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Cronologia della vita e delle opere di Giacomo Leopardi

letteratura



GIACOMO LEOPARDI


Cronologia della vita e delle opere di Giacomo Leopardi.

1798: il 29 giugno nasce a Recanati dal conte Monaldo e dalla marchesa Adelaide Antici.

1809-16: "sette anni di studio matto e disperatissimo". Compone due tragedie ed opere erudite; traduce i classici.

1816: "conversione letteraria". Compone i primi testi poetici di rilievo.



1817: nel febbraio inizia la corrispondenza con P. Giordani; nell'estate prende il via lo "Zibaldone"; a dicembre s'innamora della cugina Gertrude Cassi Lazzari e a tal esperienza dedica il "Diario del I amore".

1818: compone due canzoni civili ("All'Italia", "Sopra il monumento di Dante") e il "Discorso di un italiano sopra la poesia romantica".

1819: "conversione filosofica". Malattia agli occhi. Tentativo di fuga da Recanati. Compone i primi idilli.

1820: compone altre canzoni civili ("Ad angelo mai", "Bruto minore") e altri idilli ("La sera del di' di festa").

1822: nel novembre parte per Roma, dove resta sei mesi. Compone "Alla primavera" e "Ultimo canto di Saffo".

1823: nell'aprile torna a Recanati. Con "Alla sua donna" si congeda provvisoriamente dalla poesia.

1824: stende le prime venti "Operette morali". A Bologna pubblica le "Canzoni".

1825-26: vive tra Bologna e Milano. Il 28 marzo 1826 legge in pubblico "Epistola al conte Carlo Pepoli".

1826: comincia a lavorare per l'editore milanese Stella.

1827: lascia Recanati e vive fra Bologna e Firenze. Esce la prima edizione delle "Operette morali".

1828-30: tornato alla poesia compone "A Silvia" oltre ai canti "Le ricordanze", "La quiete dopo la tempesta", "Il sabato del villaggio".

1831: esce la prima edizione dei "Canti".

1835: esce la seconda edizione dei "Canti".

1836: compone "La ginestra".

1837: compone il "Tramonto della luna". Muore a Napoli il 14 giugno.


Fasi delle opere.

Lo studio matto e disperatissimo portò alla stesura di saggi eruditi ("Storia dell'astronomia", 1813; "Saggio sopra gli errori popolari degli antichi", 1815), 2 tragedie ("La virtù indiana" e "Pompeo in Egitto"), l'orazione "Agli italiani, in occasione della liberazione del Piceno", plaudente all'Austria e legata alle idee reazionarie del padre.

Gli filologico-eruditi cedono il passo alla vocazione poetica (conversione estetica). Legge Alfieri e Foscolo, stringe amicizia col Giordani (1817), un classicista e un purista, ma un uomo moderno. L'influsso del Giordani traspare nelle canzoni del 1818 "All'Italia" e "Sopra il monumento di Dante", pieno di spiriti patriottici (conversione politica).

Nel 1819 tentativo di fuga da Recanati, ma fallito. La prigione soffocante determina un disagio esistenziale (conversione filosofica): scopre la vanità della vita, la nullità delle cose, la noia; abbraccia un credo apertamente ateo-materialista. Fino al '22 non si muove da Recanati e qui compone le canzoni filosofiche e i piccoli idilli.

Nel '22 va a Roma dagli zii materni, ma l'esperienza si risolve in una rovinosa delusione: i rapporti umani non gli appaiono miglioro che a Recanati. Ritorna al paese natale, avvilito, e qui scrive le operette morali, composte in gran parte nel 1824.

Tra il '25 e il '27, libero finalmente dall'oppressiva tutela familiare è a Milano, dove lavora per l'editore Stella, e successivamente a  Bologna e Firenze. A Pisa, dove si trasferisce nel '28, torna a far poesia, dopo un lungo silenzio che durava dal '22. Ha inizio, con "Il Risorgimento" e "A Silvia", scritte a Pisa nel '28, la seconda grande stagione della lirica leopardiana, i grandi idilli. Gli altri li scriverà a Recanati tra il '28 e il '30, dove il poeta è costretto a ritornare, venuto meno l'assegno dello Stella.

Nel '30 si trasferisce a Firenze, qui conosce Fanny Targioni Tozzetti, per la quale prova una profonda, ma sfortunata passione; tale passione detta liriche accorate (il cosiddetto "Ciclo di Aspasia"): "Il pensiero dominante", "Amore e Morte", "Consalvo", "A se stesso", "Aspasia".

Nel '33 si trasferisce a Napoli, dove vivrà insieme ad Antonio Ranieri, conosciuto a Firenze, fino alla morte. Qui scrive la "Palinodia al marchese Gino Capponi" (1835) e i "Paralipomeni della Batracomiomachia" (1834-36), opere polemiche di scherno e di irrisione contro il secolo XIX, contro l'insorgente società industriale e il suo falso incivilimento. Nel '36 con l'aggravarsi della malattia si trasferisce in una villa alle falde del Vesuvio; qui scrive "La ginestra", l'ultima e più potente affermazione del suo pensiero e, ormai sul letto dell'agonia, "Il tramonto della luna".


Il percorso umano e intellettuale.

-Una spietata solitudine.

Il dramma umano e intel 949d34j lettuale di Leopardi nasce nell'ambiente familiare e recanatese per trovare poi convincenti motivazioni sociali, storiche ed ideologiche. Leopardi, dotato di mezzi intellettuali straordinari e di un bisogno ossessivo di affetto, si scontrava ben presto con la grettezza religiosa e affettiva della madre, con l'autoritarismo oppressivo del padre e con i rapporti freddi che dominavano all'interno della famiglia. La deformante religiosità della madre finiva per caricare la fede di Giacomo di incubi dominati dalla morte e dal peccato e per dare l'idea di un Dio vendicativo e autoritario. Il padre poi scoraggiava e umiliava con le risa ogni progetto del figlio. In un ambiente familiare sì fatto non poteva esservi per Leopardi che una spietata solitudine, non certo compensata della Recanati del tempo, incapace di stimoli sociali e culturali e per di più avvolta nell'avvilente arretratezza feudale dello Stato pontificio. In quell'ostinato fervore di studi Leopardi sublima il dramma dell'isolamento, ma distrugge la salute, per cui vivrà nell'incubo della malattia e nel sentimento di infelicità che gli deriva dalla progressiva deformazione fisica. Il primo nucleo del pessimismo leopardiano nasce legato a due istanze di base: quella familiare-ambientale e quella della malattia e della deformazione fisica. È un pessimismo idealistico ed esistenziale. Occorre però prestare attenzione per non incorrere nel giudizio di un Leopardi pessimista perché gobbo. Tale condizione va collocata al giusto posto tra le cause di ordine sociale, politico, filosofico e spirituale. La malattia contribuì prepotentemente a richiamare l'attenzione del Leopardi sul rapporto uomo-natura, fino a verificare, in seguito, con amarezza la precarietà immodificabile della condizione umana.


-Pessimismo storico.

