cultura è stata molto curata soprattutto dai primi monarchi quali Tolomeo I Soter, Tolomeo II Filadelfo, Tolomeo III Evergete. Ad Alessandria era molto importante la Biblioteca che conteneva circa mezzo milione di volumi. Per raccogliere un numero così elevato di volumi non hanno lesinato denaro; hanno chiamato studiosi in modo che li ordinassero per autori e generi letterari, e questi ne hanno fatto delle edizioni critiche. Nel Medioevo i testi dei monaci provenivano da quelli alessandrini, nei quali vi erano studi sulle vite dei poeti e sulla lingua.

Di rilevante importanza era anche il Museo: edificio sacro alle Muse, dove si svolgeva l'attività scientifica. Vi erano sale per l'anatomia, giardini con bestie e con piante rare. In questi luoghi gli scienziati studiavano. Per la prima volta la scienza viene basata sulla sperimentazione e sulla specializzazione. Prima la scienza era propria dei sacerdoti, poi dei filosofi: la scienza era filosofia (rappresentante ne era ad esempio Aristotele).

In questo periodo la filosofia inizia ad essere demarcata in filosofia in senso stretto, matematica, fisica, astronomia; la specializzazione si diffonde.

Sia la Biblioteca sia il Museo erano come Università moderne, funzionanti come l'Accademia e il Peripato. Non venivano impartite lezioni regolari, ma occasionali, in cui lo studioso chiamava i suoi discepoli e discuteva con loro.

Pergamo, capitale del regno omonimo, era il secondo grande centro della cultura. Gli Attalidi sono particolarmente legati alla cultura; sono di questo periodo l'altare (conservato oggi a Berlino) e una biblioteca grande e ben fornita, con circa 200.000 volumi.

Alessandria, che subiva la concorrenza di Pergamo, ha impedito che vi arrivasse il papiro. Allora a Pergamo fu inventata la pergamena (pelli di capra o pecora conciate in maniera particolare) di cui sono costituiti i codici medievali.

Pergamo è sede di una scuola di retorica e di grammatica, concorrenti di Alessandria d'Egitto

Altre città avevano impo 424d39e rtanza sporadica: ad Antiochia, capitale del regno di Siria, i monarchi hanno protetto occasionalmente alcuni letterati, seguaci della filosofia epicurea. Sotto Antioco III vi è una particolare fioritura culturale: egli si serve degli intellettuali per fare propaganda contro Roma.

Pella, capitale della Macedonia, molto meno importante, ospita solo alcuni amici di letterati. Antigono Gonata, Filippo V e Perseo a titolo personale avevano costruito una biblioteca.

Atene aveva un ruolo abbastanza importante. È la sede della filosofia, e in questo periodo si diffondono quattro correnti: gli Accademici, i Peripatetici, gli Stoici e gli Epicurei. Continua a diffondersi la Commedia (di Mezzo e Nuova). In politica ed economia risulta in completa decadenza in quanto elemosina dai monarchi ellenistici. Nell'86 a.C. si ribella a Roma e viene assediata e saccheggiata da Silla. Solo con l'impero di Adriano riesce a riprendersi un po' in quanto egli è protettore dei Greci. Le scuole ateniesi erano frequentate dai Romani che, per ritenersi colti, studiavano ad Atene.

Rodi, con la scuola di eloquenza, Samo e Kos, dove si sviluppa la poesia, risultano dei centri minori.


CARATTERI GENERALI DELLA CULTURA ELLENISTICA

Giovanni Gustavo Droysen ha coniato il termine ellenismo. Ha trovato questa denominazione interpretando erroneamente negli Atti degli Apostoli la parola ellhnistai. Essi erano gli ebrei di lingua e cultura greca. Lui invece interpreta il termine con il significato di greci a contatto con l'oriente di cui hanno assimilato la cultura.

Questo termine è comunque utilizzato per intendere il grecismo allargato a tutto il mondo conosciuto. Vi sono molte caratteristiche da esaminare della cultura ellenistica: esistono molte contraddizioni e contrasti.

L'uomo ellenistico non vede più la sua città, ma il mondo, quello dove si parla il greco. Si superano i limiti della polis.

Qualunque letterato e filosofo parlerà a tutti gli uomini che lo capiscono, i quali parlano greco. Alla fine dell'Età Attica il poeta era maestro dei suoi concittadini, ora scrive per tutti gli uomini di cultura. Il mondo è fatto per essere animato, per la sua arte, non per la morale e per le idee.

Il cosmopolitismo dipende anche dal fatto che crea intellettuali. Essi non sono più solo di origine greca (colonie, isole e continente), provengono da tutto il mondo, hanno imparato la lingua e la cultura greca e quando scrivono lo fanno per il mondo greco.

L'individualismo dipende dalle mutate strutture politiche. L'uomo cessa di essere cittadino e diventa suddito. Questo comporta che l'uomo greco, abituato un tempo a partecipare alla vita pubblica, ora è completamente escluso dall'amministrazione dello stato (affidato al re e ai suoi funzionari) ed ha un solo dovere: quello di essere leale verso lo stato e di obbedire al re; tende così a chiudersi in se stesso. Avviene la scoperta della vita interna, interiore. Cerca la felicità tra le mura domestiche.

L'uomo ellenistico per appagare la sua spiritualità, si dedica allo studio, ai viaggi, alla vita da soldato mercenario, si impegna in varie attività. Si nota che le due teorie filosofiche più diffuse, lo Stoicismo e l'Epicureismo rispecchiano due tendenze: lo Stoicismo il carattere cosmopolita, il bisogno e l'impegno sociale, l'uomo al servizio degli altri; l'Epicureismo la felicità dentro se stessi.

La spiritualità dell'uomo ellenistico cambia in modo profondo. La filosofia ellenistica è molto diversa da quella precedente (Aristotelica e Platonica); non si pone più problemi metafisici, ma si pone il problema della felicità umana. Il periodo ellenistico è un periodo di lotte, vi sono molti sconvolgimenti. La filosofia cerca un valore che possa dare la felicità.

