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L'EMIGRAZIONE ITALIANA DALLA SECONDA META' DELL'800 AL 1914

politica



LICEO GINNASIO STATALE "E.Q. VISCONTI"

ROMA


19 MAGGIO 2000: CONFERENZA E DIBATTITO SULLE MIGRAZIONI RIGUARDANTI L'ITALIA NEI SECOLI XIX E XX.


L'EMIGRAZIONE ITALIANA DALLA SECONDA META' DELL'800 AL

Si ringrazia per la collaborazione la professoressa Bogliaccino


Lavoro a cura degli alunni del II C: Valerio Picchiassi; Jessica A. Micheli; Eugenio Di Prima; Francesca Corradi; Iliana Bersani.





Cos'è l'emigrazione e perché si emigra


L'emigrazione è un fenomeno demografico caratterizzato dallo spostamento di grandi masse di popolazione da uno Stato all'altro o da una regione a un'altra della stessa nazione. In genere i movimenti migratori sono motivati da uno squilibrio fra popolazione e risorse, più raramente alla base delle migrazioni vi sono motivi religiosi. Con sicurezza si piò affermare che le migrazioni europee contribuirono da una parte ad alleviare almeno momentaneamente tensioni non solo demografiche nei paesi di partenza, dall'altra sin rivelarono spesso decisive per la costruzione di società nuove e per il progresso e la definitiva affermazione di società più giovani di quelle europee.

Diversi furono i fattori scatenanti il flusso migratorio che interessò la popolazione italiana a cavallo tra la fine del secolo XIX e l'inizio del XX.


a.  la situazione economica delle zone d'immigrazione;

b. i profondi squilibri dello sviluppo economico e sociale italiano: innanzitutto fra nord e sud, e quindi fra città e campagna, fra zone industrializzate o a tendenziale industrializzazione e zone agrarie arretrate e in via di disgregazione sociale ed economica;

c. la contraddizione tra la crescente pressione demografica e la scarsa disponibilità di nuovi posti di lavoro di una struttura economica arretrata che poteva essere risolta o attraverso un radicale rivoluzionamento della struttura economica stessa o attraverso la valvola di sfogo dell'emigrazione.

d. l'attrattiva esercitata dalle opportunità di arricchimento e di una sistemazione economico-sociale vantaggiosa (si pensi alla corsa all'oro, alle terre vergini, e ad altre opportunità più o meno eccezionali e/o fantasiose);

e.  il sistema dei trasporti che ha influenzato, assieme alla posizione geografica, tanto le zone di partenza che quelle di arrivo o di insediamento;

f.   i fattori politici, favorevoli o contrari all'emigrazione a seconda del perseguimento o meno di una politica espansionistica da parte delle nazioni di immigrazione;

g. i fattori umani, quali l'esistenza di colonie o regioni o nazioni già a forte insediamento di nuclei di immigrati della stessa nazionalità.

h. Rispetto ai paesi di destinazione oltre alla vicinanza geografica o alla facilità dei trasporto agirono da fattore di attrazione le catene migratorie: ci si recava là dove si trovavano altri conoscenti



Chi emigra


Per quanto riguarda la composizione sociale degli emigrati, la stragrande maggioranza di questi è formata da contadini, in prevalenza meridionali e quindi veneti e friulani.

E' interessante anche notare le differenze tra emigranti in base al sesso, come mostra la tabella:


Espatriati per sesso e per destinazione (in migliaia)

Periodi

Espatriati

Maschi

Femmine

Paesi continentali

Paesi transoceanici

Espatriati per 10.000 abitanti


























































Ciò vale, tuttavia, piuttosto per l'Italia del nord e per l'emigrazione "temporanea": si parte pensando a tornare prima possibile; per il sud, invece, conseguentemente al carattere definitivo o comunque di lunga durata dell'emigrazione, sono più frequenti i casi di famiglie intere che lasciano i propri paesi. Comunque, sia la proporzione dei sessi, tra maschi e femmine, che quella tra le diverse fas 252f52c ce d'età risultano nell'emigrazione sbilanciate a favore degli uomini e dei più giovani.


Gli emigranti italiani che lasciavano l'Italia fra la fine dell'800 e l'inizio del '900, facevano il viaggio in condizioni terribili, ammassati nelle cabine di terza classe dei transatlantici, che partivano dai maggiori porti italiani.

I primi grandi flussi migratori, tra il 1876 e il 1900, furono quelli in partenza dal Veneto, dal Friuli Venezia Giulia e dal Piemonte, zone socialmente più progredite e con popolazione più numerosa; nelle regioni meridionali, meno densamente popolate, il fenomeno fu per lungo tempo irrilevante, a causa del loro isolamento, della scarsezza di mezzi di trasporto, di vie comunicazione e dell'ignoranza. Questa situazione di arretratezza e di estraniamento dalla vita del resto del Paese, continuò per lungo tempo (senza ombra di dubbio, si può considerare come il residuo dei passati regimi, ma anche del tradizionale attaccamento alla terra e alla casa e di minori necessità economiche, derivanti da una vita esclusivamente agricola e patriarcale), e solo nel quindicennio successivo il primato passò ad alcune regioni meridionali, la Sicilia seguita dalla Campania.

Gli emigrati dall'Italia meridionale, prevalentemente addetti all'agricoltura e braccianti, costretti all'espatrio dalla povertà dei loro Paesi erano disposti ad accettare qualsiasi lavoro e anche a stabilirsi definitivamente all'estero, nelle terre d'oltremare; al contrario, l'emigrazione dall'Italia settentrionale, più altamente qualificata e, in genere temporanea, era per lo più assorbita da Paesi europei.

Dall'Italia settentrionale si emigrò preferibilmente verso l'Europa e verso i paesi del Sud America (Veneti in Brasile; Piemontesi in Argentina); l'Italia centrale contribuì in misura pari all'esodo sia continentale che extra continentale; dal Mezzogiorno si partì prevalentemente verso le Americhe (90%) privilegiando gli Usa.
Per quanto riguarda le destinazioni privilegiate dall'emigrazione continentale, è la Francia, seguita a una certa distanza dall'Austria, dalla Germania e dalla Svizzera, che tiene sempre il primo posto tra i Paesi europei durante questo primo quarto di secolo; l'Argentina e il Brasile, invece, che assorbivano la maggior parte dell'emigrazione transoceanica nei primi venti anni, vedono rapidamente svanire il loro primato, a causa del repentino incremento dell'immigrazione negli Stati Uniti, avvenuto verso la fine del secolo.