Tra il 1815 e il 1819 circa, Leopardi opera una prima e profonda revisione letteraria, politica, ideologica. L'amicizia col Giordani, figura sostitutiva dell'immagine paterna, se da un lato allieva la coscienza infelice del poeta, che con lui si sfoga comunicandogli il suo smoderato desiderio di gloria e la sua spietata solitudine, dall'altro è fonte e stimolo fecondo al suo processo di rinnovamento. Tale rinnovamento passa attraverso le cosiddette conversioni. La conversione letteraria, cioè il passaggio dall'erudizione al bello: non rinuncia ai classici. Leopardi partecipa alla polemica classico-romantica del 1816 con la "Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana", rielaborata nel '18 nel "Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica". La conversione politica, cioè ad abbandonare le posizioni reazionarie, filoaustricanti e antiunitarie dell'ideologia paterna e della Restaurazione, per leggere più in profondità la realtà negativa del suo tempo e le nuove tendenze della rivoluzione nazionale. Il Leopardi sembra orientarsi verso una missione di poeta civile quale lo auspicava il Giordani: poeta patriottico. Nascono in questo periodo le canzoni civili: "All'Italia" (1818) e "Sopra il monumento di Dante" (1818), intrise di una profonda "evoluzione storica". È la delusione storica di tanti intellettuali italiani che si erano trovati nel clima mortificante della Restaurazione quando avevano invece sperato maggiore libertà e autonomia dopo il crollo del dominio napoleonico. All'interno di questa revisione letteraria e politico-ideologica, matura il "pessimismo storico".


-Pessimismo cosmico.

Tra il '19 e il '23 Leopardi passa dal "pessimismo storico" al "pessimismo cosmico", rovesciando la concezione di una natura benigna che coltiva alle illusioni, in quell'opposta di natura matrigna, causa dell'infelicità dell'uomo. Il poeta passa dal bello al vero, cioè si fa filosofo di professione, da poeta che era. Quali le cause? -A livello fisico ed esistenziale, il '19 è un anno drammatico per Leopardi: già consumato fisicamente da studi micidiali, una grave malattia agli occhi gli toglie per un lungo periodo il conforto della lettura; -La malattia non si risolve in lamento patetico di stampo bassamente romantico, ma diviene stimolo conoscitivo che porta Leopardi alle soglie drammatiche del nulla; -Leopardi scopre le interne contraddizioni della natura e dell'uomo: è la cosiddetta teoria del piacere, esso aspira con tutte le sue forze alla felicità, ma questa gli sfugge sempre, non si realizza mai, anzi la felicità non esiste sulla terra; -Sempre più profonda diventa la delusione storica nella triste atmosfera dell'Europa della Restaurazione, il pessimismo storico si tramuta così in delusione storica, in una condanna spietata della decadenza del presente.

Capovolta la vecchia antitesi natura-ragione Leopardi scopre l'orribile vero di una natura cinica ed indifferente all'uomo. I canti di questi anni ('19-'23) documentano la delusa amarezza del poeta e la violenta denuncia del vero volto della natura ("La sera del di' di festa"(1820); "Bruto minore"(1821); "Ultimo canto di Saffo"(1822)). È soprattutto nelle pagine dello "Zibaldone" che è possibile seguire passo questa drammatica meditazione che porta Leopardi alla scoperta della natura matrigna e alla progressiva rivalutazione della ragione, vero e moderno strumento per mettere sotto accusa società, natura, vecchi valori, falsi miti, credenze religiose, etc. Riscattata la religione Leopardi si avvicina alle filosofie illuministiche e particolarmente alle filosofie materialistiche del sensismo e del meccanicismo. Tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; l'esistenza è un male; e ordinata al male; il bene dell'universo è il male; l'ordine, le leggi, etc. dell'universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male.


-Un pessimismo agonistico.

Di fronte a queste negazioni totali il poeta non dà risposte evasive, né si rifugia in una consolatoria fede religiosa, né porge l'estrema sfida del suicidio come unica alternativa al male di vivere. Anzi egli dà una risposta progressiva, impegnata, eroica fino all'utopia. L'amicizia con i liberali toscani riuniti intorno alla rivista "Antologia" e con il giovane esule politico napoletano Antonio Ranieri portano il Leopardi a liberarsi di quella crosta di insensibilità che si era rappresa in lui dopo il primo ritorno da Roma nel 1822. Pertanto, dopo il 1830 circa, si assiste ad una svolta del pensiero leopardiano, con l'elaborazione di un pessimismo agonistico, animato da una virile energia costruttiva che accetta tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera. Sul piano ideologico Leopardi riafferma con vigore la sua fede materialistica, usa la ragione illuministica per superare l'illuminismo stesso nelle sue fiducie ottimistiche, per combattere polemicamente la cultura contemporanea, per smascherare i miti progressivi e provvidenzialistici dei liberali cattolici, il loro cauto riformismo, ma anche le nuove fiducie del pensiero moderno e della scienza.


Poetica e poesia.

-Poesia dell'immaginazione e poesia sentimentale.

La poetica del Leopardi è legata all'evoluzione del suo travaglio umano e intellettuale. Le polemiche classico-romantiche del 1816 portano alla composizione di: "Lettera ai compilatori della biblioteca italiana" (1816), "Discorso di un italiano sopra la poesia romantica" (1818) e "Zibaldone". Nel "Discorso." Leopardi, in accordo con i romantici, accetta la polemica contro l'abuso della mitologia, perché in essa, ormai privata di quella forza di persuasione che aveva un tempo, troviamo un non so che di arido e di falso, così come accetta la polemica contro l'imitazione dei classici, contro l'osservanza cieca e servile delle regole e dei precetti, in quanto l'arte è naturalezza e spontaneità. Leopardi contesta invece ai romantici che la poesia sia in funzione dell'utile e che debba essere popolare. Per lui la poesia degli antichi è un modello e un simbolo di perfezione, ma tale poesia non è più possibile al giorno di oggi giacché la ragione, la scienza, l'industria, la civiltà, la corruzione hanno disseccato la fantasia, hanno dissolto l'incanto delle favole. La poesia vera, quella dell'immaginazione, è morta per sempre, e non può essere resuscitata in questo mondo profondamente mutato rispetto all'antico. Il mondo è divenuto filosofo. Tutto l'uomo è cambiato, ha scoperto che la noia presiede alla vita umana. Al poeta non resta che ripiegarsi su se stesso, in una poesia dell'animo, in una poesia sentimentale, quella cioè che sgorga dalla filosofia, dall'esperienza, insomma dal vero. La poesia moderna (poesia sentimentale) è dunque tutta nutrita di affetti e di idee, intima e pensosa, e muove dalla cognizione dolorosa del vero che l'uomo scopre all'interno del proprio animo, dal sentimento dell'umana infelicità. È su questi presupposti che nasceranno le Canzoni (soprattutto "Bruto minore" e "Ultimo canto di Saffo") e gli Idilli. Approfondendo i caratteri distintivi dell'arte, Leopardi perviene a considerare la lirica come l'unico genere veramente poetico; la poesia sta essenzialmente in un impeto, è sfogo del cuore; è il canto dell'anima (da ciò il titolo di Canti che diede alle sue opere).


L'infinito e la rimembranza. La poesia degli idilli.

