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IL CONFLITTO TRA PATRIZI E PLEBEI - IL PROBLEMA ECONOMICO

storia dell arte



il conflitto tra patrizi e plebei


Nelle fonti, il periodo che va dalla nascita della Repubblica al 287 a.C. è dominato, oltre che dalla narrazione delle guerre sostenute da Roma, dai contrasti civili che opposero due parti della popolazione, il patriziato e la plebe. Vicende interne ed esterne furono strettamente interconnesse ed ebbero una profonda e reciproca influenza tra di loro. La plebe era un elemento composito per origine, sostanze, attività esercitata e prestigio sociale, le cui rivendicazioni erano molteplici: esse avevano una duplice natura, economica e politica.


il problema economico

La caduta dei Tarquini ed i mutamenti nel quadro internazionale della prima metà del V secolo a.C., ebbero pesanti ripercussioni nella situazione economica di Roma. La sconfitta subita dagli Etruschi per opera di Ierone di Siracusa nella battaglia navale combattuta nelle acque davanti a Cuma, nel 474 a.C., portò al crollo del dominio etrusco in Campania, causando un grave danno per Roma, prosperata grazie alla sua funzione di punto di passaggio sul Tevere, lungo la via commerciale che conduceva dall'Etruria alle città etrusche della Campania. La vendita del sale raccolto nelle saline di Ostia soffrì per il protrarsi delle ostilità con i Sabini, che controllavano il percorso noto con il nome 929b14j di via Salaria. Lo stato di guerra tra Roma ed i suoi vicini provocò razzie e devastazioni dei campi.



Le annate di cattivo raccolto che si successero nel corso del V secolo a.C. provocarono gravi carestie. La popolazione, inoltre, venne colpita da epidemie.

La crisi economica è dimostrata da prove archeologiche: il numero delle ceramiche greche d'importazione sembra crollare nel corso della prima metà del V secolo a.C. Il problema economico è evidente nella tradizione letteraria, nella quale la crisi provocata dal progressivo indebitamento di ampi strati della popolazione ha un ruolo centrale nella lotta tra patrizi e plebei.

Gli effetti dei cattivi raccolti e delle malattie colpivano i piccoli agricoltori, che avevano minori possibilità di fronteggiare le temporanee difficoltà, e si trovavano costretti a indebitarsi. Il debitore, incapace di estinguere il proprio debito, era costretto a porsi al servizio del creditore per ripagarlo dal prestito e dei forti interessi maturati: è l'istituto del nexum, che riduceva coloro che ne erano vincolati ad una condizione di schiavo. Il debitore insolvente poteva anche essere venduto in terra straniera o messo a morte.

Le richieste della plebe concernevano una mitigazione delle norme sui debiti e una più equa distribuzione dei terreni di proprietà dello Stato, l'ager publicus.


il problema politico

Gli strati più ricchi della plebe erano meno interessati dalla crisi economica. Ciò che essi rivendicavano era una parificazione dei diritti politici tra i due ordini.

Una seconda importante rivendicazione di ordine politico era quella di un codice scritto di leggi, che ponesse i cittadini al riparo delle arbitrarie applicazioni delle norme da parte di coloro che erano stati depositari del sapere giuridico, i patrizi riuniti nel collegio dei pontefici.


le strutture militari e la coscienza della plebe

I problemi politici ed economici non furono gli unici fattori che portarono al confronto tra i due ordini: dietro di esso vi è la presa di coscienza della propria importanza da parte della plebe. Nella città antica, l'esercizio dei diritti civici da parte del singolo è connesso alle sue capacità di difendere lo Stato con le armi. A Roma, questa circostanza è dimostrata dall'ordinamento centuriato. Le centurie non furono solamente unità di voto all'interno dell'assemblea popolare, ma rimasero unità di reclutamento dell'esercito. Ciascuna centuria doveva fornire il medesimo numero di reclute per l'esercito: quindi le centurie delle prime classi di censo, che comprendevano un numero limitato di cittadini, dovevano sopportare il peso più consistente delle guerre.

