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SCHOPENHAUER
Arthur Schopenhauer nasce a Danzica nel 1788 da una ricca famiglia di commercianti. Dopo la morte del padre comincia a studiare allontanandosi sempre più dalla madre, perché non accetta la sua vita mondana e culturale. Si laurea nel 1813. 555j96f Nel 1819 pubblica il suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione, che però non ottiene il successo sperato. Nel 1821 prova a insegnare all'Università di Berlino, la sua indole competitiva e vanitosa lo porta a scegliere per le sue lezioni gli stessi orari di quelle di Hegel col risultato di non avere frequenze. Nel 1851 pubblica Parerga e paralipomena (appendici e completamenti), una raccolta di saggi polemici che gli danno la fama. Muore nel 1860, ma il suo successo è ancora oggi indiscusso.
UN NUOVO STATO D'ANIMO
Schopenhauer, come i grandi uomini religiosi del passato, si occupa soprattutto del problema religioso e della salvezza dell'uomo, cioè della sua possibilità di sfuggire agli aspetti negativi dell'esistenza. Ma, in considerazione del mutato clima religioso che vede un evolversi dal:
Medioevo con una piena fiducia nel ordinamento provvidenziale
Cinquecento e la nascita della scienza moderna la fiducia diminuisce
Settecento Hume dice che la religione nasce dai sentimenti di insicurezza e di paura dell'uomo, essa perciò è una risposta infondata ai misteri della vita
Kant aveva detto che non abbiamo nessuna prova razionale dell'esistenza di Dio, per cui dobbiamo accettarlo per fede
Nel Settecento si sviluppa quindi un vero e proprio ateismo
Schopenhauer di conseguenza non crede più in una redenzione tramite Cristo. L'uomo deve affrontare il suo destino da solo, senza Dio. Nel Settecento la scienza ormai trionfante stava ampliando sempre più i suoi successi ma questi successi pratici e reali della scienza non corrispondevano ad altrettante vittorie nel campo morale. In questo quadro culturale la sfera emozionale dell'uomo non può più essere coordinata adeguatamente in ambito religioso, non trova una collocazione solida neanche tra le braccia della scienza. In un certo senso, possiamo dire che la scienza stava progressivamente prendendo il posto della religione nella vita degli europei ma se la religione dava un senso ai sentimenti dell'uomo e li riordinava, piegandoli verso Dio, la scienza aveva poco da dire sulla sfera emotiva. Da questo nuovo stato d'animo di disagio prese le mosse Schopenhauer.
Schopenhauer prende le mosse dalla distinzione kantiana fra fenomeno e cosa in sé. Il primo è ciò che ci appare effettivamente nelle sensazioni, mentre la seconda è in conoscibile, in quanto è aldilà della nostra esperienza. I filosofi idealisti ritenevano che della cosa in sia non possiamo sapere nulla, non possiamo neanche affermare che ci sia. In questa prospettiva però il mondo diventerebbe una creazione del soggetto. Quelli che Schopenhauer chiamava i materialisti, e che noi oggi chiameremmo i realisti dicevano che la rappresentazione del soggetto sono una conseguenza di ciò che accade fuori di esso. Schopenhauer però assume un atteggiamento diverso, egli nota che sia il materialismo, sia l'idealismo sono privi di senso, in quanto entrambi presuppongono il principio di causalità. Il primo ritiene, infatti, che le nostre rappresentazioni siano causate da qualcosa di esterno, mentre il secondo crede che esse siano prodotte dal soggetto. Dunque, in entrambi i casi ci sarebbe una causa che provoca un effetto: per il materialista la causa sarebbe l'oggetto esterno, per l'idealista sarebbe il soggetto. Schopenhauer arriva perciò alla conclusione che idealismo e materialismo sono entrambi infondati, perché presuppongono la causalità applicata a un'esperienza che non potremo mai avere. Una cosa però è certa, cioè che il mondo è una mia rappresentazione. L'oggetto, per S., non è qualcosa che sta aldilà della rappresentazione, ma è la rappresentazione stessa. Tuttavia tale oggetto non è pensabile senza soggetto, esso è appunto una rappresentazione. L'oggetto è quindi esattamente ciò che vediamo, che tocchiamo, che udiamo, ovvero l'oggetto coincide con la mia rappresentazione. Questo non implica che la rappresentazione l'abbia prodotta io, ma che una rappresentazione senza qualcuno che se la rappresenti è impossibile. In definitiva, un oggetto senza soggetto o un soggetto senza oggetto sono impensabili. L'oggetto si costituisce nel flusso spaziale e temporale delle mie rappresentazioni, che è dominato anche dalla causalità. Come già aveva detto Kant, tutte le nostre rappresentazioni sono spazio-temporali, cioè sono ordinate nel tempo e nello spazio. Inoltre, ciò che si muove nello spazio, si muove anche nel tempo e segue un principio di causalità. In conclusione, spazio, tempo e causalità sono le condizioni a priori che ordinano la nostra esperienza. Oppure, come dice S., essi sono le forme del principium individuationis (principio di individuazione), che ci consentono di identificare gli oggetti del mondo fenomenico. Questa esperienza, tuttavia, è una mia rappresentazione, che non rimanda né a qualcosa di soggettivo, né a qualcosa di oggettivo. S. pone a proposito l'esempio del sogno: non sussiste alcuna differenza fra il mondo della veglia e quello del sogno, se non che il primo è più ordinato del secondo. I sogni e la realtà sono come le pagine di uno stesso libro, che di giorni leggiamo ordinatamente dalla prima pagina in poi, e di notte apriamo a caso dando un occhiata di qua e di là.