L'uomo ellenistico segue con molto più ardore la religione perché essa comincia a cambiare; anche i greci seguono le religioni orientali, quelle misteriche. Accanto al politeismo si delinea una sorta di monoteismo. Non vi sono più dei ma un unico Dio.

Zeus diventa il dio per eccellenza, per gli stoici egli ha dato origine al fuoco. Le varie tendenze filosofiche e religiose tendono a fondersi; ne viene fuori l'eclettismo: a seconda del problema si vedeva quale scuola aveva dato la risposta più logica. Per la religione nascono le visioni orientali. Nascono anche la magia e l'astrologia.

Un altro contrasto dell'animo ellenistico è costituito dall'Irrazionalismo e dal Razionalismo. Il primo nasce in seguito alla diffusione della magia, dell'astrologia e delle tendenze mistiche di tutte le filosofie. Accanto ad esso c'è il Razionalismo che si manifesta nella grande diffusione delle scienze; la realtà, i miti, la religione vengono spiegati in chiave razionale.

Nel periodo ellenistico cominciano a sorgere città che non avevano pari come grandezza e magnificenza, come Alessandria e Antiochia. Qui la vita è molto più tumultuosa e quindi l'uomo vede nella natura il refrigerio dal caos cittadino. Vi è anche contrasto tra la tendenza a tutto ciò che è spazioso e colossale e ciò che è piccolo e grazioso. Questo si nota sia nell'arte sia nella letteratura.

Nell'ellenismo i re erano adorati, quindi a causa dei loro grandi sfarzi venivano costruite macchine e navi gigantesche. Nella letteratura l'amore per il colossale è tradotto nella tendenza stilistica dell'asianesimo, tipo di scrittura in prosa molto vicina alla poesia, dai periodi lunghi e complicati.

La tendenza verso ciò che è piccolo si nota nell'oreficeria, nei giocattoli; anche le statue risentono di ciò e sono lavorate bene e con cura. In alcuni tipi di letteratura si evidenzia questa caratteristica, come ad esempi nell'epigramma, che nell'ellenismo appare breve, curato, scritto in distici, breve nel linguaggio e nella grammatica.

L'atteggiamento verso alcune categorie di persone cambia, specialmente verso gli schiavi e i bambini. In tutta la letteratura essi vengono rappresentati in modo tale che si vede il cambiamento dell'opinione nei loro confronti. Gli schiavi sono stretti collaboratori che hanno sentimenti verso il padrone, e viceversa. I bambini vengono rappresentati con il loro tipico atteggiamento, come in realtà sono. Anche le divinità da piccole vengono rappresentate come bambini normali (ad esempio Eracle con il serpente; Artemide da piccola sulle ginocchia di Zeus, tende le mani verso il padre; Artemide che va dai Ciclopi, e quando uno di loro la prende gli strappa i peli dal petto).

Si parlava di civiltà alessandrina con un termine negativo poiché si pensava che fosse inferiore al mondo classico; gli studi hanno dimostrato che ciò non era vero perché:

La civiltà ellenistica per la prima volta supera la struttura politica della polis;

Per la prima volta vengono rivisti elementi come donne, schiavi e bambini;

Ne vengono fuori grandi personalità;

È una civiltà che vuole creare qualcosa di nuovo, non ci sono i limiti dell'età precedente.

Oggi si dà una valutazione positiva della civiltà ellenistica. Dal II sec. a.C. inizia a decadere, non perché non avesse più niente da dire, anzi, ma entra in crisi da un punto di vista politico e militare. Le monarchie vengono a contatto con Roma, che è più potente e le vince una dopo l'altra.

Roma si sente conquistata culturalmente dalla civiltà ellenistica così come gli Ebrei e Cartagine. Le caratteristiche della letteratura ellenistica hanno influito su quella romana e su quella moderna.


DISTINZIONE TRA PROSA E POESIA

La letteratura si esprime principalmente in koinh dialektoV. Dal I secolo a.C. sorge negli ambienti culturali del Mediterraneo un movimento che vuole recuperare la parlata attica (atticismo). Tutte le opere in prosa non attica cominciano a non essere più trascritte e a noi sono giunte sporadicamente (solo una minima parte dell'opera Storie di Polibio e altri frammenti).



Conosciamo meglio le opere in poesia tramandate dai codici e dai papiri egiziani. La poesia continua a mantenere il dialetto tipico di ogni tipo di poesia. Essa subisce dei grossi mutamenti: il poeta non scrive più per ammaestrare i suoi lettori; ha un pubblico ristretto, tra gli intellettuali che possono apprezzare la sua bravura; per questo è accentuato il culto della forma (estetismo).

Vi è un influsso di Euripide su tutta la letteratura. Gli eroi del mito vengono rappresentati come personaggi comuni, con i sentimenti dell'uomo comune. È assente il contrasto tra i sentimenti degli uomini comuni e le azioni degli eroi. Non esiste più lo spirito del periodo epico. Il racconto è incentrato sulla descrizione del paesaggio, sui sentimenti, sull'amore che risulta la materia predominante della letteratura ellenistica. Vi è infatti un cambiamento di impostazione: il poeta ellenistico traccia la storia del sentimento d'amore, che non è più un semplice colpo di fulmine, ma un'accurata analisi psicologica (psicologismo).

I generi letterari presenti in quest'epoca sono quelli antichi mutati, oppure altri completamente nuovi.

Tra quelli antichi è presente il genere elegiaco, che nel periodo classico era adoperato per la politica, la filosofia, i consigli morali; nel periodo classico solo un poeta, Mimnermo, si discosta da questo uso: lui scrive poesie d'amore.

I poeti alessandrini prendono come modello anche Mimnermo e scrivono elegie a carattere amoroso. Descrivono amori mitici, non inventati dal poeta; più che imitare Omero e i poeti tragici, da essi i poeti ellenistici riprendevano le glwssh cioè parole rare, che necessitavano di spiegazione, per impreziosire i discorsi; i poeti si ispirano maggiormente ad Esiodo, Mimnermo, Ipponatte, Antimaco.

Gli amori del mito vengono scelti in maniera particolare: sono miti locali, del folklore, oppure, se trattano di un mito conosciuto, ne raccontano una versione poco nota.

