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FOSCOLO E IL ROMANTICISMO

letteratura



FOSCOLO E IL ROMANTICISMO


La posizione del Foscolo nei confronti del movimento romantico ed in particolare del romanticismo milanese, è complessa e contraddittoria, in quanto da un lato egli appare come un antagonista del movimento per la sua adesione al mondo classico, dall'altro appare come un precursore delle inquietudini sentimentali dei tempi nuovi, iniziatore di una nuova riflessione sulla storia che durerà per tutto l'arco dell'Ottocento.

Ma per capire meglio la sua posizione è opportuno tracciare alcune linee sulle vicende di quei tempi che lo videro protagonista.

Il nostro romanticismo , o meglio la mostra scuola romantica, avrebbe avuto inizio nel 1816, in seguito alla pubblicazione sul primo fascicolo della Biblioteca Italiana, di un articolo di Madame de Staël, intitolato" Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni". Tale scritto aveva avuto una funzione provocatoria nei confronti della cultura italiana, chiamata a confrontarsi con le nuove teorie sulla poesia e sulle nuove idee sul dramma diffuse in Europa dagli Schlegel, dal Sismondi e dalla stessa Staël. Queste nuove teorie erano state elaborate dalla cultura idealistica germanica, impegnata in una dura battaglia di autonomia e di liberazione dall'invadenza classica e francese. Tali teorie furono accettate o respinte, ma sempre modificate dalle altre culture nazionali, secondo gli interessi e le tradizioni dei vari paesi. Per es. in Inghilterra furono elaborate in modo originale, mentre in Francia furono prima avversate e poi accettate, ma comunque piegate ad una interpretazi 454j92e one reazionaria e mistica, ad eccezione di Stendhal, il quale anticipa la svolta progressista del romanticismo francese dopo il 1825.



In Italia queste idee arrivarono con poca chiarezza ed informazione di pubblico. Del resto da noi non era mai penetrata la cultura germanica, nonostante la lunga dominazione e influenza austriaca in Lombardia e in tutta la penisola. Quel poco della cultura germanica che arrivava in Italia, arrivava attraverso la mediazione della cultura francese. Ma la cultura francese si esprimeva in filosofia nel sensismo e nell'empirismo ed in letteratura nel classicismo, comunque sempre in forme fortemente razionalistiche, che se pur avevano svolto una funzione progressista durante il Settecento con l'eliminazione delle vecchie strutture politiche e sociali, ora invece mostravano segni di crisi di fronte alle nuove esigenze del reale, che si manifestavano con la rivalutazione del sentimento, con l'esigenza di un nuovo rapporto con la natura, con un nuovo bisogno di intendere la storia.

Non bisogna poi dimenticare che da noi, in Italia, Kant (e quindi la confutazione del sensismo illuministico) fu introdotto e spiegato nelle scuole molto tardi (a Napoli nel 1830); l'idealismo e l'hegelismo si vennero affermando solo dopo il 1840; gli stessi Schlegel e Herder erano poco noti: di Ghoethe si conosceva solo qualche traduzione e qualche tragedia.

Assai più noti, invece, erano gli Inglesi, da Shakespeare a Milton, dagli ossianici ai cimiteriali di fine Settecento. Conosciuta era anche la cultura filosofica inglese, da Locke agli illuministi.

Anche il filone storicistico che si richiamava a Vico, che poteva aiutare i nostri romantici ad aprirsi al nuovo della cultura germanica, fu confuso con la tradizione di rinnovamento della nostra cultura settecentesca, che accomunava Vico, Genovesi, Filangieri e Giannone, cioè tutta la tradizione illuminista-giurisdizionalista.

Questa nostra posizione culturale avrà pure avuto una funzione positiva, nel senso che determinerà una "originalità" della nostra cultura romantica, (per es. la tendenza della nostra poesia verso moduli realistici e popolari precluse ogni soluzione orientata verso il patetico, il fantastico, l'irrazionale, il tenebroso, etc.),  ma è indubbio che la insufficiente chiarezza ideologica costituì un ostacolo alla profondità del dibattito.

In questa situazione culturale si svolse la polemica classico-romantica, che al Foscolo lontano, sembrò un inutile e futile dibattito.

Alla polemica, iniziata come si è detto nel 1816, parteciparono le migliori intelligenze della nuova e vecchia cultura: Giordani, Borsieri, Di Breme, Pellico, Berchet, Monti, Porta, Visconti, Leopardi, Manzoni, solo per fare alcuni nomi di classicisti e romantici, come amarono definirsi. In particolare i classicisti accusarono subito la Staël di voler attentare alle nostre gloriose tradizioni patrie, cioè classiche.