Tra i Paesi di destinazione dell'emigrazione continentale, la Svizzera passò al primo posto superando la Germania, l'Austria e la stessa Francia; nell'emigrazione verso Paesi d'oltremare si accentuò invece il primato degli Stati Uniti, dove si diressero, dal 1901 al 1913, oltre 3 milioni di italiani, contro i 951.000 dell'Argentina e i 393.000 del Brasile. Gli alti salari offerti al mercato nordamericano, la diminuzione delle terre libere nei Paesi dell'America Meridionale, la maggiore facilità e rapidità di guadagni, consentita dalla grande industria degli Stati Uniti, concorsero a dirottare il flusso dell'emigrazione dall'Italia.

L'emigrazione italiana negli ultimi anni dell'anteguerra era ben diversa da quella degli ultimi vent'anni del XIX secolo. Non si trattava più di masse prive di appoggio, emigranti alla ventura in cerca di lavoro, ma di masse guidate e assistite, e capaci alla loro volta di contribuire al miglioramento delle condizioni economiche e sociali della patria. L'emigrazione, ritenuta inscindibilmente connessa alla struttura economica del Paese e al ritmo di accrescimento della sua popolazione, fu largamente incoraggiata e protetta.



I dati


Il censimento generale del 1861, accertò l'esistenza di colonie italiane, già abbastanza numerose, sia nei Paesi di Europa e del bacino mediterraneo sia nelle due Americhe, infatti dai dati emerge la seguente situazione: Francia, 77.000; Germania, 14.000; Svizzera, 14.000; Alessandria d'Egitto, 12.000; Tunisi, 6.000; Stati Uniti, 500.000; Resto delle Americhe, 500.000.

L'emigrazione come fenomeno sociale, prodotto cioè essenzialmente dalla necessità di sfuggire la miseria e la disoccupazione, comincia a comparire nei primi anni successivi all'unificazione politica del paese, si fa robusta a partire dal 1870, e assume vere e proprie dimensioni di massa a partire dal 1880. Per tutto l'ultimo ventennio del secolo diciannovesimo e nel primo decennio del ventesimo il tasso di emigrazione aumento regolarmente ogni anno, fino a toccare il massimo nel 1913 (anno in cui gli emigrati sono oltre 872.000), per poi subire un brusco calo in coincidenza con gli anni della prima guerra mondiale.

Le statistiche sull'emigrazione nel periodo considerato non sono del tutto attendibili, poiché non si distingue fra emigrazione definitiva ed emigrazione temporanea. Si può comunque dire che per quanto riguarda l'emigrazione nei paesi extraeuropei questa va considerata, nella grande maggioranza dei casi, come definitiva.

Nella seguente tabella, compilata sulla base dei dati disponibili, sono indicate, per ogni quinquennio a partire dal 1871, le medie annue degli espatri nei paesi europei e del bacino mediterraneo, nei paesi transoceanici, e il totale complessivo.


Anni

Europa

Oltre oceano

Totale











































Dopo la flessione del 1876-80 si ha un brusco aumento dell'emigrazione nel 1881-85, con una regolare tendenza all'aumento negli anni successivi. Per quanto riguarda le destinazioni del flusso migratorio, i paesi europei assorbono la quota maggiore degli emigrati fino al 1881-85, poi col quinquennio successivo questa passa ai paesi transoceanici. In particolare, la Francia è il paese col maggior numero di immigrati italiani nel decennio 1876-85; nel quinquennio 1886-90 il suo posto è preso dall'Argentina, quindi dal Brasile e infine dagli Stati Uniti.


Prima del 1876, anno in cui, sotto la guida di L. Bodio, s'iniziò a rilevare con regolarità l'immigrazione italiana, riuscendo ad ottenere cifre più sicure e comparabili fra loro, il flusso migratorio mostrava già i lineamenti di un fenomeno di massa. Stava assumendo dimensioni annue di consistente entità, infatti già intorno al quinquennio, precedente questa data, cioè dal 1869 al 1875, la media delle emigrazioni si aggirava intorno alla cifra, record per quel tempo, di 123.000 unità. In questo periodo, però, l'emigrazione italiana appare ancora disorganizzata e sporadica, e mantiene questo carattere, con una media di 135.000 emigrati, diretti in prevalenza verso Paesi europei e mediterranei, fino alla prima metà degli anni 1880; dal 1887, a causa del notevole incremento dell'offerta di lavoro del mercato americano, si sviluppa rapidamente l'emigrazione transoceanica e, si determina così, un raddoppio della media annua complessiva, che passa.a.269.000.unità.(periodo.1887-900).

Per una maggiore comprensione dell'incremento dell'emigrazione transoceanica, in valori assoluti e nei confronti di quella continentale (da 18,25% dell'emigrazione complessiva nel 1876 a 47,20% nel 1900), e dello spostamento della sua direzione dall'America meridionale a quella settentrionale, è utile ora mettere in relazione questi dati, sia con le mutate condizioni del mercato del lavoro nei paesi americani, sia con la diversa partecipazione delle varie regioni d'Italia all'espatrio.

In pochi decenni, però, il rapporto si invertì, sia a causa dell'intenso ritmo di accrescimento demografico, sia per le poco floride condizioni economiche (in parte dovute alla tariffa protezionistica dell'87, che sacrificò l'agricoltura all'industria), che non permettevano di assorbire l'eccesso di manodopera. Negli ultimi anni del secolo XIX, la quota fornita all'emigrazione complessiva dall'Italia settentrionale diminuì (da 86,7% nel 1876 a 49,9% nel 1900) mentre crescevano quella dell'Italia meridionale e insulare.(da.6,6%.a.40,1%).e dell'Italia centrale.(da.6,7.a.10%) (vedi grafico).

Assistita, organizzata e diretta laddove maggiori fossero le possibilità di occupazione, l'emigrazione italiana, per quanto con andamento irregolare dovuto alle crisi attraversate dai Paesi di destinazione, tende ad aumentare nei primi anni del secolo XX; la media annua nel 1901-13 sale a 626.000 emigranti e il rapporto con la popolazione del regno, nel 1913, tocca i 2.500 emigranti per ogni 100.000 abitanti, pari a un quarantesimo circa dell'intera popolazione. E' soprattutto l'emigrazione dall'Italia meridionale e insulare che si sviluppa, raggiungendo livelli nettamente superiori rispetto a quelli dell'Italia settentrionale: 46% contro 41% dell'Italia settentrionale e 13% della centrale, su un totale di più di 8 milioni del periodo 1901-13 (vedi grafico). Ciò spiega anche l'assoluto prevalere, nel periodo, dell'emigrazione transoceanica sulla continentale (il 58,2% contro il 41,8%).