In considerazione della correlazione esistente tra ordinamento politico è ordinamento militare, è ovvio che anche la presa di coscienza della plebe fosse il risultato di un mutamento nella struttura dell'esercito: nel V secolo a.C., si afferma un nuovo modello tattico, secondo il quale fanti con armatura pesante (opliti) combattono l'uno a fianco dell'altro in una formazione chiusa, la falange. L'ordinamento oplitico-falangitico eclissa progressivamente il modello di combattimento aristocratico, fondato su una cavalleria di nobili seguiti da una turba di clienti con armamento leggero. Il nerbo dell'esercito romano, dunque, venne costituito dalla fanteria pesante, reclutata tra le classi di censo in grado di sostenere i costi dell'armamento oplitico.

È possibile che l'antichissimo esercito repubblicano si basasse sulla fanteria pesante fornita dalle centurie di iuniores delle prime tre classi di censo: queste 60 centurie potevano fornire 6.000 uomini (due legioni), ciascuna composta da circa 3.000 opliti. Le forze armate della prima Roma repubblicana erano completate dalla cavalleria, reclutata nelle 18 centurie di equites, e da soldati armati alla leggera, provenienti dalla IV e dalla V classe.

La legione era reclutata su base censitaria, indifferentemente tra aristocratici e gente del popolo, tra patrizi e plebei. Nelle guerre del V e del IV secolo a.C., si rinsalda la convinzione che gli uomini decisivi sul campo di battaglia non potessero essere ridotti ad un ruolo di comprimari nella vita dello Stato.


la prima secessione ed il tribunato della plebe

Il conflitto tra i due ordini si apre nel 494 a.C. La plebe ricorse a quella che si rivelò essere l'arma più efficace nel confronto tra i due ordini: una sorta di sciopero generale che lascia la città priva della sua forza lavoro e indifesa contro le aggressioni esterne. Questa forma di protesta venne attuata dalla plebe ritirandosi sull'Aventino, il colle di Roma legato alle tradizioni plebee, e prese il nome di secessione.

La plebe si diede propri organismi: un'assemblea generale, che dapprima votava per curie, poi per tribù, ed è nota con il nome di concilia plebis tributa. Il meccanismo di voto assicurava nei concilia plebis la prevalenza dei proprietari terrieri iscritti nelle più numerose tribù rustiche. L'assemblea poteva emanare dei provvedimenti, che prendevano il nome di plebiscita, che non avevano valore vincolante per lo Stato, ma solamente per la plebe. Il cammino verso la completa assimilazione dei plebisciti alle leggi dello Stato terminò con la legge Ortensia del 287 a.C.

Vennero poi scelti come rappresentanti ed esecutori della volontà dell'assemblea i tribuni della plebe, inizialmente due, anche se in seguito crebbero fino a raggiungere i dieci. Ai propri tribuni, la plebe decise di riconoscere diversi poteri: fondamentale il diritto di venire in soccorso di un cittadino contro l'azione di un magistrato (ius auxilii), dal quale si sviluppò il potere di porre il veto ad un qualsiasi provvedimento di un magistrato che sembrasse andare a scapito della plebe (ius intercessionis). La plebe accordò loro l'inviolabilità personale (sacrosanctitas). I tribuni, infine, ebbero il potere di convocare e presiedere l'assemblea della plebe e di sottoporre ad essa le proprie proposte (ius agendi cum plebe).

Vennero creati altri due rappresentanti della plebe, gli edili plebei, che si occupavano dell'organizzazione dei giochi, della sorveglianza sui mercati, del controllo sulle strade, i templi e gli edifici pubblici. È probabile che gli edili plebei originariamente fossero i custodi del tempio di Cerere, Libero e Libera, nel quale venivano conservate le somme delle multe inflitte a coloro che avevano recato offesa alla plebe, nonché copia dei plebisciti, e attorno al quale si svolgeva un mercato.

La prima secessione approdò al riconoscimento da parte dello Stato a guida patrizia dell'organizzazione interna della plebe; il problema dei debiti, tuttavia, rimase insoluto. Della crisi economica cercò di approfittare il console del 486 a.C., Spurio Cassio, il quale propose una legge per la redistribuzione delle terre, che sembra anticipare le proposte di riforma agraria dei due Gracchi. Anche le figure di altri due demagoghi della prima età repubblicana, Spurio Melio e Marco Manlio Capitolino, hanno tratti graccani. Cassio, comunque, venne accusato di aspirare alla tirannide ed eliminato.