La nostra generazione illuminista, che annoverava Parini, Alfieri, Foscolo, il giovane Manzoni, e tutti i fautori di una letteratura di segno contrario alle frivolezze dell'Arcadia, aveva trovato nella sintesi neoclassica l'espressione di una letteratura impregnata di forte moralismo e di alta espressione stilistica, in un contesto storico favorito dalla buona amministrazione austriaca, che in effetti aveva fatto diverse riforme amministrative. Ora il problema del rinnovamento già avviato si poneva in termini nuovi, ma bisognava tener conto dell'ascesa della borghesia e della formazione di un pubblico allargato, e tutto ciò comportava l'uso di una nuova lingua, di una lingua media che doveva rinunciare, per farsi capire, alle alte e sublimi espressioni neoclassiche; inoltre, cosa non secondaria, un simile rinnovamento doveva scontrarsi con la Restaurazione, che era contraria ad ogni novità. E' chiaro quindi che il vero problema, come ai tempi del Caffè, come ai tempi delle polemiche antitassesche di fine Cinquecento, era il problema della lingua e come conseguenza lo stile. Accettare un nuovo programma o rifiutarlo, voleva dire accettare o rifiutare un nuovo tipo di lingua e di stile. Ecco spiegato il rifiuto (del romanticismo) di una società aristocratica, legata al classicismo e al mito della forma. Ecco spiegato come perfino il Foscolo, che certamente non era reazionario, ebbe a disdegno certe novità della nuova poesia romantica per il rifiuto che tale poesia aveva della classicità formale; ecco perché anche il Giordani fu estraneo, se non contrario, al programma nazional-popolare dei nostri romantici.

Comunque superata la prima fase della gran polemica, quando ognuno sentì il bisogno di schierarsi da una parte o dall'altra, subentrò il momento della riflessione. Ci si accorse che gli autori stranieri, tedeschi ed inglesi, non erano conosciuti, come pure le teorie filosofiche e quelle poetiche, che si era perso di vista la vera ragione del problema e che tutta la disputa verteva su mitologia si e mitologia no, ammirazione per gli stranieri e difesa ad oltranza della nostra tradizione e via dicendo.

Alcuni scritti, come "Le idee elementari sulla poesia romantica" , di Ermes Visconti, le "Osservazioni sul Giauro di Byron" del Di Breme, la "Prefazione al Carambola " e la "Lettre à M. Chauvet", di Manzoni, sono segni evidenti di un approfondimento del dibattito.

Dopo questi interventi il nostro romanticismo ne uscì meglio caratterizzato, ma senza rotture con il passato; si approfondirono gli autori stranieri (Goethe, Schiller, gli Schlegel, Sismondi, Byron, Scott); si discusse sui caratteri della poesia antica e quella moderna, sui rapporti con la Natura, sul rifiuto di ogni modello e autorità; ma nello stesso tempo veniva confermata l'incapacità di elaborare o accettare un nuovo canone estetico, che rimase così legato all'empirismo e al sensismo del Settecento.



Si attribuì così una finalità pedagogica all'arte, chiamata a compiti di innalzamento civile, con l'eccezione di Manzoni, il quale avendo avuto la fortuna di vivere a Parigi, si era già orientato in direzione storico-realistica.

Le discussioni continuarono sia sul Conciliatore a Milano, che sull'Antologia a Firenze, ma l'asse della problematica fu spostata dal piano letterario a quello culturale , economico e sociale, com implicazioni politiche velate per non generare sospetti nei governi restaurati. Dei due fogli certamente il più romantico fu il Conciliatore, mentre molto tiepido nei confronti della cultura romantica fu l'Antologia, ma in ambedue si avverte un certo fastidio nei confronti della letteratura, che come diceva Manzoni, "non deve venire ad imbarazzare le cose del mondo" con le sue bizze e le sue eccezioni. Era questo certamente il retaggio di tante vuote discussioni sulla pratica letteraria intesa come frivolo gioco, di un disimpegno tra letteratura e vita, di una distanza tra scrittore e popolo, ma è indubbio che ai "conciliatori" e agli "antologisti" interessava una operazione di rinnovamento che fosse soprattutto socio-culturale e politico. Così le discussioni romantiche sulla poetica furono intese come letteratura di cose, di idee, ancorata al presente, strumento di rinnovamento popolare, cioè borghese, con un dichiarato intento pedagogico finalizzato al risorgimento nazionale.