ITALIANI EMIGRATI DOVE E QUANTI IN 140 ANNI

Anni

Francia

Germ.

Svizz.

Usa-Can.

Argent.

Brasile

Australia

Altri Paesi
























































































































PARTITI









TORNATI









RIMASTI









TOTALE COMPLESSIVO: ----- PARTITI 29.036.000-----TORNATI 10.275.000------ RIMASTI 18.761.000


ATTENZIONE ALLE CIFRE DEI RIMASTI: non significa ad esempio che in Svizzera vi sono 2.546.000 italiani, ma che hanno preso la residenza svizzera nell'arco di circa - coefficiente 5,6 - generazioni, quindi con una media che oscilla all'incirca sulle 456.000 unità (0,6 % della popolazione locale) che comprendono gli oriundi da parte di padre, nonno o bisnonni.. Per i Paesi d'oltreoceano non essendoci una stessa proporzione dei ritornati, tale coefficiente diminuisce e fa aumentare di conseguenza gli oriundi. Comunque tenendo conto sia dei flussi migratori nei vari archi temporali accennati sopra e sia la durata della vita media, si può arrivare a definire molto da vicino l' effettivo numero di italiani o oriundi italiani che vivono in quei Paesi; e per ottenere quest'ultimo dato si prendono innanzitutto le cifre di quelli partiti dopo il 1946 (quelli ad esempio nati in Italia ma residenti attualmente in America del Nord) e si tralasciano gli altri, i precedenti, che avendo già un'età all'epoca della migrazione in media di 26 anni, la quasi totalità di essi è già scomparsa). Pertanto avremo per l'America del Nord questi risultati: partiti dal 1946: 158.000 + 297.000 + 208.000 + 61.000 +16.000 =740.000 - l'11,62% dei tornati 85.988 = 654.012 soggetti nati in Italia ma che vivono e sono residenti attualmente in America. Per gli oriundi si può procedere nello stesso modo , calcolando il tasso di fertilità americano per il numero dei nostri connazionale delle singole fasce-anno di immigrazione. Con lo stesso facile metodo si puo' procedere per gli altri Paesi d'oltre oceano.




Le conseguenze


Le partenze da parte principalmente della popolazione maschile di giovane età avrebbe avuto a lungo andare un risvolto negativo, in modo particolare per le aree più svantaggiate del mezzogiorno e per quelle più interne e montuose del paese.

Il depauperamento delle migliori energie umane che ne derivò fu compensato solamente in parte, quella monetaria, dalle rimesse degli emigranti. Sul piano demografico l'impatto del fenomeno migratorio provocò una perdita netta di popolazione, data dalla differenza tra espatri e rimpatri, di circa 9 milioni di italiani registrata dall'unificazione alla fine degli anni '70 del presente secolo, e una certa diminuzione della natalità (negli anni 1901-10 passa dal 32,7 al 27,2 per mille).


Decenni

Popolazione censita

Saldo migratorio



















In assenza di iniziative governative e di alternative concrete, le masse meridionali contadine scelsero spontaneamente la via dell'emigrazione. Lo stesso governo vide favorevolmente questo fenomeno che da una parte allontanava il pericolo di esplosioni sociali e dall'altra contribuiva, mediante le rimesse degli emigrati, al riequilibrio della bilancia dei pagamenti. Ciò nondimeno, il governo si mosse solo tardivamente e in modo insufficiente: la prima legge in materia è del 1888.

Gli effetti di lunga durata di questa emorragia di forza-lavoro furono contraddittori. L'allentamento della pressione demografica, traducendosi in una relativa diminuzione dell'offerta di lavoro, permise a chi restava di conquistare salari più alti e condizioni di lavoro migliori. Ma nel lungo periodo lo spopolamento delle campagne meridionali ne ritardò lo sviluppo, sottraendo a quelle regioni le forze più giovani e dinamiche.

Se per i poveri emigrare era una necessità, i ceti dirigenti considerarono il fenomeno migratorio un'autentica calamità. I proprietari terrieri, in particolare, vi vedevano sia il rischio di una diminuzione di manodopera e di una rottura dei patti colonici, sia il pericolo di un crollo demografico che avrebbe conseguentemente aumentato i salari agricoli. In generale si può affermare che a una più netta opposizione della proprietà terriera meridionale fece da contrappeso una più favorevole posizione dei settentrionali, soprattutto del mondo imprenditoriale più attento ai benefici derivanti dalla libera circolazione della popolazione.

Il venire meno del vincolo fondiario, che lega l'emigrato al paese d'arrivo, e il diminuito costo dei trasporti favorirono una minore durata dell'espatrio: molti lavoratori decisero di investire i loro risparmi in Italia, prevalentemente in acquisto di terre o nella casa di proprietà . Questo carattere temporaneo, che già era dominante nell'emigrazione continentale e che cominciava ad estendersi a parte dell'emigrazione transoceanica, si ripercuote beneficamente sull'economia italiana, sia perché gli emigrati tornano, in genere con accresciute capacità di lavoro e di iniziativa e muniti di capitali accumulati all'estero, sia perché, contando di rientrare in patria, molti emigranti vi lasciavano le loro famiglie e ad esse provvedevano durante l'espatrio con l'invio di rimesse, quelle rimesse che contribuirono attivamente al saldo della bilancia dei pagamenti dell'Italia con l'estero.

Furono favorevoli all'emigrazione non solo gli armatori, per evidenti e diretti interessi economici, ma anche gli industriali manifatturieri e gli impresari in genere. In alcune circostanze, per esempio durante e dopo l'esplosione delle lotte bracciantili seguita alla crisi agraria, gli stessi agrari, pur avversando l'emigrazione in quanto responsabile dell'aumento dei salari, videro con favore uno sfoltimento della forza lavoro; l'emigrazione in quei casi diventava una insostituibile valvola di sfogo economico e un mezzo per il controllo sociale.

La stessa diversità di valutazione si ritrova nelle posizioni ufficiali delle forze politiche del tempo: opinioni favorevoli e sfavorevoli si fronteggiarono fino alla fine del secolo tanto all'interno della destra storica, naturale portavoce degli interessi della proprietà fondiaria, quanto fra le file della sinistra. Per esempio, i socialisti espressero spesso un giudizio severo poiché vedevano nell'emigrazione un mezzo attraverso il quale i contadini inseguivano quel sogno della proprietà privata e individuale della terra che essi invece avversavano. Inoltre consideravano l'espatrio una conseguenza dell'incapacità di dar vita a un'organizzazione di classe e di modificare così la realtà sociale e politica da cui gli emigrati fuggivano. Anche i gruppi cattolici temevano l'emigrazione per ragioni etiche e di controllo sociale: l'additavano sia come occasione di alcolismo, di dissolutezza, di adulterio e quindi di dissoluzione dell'istituzione familiare, sia come veicolo attraverso il quale l'emigrante poteva entrare in contatto con le idee socialiste e anarchiche.