La distinzione tra poesia dell'immaginazione (quella dei classici) e poesia del sentimento (quella di oggi) si accompagna alla tesi che elementi essenziali della lirica moderna sono anche il senso dell'indefinito e della rimembranza, cioè il remoto nel tempo e nello spazio, il vago e l'indeterminato. Subito dopo la composizione dell'Infinito Leopardi annotava nello "Zibaldone": "l'anima cercando il piacere in tutto, dove non lo trova,.aborre i confini.; quindi, vedendo la bella natura ama che l'occhio si spazi quanto è possibile.la cagione è la stessa, cioè il desiderio dell'infinito, perché allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale. L'anima si immagina quello che non vede, che quell'albero, quella siepe, quella torre gli nasconde e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse dappertutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario". Il motivo del ricordo è affrontato soprattutto in alcuni appunti del 1828-30 e accompagna la stesura dei "grandi idilli": "un oggetto qualunque per esempio un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla". Le riflessioni sul vago dell'immaginazione sono connesse alle riflessioni sul vago del linguaggio poetico: le parole lontano, antico e simili sono poeticissime e piacevoli perché destano idee vaste e indefinite; le parole notte, notturno e simili sono poeticissime perché la notte confondendo gli oggetti, l'animo non ne concepisce che un'immagine vaga, indistinta, etc. La poetica dell'infinito e della rimembranza già in nuce negli idilli composti tra il 1819-21, sottende soprattutto ai grandi canti pisano-ricanatesi del 1828-30: "A Silvia", "Le ricordanze", "Canto notturno", "La quiete dopo la tempesta", "Il sabato del villaggio", "Il passero solitario". Dopo il 1830, la poesia riflette la svolta che si compie nel pensiero leopardiano, teso ad una esaltazione del proprio impegno: un lessico più realistico, aspro e scabro, un tono eroico e combattivo caratterizza così questo estremo periodo, anche se non mancano note di intensa affettività unite a momenti di alta e severa riflessione.


Il pensiero di Leopardi.

Al centro della meditazione di Leopardi si pone subito un motivo pessimistico, l'infelicità dell'uomo. Egli individua la causa prima di questa infelicità in alcune pagine fondamentali dello "Zibaldone" del luglio 1820. Restando fedele ad un indirizzo di pensiero settecentesco e sensistico, egli identifica la felicità con il piacere sensibile e materiale. Ma l'uomo non desidera un piacere bensì il piacere: aspira cioè ad un piacere che sia infinito per estensione e durata. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri particolari goduti dall'uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua, un vuoto incolmabile dell'anima. Da questa tensione inappagata verso un piacere infinito che sempre gli sfugge nasce per  Leopardi l'infelicità dell'uomo. L'uomo dunque è infelice per la sua stessa costituzione. Ma la natura che in questa prima fase è concepita come madre benigna, attenta al bene delle sue creature, ha voluto, sin dalle origini offrire un rimedio all'uomo: l'immaginazione e le illusioni, grazie alle quali ha velato all'uomo le sue effettive condizioni. Per questo gli uomini primitivi e i greci e i romani, che erano più vicini alla natura (come lo sono i fanciulli) e quindi capaci di illudersi e di immaginare, erano felici, perché ignoravano la loro reale infelicità. Il progresso e la civiltà, opera della ragione, hanno allontanato l'uomo da quella condizione privilegiata e lo hanno reso infelice. La prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita su questa antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Gli antichi, nutriti di illusioni, erano capaci di azioni eroiche e magnanime. Il progresso della civiltà e della ragione, spegnendo le illusioni, ha spento ogni slancio magnanimo, ha reso i moderni incapaci di azioni eroiche, ha generato viltà e meschinità. La colpa dell'infelicità presente è dunque attribuita all'uomo stesso, che si è allontanato dalla via tracciata dalla natura benigna. Leopardi dà un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni. Scaturisce di qui la tematica civile e patriottica che caratterizza le canzoni civili leopardiane e ne deriva anche un atteggiamento titanico: il poeta, come unico depositario della virtù antica si erge solitario a sfidare il fato maligno che ha condannato l'Italia a tanta abiezione. È questa la fase del pessimismo storico. Questa concezione di natura benigna e provvidenziale entra in crisi. Leopardi si rende conto che, più che al bene dei singoli individui, la natura mira alla conservazione della specie, e per questo fine può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza. Ne deduce che il male non è un singolo accidente, ma rientra nel piano stesso della natura. Si rende conto inoltre che è la natura che ha messo nell'uomo quel desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo. In una fase intermedia, Leopardi cerca di uscire da queste contraddizioni attribuendo la responsabilità del male al fato; propone quindi una concezione dualistica, Natura benigna Vs. Fato maligno. Ma ben presto arriva alla soluzione delle contraddizioni rovesciando la sua concezione della natura (vedi "Dialogo della Natura e di un Islandese"). Leopardi concepisce la natura non più come madre amorosa e provvidente, ma come meccanismo cieco, indifferente alla sorte delle sue creature. È una concezione non più finalistica (la natura che opera consapevolmente per un fine, il bene delle sue creature), ma meccanicistica e materialistica. La colpa dell'infelicità non è più dell'uomo stesso, ma solo della natura. L'uomo non è che la vittima innocente della sua crudeltà. Se filosoficamente Leopardi rappresenta la natura come somma di leggi oggettive non regolate da una mente provvidenziale, poeticamente ama rappresentarla come una sorta di divinità malvagia, che opera deliberatamente per far soffrire e distruggere le sue creature (vedi "Dialogo della Natura e di un Islandese"). Viene così superato il dualismo Natura-Fato: alla natura vengono attribuite le caratteristiche che prima erano del fato, la malvagità crudele e persecutoria. Così muta anche il senso dell'infelicità umana: prima in termini sensistici, era concepita come assenza di piacere; ora l'infelicità materialisticamente, è dovuta soprattutto a mali esterni a cui nessuno può sfuggire. Quindi tutti gli uomini in ogni tempo. In ogni luogo sono necessariamente infelici. Al pessimismo storico subentra così il pessimismo cosmico. Tale concezione sarà alla base di tutta l'opera successiva al 1824. il suo ideale non è più l'eroe antico ma il saggio antico, stoico, la cui caratteristica è l'atarassia, il distacco imperturbabile della vita. È l'atteggiamento che caratterizza le operette morali. In seguito tornerà l'atteggiamento di protesta, di sfida al fato e alla natura, di lotta titanica. Finché al termine della vita, ne "La ginestra" Leopardi arriverà a costruire tutta una concezione della vita sociale e del progresso.


La poesia del Leopardi.

-I piccoli idilli.

Il Leopardi chiamò idilli 6 composizioni in endecasillabi sciolti dettate negli anni 1819-21. Sono: "L'infinito", "La sera del dì di festa", "Alla luna", "Il sogno", "La vita solitaria" e il "Frammento XXXVIII". Il termine idillio, dal greco "eidullion" equivale a quadretto, bozzetto di vita agreste o cittadina e ricevette nell'antichità classica alta consacrazione poetica dall'arte di Teocrito. L'idillio leopardiano non ha però carattere oggettivo e descrittivo, come in Teocrito, ha invece un tono del tutto intimo e autobiografico. È contemplazione di un sentimento, rappresentazione fantastica di un momento particolare della vita affettiva del poeta, un colloquio di lui con se medesimo, sullo sfondo paesistico e naturale. Leopardi stesso definisce gli idilli: "esperimenti, situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo. Nell'edizione fiorentina del 1831 detto termine, già usato per l'edizione milanese del 1825 e per quella bolognese del 1826, scomparve; sotto il titolo di canti l'autore accolse anche le testimonianze della sua prima grande stagione poetica (i primi canti e le due canzoni patriottiche).