Le vicende della prima secessione plebea e del tentativo rivoluzionario di Spurio Cassio mettono in luce i tratti caratteristici del confronto tra patrizi e plebei. La protesta, nata da motivazioni economiche, raggiunge un risultato politico. Il disagio economico della plebe povera venne strumentalizzato dalle famiglie plebee più facoltose ed influenti per raggiungere le conquiste politiche alle quali erano interessate. La plebe non intendeva giungere ad una rivoluzione dell'assetto economico ed istituzionale dello Stato, ma aspirava ad una riforma dall'interno dell'ordinamento vigente, che riservasse il giusto peso a tutte le componenti della cittadinanza.


il decemvirato e le leggi delle xii tavole

La plebe cominciò a premere affinché fosse redatto un codice di leggi scritto. Nel 451 a.C., venne nominata una commissione composta da dieci uomini (Decemvirato), scelti tra il patriziato ed incaricati di stendere un codice giuridico. Anche se la funzione del Decemvirato era legislativa, il nuovo collegio avrebbe assunto il controllo completo dello Stato: il consolato ed il tribunato della plebe vennero sospese, per impedire che, con i loro veti incrociati, potessero paralizzare l'azione dei decemviri; inoltre, si decise che la commissione non sarebbe stata soggetta al diritto d'appello.

I decemviri compilarono un complesso di norme che vennero poi pubblicate su dieci tavole di legno esposte nel Foro. Per il 450 a.C. venne eletta una seconda commissione decemvirale, nella quale sarebbe stata rappresentata anche la plebe. I decemviri completarono la loro opera con altre due tavole di leggi, portando il totale a dodici, il che spiega il nome di Leggi delle XII Tavole: tra le disposizioni prese nel 450 a.C., vi era anche quella che impediva i matrimoni misti tra patrizi e plebei. La commissione, sotto la spinta di Appio Claudio, cercò di prorogare i propri poteri assoluti, rivoluzionando l'assetto costituzionale dello Stato. Il tentativo si scontrò con l'opposizione della plebe e degli elementi più moderati del patriziato, guidati da Marco Orazio e Lucio Valerio.

È la violenza nei confronti di una giovane a far precipitare la situazione: le insidie portate da Appio Claudio a Virginia provocano una seconda secessione, a seguito della quale i decemviri sono costretti a deporre i loro poteri. Il consolato è ripristinato ed i massimi magistrati del 449 a.C., Marco Orazio e Lucio Valerio, fanno approvare un pacchetto di leggi in cui si riconosce l'apporto della plebe nella lotta contro il tentativo rivoluzionario dei decemviri: vi si ribadisce l'inviolabilità dei rappresentanti della plebe, si proibisce la creazione di magistrature contro le quali non valesse il diritto d'appello e si rendono i plebisciti votati dall'assemblea della plebe vincolanti per l'intera cittadinanza.

La norma che proibiva i matrimoni tra patrizi e plebei viene abrogata, nel 445 a.C., in base ad un plebiscito Canuleio, che assume forza di legge per l'intera cittadinanza.

Questa versione delle vicende non ha grande credibilità e le leggi Valerie-Orazie del 449 a.C., in particolare il provvedimento che equiparava i plebisciti del concilium plebis alle leggi votate dall'intera cittadinanza, sembrano l'anticipazione di provvedimenti posteriori. Per comprendere i caratteri dell'azione dei Decemviri, ci rimane il contenuto delle Leggi delle XII Tavole, il cui originale epigrafico è perduto, ma ci è noto da citazioni. Il codice legislativo elaborato dai decemviri intendeva dare una regolamentazione alla vita della prima Roma repubblicana.

Nelle XII Tavole è ravvisabile un'influenza del diritto greco, che le fonti antiche giustificano ricordando come un'ambasceria si fosse recata da Roma ad Atene, nel 454 a.C., per studiare la legislazione di Solone. È più probabile che questi elementi siano venuti dai codici giuridici delle città greche dell'Italia meridionale e della Sicilia, dove avevano operato Zaleuco di Locri e Caronda di Catania.


tribuni militari con poteri consolari

Il plebiscito fatto votare da Marco Canuleio ebbe come conseguenza di rimuovere la principale obiezione che il patriziato aveva opposto all'accesso dei plebei al consolato: solo i patrizi si ritenevano titolari del diritto di prendere gli auspici per accertare la volontà degli dei. A seguito del plebiscito Canuleio, tuttavia, il sangue delle famiglie plebee poteva mescolarsi con quello delle stirpi patrizie: diveniva difficile escludere un plebeo dagli auspicia e dal consolato.