Il poeta si ispira più all'erudizione che alla propria fantasia, in quanto i suoi studi gli forniscono la materia.

L'elegia ellenistica può assumere carattere eziologico (da aition, causa, origine). Il poeta racconta un mito che serve a spiegare l'origine di un nome, di una festa, di un'usanza, di un proverbio.

L'epillio, cioè un piccolo poema epico, subentra in un momento in cui la poesia epica era completamente scomparsa; il mito continua ad essere narrato, ma in composizioni meno lunghe dei poemi epici: gli epilli appunto. Tutta la cura del poeta stava nel linguaggio, nella forma, nella metrica. La poesia bucolica è espressione dell'amore per la natura degli uomini ellenistici, che in essa si rifugiano dalla vita cittadina. La natura diventa idealizzata nelle rappresentazioni del locus amoenus latino. Il genere letterario tipico della poesia bucolica è l'idillio, che generalmente era un componimento dove vi era la descrizione della natura.

Nella poesia di Teocrito assume lo stesso significato di epillio; è cioè un breve componimento a carattere generico, vario. Altri componimenti erano dedicati alla fondazione delle città, alle origini mitiche; essi si riallacciano alla poesia eziologica.

Tra i generi più nuovi e tipici vi sono la poesia mimetica e l'epigramma.

La poesia mimetica è tipica della letteratura ellenistica e rappresenta la vita di tutti i giorni. Il genere letterario più adatto è il mimo. La poesia mimetica si riallaccia al realismo. Quello moderno si dedica alla vita degli uomini più umili con tutti i loro problemi e si descrivono le loro situazioni con linguaggio molto vicino a quello parlato (v. Verga per il verismo); è un realismo sostanziale e formale. Nell'antichità esso è inteso come rappresentazione della vita quotidiana. Ha però due forti limiti: quello formale perché i personaggi non usano mai la lingua parlata (in Teocrito ad esempio usano il dialetto omerico), e quello sostanziale perché i personaggi umili non potevano essere protagonisti del genere tragico o epico, ma di scene buffe. Vi sono due eccezioni: per quanto riguarda la sostanza nella Incantatrice di Teocrito (vengono descritte le sofferenze d'amore di una ragazza umile); per quanto riguarda la forma abbiamo un esempio latino nel Satyricon di Petronio dove alcuni personaggi si esprimono con la lingua parlata.

L'epigramma in generale è l'iscrizione su una tomba, su un monumento o incisa su un oggetto in voto agli dei o in dono ad una persona. Quello ellenistico conserva questo carattere: il poeta finge di dedicare un oggetto ad una persona amata, ma il contenuto finisce per comprendere una tematica più vasta. Diventa quasi una poesia lirica dove il poeta esprime tutti i suoi sentimenti. L'unica legge è l'estensione in due distici elegiaci, cioè in quattro versi. La forma deve essere elaborata, lo stile ricercato.

La poesia ellenistica è stata svalutata fino a Droysen per alcuni suoi difetti: un'eccessiva erudizione, troppo psicologismo, non vi è sentimento e fantasia del poeta e la poesia appare troppo fredda e risultato di imitazione. Nel '900, in seguito ad altre scoperte, ci si è resi conto che nel poeta ellenistico la fantasia e il sentimento non sono assenti, ma vengono mascherati. Un'accusa che comunque non si può negare è l'eccessiva erudizione, anche se alcuni, come Callimaco, riescono ad ironizzare. I romani davano un giudizio positivo della poesia ellenistica e potevano leggere interamente le opere di questi poeti.


POESIA TRAGICA: LICOFRONE

Il V secolo è l'età della grande tragedia. Dopo la morte di Euripide l'evolversi della tragedia termina, ma in età ellenistica tragedia e commedia vengono ancora esercitate. La commedia si evolve ad Atene mentre il centro della tragedia si sposta ad Alessandria.

In ogni città della Grecia cominciano a sorgere dei teatri e vengono rappresentate delle tragedie nuove (IV e III sec.) e quelle riprese dagli autori attici, in particolare Euripide. Nella recita della tragedia assume importanza l'attore e la sua bravura.

Sotto il regno di Tolomeo III Filadelfo, che regna dal 283 al 247 a.C. vengono protette le arti; egli si interessa di poesia tragica e riunisce i sette poeti più importanti, battezzati degli antichi "la Pleiade" poiché essi erano splendenti quanto le sette stelle Pleiadi. Essi scrivono moltissimo ma, a parte i pochi frammenti, è rimasta una sola tragedia scritta da Licofrone di Calcide, in Eubea. Egli vive nella prima metà del III secolo a.C. e si trasferisce ad Alessandria in una data ignota. Entra al servizio di Tolomeo II e riceve l'incarico di riordinare i testi dei poeti comici nella Biblioteca. Dopo questo incarico scrive un trattato sulla commedia. Di lui non sappiamo altro; delle sue opere ci rimangono alcuni frammenti e un'opera intera, l'Alessandra scritta in 1474 trimetri giambici. È una tragedia o almeno così sembra: contiene un prologo, una parte centrale e un epilogo. Il prologo e l'epilogo sono molto brevi. La parte centrale è occupata da un lunghissimo monologo, dove vi sono le profezie esposte da un messaggero e fatte da Alessandra, nome meno comune che sta per Cassandra. Sono profezie che abbracciano un arco di tempo vastissimo, dalla guerra di Troia all'epoca del poeta. Vi sono anche elogi della potenza di Roma.

L'ultima profezia riguarda un avvenimento dopo la morte del poeta: Tito Quinzio Flaminino che nel 197 vince Filippo V di Macedonia a Cinocefale in Tessaglia. Filippo V aveva proclamato la "libertà" della Grecia e la profezia riguardava appunto questo avvenimento. Questo non può essere stato scritto da Licofrone, è un'aggiunta posteriore.

Le profezie che Licofrone fa pronunciare ad Alessandra sono scritte in un linguaggio complicato che vuole imitare quello degli oracoli:

Utilizza molto le glwssh e i neologismi

Intreccia tra loro miti diversi ai quali accenna in maniera molto breve

Le persone e i luoghi sono indicati con perifrasi o antonomasie che richiedono la conoscenza di un mito raro o di nozioni di storia e geografia approfondite. Licofrone stesso dice di voler rendere il linguaggio complicato.