Per un tale obiettivo bisognava convincere i letterati a non sfuggire, ma a cercare il pubblico, intrattenendolo su questioni che gli stavano a cuore, con un linguaggio accessibile, funzionale e moderno; bisognava riprendere il discorso delle riforme, era necessario rafforzare i legami con l'Europa, non quella della Restaurazione, ma quella della cultura e dei giornali, dei libri, dei dibattiti. Per un simile programma era necessario "diseroizzare" la letteratura, portarla all'osservazione del quotidiano, del reale, con un tono espressivo medio, come medio era la fascia sociale e culturale cui lo scrittore doveva rivolgersi; si doveva inventare un nuovo linguaggio che fosse rispettoso della tradizione, ma anche vivo e moderno, che prefigurasse quella comunità nazionale che nella lingua si riconosce. Bisognava combattere la vecchia letteratura dei pedanti e degli oziosi; bisognava smascherare i falsi patriottismi, le false nobiltà, chi rifiutava il progresso perchè chiuso nella difesa dei suoi privilegi.

Si cerca quindi di nuovo il Pubblico, già scoperto dagli intellettuali illuministi del secondo Settecento, ma tenuto in condizione subalterna rispetto ai "philosophes" e ai riformatori, ma questa volta per associarlo all'opera di rinnovamento, riconoscendogli libertà di opinione contro ogni dogmatismo religioso e politico. Un tale pubblico era già nato in Europa a causa della rivoluzione industriale e della espansione borghese, ma mancava ancora in Italia. Solo la nascita di un simile pubblico poteva suscitare la speranza di un regime più libero.

Ciò spiega perchè i nostri romantici esclusero quanto di misticheggiante, di sentimentale, di irrazionale c'era nel romanticismo tedesco, perchè ritenuto inutile per l'operazione culturale che si erano prefissati. Si spiega così anche l'estraneità e la poca sensibilità che il nostro primo romanticismo ai problemi della forma intesa come creatività assoluta, al rapporto uomo-natura, uomo-divinità, alla disposizione ad uscire dal ristretto limite del quotidiano e del terrestre.

Con questo non si vuol dire che non ci fossero questioni che affrontassero anche lo specifico letterario, come ha dimostrato il Binni nell'analisi dell'età cosiddetta preromantica, ma le finalità della nostra polemica erano extraletterarie. La vera discussione, al livello specifico di poetica, si svolgeva sulla testa dei contendenti ed impegnava i grandi scrittori-poeti, che avevano particolare sensibilità per il problema letterario: Manzoni, Monti, Di Breme, il lontano Foscolo, lo sconosciuto Leopardi.

In quanto al Foscolo, lontano e assente dal dibattito classico-romantico, le ragioni del distacco erano altre e bisogna conoscerle per capire la sua posizione di fronte ai romantici italiani.

Egli apparteneva ad un'altra generazione, quella che aveva vissuto da protagonista il fervore giacobino e l'avventura napoleonica. Il furore ideologico di quella generazione si era consumato nella speranza di un mondo retto dai principi della ragione, nella speranza che i Francesi portassero veramente la libertà ai popoli, ma gli eventi storici avevano infranto quelle speranze, Napoleone aveva portato una nuova tirannide. Si aggiunga poi che il ritmo frenetico di quelle esperienze lasciò tutti, e quindi anche il Foscolo, esausti e sfiduciati, ma i più forti non vennero mai meno alla coerenza dei principi.

Ora a Milano la nuova generazione che si vide a fare i conti con l'amministrazione austriaca pensava che usando moderazione e fermezza si poteva riprendere il discorso delle riforme iniziato nel Settecento: era un progetto ancorato alla realtà, che vedeva nella cultura, nelle industrie, nei commerci la via per un'apertura prima all'Europa e poi all'Italia delle tante patrie, nel tentativo di farne una sola.

Questi romantici-carbonari erano in disprezzo al lontano Foscolo, abituato alla sintesi di millenni e al verso sonante, perchè il loro programma era moderato, calato nel quotidiano, dal respiro breve, anche il loro programma politico gli sembrava di modesto respiro, limitato ad un ambito prettamente regionale. Foscolo non si faceva illusioni sull'Austria ed aveva visto giusto, infatti non accettando la direzione della "Biblioteca italiana", che gli era stata offerta, evitò l'umiliazione, toccata a Monti e Giordani, che dopo poco tempo furono estromessi per il più austriacante Acerbi. Meglio l'esilio e l'Inghilterra, almeno da lì lo sguardo spaziava più ampio e il respiro era veramente europeo.