IL MIO CORPO
Questa conclusione ci lascia comunque insoddisfatti, poiché c'è qualcos'altro che non siamo ancora riusciti a individuare. In qualche modo deve essere possibile fare breccia in questo mondo di sogno, sollevando quello che S. chiama il velo di maya (maya nella religione indiana è la potenza magica dell'illusione). In effetti, tra tutte le rappresentazioni che mi capitano, ce n'è una che è molto speciale, cioè quella del mio corpo. Infatti, tra tutto ciò che percepisco, il mio corpo ha la caratteristica che, per così dire, lo colgo sia da dentro che da fuori. Ad esempio se alzo un braccio per prendere qualcosa vedo sì il braccio passare davanti ai miei occhi e muoversi, ma percepisco anche lo sforzo del mio movimento. Il mio corpo, dunque, ha due facce:
quella esterna, in cui esso è un oggetto fra gli altri oggetti, una rappresentazione come le altre
quella interna, che ha una natura del tutto peculiare: dall'interno infatti il mio corpo è un tendere verso, uno sforzarsi, un desiderare, è volontà.
Il mio corpo mi apre perciò una finestra su un altro mondo, che non ha più niente a che fare con la rappresentazione, dove non sussiste più nulla di razionale, né spazio, né tempo, né causalità. Dove qualcosa non si può ragionare e conoscere, ma si tende verso, si desidera, si vuole. Si solleva allora il velo di maya e ci rendiamo conto che, aldilà del mondo come mia rappresentazione, sussiste una cosa in sé, una realtà vera, la cui essenza è volontà. Per S. la cosa in sé non è la causa della rappresentazione, ma la vera sostanza del mondo; essa non è in conoscibile ma può essere colta a livello elementare attraverso la natura duplice del mio corpo. Tutto il mondo ci appare come rappresentazione ma in realtà è volontà. Noi ci accorgiamo di questo nel nostro corpo, ma questo principio vale anche per tutte le altre rappresentazioni. Così il sasso viene attratto dal centro della terra, per cui esiste una volontà che trasporta anche i corpi inanimati. Scopriamo inoltre che anche tutto il mondo animale è dominato da una forza, che, da un lato, lo trascina in un continuo conflitto e, dall'altro, lo spinge verso l'autoconservazione individuale oppure verso la propagazione della specie. Fino ad arrivare all'uomo, che è l'unico essere ragionevole, ma che è anch'egli in balia dei suoi desideri, per cui la sua essenza è sempre volontà. Un'altra conseguenza della tesi secondo cui il mondo è volontà è che tutte quelle conoscenze, che le scienze ci forniscono sul mondo delle rappresentazioni, sono illusorie. Ovvero tutto ciò che ci appare come rappresentazione e conoscenza è in realtà volontà e desiderio. Per S., dunque, l'essenza del mondo è sostanzialmente irrazionale. Nel mondo della rappresentazione ci sono dei singoli oggetti separati tra loro dallo spazio, dal tempo e dalla causalità. Qualcosa infatti o è qui o è là, o prima o dopo, o in un modo o in un altro, per cui l'oggetto è individuato da questi tre principi d'ordine (principium individuationis) La volontà, invece, non ha alcuna forma di organizzazione per cui è unica e onnipervasiva, il mondo della volontà è intessuto da un'unica forza onnipresente. Dunque, i fenomeni sono tanti mentre la volontà è una. Essa è anche eterna, in quanto è al di fuori del tempo ma soprattutto è inconscia, cioè agisce inconsapevolmente in tutte le cose. Solo l'uomo può rendersi conto della propria volontà. Per questo S. può attribuire volontà a tutti gli esseri animati e inanimati, perché essa in realtà è una specie di forza o energia, che pervade ogni cosa. Inoltre possiamo dedurre che se il mondo della rappresentazione è dominato dalla causalità, per cui tutto è determinato, il mondo della volontà è sostanzialmente libero. Nella rappresentazione siamo del tutto inquadrati secondo le cause e gli effetti, ma la cosa in sé è totalmente libera. La volontà trascina tutti gli essere animati e inanimati verso la soddisfazione dei loro desideri, ma non ha alcun piano generale, né un progetto.