Solo dal punto di vista esteriore essa appare una tragedia, in quanto manca completamente di azione tragica. Gli studiosi moderni non sanno in quale genere letterario inserirla. È un'opera molto importante perché è testimonianza del gusto ellenistico; vi è una quasi totale incomprensibilità. Nell'antichità venne commentata e criticata con testi che superavano come estensione il testo stesso della tragedia. Licofrone vanta il suo stile oscuro e risulta evidente che vuole sfoggiare la sua erudizione.


LA COMMEDIA DI MEZZO E LA COMMEDIA NUOVA

Aristotele conosceva soltanto la Commedia Antica e quella Nuova. Soltanto successivamente, ai tempi dell'Imperatore Adriano, i critici individuarono la Commedia di Mezzo, e i moderni mantengono tuttora questa divisione.

La Commedia di Mezzo rappresenta lo stadio della lenta evoluzione tra quella Antica e quella Nuova. È difficile stabilire come fosse la Commedia di Mezzo. Numerosi sono i frammenti, ma non le opere intere. Possiamo avere delle idee da Plauto e da Terenzio che si sono ispirati rielaborandone il materiale, ma non traducendolo. Un'idea meno confusa della Commedia di Mezzo la possiamo avere dall'ultima commedia di Aristofane (il Pluto).

Per quanto riguarda la Commedia Nuova possiamo dire esattamente di cosa si trattava perché possediamo alcune commedie di Menandro più o meno intere. Le differenze dalla Commedia Antica sono molteplici. Perde completamente il carattere di satira politica. Atene, dopo la sconfitta subita nella guerra del Peloponneso, perde ogni importanza politica, il cittadino si rifugia nella vita privata. La Commedia di Mezzo e quella Nuova ritraggono l'uomo tra le pareti domestiche. Le allusioni ai personaggi politici non sono sparite completamente, ma riguardano solo il livello morale.

Dal punto di vista della struttura i poeti tendono ad abolire la parabasi e le parti liriche; si limitano ad usare solo i trimetri giambici; ne viene che la vivacità della scena non è più quella della commedia di Aristofane. Nelle commedie di Menandro tra un atto e l'altro troviamo la scritta corou (parte del coro); il coro era ridotto ad un semplice intermezzo. Nei papiri il testo del coro non veniva più trascritto dal poeta, ma c'erano dei testi standard che il coro cantava indipendentemente dalla trama della commedia.

In Aristofane i personaggi e i protagonisti hanno una personalità ben delineata, ora tendono a comparire le maschere fisse: il padre vecchio e rimbambito, il figlio, l'etera, il cuoco, il soldato fanfarone etc. Tutti i personaggi che compaiono hanno sempre lo stesso carattere. Non vi è una evoluzione psicologica. L'unico intento del poeta è far ridere il pubblico. Le trame hanno tutte elementi in comune e sempre presenti. Ad esempio: la ragazza viene violentata prima del matrimonio e il marito sospetta che il figlio non sia il suo, ma poi scopre che è realmente suo, oppure il padre è a volte buono e umano, a volte avaro e testardo.

La loro comparsa non è del tutto casuale; il coro rappresenta la comunità, ora essa è rappresentata da i tipi fissi. Soprattutto in Menandro vi è la sparizione dell'oscenità, delle parole volgari. Il linguaggio è più castigato e si trasforma: tende a diventare quello della koinh, cioè l'attico depurato dagli elementi dialettali.

Il contenuto riguarda la vita di tutti i giorni della borghesia ateniese, viene rappresentato l'uomo tra le quattro pareti domestiche.

I personaggi assumono un valore più universale: possono essere vissuti in una qualunque epoca o luogo. Vi è una grande tendenza alla parodia di tragedie e di miti (es. Oreste ed Egisto in una commedia diventano amici).

Nella Commedia di Mezzo e Nuova si nota un grandissimo influsso di Euripide. Egli:

Aveva dato alla tragedia il prologo, che serviva a spiegare ciò che sarebbe avvenuto sulla scena, e così avviene anche per la commedia, perché le trame erano molto complicate e dovevano essere spiegate;



In queste fasi la trama diventa più organica; in Aristofane l'ultima parte era formata da scene staccate, per influsso di Euripide ora la trama appare più logica

Vi è un gusto per l'analisi psicologica in Menandro; gusto nell'esprimere i sentimenti umani, gusto per la sentenziosità, cioè per i proverbi e le sentenze.

Per la Commedia Antica i grammatici alessandrini avevano fatto un canone e avevano scelto Aristofane, Eupoli e Cratino. Altrettanto succede per la Commedia Nuova: i tre commediografi sono Menandro, Filemone e Difilo.

Per i testi tuttavia la situazione è diversa: per la Commedia Antica possediamo di Aristofane undici commedie intere; per la Commedia Nuova l'unico di cui possediamo opere è Menandro, di cui solo una è intera, mentre delle altre abbiamo solo frammenti. Si possono ricostruire le trame delle sue commedie grazie ai luoghi comuni.

È grazie a Menandro se sappiamo com'è in realtà la Commedia Nuova


MENANDRO


Nasce nel 342-341 a.C. ad Atene. Apparteneva ad una famiglia ricca e nobile. Ciò è significativo per la sua produzione in quanto era in rapporto con un rappresentante della Commedia di Mezzo di nome Alessi. Non si sa se fosse solo suo discepolo o anche suo parente. Ricevette un'educazione raffinata, sappiamo che fu educato in ambiente peripatetico: Aristide Teofrasto fu suo maestro e di lui fu successore. L'insegnamento di Teofrasto è molto palese in un particolare: tra le sue opere Teofrasto ne scrisse una in cui analizza i particolari di alcuni tipi umani e dei loro caratteri. Fra le commedie di Menandro alcune sono indicate per il carattere del protagonista: questo coincide con un carattere descritto da Teofrasto, ad esempio nell'Adulatore.