I vari Borsieri, Pellico, Berchet, che ora a Milano tenevano banco, erano stati suoi allievi a Pavia; Manzoni lo aveva visto venir su, Di Breme era solo un aristocratico prelato ligio ai Francesi. Il Foscolo nutriva nei loro confronti la superiorità chi ha consumato assai più esperienze ed ha una consapevolezza più profonda delle lettere. Tutto quel discorrere di regole di mitologia, di leggende nordiche, di popolarità lo infastidiva e lo lasciava indifferente. A tutto questo lui si sentiva estraneo; del resto con l'Ortis, che aveva avuto un largo consenso di popolo, lui aveva già offerto un esempio di letteratura romantica popolare. Inoltre già in tante battaglie aveva sostenuto la funzione altissima delle lettere in difesa di una letteratura civile. Gli sembrava inoltre di aver già risolto da tempo per conto suo certi problemi presentati ora come nuovi: l'invito alle storie era già nella sua orazione pavese (1809), così il concetto pedagogico della letteratura, così lo svolgimento storico dell'umanità secondo schemi vichiani, così la sua polemica contro l'erudizione fine a se stessa; per non parlare poi del suo senso profondo della nazionalità, delle sofferenze per esso patite, l'impegno e la partecipazione alla vita civile, il gusto del moderno, con il sepolcrale, il patetico, il notturno, il vivo interesse per le letterature straniere con la traduzione di Sterne. Vi era dunque motivo per quel suo senso di superiorità e distacco.

Bisogna inoltre considerare che li, a Londra, altri problemi lo preoccupavano, in una società diversa e più avanzata sotto il profilo culturale e civile. Lì il romanticismo, di cui pure si discuteva, gli si mostrava in una luce assai diversa, più articolato e più ricco di idee, rispetto a quello angusto della cultura italiana, sempre pronta alle polemiche provinciali, in contrapposizioni personali di comodo, che perdevano di vista le questioni più grandi e di maggior peso. E non gli piaceva nemmeno quella organizzazione semiclandestina che trasferiva nella letteratura la logica delle sette e delle fazioni. Questa sua polemica nei confronti della società letteraria italiana era determinata oltre che antichi rancori, oltre che dalla diffidenza generazionale, anche dall'amarezza di chi vedeva le cose già da lui avviate, compiersi fuori dalle sue intenzioni e sotto altro segno. In questo quadro va ricondotta la sua avversione al Manzoni e così si spiega la sua puntigliosa recensione del Conte di Carambola. Foscolo conosceva Manzoni e a Milano lo aveva anche incoraggiato, ma rifiutando la letteratura neoclassica aveva rifiutato il suo modulo di poesia, la sua lezione di parlar sublime. Inoltre non gli piaceva il rifacimento storico del Carambola, per Foscolo traditore e giustamente condannato a morte dal senato veneziano. Inoltre di Manzoni non gli piaceva anche la distinzione tra personaggi d'invenzione, la preponderanza storica sul fantastico, la unicità dell'opera d'arte che non sopporta aggregazioni di scuole, di gruppo, di poetiche.   

Ma se pure nel contrasto tra Foscolo e i romantici italiani vi erano ragioni teoriche e risentimenti personali, il dissenso di fondo è da ricercare in una differenza radicale di progettazione e di pratica letteraria tra Vero Ideale e Vero Reale, tra sublime e quotidiano tra eroico e popolare.

Ma il Di Breme e i suoi amici romantici ritenevano che gli schemi e le progettazioni potevano pure essere stati ideati dagli illuministi e anticipati dal Foscolo, ma assumevano una valenza nuova nella situazione politica in cui venivano proposti. Essi erano dell'avviso che bisognava convincere il Potere restaurato a non governare contro i governati e che l'incivilimento presupponeva il consenso della pubblica opinione. E per far ciò bisognava organizzare e rinnovare la cultura, scendere dal limbo delle cose astratte e oziose e condurla in mezzo al pubblico, per formare le opinioni.

Certamente si trattava di un programma moderato che coinvolgeva cattolici e liberali, ma era quello l'unico spazio che poteva consentire una qualche speranza di successo, per attuare anche in Italia quella forma di partecipazione secondo i modelli della monarchia inglese.

In conclusione si può dire, poiché il romanticismo si venne diramando in una infinità di vie nazionali ed individuali, che l'assenza o la svogliata partecipazione del Foscolo fu una gran perdita per la ricchezza di quella letteratura, e che se fosse stato presente avrebbe reso più vivace il dibattito ed arricchito il nostro primo romanticismo, che invece, come sappiamo, fu dominato dal modello manzoniano.

Invece Foscolo era perduto per il nostro romanticismo; solo più tardi Mazzini e Cattaneo lo restituirono all'Italia con la lapidaria definizione:<<diede all'Italia un'altra istituzione: l'esilio>>, ma allora la generazione del Conciliatore era già stata travolta.


Libera riduzione da M. Dell'Aquila, Foscolo e il Romanticismo






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