Il patriziato, visto minacciato il suo monopolio sul consolato, ricorre ad un espediente: dal 444 a.C., di anno in anno, il senato decide se alla testa dello Stato vi debbano essere due consoli, con il diritto di prendere gli auspici e provenienti esclusivamente dal patriziato, oppure un certo numero di tribuni militari con poteri consolari (tribunus militum consulari potestas), inizialmente tre, poi quattro o sei, che possono anche essere plebei, ma non hanno il potere di trarre gli auspici. Il nuovo ordinamento rimane in vigore fino al 367 a.C.

Creando il tribunato consolare accessibile alla plebe, i patrizi perdevano il controllo sulla massima magistratura repubblicana, raggiungendo un risultato opposto a quello che la loro riforma si proponeva di conseguire. Se l'istituzione della nuova magistratura fosse stata la conseguenza di una forte pressione della plebe per aver accesso alla suprema carica dello Stato, difficilmente si riesce a comprendere per quale motivo il primo tribuno militare con poteri consolari di condizione plebea sia stato eletto solamente nel 400 a.C.

Tra le diverse spiegazioni che si sono proposte della questione, una ritiene che, nel periodo 444-367 a.C., i consoli non siano stati sostituiti, ma affiancati dai tribuni consolari: i due consoli, in possesso del diritto agli auspicia ed esclusivamente patrizi, sarebbero stati assistiti nei loro compiti da alcuni dei tribuni militum, i comandanti dei reparti che componevano le legioni, dotati di poteri equiparati a quelli dei consoli. Il tribunato militare doveva essere accessibile ai plebei: di fatto i patrizi, fino al 401 a.C., riuscirono a riservare i poteri consolari ai tribuni militum provenienti dal loro ordine.

Nessuna riforma istituzionale poteva porre rimedio alle difficoltà economiche della plebe povera: è quanto si può ricavare dall'episodio di Spurio Melio, un ricco plebeo che nel 440 a.C. intervenne per rimediare agli effetti di una carestia distribuendo a proprie spese un forte quantitativo di grano ai poveri. Questa misura venne intesa come una mossa demagogica per assumere la tirannide: Melio, dunque, venne giustiziato.


le leggi licinie-sestie

La promulgazione del primo codice scritto di leggi e l'istituzione della carica dei tribuni militari lasciavano aperti i due nodi, politico ed economico, del confronto tra i due ordini. La crisi si accelerò dopo che la minaccia dei Galli si era allontanata da Roma. Nel 387 a.C., per rispondere alla fame di terra, il territorio di Veio e di Capena viene suddiviso in piccoli appezzamenti e distribuito ai cittadini romani, con la creazione di quattro tribù territoriali.

Il patrizio Marco Manlio Capitolino, eroe della resistenza contro i Galli, propose una riduzione o la cancellazione dei debiti e una nuova legge agraria, sperando di inaugurare un regime personale. Davanti alla minaccia della tirannide si rinsaldò un fronte patrizio-plebeo, che portò alla liquidazione di Capitolino. La risposta ai problemi di Roma non sarebbe venuta da un mutamento di regime, ma da una riforma interna all'ordinamento repubblicano.

L'iniziativa ritornò ai riformisti, ai tribuni della plebe Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, esponenti di due ricche ed influenti famiglie plebee: Licinio Stolone, infatti, aveva sposato la figlia di un illustre patrizio, Marco Fabio Ambusto, il cui prestigio e peso politico contribuirono al successo dell'azione. Licinio e Sestio presentarono un pacchetto di proposte concernenti il problema dei debiti, la distribuzione di terre di proprietà statale e l'accesso dei plebei al consolato. Dopo una fase di anarchia politica, nel 367 a.C. Marco Furio Camillo, eroe della guerra contro Veio e vendicatore del sacco gallico, venne chiamato alla dittatura per sciogliere una situazione insostenibile.