I caratteri sono un esempio di analisi psicologica e anche in Menandro essa è approfondita. Il rapporto con il mondo della filosofia per lui rimane stretto; è amico di Epicuro, di cui è stato compagno di efebia (servizio militare). Un altro suo grande amico è stato un filosofo peripatetico, Demetrio Falereo. Oltre che filosofo, quest'ultimo era anche politico, e dopo la morte di Alessandro Magno fra il 317 e il 307 governava Atene sotto il protettorato della Macedonia.

Menandro, molto giovane, sotto il governo di Demetrio Falereo inizia la carriera comica. La sua prima rappresentazione è del 322 (quando aveva circa 19-20 anni). La sua prima vittoria la ottiene nel 317-316 a.C. con il Dyscolos e si afferma come poeta comico; non ebbe molta fortuna in quanto raggiunse solo otto vittorie. Lo scarso successo è spiegato da due fatti: gli antichi dicevano che gareggiando contro Filemone, quest'ultimo imbrogliava corrompendo i giudici; i moderni dicono che lo scarso successo era dovuto al contenuto delle sue commedie.

Le tematiche sociali non suscitavano la simpatia del pubblico come, ad esempio, la rappresentazione amichevole dell'etera o degli schiavi non era ben vista. Nel 307 Demetrio Falereo smette di governare e Atene passa nelle mani di Demetrio Poliorcete, re macedone. Quando questi diventa re di Atene, Menandro corre il rischio di un processo, ma si salva perché interviene in suo aiuto un parente di Poliorcete. Continua così la sua attività.

Nelle sue commedie dimostra di non partecipare alla vita pubblica, non ci sono cenni alla vita contemporanea, oppure sono rarissimi e poco chiari. I suoi unici interessi sono il teatro e le donne. Sappiamo di un amore durante tutta la vita per un'etera chiamata Glicera.

Era così attaccato alla sua città che quando Tolomeo I, re d'Egitto, lo chiama ad Alessandria rifiuta e preferisce rimanere ad Atene, dove morirà nel 291, annegato mentre nuotava nel Pireo.


LE OPERE

Secondo ciò che ci tramanda l'antichità Menandro avrebbe scritto oltre cento commedie. La situazione attuale è critica in quanto è rimasto molto poco: il patrimonio restante è notevolmente aumentato nel corso di questo secolo, grazie ai ritrovamenti dei papiri egiziani che ci hanno tramandato dei frammenti estesi e un'intera commedia, il Dyscolos.

Abbiamo 931 frammenti, 758 gnwmai monosticoi, cioè sentenze in un solo verso, versi sentenziosi tolti dalle commedie di Menandro, che altri antichi hanno ripreso.

Abbiamo 20 commedie quasi intere di cui il Dyscolos è appunto l'unica intera. Esaminiamo le commedie meglio organizzate:

Epitrepontes, i litiganti

Perikeiromene, la donna tosata

Samia, la donna di Samo

Dyscolos, il bisbetico

Stabilirne la cronologia è molto difficile e a parte che per il Dyscolos, datato nel 317-316, abbiamo molte difficoltà per le altre tre. Abbiamo dei dati interni, ma discutibili.

Si ricorre al criterio dell'analisi letteraria. Menandro tende ad usare solo il trimetro giambico e ad eliminare sia il linguaggio oscuro sia le scene farsesche.

Un altro elemento da analizzare è la maniera con cui costruisce la trama. In un primo tempo fa risolvere le complicatissime vicende da eventi casuali; in seguito, per quanto intricate le situazioni vengono risolte dai protagonisti.

Infatti le quattro commedie sono disposte secondo la cronologia: Dyscolos, Perikeiromene, Samia, Epitrepontes.

Per gli Epitrepontes il carattere dei personaggi determina tutta la vicenda. Menandro adopera tipi fissi che cambiano da commedia a commedia.


IL DYSCOLOS

Il poeta ancora molto giovane non è riuscito a fondere in maniera perfetta la riflessione seria e gli elementi comici: la conseguenza più evidente è il fatto che il significato morale del ravvedimento di Cnemone sembra sminuito dalla casualità dell'incidente che lo determina e dalle beffe alle quali il personaggio viene sottoposto nella scena finale. A parte questo difetto, la commedia è ricca di brio e di movimento. Non mancano divertenti scene farsesche: ricche di una comicità molto spigliata costituiscono un'autentica sorpresa in Menandro, che in seguito, affinando la sua arte, sopprimerà questi elementi.

Con molta efficacia vengono descritti l'arrivo di una chiassosa comitiva che vuole offrire un sacrificio a Pan, il Sole che splende sui campi, il fresco antro del dio.

Anche la rappresentazione dei personaggi principali e secondari rivela un accurato studio dei caratteri. Spiccano fra gli altri Sostrato che soffre a causa del suo amore e Cnemone che, disgustato dall'egoismo e dall'avidità della gente, si ostina a vivere lontano da tutti, ma poi ammette con mestizia i propri errori.

In questo personaggio il poeta rappresenta il drammatico isolamento dell'individuo che a causa delle circostanze si chiude in se stesso e rifiuta il dialogo con gli altri, ma i casi della vita lo costringono a capire che la solitudine è un errore e un male e che si può trovare la salvezza soltanto nel comprendersi reciprocamente, nell'aprirsi fiduciosamente agli altri, che possono aiutarci e nel medesimo tempo hanno bisogno di essere aiutati.

Questo messaggio di umana solidarietà è valido anche e soprattutto sul piano sociale perché in questo campo le differenze sono determinate dal capriccio della sorte e ciò che rimane veramente in nostro potere è fare del bene.


LA SAMIA

In questa commedia la trama si fa più coerente e compatta e appare compiutamente realizzato lo stretto rapporto fra i caratteri dei personaggi e lo svolgimento dell'azione. Tutti gli equivoci nascono infatti in uguale misura dall'insicurezza di Moschione e dall'impulsività di Demea.

Moschione è combattuto fra la passione per la sua donna e lo scrupolo di dare una delusione al padre, che ama teneramente e dal quale si sente amato come se fosse un figlio autentico e non adottivo.