-Le canzoni filosofiche.

Sono 7 e appartengono tutte al periodo 1820-22: "Ad Angelo Mai", "Nelle nozze della sorella Paolina", "Ad un vincitore nel pallone", "Bruto Minore", "Alla primavera", "Inno ai patriarchi" e "Ultimo canto di Saffo".


-Le operette morali.

Chiusa la stagione delle canzoni e degli idilli comincia per Leopardi un silenzio poetico che durerà sino alla primavera del 1828. Egli stesso lamenta la fine delle illusioni giovanili, lo sprofondare in uno stato d'animo che gli impedisce ogni moto dell'immaginazione e del sentimento. Per questo intende dedicarsi solo all'investigazione dell' "arido vero". Da questa disposizione nascono le "Operette Morali", quasi tutte composte nel 1824, di ritorno da Roma dopo la delusione subita nel suo primo contatto con la realtà esterna alla "prigione" di Recanati. A questo folto gruppo si aggiungeranno poi nel 1825 "Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco", nel 1827 il "Copernico" e il "Dialogo di Plotino e di Porfirio", infine nel 1832 il "Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere" e il "Dialogo di Tristano e di un amico". Le "Operette Morali" sono prose di argomento filosofico. Leopardi vi espone il "sistema" da lui elaborato attingendo al vasto materiale accumulato nello Zibaldone. Ma non lo espone in forma sistematica, ma attraverso invenzioni fantastiche, miti, allegorie. Molte operette sono dialoghi i cui interlocutori sono creature immaginose, personificazioni, personaggi mitici o favolosi (la natura, la terra, la morte, il mago Malambruno); in altri casi si tratta di personaggi storici (Plotino e Porfidio). In alcune operette l'interlocutore principale è proiezione dell'autore stesso (Tristano, il venditore di almanacchi). In esse ritroviamo tutti i temi del pessimismo leopardiano: l'infelicità inevitabile dell'uomo, l'impossibilità del piacere, la noia, il dolore, i mali materiali che affliggono l'umanità. Tutto guardato con lucidità e distacco ironico. La prosa di nitore classico, di straordinaria levità può talvolta avere qualcosa di gelido, ma spesso è percorsa da intense vibrazioni.


-I grandi idilli.

Negli anni 1828-30 (soggiorno a Pisa e ultimo ritorno a Recanati) si assiste al rifiorire dell'ispirazione (ripresa poetica). Si è generalmente convenuto di chiamarli "grandi" per differenziarli dai "piccoli", accettando una definizione che risale al De Sanctis; ma oggi più di uno studioso autorevole (Fubini, Bigi, Timpanaro) propone di respingerla, osservando che il termine piccoli può sembrare limitativo se applicato a liriche di alto valore come "L'infinito" e "Alla luna" e che la definizione di idillio suona imperfetta per "A Silvia" e "Canto notturno" che idilli propriamente non sono. Pertanto propongono la terminologia "canti" per tutti.


Testi tratti dai "piccoli idilli".

"L'infinito".

Fu composto a Recanati nel 1819 e pubblicato nel 1825 ne "Il Nuovo Raccoglitore", poi, nel 1826, nei "Versi" ed infine, nel 1831, nei "Canti". Metro: endecasillabi sciolti. L'Infinito anticipa un nucleo tematico che diverrà il centro delle riflessioni leopardiane negli anni successivi: la teoria del piacere, da cui si sviluppa la teoria del vago e indefinito. Leopardi sostiene che particolari sensazioni visive o uditive, per il loro carattere vago e indefinito, inducono l'uomo a crearsi con l'immaginazione quell'infinito a cui aspira, e che è irraggiungibile, perché la realtà non offre che piaceri finiti. L'Infinito è appunto la rappresentazione di uno di questi momenti privilegiati, in cui l'immaginazione strappa la mente al reale, che è "il brutto", e la immerge nell'infinito. La poesia si articola in due

momenti, corrispondenti a due sensazioni di partenza diverse: nel primo momento (vv. 1-8), l'avvio è dato dall'impossibilità della visione: la siepe che chiude lo sguardo. L'impedimento della vista, che esclude il "reale", fa subentrare il "fantastico": il pensiero si costruisce l'idea di un infinito spaziale. Nel secondo momento (vv. 9-15) l'immaginazione prende l'avvio da una sensazione uditiva, lo stormire del vento tra le piante. La voce del vento richiama alla mente l'idea di un infinito temporale a cui si associa successivamente il pensiero delle epoche passate, svanite, e dell'età del presente. La lirica ha una sua durata temporale interna: le due sensazioni e le due sensazioni da esse suscitate, sono in successione tra loro, anzi scaturiscono l'una dall'altra; questa successione narrativa non si riferisce però ad un evento unico, bensì ad un esperienza ripetuta più volte nel tempo. Vi è anche un passaggio psicologico: l'io lirico, davanti alle immagini interiori dell'infinito spaziale, prova come un senso di sgomento; ma nel secondo momento l'io si annega nell'immensità dell'infinito immaginato, sino a perdere la sua identità; e questa sensazione di naufragio è dolce. Sarebbe facile leggere il componimento in chiave mistico-religiosa: il perdersi dell'io nell'infinito è il dato costitutivo di ogni esperienza mistica; il linguaggio tipico della mistica è richiamato dalla metafora del "mare" in cui l'io "naufraga". Ma bisogna fare attenzione: non è ravvisabile, nel componimento nessun accenno ad una dimensione trascendente; l'infinito non vi ha le caratteristiche del divino, non è un infinito oggettivo, ontologico, bensì soggettivo, creato dall'immaginazione dell'uomo. Con questo non si può del tutto escludere una componente mistica nella poesia: bisogna però supporre che essa sia radicata negli strati più profondi della personalità leopardiana e che per arrivare ad esprimersi debba passare attraverso le forme culturali acquisite dal poeta. All'interno della poesia ci sono forti simmetrie. I due momenti corrispondenti all'esperienza dell'infinito spaziale (vv. 1-8) e a quella dell'infinito temporale (vv. 8-15), occupano ciascuna esattamente sette versi e mezzo. Il passaggio tra i due momenti avviene esattamente al verso 8, che è diviso in due da una forte pausa al centro, segnata dal punto fermo. La pausa serve a distinguere i due momenti, ma ci sono anche elementi di continuità, il fatto cioè che viene descritto un processo unico, in cui un'immaginazione scaturisce dall'altra: si tratta di un elemento sintattico, la congiunzione coordinativa "e" all'inizio del secondo periodo, e di uno metrico, la sinalefe, che collega in una sillaba sola la vocale finale di "spaura" con la "e" successiva. All'interno queste due sezioni si suddividono ancora ciascuna in due parti simmetriche: nella prima (vv. 1-3 e vv. 8-10) si ha il punto di partenza dell'immaginazione dal dato reale, sensibile, la siepe e il vento che stormisce; nella seconda (vv. 4-8 e vv. 10-15) l'allontanamento dalla realtà verso l'infinito immaginato. Le simmetrie si misurano anche sul piano sintattico: i due periodi in cui sono rese le due esperienze rispettivamente dell'infinito spaziale e temporale sono costruiti su due serie analoghe in forma di polisindeto. La simmetria si rompe sul piano lessicale: nella parte dell'infinito spaziale si ha la presenza di parole lunghe, nella parte dell'infinito temporale ci sono invece parole più brevi. Il senso di un esperienza unitaria, al di là dei due momenti in cui si articola, è resa dal continuum metrico e sintattico che percorre tutto il componimento: nessun verso, tranne il primo e l'ultimo, è isolabile sintatticamente: il discorso sintattico continua sempre nel verso seguente; di conseguenza su 15 versi vi sono ben 10 enjambements. La continuità è ribadita sul piano sintattico dall'alta presenza di particelle congiuntive che allacciano i singoli periodi; la congiunzione "e" è poi frequentissima anche all'interno dei periodi.