DOLORE E NOIA
Il mondo
è dominato dalla volontà, e quindi anche
l'uomo, che è l'espressione più
complessa della volontà: l'uomo è innanzitutto desiderio e bisogno. A
partire dalle necessità strettamente
corporee, cioè quelle della fame e della sete, che sono espressione della volontà di vita
dell'individuo, passando per gli impulsi
sessuali, che si manifestano sempre nel corpo, ma sono l'effetto della volontà di vita della specie, fino all'ambizione e alle ispirazioni ideali, tutta la nostra vita è caratterizzata dalla
ricerca di soddisfazione. Ma questa continua
rincorsa è soprattutto dolore,
in quanto consiste sempre nella mancanza
di qualcosa. Sia la nostra volontà corporea, sia quella spirituale, tendono
verso qualcosa che non c'è ancora,
causando sofferenza e insoddisfazione. Prima di tutto il bisogno fisico e,
quando questo è soddisfatto, l'inquietudine: ecco i sentimenti che
caratterizzano la situazione dell'uomo. A volte però i nostri desideri vengono esauditi, ossia la nostra volontà
realizza quello che cerca. Ne segue allora un fugace piacere, che tuttavia è semplicemente
la scomparsa del dolore, cioè una tensione che si allenta, un'instabile
quiete. Di qui si avvicina il pensiero di Schopenhauer a quello di Leopardi. Infatti il poeta nella Quiete dopo la tempesta, scrive "piacer figlio d'affanno", cioè la
gioia deriva solo da una sofferenza che è ormai passata. Questo significa che non esiste un vero piacere se non
nell'assenza di dolore. Ma questa falsa soddisfazione dura solo un attimo, poiché subito subentra la noia. L'uomo, infatti, essendo
per sua natura volontà e desiderio, non è in grado di vivere nella quiete, se
non annoiandosi. La noia è proprio l'assenza
di desideri. In realtà, l'uomo ha più
paura della noia che del dolore. Esso infatti cerca in tutti i modi di
distrarsi. Ecco perché è socievole,
pur sostanzialmente egoista; vuole incontrare
gli altri per non annoiarsi. La vita umana quindi si ritrova a oscillare
tra dolore e noia. Una via d'uscita potrebbe essere trovata nella moderazione
dei desideri, in modo che essi trovino facilmente soddisfazione, senza però
fermarsi mai, cioè facendo seguire un desiderio all'altro, per non farsi
sopraffare mai dalla noia. Questa soluzione però va incontro ad un
inconveniente: ognuno di noi ha un'indole,
che non gli consente di seguire strade diverse da quelle assegnate. S.
ribadisce spesso velle non discitur
(non si impara a volere), cioè ognuno
ha la sua volontà, che lo porta in una direzione che egli non può cambiare. In
conclusione sembra che la volontà spinga
l'uomo in una vita infernale, senza rimedio.
L'ARTE
S. è sostanzialmente un filosofo pessimista ma la maniera migliore per
sottrarsi alla "vita infernale" che sembra delineare la volontà è quella di
uscirne fuori e contemplarla dall'alto. Abbiamo visto che la conoscenza
scientifica è intrappolata nel mondo della rappresentazione, quindi non ci dice
nulla sul mondo della volontà, che si trova invece nella cosa in sé. Ma esiste
anche un'altra forma di conoscenza, del tutto intuitiva, che mira a cogliere le essenze delle cose, che S. chiama
le idee. Queste idee rappresentano i
vari gradi in cui si realizza la volontà
nel mondo, a partire da quelli più bassi della materia inanimata, fino alla
volontà umana. Secondo S. è possibile afferrare le idee intuitivamente, cioè
non in maniera discorsiva e intellettuale, ma mediante una contemplazione
immediata. Quando riusciamo a cogliere le idee, che poi sono l'essenza della
volontà, finalmente non siamo più subordinati ai nostri desideri. Per S. la
conoscenza intuitiva ha un valore catartico. S. considera l'arte una prima forma di conoscenza
delle idee. Già Schelling e Hegel avevano visto nell'arte la conoscenza
dell'assoluto; così anche il nostro cuore considera l'arte una via per
contemplare la volontà, cioè la cosa in sé. La fruizione o la creazione di un
opera artistica ci consentono di prescindere dai conflitti fra gli uomini, di
uscire dal principium individuationis.
