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Hannah Arendt nasce nel 1906

filosofia



Hannah Arendt nasce nel 1906 da una famiglia ebrea ad Hannover, dopo gli studi universitari fu costretta ad abbandonare la Germania per motivi politici. Si rifugiò prima in Francia e poi si trasferì negli Stati Uniti d'America, dove continuò l'attività di ricerca fino alla morte . Cominciò la sua ricerca con la tesi di dottorato in filosofia sul concetto di amore in Sant'Agostino, pubblicata nel 1929. Tra i suoi maestri ricordiamo Heidegger, con il quale ebbe una relazione sentimentale Husserl. L'opera che la renderà famosa in tutto il mondo fu il saggio del 1951, intitolato "Le Origini del Totalitarismo", a cui nel 1958 seguirà "La condizione umana", titolo voluto dall'edi 555c28f tore americano, mentre la Arendt preferiva il titolo di "Vita Activa", conservato nella traduzione italiana del libro del 1964. Di particolare rilevanza fu inoltre il libro del 1963 intitolato "La Banalità del Male. Eichmann a Gerusalemme" scritto in occasione del processo contro il criminale nazista Adolf Eichmann, che mandò a morte centinaia di migliaia di ebrei. La Arendt, prese parte al processo tenutosi a Gerusalemme come inviata speciale del "New Yorker" e si convinse che le ragioni profonde dei crimini nazisti risiedevano non tanto nella cattiveria di alcuni carnefici, ma nell'assenza di pensiero in uomini del tutto normali nella vita familiare, che inseriti in una macchina infernale quale l'organizzazione nazista, diventavano capaci di disumane atrocità. Queste riflessioni, fatte da una donna ebrea, emancipata, laica e libera da ogni preconcetto, attirarono le critiche dello stesso mondo ebraico, che vedeva in essa una sottovalutazione del fenomeno nazista. L'opera , "Le Origini del Totalitarismo", uscita dopo la Seconda Guerra Mondiale fu una delle più importanti opere storico-politiche del Novecento. Essa si propose di analizzare le cause e il funzionamento dei regimi totalitari, considerati come una conseguenza tragica della società di massa, in cui gli individui erano resi atomi, sradicati da ogni relazione interumana e privati dello stesso spazio pubblico, in cui avevano senso l'azione e il discorso. Nella prefazione dell'edizione riveduta del 1966, Hannah Arendt annotava che l'immediato dopoguerra era stato:




«il primo momento adatto per meditare sugli avvenimenti contemporanei con lo sguardo retrospettivo dello storico e lo zelo del politologo, la prima occasione per cercar di narrare e comprendere quanto era avvenuto[.] ancora con angoscia e dolore e, quindi, con una tendenza alla deplorazione, ma non più con un senso di muta indignazione e orrore impotente.[.] Era, comunque, il primo momento in cui si poteva articolare ed elaborare gli interrogativi con cui la mia generazione era stata costretta a vivere per la parte migliore della sua vita adulta: che cosa succedeva? Perché succedeva? Come era potuto succedere?».



Il contributo che quest'opera ha dato fu rilevante sotto due aspetti:

    Quello storico-politico, poiché analizzò i tratti di fondo della storia europea moderna e contemporanea, in particolare il periodo che andava da fine ottocento alla Seconda Guerra Mondiale;


    Quello filosofico - politico, in quanto elaborò schema generale del regime totalitario con riferimento al nazismo ed allo stalinismo, visti come due fenomeni riconducibili alla stessa idea di totalitarismo, essendo marginale l'interesse per altre forme di dittatura, come ad esempio, il fascismo.



La struttura dell'opera è molto articolata, il libro è diviso in 3 parti: la prima, dedicata allo studio del fenomeno dell'antisemitismo, ritenuto come premessa del totalitarismo, infatti le conseguenze dell'antisemitismo furono, secondo Hannah Arendt, le cause da cui scaturì il totalitarismo in Germania e in Russia.

La seconda affronta il tema dell'imperialismo e la terza si sofferma ad analizzare i caratteri del totalitarismo nella società di massa, che instaurava il suo potere attraverso il binomio ideologia-terrore.