-"La sera del dì di festa".

Fu composto a Recanati nella primavera del 1820, fu pubblicato per la prima volta sul "Nuovo Ricognitore" nel 1825. Metro: endecasillabi sciolti. La poesia si apre con un notturno lunare. È una di quelle immagini vaghe e indefinite, tanto care a Leopardi. Nel trattare poeticamente le immagini vaghe e indefinite , secondo Leopardi, erano maestri gli antichi: e difatti questo notturno lunare della "Sera", che pure prende le mosse da un'esperienza vissuta, è filtrato attraverso reminiscenze della letteratura classica. Leggiamo difatti nei "Ricordi": "Veduta notturna con la luna a ciel sereno dall'alto della mia casa tal quale alla similitudine di Omero". La similitudine a cui si fa riferimento è tradotta da Leopardi stesso nel "Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica" (1818): "Sì come quando graziosi in cielo / rifulgon gli astri attorno alla luna, / e l'aere è senza vento, e si discopre / ogni cima de' monti ed ogni selva / ed ogni terre.". È facile vedere come la "Sera" riprenda una trama verbale già presente in questa traduzione omerica: "senza vento", "discopre" ("rivela" nella poesia), "ogni cima de' monti" ("ogni montagna"). Leopardi però è convinto che nel mondo moderno la poesia immaginosa e fanciullesca degli antichi non sia più possibile, per colpa dell'avanzamento della civiltà e della ragione; nel suo tempo non è praticabile che una poesia "sentimentale", nutrita di filosofia e della consapevolezza amara del vero. Nel corpo della poesia si colgono due temi fondamentali, trattati successivamente in due parti distinte. Nella prima (vv. 4-24) si ha la contrapposizione tra due figure giovanili: quella della fanciulla, ignara di affanni che si abbandona fiduciosa alle sue gioie e alle sue speranze, in armonia con la quiete notturna della natura, e quella del poeta, che la natura ha creato per essere infelice. L'io lirico rappresenta anche il contrasto tra la presenza dell'essere infelice e la bellezza quieta e serena della natura (motivo che torna nell' "Ultimo canto di Saffo"). Questa contrapposizione dell'io solitario agli altri uomini e alla natura, si manifesta in forme romanticamente titaniche, in atteggiamenti di violenta ribellione ("per terra mi getto e grido e fremo"), che sono tipici di questo primo Leopardi. La seconda parte (vv. 24-46) presenta un tema a prima vista molto lontano: il passare di tutte le cose, il tempo che nel suo scorrere vanifica "ogni umano accidente". Di qui nasce una più vasta riflessione sulla gloria dei popoli antichi, che è scomparsa nell'oblio attuale. È la ripresa di un tema dell' "Infinito": anche là un effimero rumore presente, lo stormire del vento, evocava l'infinità del tempo, le "morte stagioni" inghiottite nel nulla, e la "presente e viva", destinata anch'essa a sparire. Si pone a questo punto il problema di cogliere il legame che unisce le due parti: il passaggio dalla prima alla seconda parte si colloca alla metà di un verso: ".in così verde etate! Ahi per la via.": vi è una forte pausa, segnata dal punto esclamativo, ma anche una sinalefe tra la vocale fina le di "etate" e quella iniziale di "ahi". È un procedimento che si è gia osservato al v. 8 dell' "Infinito": la continuità metrica è un indizio che vi è un legame tra i due temi. Il legame può essere: i giorni del poeta sono orrendi, ma anche questa infelicità è un nulla, è destinata a vanificarsi nel fluire del tempo.


Testi tratti da "le canzoni filosofiche".

-"Ultimo canto di Saffo".

Fu composto a Recanati nel maggio 1822 e pubblicato per la prima volta nel gruppo delle 10 canzoni del '24. Metro: canzone di 4 strofe di 18 versi ciascuna: i primi 16 endecasillabi sciolti, gli ultimi due a rima baciata (settenario ed endecasillabo). Il tema centrale del canto sembra l'infelicità come destino individuale dell'io lirico (è un motivo già presente nella "Sera del dì di festa"). In realtà l'idea dell'infelicità individuale si allarga a quella di un'infelicità universale. Non a caso il discorso passa dall' "io" iniziale al "noi": "Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor. Negletta prole /n nascemmo al pianto, e la ragione in grembo / de' celesti si posa"; e se in questo caso vi può essere ancora il dubbio di un plurale di modestia, nell'ultima strofa ben chiara è la diagnosi della condizione dell'uomo in generale. L'infelicità non è dunque solo più dei moderni che hanno perso la facoltà di illudersi, come Leopardi riteneva in precedenza, ma coinvolge tutti gli uomini. In questa prospettiva non appare casuale che, come esempio di infelicità, sia proposta la poetessa greca: la miseria umana non risparmia neppure quegli antichi, che Leopardi riteneva privilegiati, perché più vicini alla natura ed immuni dagli effetti distruttivi della ragione. La canzone è dominata dal linguaggio del "vero": compaiono delle metafore ardite attraverso cui il negativo assume sostanza corposa e tangibile ("Si torvo . di fortuna il volto", "l'ombra della gelida morte"); domina il lessico aulico, che ha sempre la funzione di dare una forma solennemente definitiva al negativo ("arcano consiglio", "negletta prole", "indomita Parca"); compaiono anche quelle sentenze secche, lapidarie, che chiudono come un'epigrafe tombale una certezza disperata e lucidamente accettata ("Arcano è il tutto, / fuor che il nostro dolor"). Non mancano però esempi del linguaggio dell' "immaginar"; non tanto nella direzione del vago e dell'indefinito, quanto dell'affettuoso, dell'abbandono al vagheggiamento di visioni idilliche: "Placida notte, e verecondo raggio / della cadente luna" (il notturno lunare richiama l'apertura della "Sera dì di festa"), "odorate spiagge" (il motivo del profumo connota sistematicamente i paesaggi "idillici" leopardiani: si pensi al "maggio odoroso" di "A Silvia" e agli "odorati colli" delle "Ricordanze


Testi tratti da "le operette morali".