Fino al varo della prima legge sull'emigrazione, che avvenne nel 1888, prevalse un atteggiamento di diffidenza, puntualmente rispecchiato dall'ordinamento legislativo e dai provvedimenti amministrativi. Varie circolari, emanate nel corso degli anni settanta, documentano un atteggiamento ostile basato su considerazioni economiche (aumento dei salari) ed etico-morali (dissoluzione della famiglia e dei valori cristiani). L'emigrante era addirittura considerato un soggetto "pericoloso" e il controllo dei suoi movimenti rientrava in una normativa poliziesca di controllo dell'ordine pubblico. L'analisi e il controllo del fenomeno, in questo periodo iniziale, furono trascurati, infatti, la sola legge varata dal Parlamento fu la n. 5877 del 30 dicembre 1888, che peraltro si limitava a sancire quasi esclusivamente norme comportamentali. Tale legge affidava alla polizia, il controllo per arginare il fenomeno dei molteplici abusi, ad opera di chi si occupava di reclutare manodopera a basso costo. La situazione migliorò e i soprusi degli speculatori cessarono, solamente quando fu approvata una legge organica dell'emigrazione e fu creato un organo tecnico specifico per l'applicazione della legge stessa:

furono abolite le agenzie e subagenzie;



il trasporto fu consentito solo sotto l'osservanza di determinate cautele e garanzie;

si crearono organi pubblici, per fornire le necessarie informazioni ai desiderosi di espatrio;

si stabilirono norme per l'assistenza sanitaria e igienica, per la protezione nei porti e durante i viaggi e, successivamente, anche per la tutela giuridica dell'emigrazione e la disciplina degli arruolamenti per l'estero.


Negli anni successivi finì per prevalere il fronte unitario di quanti videro nell'emigrazione una valvola di sfogo nei momenti di conflittualità sociale e uno strumento di miglioramento economico attraverso le rimesse. Con la legge del 1901 il Parlamento approvò un intervento organico destinato a riflettersi su tutta la legislazione successiva. In primo luogo la legge tutelò i momenti iniziali della partenza e del viaggio, vietando l'attività degli agenti, sostituiti dai 'vettori', ossia gli armatori o i noleggiatori. Al fine di meglio coordinare le attività di difesa e di tutela dell'emigrante, il fenomeno migratorio fu classificato nelle due categorie di emigrazione continentale e transoceanica. Venne costituito un Commissariato dell'emigrazione, organismo tecnico dipendente dal Ministero degli Esteri ma dotato di autonomia finanziaria e del potere di varare una propria legislazione e normativa. Il Commissariato curò, attraverso l'attività dei Consoli, inchieste e rilevazioni sulle comunità degli italiani all'estero, che si affiancarono a quelle effettuate dalla Direzione Generale della Statistica. I risultati di quelle indagini comparvero regolarmente nel Bollettino dell'emigrazione, l'organo a stampa del Commissariato.

I risultati furono inferiori alle attese. L'organizzazione consolare, affidata ad una rappresentanza diplomatica di estrazione sociale prevalentemente aristocratica, si dimostrò incapace di comprendere le condizioni e i problemi degli emigranti. A questa carenza si sommava l'assoluta mancanza di interventi di tutela nei paesi di arrivo: la legge non era riuscita a realizzare infatti nessuna forma di negoziazione e nessun accordo che agevolasse l'inserimento della manodopera immigrata nei mercati del lavoro esteri.

La legge dette comunque spazio ad altri interventi assistenziali e di tutela che furono delegati ad associazioni private, sia laiche sia religiose. Del resto, la Chiesa si era mossa già a partire dagli anni settanta: la Società di San Raffaele, promossa da monsignor Scalabrini, vescovo di Piacenza, si era posta come primo obiettivo quello di seguire gli emigranti transoceanici per evitarne la "scristianizzazione". Gli "scalabriniani" si occupavano dell'emigrante difendendolo dalla rapacità delle compagnie di navigazione e degli intermediari al momento dell'imbarco, e aiutandolo ad integrarsi nelle città e nelle campagne del paese di arrivo, nonché nella ricerca dell'occupazione. Un'altra istituzione cattolica, l'Opera per gli emigranti nell'Europa e nel Levante, fondata da monsignor Bonomelli nel 1900, rivolse la sua attenzione all'emigrazione continentale e temporanea. Nell'Opera Bonomelli così come nella Società Scalabriniana è evidente un analogo intento di mantenere la fedeltà alla chiesa combattendo la laicizzazione.

Anche le forze laiche e socialiste costituirono le loro Società assistenziali, la più importante delle quali fu certamente la Società Umanitaria di Milano che predispose una rete periferica di segretariati dislocati strategicamente nelle aree di più intensa emigrazione temporanea. Applicando i propri programmi pedagogico-educativi di solidarietà, l'Umanitaria cercava di favorire l'integrazione dell'emigrante.

La scelta di intervenire soprattutto in favore dell'emigrazione temporanea dipendeva dalla considerazione che quella fosse, grazie alla sua composizione prevalentemente operaia, più permeabile agli ideali del socialismo, ma ancora di più dall'assunzione di funzioni di delega del Commissariato il quale si occupò invece quasi esclusivamente dell'esodo transoceanico.





Approfondimenti sul ruolo della Chiesa nelle migrazioni.






UNA LUNGA STORIA

La Chiesa fin dalle sue origini si è occupata dell'accoglienza, assistenza e accompagnamento della gente in mobilità (pellegrini, esuli, profughi, migranti in genere...). Anzi, ha una vecchia parentela con questo mondo: sono, infatti, gli ebrei emigrati a diffondere il cristianesimo nei paesi vicini.
E l'avvenire della chiesa è segnato ancora dall'emigrazione: pare che il numero dei cattolici in Giappone stia aumentando anche per i numerosi rimpatri dei discendenti di giapponesi emigrati in America Latina.

Restringendo il nostro campo alle recenti emigrazioni e all'impegno recente della chiesa italiana, è bene partire dal ricordo di questi ultimi due secoli.