Le proposte di Licinio e Sestio assunsero valore di legge. Le leges Liciniae Sextiae prevedevano che gli interessi che i debitori avevano già pagato sulle somme avute in prestito potessero essere detratti dal totale del capitale dovuto e che il debito residuo fosse estinguibile in tre rate annuali. Stabilivano, inoltre, la massima estensione di terreno di proprietà statale che poteva essere occupato da un privato. Sancivano, infine, l'abolizione del tribunato militare con potestà consolare e la reintegrazione alla testa dello Stato dei consoli, uno dei quali avrebbe dovuto essere sempre plebeo.

Nel 366 a.C. vennero create due nuove cariche:

Il pretore, che aveva il compito di amministrare la giustizia tra i cittadini romani (nel 242 a.C. questo praetor urbanus venne affiancato da un praetor peregrinus, incaricato di dirimere le controversie che potevano opporre un cittadino romano ad uno straniero); dotato di imperium, il pretore poteva essere messo alla testa di un esercito, anche se i suoi poteri erano subordinati a quelli dei consoli.

Vennero eletti due edili curuli, così chiamati dalla sella curulis, lo scranno sul quale sedevano i magistrati patrizi; agli edili curuli venne affidato il compito di organizzare i Ludi Maximi.


verso un nuovo equilibrio

Le leggi Licinie-Sestie del 367 a.C. segnarono la fine della fase più acuta della contrapposizione tra patrizi e plebei; il processo attraverso cui si raggiunse il nuovo equilibrio fu lungo e faticoso. Se già nel 366 a.C. l'ex tribuno della plebe Sestio Laterano poté avvalersi della legge da lui stesso proposta per divenire il primo console plebeo, negli anni successivi entrambi i consoli furono patrizi. Nel 342 a.C., un plebiscito ammise la possibilità che ambedue fossero plebei. Da quell'anno, tuttavia, vediamo comparire nei Fasti un console patrizio ed uno plebeo; la prima coppia di consoli plebei compare nelle liste dei magistrati solo nel 172 a.C.

Nei decenni successivi i plebei ebbero progressivamente accesso a tutte le altre cariche dello Stato. Nel 366 a.C., si decise che gli edili curuli sarebbero stati scelti ad anni alterni tra i patrizi ed i plebei; nel 356 a.C., venne nominato il primo dittatore plebeo, Caio Marzio Rutilio; nel 351 a.C. Rutilio divenne il primo plebeo a rivestire la censura; nel 339 a.C., il dittatore plebeo Quinto Publilio Filone fece passare una legge in base alla quale il senato doveva ratificare un provvedimento legislativo prima che questo venisse votato, togliendo al senato il suo diritto di veto. Filone fu il primo pretore appartenente alla plebe; nel 300 a.C., un plebiscito Ogulnio consentì ai plebei l'ingresso nei due collegi sacerdotali dei pontefici e degli auguri. Il diritto di accesso alle magistrature da parte dei plebei comportò il loro progressivo ingresso nel senato.

Nel 326 a.C. o nel 313 a.C., una legge Petelia aboliva la servitù per debiti. La risposta ai problemi economici della plebe, tuttavia, venne dalle conquiste, che misero a disposizione vaste estensioni di terre.


la censura di appio claudio cieco

Un tentativo di imprimere un'accelerazione al processo di riforma venne dalla censura di Appio Claudio Cieco, del 312-311 a.C. Appio Claudio, nel compilare la lista dei senatori, vi avrebbe incluso persone abbienti che non avevano ancora rivestito alcuna magistratura. Una seconda misura riguardò la composizione delle tribù: il suo scopo era quello di favorire i membri della plebe urbana, consentendo loro di iscriversi in una qualsiasi delle unità esistenti, mentre in precedenza essi erano obbligati a registrarsi nelle quattro tribù urbane, con la conseguenza che il loro peso nei comizi tributi era minoritario. I consoli del 311 a.C., tuttavia, rifiutarono di riconoscere la nuova lista di senatori e continuarono a convocare il senato sulla base dei vecchi elenchi. Nel 304 a.C., i nuovi senatori confinarono la plebe di Roma nelle quattro tribù urbane.