Egli è profondamente offeso dagli ingiusti sospetti del padre e, sdegnato, vorrebbe andare in Asia per fare il soldato mercenario, ma l'amore per la sua donna lo convince a fingere la partenza per mettere alla prova l'affetto paterno. Demea, come ha deciso improvvisamente di dare una moglie al figlio senza neppure consultarlo, è altrettanto precipitoso nelle conclusioni. Quando crede che Moschione l'abbia tradito con Criside non si cura di approfondire la veridicità del suo sospetto. Non sa tuttavia convincersi che il giovane, che egli ha sempre conosciuto rispettoso e morigerato, possa essersi macchiato di una simile colpa verso di lui: fa ricadere qualsiasi responsabilità sulla sua concubina; cerca per il figlio tutte le attenuanti e si dimostra indulgente con lui tacendogli ogni cosa. Ma la forza dei sentimenti profondi prevale sulle reazioni istintive, ed entrambi sanno ravvedersi e ammettere cordialmente i propri errori. Criside è la donna di nobili sentimenti, che conserva dignità e lealtà anche quando i casi della vita l'hanno ridotta in una condizione che non si merita e tutto sopporta con bontà e con pazienza. Il dialogo è vivace e spiritoso e quando la situazione lo richiede anche appassionato ed emozionante. Molto coinvolgente risulta la scena in cui tutta l'intricata situazione viene chiarita.


LA PERIKEIROMENE

Gli sviluppi comici della situazione restano marginali e il tema centrale della commedia viene trattato con raffinata penetrazione psicologica. Anche in Glicera, come in Criside nella Samia, vediamo una donna che la sorte costringe a vivere come non merita; però mentre Criside alla fine ritorna ad essere una concubina, in questa commedia la protagonista alla fine può sposare l'uomo che ama grazie al riconoscimento della sua vera origine, secondo quella giustizia poetica con la quale Menandro, senza tenere conto dell'amara realtà di tutti i giorni, ama compensare le sofferenze e premiare il comportamento dei suoi personaggi. Glicera, crudelmente oltraggiata da Polemone, rifiuta dignitosamente le sue proposte di riconciliazione, ma in cuor suo continua ad amarlo, e quando ha ritrovato suo padre ed avrebbe il diritto ad essere più esigente e più fiera generosamente gli perdona e va lei stessa con il padre a fare pace.

A Glicera si contrappone Polemone, il soldato innamorato, altra figura cara a Menandro. Ma Polemone non è il miles gloriosus, fanfarone e vile tipico della Commedia di Mezzo: al di là degli aspetti comici della maschera fissa il poeta vuole scoprire l'interiore sostanza umana del personaggio, e così il rozzo e brutale Polemone viene nobilitato dal suo amore sincero per Glicera e per mezzo di esso si innalza all'umanità e alla gentilezza. I due protagonisti soffrono per amore e gelosia, fierezza offesa e disperato pentimento, ma il dolore li porta ad una superiore comprensione di sé stessi e degli altri. Da questi fatti Menandro ricava un consolante insegnamento: l'uomo è in balia del caso e spesso sbaglia perché ignora l'esatta realtà di una situazione, gliene deriva il dolore che tuttavia lo fa maturare e lo rende capace di trovare la forza morale per giungere alla verità. Lo aiuta sempre il caso che però è un semplice accessorio.




GLI EPITREPONTES

La commedia rappresenta in maniera perfetta un piccolo mondo che rispecchia l'infinita varietà delle vicende umane, nelle quali riso e pianto si alternano e si fondono. L'attenta partecipazione sentimentale del poeta alle vicende che mette in scena è tanto più efficace quanto meno evidente. Il motivo del riconoscimento provocato da coincidenze fortuite, anche se presente, appare del tutto superato: la soluzione autentica delle vicende si ha quando Carisio comprende la statura morale della moglie prima ancora che gli sia noto il felice intrigo del caso. Gli avvenimenti dunque dipendono fondamentalmente dal carattere dei personaggi che, attraverso le prove cui vengono sottoposti, ritrovano se stessi. Carisio all'inizio appare un giovane superbo della sua virtù e unicamente preoccupato dell'opinione altrui. Egli crede Panfila colpevole e, tanto duramente offeso nel suo onore di uomo, abbandona immediatamente la moglie e va a convivere con l'etera Abrotono, cercando di scordare l'affronto subito con una vita dissoluta. Ma qualcosa in lui si ribella: non riesce a trovare conforto nei banchetti e negli amori volgari, detesta Onesimo, lo schiavo che gli ha denunciato la colpa della moglie e, intimamente innamorato di lei, non si decide a divorziare e si rimprovera di averla perduta per sempre con la sua folle condotta. Quando non può più avere dubbi sull'amore e sulla fedeltà di Panfila, si rende conto di non essere affatto migliore di lei e comprende che non le ha voluto concedere un perdono e una giustificazione di cui lui ha ancora più bisogno perché ha commesso una colpa simile. E così in preda al rimorso e al pentimento si riconcilia con Panfila e grazie all'amore diventa un uomo di elevati sentimenti che cerca soltanto nell'intimo del suo animo le norme per la sua vita. Panfila, innocente vittima di una violenza, è profondamente affezionata al marito e, sebbene lui la offenda apertamente andandosene di casa e dedicandosi ai bagordi, comprende e perdona l'errore del suo sposo e non vuole separarsi da lui: per ben due volte rifiuta con ostinazione di cedere alle insistenti pressioni del padre che tenta di persuaderla al divorzio perché sa bene che non può e non deve abbandonare il suo amato Carisio. Con la figura di questi due sposi Menandro ci insegna che solamente con la comprensione e il perdono si possono rendere meno difficili il peso della vita e il rapporto coniugale, ed è possibile raggiungere quella dignità che ci rende veramente uomini. Anche gli schiavi sono tutti bravissime persone che non sanno ingannare; semplici e ingenui sbagliano solo per eccesso di zelo, ed il temperato ridicolo che avvolge le loro figure fa meglio spiccare la loro grande umanità.