Il contesto è quello delle grandi emigrazioni per lavoro dall'Europa: dal vecchio continente tra il 1830-1930 emigrarono ben 60 milioni di abitanti. Un fenomeno imponente nel numero e nella durata che poneva problemi economici ma anche religiosi, culturali e politici sia in partenza che all'arrivo. Fu un fenomeno di massa: in particolare l'Italia tra il 1870 e il 1970 ha visto partire 26 milioni di cittadini. Una partenza drammatica: nel Veneto si fuggiva dalla pellagra... Queste popolazioni diventano orfane perché lontane dagli occhi e dal cuore dell'Italia e straniere nei Paesi di arrivo dove si attendevano braccia e non uomini. Due affermazioni colpiscono chi avvicina la storia della nostra emigrazione: quella di Nitti alla fine del secolo scorso O migranti o briganti e quella dei rapporti del Ministero degli Affari Esteri nel 1949 che scrivevano ci fossero nella Penisola quattro milioni d'italiani... di troppo!

L'emergenza

Le masse emigranti ponevano alle chiese di partenza e di arrivo problemi religiosi che richiederanno parecchio tempo per essere prima pienamente percepiti ed poi affrontati adeguatamente.

Di fatto le attese hanno avuto delle risposte: ne sono prova le recenti celebrazioni del settantesimo della missione italiana di Seraing (Belgio), del centenario di quella di Zurigo (Svizzera) o dei cento anni dall'arrivo dei salesiani italiani a S. Francisco (USA). Sono alcune risposte. La Chiesa è esperta in emigrazione, come affermava Paolo VI, per merito di tanti precursori, delle migliaia di sacerdoti, religiosi, suore e laici che hanno accompagnato le turbe diseredate fin dall'inizio.

I Precursori

Pioniere dell'assistenza agli emigranti è stato san Vincenzo Pallotti (1795-1850, fondatore della Società dell'Apostolato Cattolico), che già nel 1844 inviò a Londra un suo sacerdote per assistere gli italiani: nasceva la Chiesa italiana di S. Pietro con il carattere di parrocchia nazionale.

Altro grande interprete dell'assistenza agli italiani è stato san Giovanni Bosco (1815-1888) che nel 1875, nell'inviare dei missionari in Patagonia (Argentina), si preoccupò dei trentamila italiani di Buenos Aires e di quelli sparsi nella pampa.

Benché la Santa Sede invitasse i vescovi dei principali porti italiani ad assistere gli emigranti, l'attenzione della Chiesa italiana a questo fenomeno, ancora recente negli anni '80, fu nel complesso scarsa. In alcuni grandi paesi americani, come USA e Brasile, gli italiani erano completamente abbandonati e suscitavano grandi preoccupazioni per la loro ignoranza religiosa, l'indifferenza e la scarsa partecipazione alle spese di culto. Propaganda Fide sollecitò l'intervento dei vescovi italiani più sensibili.

Scalabrini

Mons. Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905, vescovo di Piacenza) comprese il significato delle trasformazioni demografiche che aprono a nuovi spazi e a nuove esperienze, pur sotto il condizionamento della miseria e delle incomprensioni. Alzò la sua voce condannando la speculazione e lo sfruttamento che fiorivano attorno ai figli della miseria e del lavoro con la protezione dello stato, affermò la libertà di emigrare ma non di far emigrare, contrastò la dubbia attività degli agenti di emigrazione. Istituì nel 1889 una Società di patronato per gli emigrati, la S. Raffaele italiana. E prima aveva fondato, nel 1887, la Congregazione religiosa dei Missionari di S. Carlo per l'assistenza spirituale e sociale degli emigranti e per mantenere i figli della Chiesa nel suo grembo o, nel caso, a riconquistarli ad essa.

In linea con il suo impegno pastorale per gli emigranti, fece una visita pastorale agli italiani negli Stati Uniti nel 1901 e in Brasile nel 1904, lasciando un'impronta profonda, specialmente in alcune zone rurali del Brasile mai raggiunte da un vescovo.

Cabrini

Santa Francesca Saverio Cabrini (1850-1917, prima santa cittadina degli Stati Uniti e madre degli emigrati) fu all'origine del fiorire delle Congregazioni femminili: senza di loro, affermava Scalabrini, l'opera dei missionari sarebbe incompleta. La Cabrini nel 1889 accettò di mandare le sue Suore in America e ricevette con sei consorelle, dallo Scalabrini, il crocifisso missionario. Si dedicò con zelo alla catechesi, alla costruzione di scuole e ospedali per gli italiani, dapprima a fianco dei missionari e in seguito in forme sempre più autonome.

Le congregazioni femminili partite per l'emigrazione o legate ad essa sono un vero stuolo, non un fatto puntuale o delle persone isolate. Ed hanno operato massivamente a favore degli emigrati.

Bonomelli

Anche in Europa i lavoratori, emigrati stagionali o stabili, esperimentarono le condizioni dell'abbandono e vennero a contatto e confronto con ideologie non religiose o protestanti. Pur non mancando le iniziative di singoli sacerdoti e congregazioni religiose, si sentiva l'esigenza di un'organizzazione unica ed efficiente di coordinamento delle iniziative ecclesiali. Le chiese europee sollevarono più volte la questione dei lavoratori stranieri.

E sarà Mons. Geremia Bonomelli (1831-1914, vescovo di Cremona) l'interprete principale di un'azione più incisiva nel vecchio continente. Fondò nel maggio 1900 l'Opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa (detta più tardi Opera Bonomelli) con lo scopo di fornire un'assistenza religiosa e morale agli emigrati italiani insieme ad un'attività di patronato: fu un sistema integrato in cui le opere di assistenza sotto l'impegno e la corresponsabilità dei laici completavano l'attività religiosa sostenuta dalla presenza dei missionari. Il segretariato del popolo era collocato accanto alla missione.

Dal 1908 il cardinale Ferrari di Milano e il vescovo mons. Ferdinando Rodolfi di Vicenza dal 1914 continuarono sulla stessa linea, conservando l'equilibrio, non sempre facile, tra l'orientamento spirituale e religioso e l'impegno sociale.

Il coordinamento

A livello mondiale

Già l´Associazione nazionale per soccorrere i missionari italiani (1886) e l'Italica Gens (1909) fondate dall'archeologo E. Schiapparelli erano un segno e manifestavano l'esigenza di un'azione più incisiva e coordinata dei cattolici verso gli emigranti. Si andava formando una concordanza di idee sulla necessità di un'organizzazione (una Congregazione Praeservanda Fidae?) che regolasse i rapporti con i vescovi, dirigesse il clero di ogni nazionalità e coordinasse le numerose associazioni di soccorso agli emigranti.