Un provvedimento di portata epocale s'inquadra nel medesimo periodo e sulla stessa linea politica inaugurata dal censore. Il censo dei singoli cittadini, fino ad allora calcolato in base ai terreni ed ai capi di bestiame posseduti, fu valutato anche in base al capitale mobile, consentendo a coloro che non erano impegnati nelle tradizionali attività agricole e dell'allevamento di vedere il proprio peso economico e politico riconosciuto nell'ordinamento centuriato.

All'edile Cneo Flavio (304 a.C.) appartiene la decisione di pubblicare le formule giuridiche che era necessario impiegare nei processi, in un'opera nota come "Ius civile Flavianum". Flavio avrebbe divulgato il calendario con i giorni fasti, durante i quali si poteva svolgere l'attività giudiziaria, e quelli nefasti, nei quali ogni attività pubblica era interdetta. Calendario e formule procedurali, infatti, erano gli strumenti che avevano consentito una sorta di monopolio pontificale sull'esercizio della giustizia, anche dopo la redazione scritta di un codice di leggi.

Alla censura di Appio Claudio è da attribuire la costruzione di due opere pubbliche di importanza epocale per Roma: il primo acquedotto della città e la via che congiungeva Roma a Capua, che prese il nome di via Appia e che si rivelò d'importanza strategica nel corso della seconda guerra sannitica.


la legge ortensia

Il 287 a.C. venne considerato il punto d'arrivo della lotta fra patrizi e plebei. Dopo che si era fatto ricorso all'arma della secessione, una legge Ortensia stabilì che i plebisciti votati dall'assemblea della plebe avessero valore per tutta la cittadinanza di Roma. La lex Hortensia, dunque, equiparò i plebiscita alle leggi votate dai comizi.

Dal 287 a.C. i comizi tributi e l'assemblea della plebe, i concilia plebis tributa, erano accomunati da un uguale sistema di voto per tribù e da uguali poteri; identica era anche la loro composizione, sebbene ai comizi tributi prendessero parte anche i patrizi. Comitia tributa e concilia plebis rimasero distinte dai magistrati che avevano il diritto di convocarle e presiederle: i consoli o i pretori, per quanto concerne i comizi tributi, i tribuni o gli edili della plebe, per quanto riguarda i concili plebei.


la nobilitas patrizio-plebea

Le leggi Licinie-Sestie e le conquiste della plebe, tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. chiusero l'età del dominio esclusivo dei patrizi sullo Stato. Al posto del patriziato si venne formando una nuova aristocrazia, formata dalle famiglie plebee più ricche ed influenti e dalle stirpi patrizie che avevano saputo adattarsi alla nuova situazione, e unita da vincoli famigliari, ideali ed interessi comuni. A questa nuova élite si dà il nome di nobilitas, che venne a designare tutti coloro che avevano raggiunto il consolato o che discendevano in linea diretta da un console.

Una sorta di "manifesto" degli ideali della nobilitas è conservato nell'elogio di Lucio Cecilio Metello, un grande uomo politico della metà del III secolo a.C., che venne pronunciato dal figlio nel 221 a.C. e ci è stato tramandato da un autore del I secolo d.C., Plinio il Vecchio: Metello era stato buon soldato ed ottimo generale, aveva raggiunto le più alte cariche dello Stato ed era stato eccellente oratore, aveva acquisito una grande ricchezza in modo onorevole ed aveva lasciato alla patria numerosi figli.

La nobiltà patrizio-plebea si rivelò non meno gelosa delle proprie prerogative del vecchio patriziato. L'accesso alle magistrature superiori era riservato ai membri di poche famiglie, anche se questo monopolio si basava sul controllo dell'opinione pubblica. Per i pochi personaggi che raggiunsero i vertici della carriera politica pur non avendo antenati nobili, venne coniata la definizione di homines novi. Prima d'intraprendere la carriera politica, un giovane romano doveva servire per almeno 10 anni nella cavalleria, reclutata nelle 18 centurie dei cavalieri, che costituivano il vertice dell'ordinamento centuriato. Per intraprendere la carriera politica a Roma, si doveva appartenere ad una delle famiglie più facoltose. Le assemblee elettorali erano controllate dai nobili attraverso i propri clienti: per avere successo era indispensabile ereditare la rete di clientele paterne o godere del patronato politico di un nobile influente.




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