-"Dialogo della natura e di un islandese".

L'operetta fu scritta tra il 21 e il 30 maggio 1824. essa segna una fondamentale svolta nel pensiero leopardiano: il passaggio da un pessimismo sensistico-esistenziale a un pessimismo materialistico e cosmico, dalla concezione di una natura benefica e provvidente a quella di una natura nemica e persecutrice. In tutte le operette precedenti la radice dell'infelicità dell'uomo appariva di tipo psicologico-esistenziale, l'aspirazione ad un piacere infinito e l'impossibilità di raggiungerlo; qui invece l'infelicità è fatta dipendere materialisticamente dai mali esterni, fisici, a cui l'uomo non è in grado di sfuggire. L'islandese, che è chiaramente portavoce di Leopardi, ne fa un elenco puntiglioso, ossessivo, che assume un tono di tragica terribilità. Di qui l'idea di una natura nemica, che mette al mondo le sue creature per perseguitarle. Leopardi attribuisce ora alla natura quelle qualità di crudeltà e di indifferenza che aveva in precedenza riservato agli dei e al fato. È una scoperta preparata da tempo nelle meditazioni dello "Zibaldone". Leopardi approda così a un materialismo assoluto e a un pessimismo cosmico, che abbraccia tutti gli esseri e tutti i tempi. Il mondo è un ciclo eterno di produzione e distruzione e la distruzione è indispensabile alla conservazione del mondo. Il dialogo con la natura si conclude con la domanda: a che serve questa vita in felicissima dell'universo? È la domanda che il pastore del "Canto notturno" rivolgerà alla luna: ed è una domanda che non ha risposta ("Arcano è il tutto, fuor che il nostro dolor", aveva già affermato Saffo nell' "Ultimo canto"). Anche lo stile di questa operetta è diverso da quello delle precedenti: non la contemplazione fredda, distaccata dell'infelicità, ma una requisitoria incalzante, appassionata che anticipa gli idilli pisano-recanatesi del '28-'30 e della "Ginestra


Testi tratti da "i grandi idilli".

-"Canto notturno di un pastore errante dell'Asia".

Fu composto a Recanati tra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830 e fu pubblicato per la prima volta nei canti del '31. Metro: strofe libere di endecasillabi e settenari. Il poeta qui non parla in prima persona: il canto è messo in bocca ad un uomo primitivo, semplice ed ingenuo. Nella prima fase del suo pensiero (il cosiddetto "pessimismo storico") Leopardi riteneva i primitivi più vicini alla natura, inconsapevoli dell' "acerbo vero", fanciulleschi e immaginosi, quindi più felici dell'uomo moderno. Qui invece il primitivo è "filosofo" come gli uomini civilizzati, e sente fortemente l'infelicità sua propria e quella universale. È l'indizio più chiaro del passaggio ad un "pessimismo cosmico", che concepisce l'infelicità come propria dell'uomo di tutti i tempi, di tutti i luoghi e di tutte le condizioni. Il canto si distingue nettamente dagli altri idilli: non si fonda sulla memoria, sull'effusione degli affetti; è una ferma riflessione che, partendo da interrogativi elementari, coinvolge i grandi problemi metafisici: è quindi poesia squisitamente filosofica, fondata sul "vero". Anche il paesaggio è diverso: non è quello idillico, ma un paesaggio astratto e metafisico. Permane la suggestione tipicamente leopardiana dello spazio sconfinato e del tempo infinito: i "sempiterni calli", gli "eterni giri". Ma non è un infinito creato dall'immaginazione, bensì contemplato dalla ragione.


-"La quiete dopo la tempesta".

Fu composta dal 17 al 20 settembre 1829 e pubblicata per la prima volta nell'edizione dei Canti del 1831. La poesia è nettamente divisa in due parti: la prima descrittiva (strofa 1), la seconda riflessiva (strofa 2-3). La descrizione iniziale offre una serie di aspetti del piccolo mondo borghigiano recanatese: è un paesaggio tutto costruito sulla suggestione dei suoni che giungono da lontano e della vastità spaziale indeterminata (il sereno che "rompe là da ponente alla montagna", il fiume che appare "chiaro" nella valle; e si noti l'insistenza su complementi di luogo vaghi, "alla montagna", "per li poggi", che ricordano la "rana rimota alla campagna" delle "Ricordanze"). Come sempre il paesaggio idillico è reso con un'estrema essenzialità di indicazioni, con una sobrietà che è quasi povertà: ma sappiamo come Leopardi puntasse deliberatamente sulla povertà delle determinazioni descrittive, ritenendo più suggestiva e poetica della descrizione minuziosa e concreta. La seconda parte è filosofica: il concetto centrale è che il piacere è "figlio d'affanno", nasce dalla cessazione di un dolore o di un timore. È un concetto che Leopardi aveva già affermato nello "Zibaldone" nel 1822, anche se allora credeva ancora in un ordine provvidenziale della natura. La poesia, come già "A Silvia" e le "Ricordanze", si fonda dunque sul ritmo: illusione ↔ consapevolezza del vero; vagheggiamento della vita e della gioia ↔ contemplazione del dolore e del nulla. La poesia comunque resta fortemente unitaria, le due parti sono indistinguibili, pena la distruzione della poesia stessa, e ciascuno dei due poli è dialetticamente necessario. Questo ritmo oppositivo si manifesta anche nella struttura ritmica, metrica e stilistica della poesia.la prima parte presenta movimenti sintattici limpidi e scorrevoli, fatti di frasi brevi e piane. La seconda parte è invece più tesa e drammatica: si alternano frasi brevissime, secche, epigrafiche, e movimenti più ampi, mossi da interrogazioni ed esclamazioni, da apostrofi sarcastiche. Così avviene sul piano metrico: nella prima parte si crea una trama musicale di rime e di assonanze ("vale"-"appare"); il carattere musicale è ulteriormente accentuato dal ricorrere della rima al mezzo ("tempesta"-"festa"). Le rime sono meno frequenti nella seconda parte; anzi, i versi più amari e desolati, quelli che elencano i mali dell'uomo (vv. 31-36, 43-49) ne sono privi. Nella prima parte i versi sono generalmente privi di pause e spezzature interne; nella seconda parte sono spesso rotti da forti pause ("fredde, // tacite, // smorte"). L'effetto non è più di un agile ritmo musicale, ma di un aspra tensione drammatica. Riscontri analoghi si possono fare sul piano fonico. Nella prima parte vi è un largo impiego di vocali /a/ toniche, amate da Leopardi, per dare un'idea di vastità: "montagna", "campagna", "chiaro", "valle". Nella seconda parte dominano invece suoni aspri, dati da scontri di consonanti: "scosse", "morte", "tormento", "fredde".


-"Il passero solitario".