Nei primi anni del suo pontificato Pio X, un veneto che aveva conosciuto nella sua terra l'emorragia dell'emigrazione, lanciò le Associazioni di patronato cattolico in ogni diocesi; raccomandò nel 1908 e nel 1911 la necessità dei Comitati per l'emigrazione; sollecitò anche apposite inchieste socio-religiose. Presso la Congregazione Concistoriale costituì nel 1912 un Ufficio speciale dell'emigrazione per garantire il coordinamento degli interventi ecclesiali e per temperare i conflitti di nazionalità.

E in risposta alle preoccupazioni delle diocesi di arrivo, che lamentavano l'insufficienza numerica di sacerdoti  provenienti dell'Italia, il maggior paese di emigrazione, Pio X fondò a Roma nel 1914 il Collegio urbano dei sacerdoti dell'emigrazione (divenuto poi Pontificio Collegio per l'Emigrazione italiana, 1920-1970) per preparare e inviare sacerdoti diocesani. E nello stesso anno istituì la Giornata nazionale dell'emigrazione.

Il problema era sentito e lentamente si mettevano in opera persone e mezzi per farvi fronte sia religiosamente ma anche socialmente.

A livello italiano

Dopo la seconda guerra mondiale la Chiesa intervenne ancora per sistemare in maniera più organica sia il settore dell'assistenza spirituale che quello dell'assistenza tecnico-sociale dei migranti.

In Italia il 6 giugno 1946 nasceva l´organismo, dal 1952 chiamato Giunta Cattolica Italiana per l'Emigrazione (GCIE) con un suo Bollettino: era il collegamento tra loro sedici Enti ed Organismi operanti nel settore delle emigrazioni.

E il 3 febbraio 1953 viene istituita la Direzione delle Opere di Emigrazione con il compito di mantenere i contatti con gli organismi e le associazioni civili addette allo scopo, di tenersi in relazione con i Comitati Diocesani e le Associazioni Cattoliche per l'Emigrazione, di organizzare la Giornata Nazionale dell'Emigrante e di fare opera di propaganda e sensibilizzazione ai problemi migratori attraverso speciali pubblicazioni, stampa, radio e televisione.

Nel 1965 la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) costituisce la Commissione Episcopale Italiana per l'Emigrazione e, contemporaneamente al passaggio di competenze sull'emigrazione italiana dalla S. Sede alla CEI, viene istituito l'Ufficio Centrale per l'Emigrazione Italiana (UCEI) che raccoglieva l'eredità della Direzione Nazionale delle Opere di Emigrazione per l'Italia e della Giunta Cattolica Italiana per l'Emigrazione.

Infine nell'ottobre 1987, la CEI univa nella Fondazione Migrantes tutti i settori pastorali che riguardavano la mobilità umana (emigrati, immigrati e rifugiati, rom e sinti, circensi,  marittimi): l'UCEI vi confluì.

Si dovrà attendere il dopo concilio e Paolo VI, in una realtà sociale e internazionale profondamente mutata anche in campo migratorio, nel superamento di visioni di chiese nazionali dell'anteguerra e nella garanzia di unitarietà della missione universale della Chiesa, per aver nel 1970 un organismo autonomo: la Pontificia Commissione per la pastorale delle migrazioni e del turismo. Poi divenuto Pontificio Consiglio.

LE PAROLE

Sono innanzitutto i testimoni a dare credibilità ai documenti. Le esperienze, comunque, hanno bisogno di strutturarsi e secernono le idee di riferimento. L'emigrazione è una storia anche in questo senso. Ed ha domandato alla Chiesa un tempo fisiologico di elaborazione e di maturazione.

I  precedenti

Già nel Concilio Lateranense IV (1215) si affermava: Poiché in altri luoghi si trovano frammiste nella medesima città e nella medesima diocesi popolazioni di diverse lingue, che professano la stessa fede, ma con usi e riti diversi, ordiniamo severamente che i presuli di tali città o diocesi provvedano elementi idonei per celebrare i divini uffici secondo i diversi riti e idiomi, amministrare i sacramenti della Chiesa ed istruire adeguatamente questi nuclei con la parola e con l'esempio. E si constatava che questa prassi riuscisse più efficace se svolta da sacerdoti della stessa lingua e della stessa origine.

In questo secolo, come si diceva, Pio X aveva espresso in vari documenti la consapevolezza maturata nella Chiesa su questo settore della pastorale ed aveva disposto un valido piano organizzativo.

Il tornante pastorale

Costituzione Apostolica Exsul Familia Istruzione De Pastorali migratorum cura Lettera Chiesa e mobilità umana

Costituzione Apostolica Exsul Familia

Il documento storico o la magna carta del pensiero della Chiesa sulle migrazioni si trova nella Costituzione Apostolica Exul Familia di Pio XII (1 agosto 1952). Espone il diritto fondamentale di ogni persona ad emigrare, si sottolinea la destinazione dei beni della terra, dono di Dio per tutti gli uomini e, di conseguenza, destinati ad una più giusta ripartizione, giudica severamente ogni forma di chiusura dettata dal protezionismo egoista.

Alla Sacra Congregazione Concistoriale conferma il mandato di provvedere all'assistenza spirituale degli emigranti. I Pastori delle chiese locali sono invitati a creare quelle condizioni che promuovano la fede degli immigrati: in primo luogo con le parrocchie nazionali e personali da affidare a sacerdoti della medesima lingua e nazionalità. Viene definita chiaramente e giuridicamente la figura del Missionario degli emigranti, soprattutto in quanto riguarda i rapporti con i Vescovi di accoglienza, del Direttore nazionale nominato dalla Santa Sede... Ogni migrante della prima e seconda generazione vede riconosciuto il diritto di rivolgersi con libertà al missionario o al parroco del luogo. Il vescovo deve impegnarsi a cercare sacerdoti della stessa lingua e nazionalità per affidare cura pastorale specifica.

Nel documento, comunque,  la pastorale migratoria resta una deroga alla pastorale ordinaria e un permesso ad tempus. In questa prospettiva il migrante non è ancora portatore di valori: manca nel documento l'apertura al pluralismo, al diverso patrimonio culturale e alle espressioni religiose particolari. Sarà il Vaticano II a spalancare anche questa porta e ad avviare l'aggiornamento anche in questi campi.