Ma sopra tutti è splendidamente resa la figura dell'etera Abrotono, forse la più riuscita creatura di Menandro. La tipica etera della Commedia Nuova è avida e corrotta; Abrotono invece si rivela persona di squisita sensibilità. Sfrontata e pudica, assennata e incauta, fanciullesca e teneramente materna, si comporta spesso come le donne del suo genere, ma la corruzione della sua vita non ha cancellato in lei la più alta femminilità, che si manifesta attraverso una profonda gentilezza d'animo. Offesa perché trascurata da Carisio si lamenta delle umiliazioni ricevute, ma nel medesimo tempo compiange anche colui che gliele ha inflitte, perché ha speso inutilmente tanto denaro. Si commuove al pianto del bambino esposto, pensa di fingersene la madre per ottenere la libertà, ma non rinuncia a cercarne la vera madre. Quando però poi è certa che il piccolo, come aveva già intuito, è figlio di Panfila, prevale in lei la pietà per il dolore di una madre, e la sua pensosa sensibilità di donna le consente di rinunciare al progetto vagheggiato senza rimpianti per la gioia di compiere il bene. In questa maniera e contro i suoi stessi interessi salva un matrimonio che sta per naufragare.

Ciò che in particolare sorprende in questa commedia è l'insensibilità di Menandro riguardo all'esposizione dei bambini. Ma questo problema riguarda tutta la società antica, la quale, come dimostra perfino Aristotele, in certi casi riteneva legittima una pratica che tanto ripugna la coscienza moderna.


LA DRAMMATURGIA

L'esperienza di tutti i giorni ci dimostra che molte volte la realtà supera di gran lunga la fantasia, ma tuttavia quando leggiamo le commedie di Menandro è difficile credere alle inverosimiglianze che vi sono contenute. Parti clandestini, bambini esposti, riconoscimenti inaspettati, coincidenze fortuite sono gli elementi fissi ripetuti con leggere variazioni in tutte le commedie.

Il poeta combina questi elementi in trame stereotipate che si possono ridurre a due tipi fondamentali, entrambi secondo il ritmo ternario tipico del genere comico (situazione iniziale, complicazione e risoluzione). In alcune commedie la situazione iniziale tende ad evolversi verso un esito che coincide con il desiderio di uno o più personaggi, ma l'intervento di un caso imprevisto (un errore, un equivoco, la volontà contraria di un altro personaggio) impedisce questo sviluppo naturale fino a quando l'ostacolo viene superato e si realizza la conclusione prevista. In altre, per esempio gli Epitrepontes, la situazione iniziale dovrebbe essere definitiva, ma un equivoco la porta quasi alla rottura totale, finché tutto viene chiarito e si ripristina la situazione di partenza. All'epoca di Menandro il pubblico accettava senza problemi gli schemi fissi e le poco verosimiglianze, poiché vedeva nello spettacolo teatrale un'occasione di svago tanto più gradita quanto minore era lo sforzo richiesto per comprendere ciò che avveniva sulla scena.

I raffinati dettagli della sceneggiatura e dello stile e la tranquillizzante certezza di un lieto fine bastavano per gratificare gli spettatori. Anche la crisi che costituisce il nucleo della vicenda può essere di due tipi: interna ai personaggi, cioè psicologica quando nasce da un sospetto che però si rivela falso, oppure esterna, motivata da impedimenti obiettivi che però vengono superati. In entrambi i casi comunque la crisi deriva da un errore di conoscenza e si risolve quando questo errore viene chiarito. La soluzione della crisi risponde in maniera soddisfacente all'ansia di una società che, travolta da una profonda insicurezza, per superare questo disagio respinge i problemi che si presentano nella realtà quotidiana e afferma come assoluti i valori individuali che per l'appunto possono trovare opposizione soltanto in un equivoco. Menandro accetta tutte queste convenzioni, ma le supera. Nelle sue commedie gli intrecci sono convenzionali, ma c'è una profonda coerenza tra gli avvenimenti e i fattori umani che vediamo interagire in essi, quindi la trama presenta una sua razionalità interna e l'azione scenica raggiunge la massima intensità drammatica grazie alla verità psicologica delle cause che la determinano. I personaggi sono i tipi fissi della Commedia Nuova (padre, figlio, schiavo, soldato, etera, cuoco, parassita) ma l'autore, seguendo le tendenze individualistiche dei suoi tempi, attribuisce a ciascuno di loro un carattere ed un comportamento ben precisi ed inconfondibile è la soluzione dell'intrigo anche se affidata al caso sembra tuttavia il meritato esito delle azioni umane.

Il finale immancabilmente lieto, in quanto scioglimento di uno stato di ignoranza, afferma la superiore validità della conoscenza e rappresenta l'acquisizione consapevole di valori morali.

Questi consistono in una fondamentale solidarietà, umana rivendicata dal poeta come l'unico aiuto concreto per affrontare e superare con sereno coraggio le difficoltà della vita.


LINGUA E STILE

Aristofane e Menandro sono due commediografi profondamente diversi. Il primo basa le sue trame sulla realtà e nel medesimo tempo sulla fantasia e rappresenta i problemi della polis e del cittadino; porta sulla scena personaggi reali, ma ne fa la caricatura e li ritrae in situazioni grottesche oppure irreali. Menandro invece rappresenta l'individuo e i suoi rapporti privati; si tratta di una commedia realistica che vede l'uomo in una dimensione che esula da stretti limiti di spazio e di tempo e descrive vicende proprie di personaggi che si potevano incontrare nella vita di tutti i giorni. Partendo da questa caratteristica fondamentale i critici antichi, condizionati dal pregiudizio, che l'arte fosse imitazione, anzi riproduzione della realtà, di Menandro lodavano soprattutto la capacità di rappresentare la vita con aderenza perfetta. Aristofane di Bisanzio si chiedeva con entusiasmo: "O Menandro, o vita, chi di voi due ha imitato l'altro?". Attualmente questa concezione dell'arte è del tutto superata, ma noi moderni ammiriamo Menandro perché sa descrivere con molta fedeltà e in tutti i suoi aspetti la società borghese dell'Atene dei suoi tempi. Alla completa riuscita di questa operazione, contribuiscono anche la lingua e lo stile. Menandro riduce in maniera drastica le caratteristiche attiche della sua lingua perché ormai Atene aveva rapporti con tutto il mondo che parlava il greco. Egli adotta inoltre uno stile dimesso e scorrevole che si accosta al tono colloquiale usato dalla borghesia dell'epoca. Questi strumenti, attraverso la rappresentazione dei pensieri e dei sentimenti che si agitano nell'animo di un uomo e che determinano lo svolgimento dell'azione drammatica, consentono al poeta di descrivere in maniera puntuale e articolata l'intera esistenza umana.