Il componimento fu scritto probabilmente nel 1829, al tempo dei grandi idilli, ma Leopardi nell'edizione dei Canti del 1835 lo collocò prima dell' "Infinito" come prologo a tutti gli idilli. E ciò non a caso, in quanto riflette une tematica giovanile: il contrasto tra la vita vissuta e desideri repressi, contrasto visto, contrasto visto ancora nell'ottica di un pessimismo individuale-esistenziale. Il canto è impostato su una similitudine tra il passero e il poeta: come il passero vive solitario, non partecipando ai giochi degli altri uccelli, così il poeta si isola dagli altri giovani e non cura i loro divertimenti. La costruzione è simmetrica: la prima strofa è dedicata al passero, la seconda al poeta, e la terza, più breve, riprende il confronto ponendo a contrapposizione la vecchiezza di entrambi. Tra le prime due strofe si può notare una simmetria rovesciata nella disposizione dei temi:



Strofa I

Strofa II


A

Solitudine del passero (vv.1-4)

Il poeta non cura sollazzo, riso e amore (vv.17-26)

C

B

La festa degli uccelli  (vv.5-11)

La festa dei giovani (vv.26-35)

B

C

Il passero non cura i divertimenti

(vv.12-16)

Solitudine del poeta (vv.36-44)

A


Si può ancora notare la collocazione simmetrica, in forte rilievo all'inizio del verso, dei due pronomi personali: "Tu pensoso in disparte", "Io solitario". Al clima degli idilli il canto appartiene in primo luogo per la fitta presenza di immagini vaghe e indefinite: subito all'inizio si ha il canto del passero che si allarga in uno spazio indeterminato, evocato ancora una volta dal complemento di luogo vago, "alla campagna"; il motivo del suono è ripreso poco dopo dal belar delle greggi e dal muggir degli armenti. E, come di consueto, l'impressione di vastità del canto che si diffonde nello spazio è resa mediante la folta presenza di vocali /a/ (cfr. "La quiete dopo la tempesta"), soprattutto se toniche, ampliate ulteriormente dalle consonanti che seguono: "alla campagna", "cantando", etc.All'area dell'idillio rimanda anche la costellazione dei temi: giovinezza-gioia-festa-primavera.


-"Le ricordanze".

Fu composto a Recanati tra il 26 agosto e il 12 settembre del 1829 e pubblicato per la prima volta nell'edizione dei Canti del '31. Metro: endecasillabi sciolti, raggruppati in strofe di diversa lunghezza. È un canto folto di motivi, una vera e propria summa della tematica dei "grandi idilli". Tema di fondo è il ricordo, che la cellula germinale da cui scaturiscono i canti del '28-'30 (per es. sul motivo del ricordo era già impostato il primo di essi: "A Silvia"). Nel vasto componimento i motivi si organizzano attraverso un'orchestrazione sinfonica. Si alternano cioè, di strofa in strofa, i due temi fondamentali, gli "ameni inganni" giovanili e la consapevolezza del "vero", a cui corrispondono anche diverse tonalità stilistiche. L'alternanza fa sì che ogni tema e ogni tono prenda slancio e vigore dalla giustapposizione, dopo la pausa di silenzio segnata dalla divisione tra le strofe, a quello precedente e contrario. Ma al termine di ogni strofa è già annunciato il tema che sarà sviluppato in quella successiva. Le strofe dedicate al recupero degli "ameni inganni" attraverso la memoria sono tutte tramate di quelle immagini vaghe e indefinite che sono tanto care a Leopardi. Ad esempio nella prima strofa si ha subito la prospettiva del cielo stellato (nelle pagine dello "Zibaldone" leggiamo: "è piacevolissima ancora, per le sopraddette cagioni, la vista di una moltitudine innumerabile, come delle stelle.). La stessa parola d'apertura, l'aggettivo "vaghe", è una di quelle parole che Leopardi ritiene sommamente poetiche, e fissa musicalmente la nota che sarà dominante in tutta la strofa. Successivamente si ha "il canto / della rana rimota alla campagna": ancora uno di quei suoni suggestivi perché provengono da lontano, come il canto che si ode "lontanando morire a poco a poco" nella "Sera del dì di festa", come il canto di Silvia, come quello di Circe nel VII dell'Eneide. Le strofe dominate dalla tematica del "vero" (2, 4, 5) presentano invece un linguaggio più spoglio, privo di suggestioni immaginose. Semmai la superficie ferma e fredda della contemplazione del vero è mossa da increspature patetiche ("Oh speranze, speranze; ameni inganni / della mia prima età!") o da vibrazioni di sdegno ("intra una gente / zotica, vil."). Musicale non è solo l'orchestrazione della vasta materia ma anche la modulazione del verso. Un discorso poetico composto solo di endecasillabi dovrebbe avere una modulazione diversa, più ampia e più solenne della tessitura di endecasillabi e settenari che è propria degli altri grandi idilli. Ma in realtà anche qui vi è tutta una serie di più agili settenari contenuti entro gli endecasillabi, che danno luogo ad una modulazione musicale più fluida e varia, dissimulata sotto la superficie del discorso.


-"Il sabato del villaggio".

Composto subito dopo la "Quiete" (tra il 22 ottobre 1827 e il 9 aprile 1830, e pubblicato per la prima volta nei Canti del 1831), questo canto forma con il precedente una sorta di dittico: ha la stessa struttura, prima una parte descrittiva, dedicata ad aspetti della vita borghigiano, poi una parte riflessiva, che prende lo spunto dalla descrizione precedente; inoltre, tematicamente, appare complementare alla "Quiete": là il piacere era visto come cessazione di un dolore, qui come attesa di un godimento futuro, come speranza e illusione. Il quadro paesano si apre con due figure femminili contrapposte, la donzelletta che immagina la gioia del giorno festivo a venire e la vecchierella che ricorda la gioia delle feste della sua giovinezza. Le due figure rappresentano la speranza giovanile e la memoria, che nel sistema leopardiano sono strettamente congiunte. Come sempre la speranza e la giovinezza si collegano con il tema della festa e della primavera (come ne "La sera del dì di festa", in "A Silvia", nel "Passero solitario", nella strofa di Nerina nelle "Ricordanze"). Speranza giovanile e primavera si concretano poi nel simbolo del "mazzolin di rose e di viole"; ad esso si oppone il "fascio delle erbe", che rappresenta, al contrario, la realtà quotidiana, con il suo peso di fatiche (Pascoli ha criticato l'accostamento delle rose, di maggio, con le viole, di marzo; polemizzando contro la tradizione poetica italiana che coglie le cose della natura solo attraverso una visione libresca, senza istituire con esse un rapporto immediato). Nell'espressione "di rose e di viole" l'effetto di trasfigurazione del reale è ottenuto anche attraverso il valore musicale dell'assonanza e della dieresi che prolunga il suono del secondo termine ("viole"). Il fatto che il quadro di vita paesana è tutto costellato da quelle immagini vaghe e indefinite che sono predilette dal poeta contribuisce a togliere oggettività realistica. Il complemento di luogo "dalla campagna" suscita subito al primo verso l'impressione di una vastità spaziale indeterminata (cfr. "la rana rimota alla campagna" delle "Ricordanze", "il sereno / rompe là da ponente alla montagna" della "Quiete dopo la tempesta"); così è successivamente per lo sfondo su cui è collocata la vecchierella, "incontro là dove si perde il giorno" (dove l'effetto è accresciuto dal verbo vago "si perde"); ancora il gioco di luci e ombre creato dalla luna crescente è una di quelle immagini registrate nello "Zibaldone" come poetiche per la loro indefinitezza (e cfr. l'inizio della "Sera del dì di festa"). Alle sensazioni visive succede una serie di suoni provenienti da lontano, anch'essi, come ben sappiamo cari a Leopardi: "la squilla", "il lieto romore" dei fanciulli, il fischiare dello zappatore (si ricordi il canto dell'artigiano che "riede a tarda notte" nella "Sera"), il martello e la sega del legnaiolo: non importa che i suoni siano umili, importa solo che evochino vastità e lontananze. A differenza della "Quiete dopo la tempesta", la parte riflessiva che segue il quadro "idillico" non segna un brusco stacco, non è amara. La riflessione sentenziosa vera e propria, che mira a negare la possibilità del piacere dura solo 5 versi, ed è pacata e sobria. La conclusione filosofica, poi, non è di tipo raziocinante, ma è affidata ad un colloquio affettuoso con il "garzoncello"; e invece di insistere sul vero che dissipa l'illusione, è un invito a non spingere lo sguardo oltre i confini dell'illusione giovanile: cioè dissimula l' "acerbo vero" con delicato riserbo, anziché metterlo in rilievo polemicamente. Anche sul piano stilistico, pertanto, non vi è quell'opposizione tra le due parti che si instaurava nella "Quiete". La fitta rete dei rimandi agli altri Canti:



Parola:

Canto:


Fiorita

"il fior degli anni tuoi" (A Silvia)

"o dell'arida vita unico fiore" (Le ricordanze)


Chiaro

"dolce e chiara è la notte" (La sera del dì di festa)


Sereno

"serena ogni montagna" (La sera del dì di festa)

"mirava il ciel sereno" (A Silvia)

"ogni giorno sereno.ch'io miro" (Le ricordanze)


Festa

"ecco è fuggito il dì festivo" (La sera del dì di festa)

"né teco le campagne ai dì festivi / ." (A Silvia)

"se a feste anco talvolta / se a ." (Le ricordanze)


Soave

"che pensieri soavi" (A Silvia)


Lieto

"e tu, lieta e pensosa" (A Silvia)


-"A Silvia".

Composto a Pisa nell'aprile del 1828, fu pubblicato per la prima volta nell'edizione fiorentina dei Canti del 1831. fin dall'inizio del canto, viene sottolineata la presenza di due campi temporali: l'uno lontano e indefinito, l'altro prossimo e definito. Il piano lontano è quello del tempo, delle illusioni e della speranza, quando Silvia era in vita i due giovani condividevano l'attesa di un futuro felice, benché indefinito. La felicità del tempo delle illusioni, dunque, si fondava su una implicita previsione riguardante il tempo del futuro. Appunto quest'ultimo costituisce il secondo piano temporale, ma non più come futuro: ora è divenuto presente, ed è il presente in cui si parla; cioè il tempo dell'azione principale: quello della rievocazione. I due piani temporali formano nel testo due serie parallele e giustapposte. Fin dalla prima strofa la distinzione è netta, benché implicita: da una parte c'è il tempo delle illusioni ("quel tempo" v. 2), con i suoi verbi all'imperfetto ("splendea" v. 3, "salivi" v. 6); dall'altra c'è il tempo da cui si va interrogando quel passato, il tempo del presente ("rimembri" v. 1) e della distanza ("ancora" v. 1). Il tentativo sembra quello di voler stabilire un contatto tra il presente e il passato perduto, un contatto che può essere stabilito solo attraverso il ricordo ("Silvia, rimembri ancora / quel tempo?). nella seconda e la terza strofa, di rievocazione, dominano ancora i tempi imperfetti (vv. 7, 11, 12, 13, 18, 20, 22, 23, 27); e la rievocazione fa sì che il tempo principale del presente, il tempo da cui il soggetto lirico parla nel testo, venga guardato come futuro, quasi ignorandone l'adempimento: "quel vago avvenir" (v. 12). La quarta strofa rende esplicita l'esistenza del disinganno affidandone la rappresentazione a un presente ("sovviemmi", v. 32) posto al centro del testo, quasi suo ombelico concettuale. Dopo una strofa, la quinta, tutta attraversata dalla negazione (vv. 42, 44 e 47) e aperta, eccezionalmente da tre endecasillabi, la strofa sesta riassume la contrapposizione binaria tra il presente della disillusione e il passato delle illusioni. La canzone è costruita come un'allegoria: c'è un'intenzione dimostrativa di cui un dato concreto, e in sé storico, si fa portatore, secondo un procedimento costruttivo e dimostrativo di tipo razionale-intellettuale. I due destini di Silvia e del poeta sono tale dato; e l'intenzione dimostrativa riguarda il punto d'arrivo della disillusione costituito dal "vero" dell'esperienza.


-"A se stesso".

Composto nel 1835, fu pubblicato per la prima volta nell'edizione dei Canti del 1835. il componimento chiude e suggella il ciclo dei canti di Aspasia. Vi si afferma la scomparsa dell' "inganno estremo", l'amore, che era stato cantato nel "Pensiero dominante" e in "Amore e morte". La poesia segna perciò il distacco definitivo dalla fase giovanile dell'illusione. La negazione dell'illusione è ferma, perentoria. Ma dinanzi al "vero" non vi è più un atteggiamento contemplativo: compare il contegno agonistico, eroico. Anche la percezione dell' "infinita vanità del tutto", che in precedenza generava la noia, ora suscita un atteggiamento combattivo di superiorità sprezzante. Questa tensione eroica si risolve in una potente tensione stilistica. La poesia ha una struttura metrica molto rigorosa. Si possono distinguere tre membri di 5 versi ciascuno, con lo stesso schema metrico (vv. 1-5, 6-10, 11-15): un settenario di apertura, due endecasillabi, ancora un settenario, un endecasillabo di chiusura. Il v. 16, quello finale, è fuori del disegno e ciò conferisce singolare potenza alla perentorietà della formula. Questa struttura così architettonicamente rigorosa si rivela al suo interno mossa da forti tensioni. Colpisce innanzitutto l'andamento spezzato del discorso poetico. Si sussegue una serie di proposizioni brevissime (a volte composte da una parola sola: "Perì"), per gran parte autonome, senza legami sintattici né di subordinazione, né di coordinazione. Di conseguenza i versi sono rotti da continue pause: ben undici molto forti, segnate da punti, di cui nove all'interno del verso (vv. 2, 3, 6, 7, 9, 11, 12, 13). La spezzatura del discorso è data anche dai numerosi enjambements, anch'essi molto forti. Il lessico è spoglio, secco. Gli aggettivi sono rari; due spiccano, segnalati dall'allitterazione e dall'assonanza, "estremo" / "eterno", in opposizione per il significato; altri due, "brutto" e "ascoso", che caratterizzano il malvagio potere che domina il mondo, sono messi in rilievo rispettivamente dalla rima ("brutto" / "tutto") e dalle pause collocate prima e dopo ("poter che, // ascoso, // a comun danno impera"); l'ultimo, "infinito", con la sua lunghezza sembra protendersi ad abbracciare la "vanità del tutto". La nudità spoglia è data dal fatto che il discorso data questa rarità degli aggettivi, consta essenzialmente di verbi e sostantivi, con prevalenza netta di questi ultimi.





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