Istruzione De Pastorali migratorum cura

Nella Lettera Apostolica di Paolo VI  Pastoralis Migratorum Cura (15 agosto 1969) e nell'Istruzione della Sacra Congregazione dei Vescovi De Pastorali Migratorum Cura, si trovano due elementi e attenzioni tipici del Vaticano II: il mondo degli emigrati deve impegnare tutto il popolo di Dio; e il rapporto tra fede e cultura, patrimonio spirituale di pensieri e di tradizioni dev'essere tenuto in grande considerazione. Su questo l'Istruzione fonda riflessioni e proposte operative in campo sociale e pastorale: il concetto di migrante, la responsabilità della Chiesa locale, il valore dell'aspetto culturale e l'appello ai laici.

Lettera Chiesa e mobilità umana

Paolo VI solleciterà un'ulteriore e più completa attuazione degli orientamenti conciliari nel campo della cura pastorale dei migranti. E la Sacra Congregazione dei Vescovi nel 1978 indirizzerà a tutte le Conferenze episcopali la lettera Chiesa e mobilità umana  dove si conferma l'importanza dell'aspetto culturale: Ora si comprende facilmente - afferma il documento - che non è possibile svolgere in maniera efficace questa cura pastorale, se non si tengono in debito conto il patrimonio spirituale e la cultura propria dei migranti. A tale riguardo ha grande importanza la lingua nazionale, con la quale essi esprimono i loro pensieri, la loro mentalità, la loro stessa vita religiosa.

La Chiesa italiana

Già nel 29 giugno del 1962 l'Episcopato italiano scrisse una Lettera collettiva sui problemi pastorali dell'emigrazione. E il 12 novembre 1971 i vescovi della Commissione Episcopale per le Migrazioni ritornarono su I problemi delle migrazioni, oggi.

Intanto l'Italia negli ultimi decenni s'è trasformata da paese di emigrazione in paese di immigrazione e la CEI con le sue Commissioni ha preso chiaramente posizione.

Stranieri dal terzo mondo. I nuovi poveri tra noi e il nostro impegno. Ero forestiero e mi avete accolto è il documento del 1982 in cui la Commissione per le migrazioni ed il turismo (CEMIT) affronta l'arrivo dei primi terzomondiali in cerca di lavoro e in stato di clandestinità in Italia. Fa un forte appello alla società civile ed alle comunità cristiane perché accolgano questi immigrati nello spirito del Vangelo e mettano in opera interventi di difesa, di assistenza e di promozione.

Nel clima della seconda legge sulla immigrazione (legge Martelli) la Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace per aiutare a superare gli allarmismi e promuovere il processo di integrazione pubblica la nota pastorale Uomini di culture diverse: dal conflitto alla solidarietà (1990). Gli immigrati sono considerati sotto il profilo sociale e assistenziale ma anche come persone portatrici di valori e di risorse culturali e morali.

Con Ero forestiero e mi avete ospitato. Orientamenti pastorali per l'immigrazione (1993) la Commissione Ecclesiale per le Migrazioni (CEI), superando la visione di Chiesa - buon samaritano, desidera orientare pastoralmente nel nuovo conteso di stabilizzazione degli immigrati.

QUALCHE NUMERO

La lunga storia dell'attenzione della Chiesa si dipana lungo questi due secoli e non sembra essere agli sgoccioli! Ma quante persone, quanti missionari, suore, religiosi si sono impegnati in questo campo? È difficile dirlo.

Le Congregazioni religiose prima e le diocesi italiane poi hanno contribuito insieme ad accompagnare, con maggiore o minor successo, i connazionali all'estero.

Nell'Exul Familia si parla della generosa collaborazione di sacerdoti, religiosi e fedeli - i missionari anche se per lo più non figurano nelle pagine della storia, sono però scritti in cielo - meritano di essere ricordate e, sia pur sommariamente esposte, affinché risplenda più luminosa la universale e benefica opera della Chiesa verso gli emigrati e gli esuli di ogni genere, ai quali essa ha elargito sempre senza risparmio assistenza religiosa, morale e sociale.

Alla morte dello Scalabrini, il 1 giugno 1905, le case della sua congregazione in America erano già quaranta, con chiese e scuole e un grande orfanotrofio a S. Paulo.

Nel 1958 l'intuizione di Pio X sui Comitati diocesani si vedeva realizzata in 284 centri attivi in Italia. E il loro contributo durante gli esodi si articolava in una fitta rete di sottocomitati parrocchiali sensibili e disponibili per i servizi che andavano dall'offerta di sussidi, ai corsi catechistici o ai ritiri spirituali, ai corsi di lingua, di legislazione sociale per coloro che partivano, o alla sensibilizzazione per la Giornata Nazionale delle Migrazioni.

Grande posto hanno avuto i padri scalabriniani, ma anche tanti altri ordini e congregazioni. Presto si sono aggiunti moltissimi sacerdoti diocesani, cosiddetti ad migrantes. Nel 1996, ad esempio, in Europa le 261 Missioni italiane e i loro centri periferici potevano contare sulla presenza di 151 religiosi ( di cui una metà sono Scalabriniani) e 130 sacerdoti diocesani per un totale di 281. Le religiose erano 223, suddivise in 73 Comunità.

LA PREOCCUPAZIONE PASTORALE

L'ideale religioso inviterebbe ad anticipare i tempi, a porre segni concreti di cieli nuovi e terra nuova ed accogliere con fraternità chi è diverso per pelle, per lingua e per fede, nella consapevolezza che tutti siamo fratelli e figli dello stesso Padre. Nella pratica... sono i fatti che provocano la riflessione, la conversione e l'azione.

La preoccupazione pastorale iniziale la troviamo ben descritta da una frase dello Scalabrini: Lassù negli Stati Uniti del Nord le perdite del cattolicesimo si contano a milioni, certo più numerose delle conversioni degli infedeli fatte dalle nostre missioni in tre secoli e, nonostante le apparenze, continuano ancora. È la situazione drammatica dei primi tempi che ha mosso la chiesa ad impegnarsi sempre più in emigrazione.

E sia quando tutti si sentivano provvisori e in transito (la prima fase dell'emigrazione) come quando il cammino ha fatto capolinea nel paese di arrivo (seconda e terza fase) la chiesa s'è trovata accanto agli emigrati. Il torneremo in Italia s'è mutato nel ci torneremo... per le vacanze! Il tempo è passato in fretta e le generazioni si sono succedute ad ondate: alla prima degli emigrati è seguita la seconda generazione degli italiani nel mondo ed ora sta facendosi largo la generazione più inserita degli italiani del mondo: i paesi di accoglienza sono ormai i loro paesi.

Questi cambiamenti hanno cambiato anche la pastorale.