L'arte è inoltre opera del genio,
che è ostile a ogni forma di ragionamento scientifico. Ci sono però diverse arti che si differenziano per
la progressiva smaterializzazione del
loro oggetto. Questa serie corrisponde ai diversi grandi della volontà, da
quello più materiale, contemplato
nell'architettura, a quello umano, contemplato nella tragedia. La musica ha poi un ruolo particolare perché è contemplazione della volontà pura. Ma l'arte è una via di liberazione di breve durata, che ci
permette di contemplare le idee solo nel momento in cui stiamo creando l'opera
d'arte o la stiamo fruendo. L'arte, dunque, non può che essere una soluzione
temporanea al problema di S., dobbiamo quindi trovare forme più durature di
intuizione della volontà.
LA CARITAS E L'ASCESI
L'opera più importante di S. è Il mondo
come volontà e rappresentazione è divisa in quattro libri: nel primo egli
parla del mondo come rappresentazione; nel secondo descrive il mondo come
volontà (descrivendo la sua metafisica o filosofia della natura); nel terzo
analizza la prima via di liberazione dalla volontà, cioè l'arte; infine il
quarto libro è dedicato all'etica,
dove incontriamo la vera strada per superare la volontà. Solo nell'azione
morale possiamo capire fino in fondo la natura della volontà e quindi prenderne
le distanze. La prima via che si profila per negare la volontà che ci rende
schiavi è il suicidio, che sembra
essere il rifiuto di ogni desiderio. Esso tuttavia solo apparentemente nega la
volontà di vivere, in quanto è in realtà un atto che implica la massima
autoaffermazione, poiché il suicida vorrebbe vivere, ma non è soddisfatto della
vita che conduce. Il suicida rinuncia alla vita, ma non alla volontà di vivere.
Il suicida resta comunque chiuso nel suo mondo mentre per ottenere la
liberazione occorre andare verso gli altri, dimenticandosi di se stessi. Questa
negazione di se stessi avviene però per gradi. Per S. buono è ciò che si conforma alla volontà; ovvero buono non è un
valore che si impone dall'esterno all'individuo, ma è semplicemente ciò che
soddisfa i suoi desideri. Quindi una morale assoluta per S. non esiste. Se buono
è ciò che soddisfa un desiderio, cattivo
sarà ciò che lo ostacola. L'uomo è in una condizione tale che non riesce a
soddisfare i propri desideri, oppure ne cerca sempre di nuovi per ingannare la
noia, per cui molti diventano cattivi, andando a danneggiare gli altri per il
proprio vantaggio, o addirittura malvagi,
dando tormento agli altri solo per vederli soffrire. La cattiveria e la
malvagità sono il frutto del perenne stato di insoddisfazione in cui viviamo.
Il cattivo realizza i suoi desideri rovinando gli altri, mentre il malvagio
lenisce le sue sofferenze vedendo gli altri che soffrono inutilmente. Allora la
prima mossa di liberazione è quella di praticare la giustizia, cioè di non essere né cattivi né tanto meno malvagi. Il
giusto si accontenta di soddisfare i desideri che non vanno oltre se stesso.
Tuttavia non è sufficiente, occorre infatti praticare l'amore del prossimo,
ossia la caritas, che consiste nel lenire le sofferenze degli altri. In
questo modo ci rendiamo conto che noi e gli altri siamo immersi nella stessa
vita infernale, per cui riusciamo a contemplare dall'alto la nostra volontà,
dimenticandocela e assimilandola a quella del nostro prossimo. In fondo per S.
ogni forma d'amore è pietà, poiché
si basa sulla consapevolezza che anche l'altro soffre. Con la pietà riusciamo a
superare in parte il principium
individuationis, in quanto diventiamo coscienti che sia noi sia il prossimo
facciamo parte di un'unica volontà. Proviamo infatti rimorso quando agiamo solo nel nostro interesse; sentiamo invece la
nostra buona coscienza quando
compiamo un azione disinteressata. La caritas
però non basta, quando riusciamo a caricarci sulle spalle le sofferenza
dell'intera umanità capiamo che l'amore del prossimo è insufficiente, in quanto
comunque soggiogato alla logica della volontà individuale. Dobbiamo allora
dimenticare completamente noi stessi e gli altri negando del tutto il principium individuationis che ci
vincola. Questa è l'ascesi o noluntas che consiste nella pratica
della castità, della povertà, della rassegnazione e dell'accettazione serena
della morte come liberazione dalla volontà. Qui S. si ispira ancora alla
religiosità indiana, alla nozione buddista di nirvana. L'ascesi è l'unico atto libero dell'uomo. I santi sono gli unici che sono stati veramente
in grado di raggiungere questo grado.
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