Quest'ultimo era esercitato attraverso la polizia segreta che pervase la società e la persona umana fin nella sua intimità, sia attraverso i campi di concentramento, che ebbero la funzione di annientare gli oppositori politici trasformati in "nemici". Dal punto di vista organizzativo, l'ideologia e il terrore si esplicarono attraverso gli strumenti del partito unico e della polizia segreta, che erano controllati dal capo supremo, a cui rendevano conto.

La volontà del capo era l'unica legge del partito, che tutti i burocrati dovevano rispettare e far rispettare. Il potere venne a distribuirsi in maniera gerarchica, secondo il grado di maggiore(o minore) prossimità al capo; quanto più si era vicini al leader, tanto più si aveva potere.

La condizione degli individui fu quella di isolamento totale nella sfera politica e dell'estraniazione in quella dei rapporti sociali, infatti il regime totalitario doveva la sua esistenza alla distruzione della vita politica democratica, ottenuta appunto diffondendo paura e sospetto tra gli individui isolati.

Il tratto peculiare dell'indagine arendtiana sul totalitarismo consisteva nell'enfasi posta sulla condizione di isolamento totale nella società di massa, dove il conformismo sociale era una minaccia costante alla libertà politica; quindi il totalitarismo può essere concepito come una potenzialità e un periodo costante, anche dopo la scomparsa delle sue forme storiche del novecento. Di rilievo, fu la trattazione dell'ideologia totalitaria, con cui si conclude il saggio, che secondo l'autrice ha la pretesa di fornire una spiegazione totale della storia e di conoscerne a priori tutti i segreti, senza il bisogno di confrontarsi con i fatti concreti. Il primo brano di questa opera è dedicato alla comprensione di come i campi di concentramento e di sterminio rappresentino l'essenza del sistema totalitario, il "laboratorio" in cui l'ideologia totalitaria pretende di verificarsi.



In breve, la tesi della pensatrice era che il fondamento dell'ideologia totalitaria sia da identificare nel tentativo di compiere un attentato "ontologico" all'umanità dell'uomo, cioè nell'aspirazione a plasmare gli uomini secondo un determinato ideale di umanità. Tale pretesa di trasformare alla radice la natura umana, di ricreare gli uomini sfidando la creazione di Dio, in modo da determinare azioni e reazioni fu resa attuabile unicamente nei campi di concentramento, il luogo in cui gli esseri umani venivano ridotti a esemplari di una specie, deprivati di identità personale, ovvero di ogni facoltà di decidere, di essere cioè nel linguaggio arendtiano, «capaci di rivoluzione» e responsabili di scelte e non scelte compiute.

Altra opera della Arendt fu "Vita Activa. La condizione umana", pubblicata nel 1958 negli Stati Uniti d'America. La tesi centrale del libro è che dalla fine della polis greco-romana, "l'agire", inteso come civiltà dell'azione e del discorso era stato sostituito prima dal "fare" e poi dal "lavorare", teso unicamente ad assicurare la sopravvivenza.

L'oggetto del saggio è la vita umana, in quanto distinta dalla vita contemplativa: i due momenti fondamentali della condizione umana. La Arendt parlava di condizione e non di natura umana.

La "Vita Activa", cioè l'agire umano, si articola in tre forme:


    Attività lavorativa, il lavoro rende l'uomo "animal laborans", cioè colui che provvede al mantenimento della propria vita: l'attività lavorativa è l'energia che si sprigiona e si consuma per provvedere alle esigenze fondamentali della vita;


    L'operare è tipico dell'"homo faber", che può definirsi come colui che costruisce l'uomo tecnologico che tende a produrre oggetti duraturi;


    L'agire è la manifestazione più importante visto che grazie a esso gli uomini comunicano tra loro non attraverso oggetti ma con il linguaggio.



Altra opera fu la "Vita della Mente", dedicata all'analisi del pensiero e alla funzione del linguaggio che funge da tramite tra il mondo sensibile e quello della mente.




Le origini del totalitarismo, pp. XXVII-XXVIII






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