Un altro mondo

Gli italiani nel mondo hanno impiegato del tempo ad adattarsi, socialmente, culturalmente e anche religiosamente alle nuove situazioni. Hanno esperimentato la rivoluzione industriale, la scomparsa del villaggio tradizionale, il tempo cadenzato diversamente, la secolarizzazione, l'ateismo pratico o l'indifferenza religiosa. Hanno visto crescere accanto a loro le sette e l'individualismo, hanno dovuto fare i conti con confessioni, religioni e comportamenti morali diversi nell'arco di pochissimo tempo. Con la scarsa preparazione e formazione che possedevano hanno dovuto affrontare altri spazi, altri ritmi, altre culture, altri comportamenti. E dappertutto era facile la trasposizione o l'imposizione delle idee dominanti.

Riconciliazione

In questo contesto di prima, seconda o terza fase dell'emigrazione, (un processo si diceva!), molti italiani nel mondo hanno avuto, o hanno ancora, bisogno di riconciliarsi con la propria storia segnata dalla maledizione e dall'abbandono: l'unica storia che è data loro di vivere. Hanno bisogno di riconciliarsi con un Dio non più sostenuto dai modelli culturali di partenza, con una fede esposta al dialogo alla frizione e alla contraddizione.

E devono ri-apprendere a fare chiesa valorizzando il protagonismo che li anima, ritrovandosi in piccole comunità, non rifugio ma campo base, in una chiesa cattolica che ha difficoltà ad essere plurale e pluriforme.

Sono state queste, mi sembra, le linee operative della chiesa accanto agli emigrati: arrivando dove poteva, con mezzi poveri, tra incomprensioni e tensioni per aprire alla speranza.

Dapprima le missioni sono state quasi una stazione di servizio sociale e pastorale offerta a coloro che lo richiedevano. Non era solo questione di urgenze socio-culturali o linguistiche: era tutta una cultura che domandava di esprimersi e di essere valorizzata. La fede e le sue espressioni richiedevano in continuità di essere sempre sostenute, purificate, fortificate, completate per non appiattirsi, standadizzarsi o isolarsi.

In seguito le MCI sono divenute anche luogo di identità e di partecipazione: vi si poteva avere la parola, avere il proprio posto, trovarsi in piccole comunità di cultura e di fede in comunione tra loro e in relazione con comunità di altre culture.

Ultimamente le MCI sono dei veri laboratori perché essendo e vivendo in un terreno di frontiera offrono all'italiano con la sua pluri-appartenenza le possibilità di vivere in prima persona l'inter-culturalismo. Le missioni come le nostre comunità all'estero sono, in questo senso, un luogo privilegiato di anticipazione del futuro.

UNA STORIA NON ANCORA FINITA

Ci vuole tanto tempo per diventare grandi!

Personalmente non sono convinto che la storia dell'emigrazione italiana sia finita! C'è un tempo fisiologico da rispettare per crescere, ci sono delle tappe da non bruciare e delle idee da far maturare senza violentarle. In questo la storia è senz'altro maestra di vita.

Gli italiani sono cresciuti come numero. Purtroppo, ed è scandaloso, non conosciamo neppure quanti siano di preciso nel mondo!

E' ben vero che gli oriundi non sono quelli di passaporto, e che quelli di passaporto possono essere partiti da molto tempo o di recente: ma è mai possibile che l'Italia non sappia di preciso quanti portano esattamente il suo passaporto? E dovrebbe essere relativamente facile saperlo.

Ma come sono culturalmente, giuridicamente, socialmente? Purtroppo lo conosciamo ancora meno!

Un esempio, i giovani d'Europa

I giovani delle seconde e terze generazioni d'Europa non sono più italiani come i loro genitori o i loro nonni e nemmeno come gli italiani d'Italia. Come non sono identici ai giovani del posto di residenza , pur facendo parte dello stesso pianeta. ... è più facile dire cosa non sono!

Ricordano a tutti che la vita è più complessa di una carta d'identità; che il linguaggio e molto di più di una lingua; che il grande viaggio della vita, dopo molti chilometri di strada, non è... finito e i sogni per i genitori e per i figli non sono sempre diventati realtà; che il futuro è sempre da costruire e che il difficile mestiere del vivere si tesse tra ricordo del passato e nostalgia del futuro.

Sono uno specchio, una metafora, una rivelazione per tutti: per la scuola, per la chiesa, per la società. Ascoltarli e capirli è non solo interessante, ma anche lungimirante.

Una storia dalle varie fasi in un contesto nuovo

La maturità domanda inserimento, corresponsabilità e partecipazione sociale ed ecclesiale coniugata con l'affermazione della propria originalità. Il tempo attuale si diverte a mettere insieme quello che la geografia e la storia avevano diviso e tenuto separato sia culturalmente che religiosamente. Oggi si vive in contatto, in frizione e in confronto. La multiculturalità è un dato di fatto ed una provocazione di avvenire. Un esempio tra i tanti: Bruxelles. Il 30% degli abitanti non sono belgi, il 42% dei giovani non sono belgi e il 50% delle nascite non sono belghe: si può dirla ancora una città solo belga?

In Francia un francese su 5 ha un nonno straniero. Può dispiacere ma questa è la realtà.

La presenza della chiesa accanto ai migranti italiani per 150 anni ci ricorda che si può conoscere l'inizio di ogni avventura  ma difficilmente si sa intravederne lo sbocco: il ripercorrere questi 150 di storia ridà serenità, sapienza, saggezza, pazienza, lungimiranza e coraggio e alla cronaca della presenza di Chiesa si possono unire altre presenze che via via si sono aggiunte nel cammino della speranza degli emigrati.

UNA STORIA IRRILEVANTE?

È possibile.
Ma dimenticarla può far correre il rischio di agire come questa storia non fosse mai esistita e voler inventare la ruota , come si diceva, di passare accanto al gigantesco metissage del mondo occidentale che sta avvenendo sotto i nostri occhi, attraverso delle piccole storie come la nostra. C'è chi ha fretta e dimentica il tempo fisiologico di un innesto di popolazioni in paesi diversi da quello di origine, c'è chi confonde lingua e linguaggio e da per risolto e scontato un inserimento che apparentemente sembra realizzato. C'è chi salta le tappe di un cammino e brucia parole ed idee da far maturare senza violentarle o spenderle inopportunamente.

Eppure l'emigrazione italiana ha domandato alla Chiesa più di 150 anni di elaborazione e di maturazione. E non è l'unica. No, non sono convinto che la storia dell'emigrazione italiana sia finita! E' importante non saltare le tappe di un cammino e non bruciare parole ed idee per apparire i primi della classe. Educare alla multiculturalità e all'interculturalità domanda pazienza, saggezza, intelligenza e lungimiranza.


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