IL MONDO CONCETTUALE

Alcuni critici hanno visto nel teatro di Menandro un manifesto della filosofia peripatetica, ma i riferimenti contenuti effettivamente nei testi che possediamo non bastano a convalidare queste ipotesi. In realtà Menandro vuole divertire il suo pubblico, non indottrinarlo, perciò i temi filosofici dibattuti ai suoi tempi devono essere considerati solo una componente di quell'ambiente del quale il poeta intende fornire un'immagine più completa possibile.

Menandro tuttavia, come ogni grande poeta, ci offre una sua interpretazione dell'esistenza che trova il suo centro problematico nel rapporto dell'uomo singolo con gli altri uomini. La civiltà greca, dopo una crisi lunga e travagliata, si stava profondamente rinnovando in campo culturale, economico, politico e sociale. Menandro riflette la difficoltà di vivere dei suoi contemporanei in un sostanziale pessimismo: il dolore è nato con la vita e perciò è impossibile evitarlo, molte sono le forze che impediscono all'uomo di realizzare i suoi desideri, soprattutto le conquiste del bene e della felicità; le bestie sono tutte più ragionevoli e più felici degli uomini perché soltanto gli uomini ai mali inevitabili causati dalla Natura, ne aggiungono altri con la loro stoltezza. Queste dolorose certezze, unite all'impossibilità di trovarne una spiegazione, rendono molti personaggi di Menandro, per esempio Cnemone, incapaci di agire ed isolati in una drammatica incomunicabilità. Di conseguenza nei frammenti del poeta abbondano le sentenze pessimistiche. Una è particolarmente famosa perché piacque moltissimo a Giacomo Leopardi: "on oi qeoi filousin apoqnhskei neos" (colui che gli dei amano muore giovane, Muor giovane colui ch'al cielo è caro).

Menandro però è convinto che il bene e il male, al di fuori dell'esperienza del singolo individuo, siano concetti privi di significato;  pertanto se vogliamo sanare e annullare le contraddizioni e i mali che ci affliggono, dobbiamo conoscere a fondo quella natura umana che ci accomuna tutti senza distinzione di età, sesso, popolo, razza; se ogni evento dell'esistenza si adeguasse alla legge di questa natura, le cose andrebbero per il meglio. Menandro quindi contempla la realtà che lo circonda con occhi malinconici e disincantati, ma nutre una profonda ed invincibile fiducia nella generosità e nella bontà che l'uomo deve all'uomo nell'infinita indulgenza per le passioni e le debolezze umane che dobbiamo essere sempre disposti a comprendere e a perdonare. Egli pertanto non si lascia andare ai feroci attacchi personali tipici di Aristofane: non fustiga i vizi di singoli individui, ma cerca bonariamente di correggere i difetti comuni a tutti gli uomini. Ancora una volta dunque la commedia si rivela un'utopia: il poeta fornisce del mondo una valutazione sostanzialmente ambigua perché, mentre critica il presente, sa bene che non è possibile trasformarlo dall'interno.

Si direbbe quasi che Menandro il male non soltanto non lo sapesse rappresentare, ma neppure concepire: tutti i suoi personaggi non hanno vizi, ma soltanto difetti; sono tutti, perfino gli schiavi e le etere, buoni e generosi in vario grado. Eppure questi personaggi non sono generici tipi convenzionali, ma creature piene di vita perché parlano meno che possono, ma agiscono con semplicità e naturalezza. Il poeta infatti non conosce il sentimentalismo, la retorica della bontà. La sua commedia raramente fa ridere: non troviamo in lui la comicità irresistibile, ma talora sboccata e triviale, di Aristofane, più spesso il brio e l'arguzia di qualche scena fanno sorridere. Questo sorriso serve al poeta per nascondere la più sicura e delicata commozione, perché egli come i suoi personaggi ha pudore dei propri sentimenti, non vuole intenerirsi troppo quando rappresenta in maniera seria e pensosa la realtà. La bontà e la gentilezza si manifestano anche e soprattutto attraverso l'amore. In questo sentimento giustamente Ovidio ha individuato il motivo fondamentale del teatro di Menandro. L'amore unisce genitori e figli, ma in particolare lega uomini e donne. In quest'ultimo caso esso viene descritto in varie forme: pura attrazione fisica, folle gelosia, affetto profondo e tenace, romantica e tenera contemplazione. Per la prima volta l'amore non è una passione tragica ed eroica, ma diventa un sentimento umanissimo, e tuttavia sincero e appassionato, capace di trasformare un uomo in maniera radicale. E dell'amore il poeta, con profonda finezza e sincera commozione, sa rappresentare tutti quegli ondeggiamenti che in un animo non volgare si accompagnano ad esso e ne costituiscono tutto il fascio. Il mondo poetico di Menandro è dominato dal caso e dall'amore: il primo determina gli intrecci e gli scioglimenti, ma il secondo riempie di vita i personaggi e non senza ragione tutte le commedie si concludono sempre con il suo trionfo sulle convenzioni, sugli interessi, sui pregiudizi. Questo trionfo non è puramente convenzionale: in un mondo governato dal caso, dove tutto è incoerente, contraddittorio, vano, l'amore è l'unica cosa seria che abbia veramente un significato ed un valore. Perciò nella vita la sua è la vittoria dell'elemento essenziale su quanto ha un'importanza infinitamente minore.

In conclusione possiamo dire che nulla caratterizza Menandro più e meglio del verso che Terenzio, spirito a lui profondamente congeniale, ha tradotto in latino rendendolo romano e universale:

"Homo sum: humani nil a me alienum puto"






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