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La scultura ellenistica

arte



La scultura ellenistica


Entro il vasto orizzonte aperto al mondo antico dalle conquiste di Alessandro il Macedone, la cultura artistica greca si diffonde illimitatamente, al tempo stesso arricchendosi di nuovi spunti e motivi, specialmente orientali.

L'impero succede alla polis; e, nella società più differenziata ed estesa, anche il concetto della personalità umana si trasforma. L'ideale non è più il perfetto cittadino, ma il personaggio illustre: il condottiero, il poeta, il filosofo.

Il dominio in cui l'arte ellenistica ha realizzato i suoi massimi valori è la statuaria ritrattistica; e poiché dei grandi uomini si vuole tramandare, con le fattezze, la memoria delle virtù intellettuali o morali, bisogna che i tratti del volto possano manifestare le qualità del pensiero e dell'animo. Non si può escludere che, a determinare questo interesse per la figura "storica" , e cioè per un bello morale del tutto indipendente e talvolta antitetico rispetto al bello naturale, abbia concorso l'invito socratico a conoscere se stessi; e forse anche il ricordo della grandezza spirituale e morale che, in Socrate, si associava a una bruttezza "satiresca" .



Di Socrate, appunto, rimane un ritratto che in nessun modo corregge o dissimula l'irregolarità dei tratti fisionomici, ma celebra anzi la bellezza di una vasta fronte pensosa, di u 929j96j no sguardo vivo dal fondo delle orbite infossate, l'eloquenza e l'arguzia di una larga bocca tra i peli della barba. A Lisippo risale probabilmente il tipo originario del ritratto di Aristotele, anch'esso caratterizzante e celebrativo ad un tempo, come se la dignità morale del personaggio valesse da canone a un nuovo ideale di bellezza; e gli sono vicine, per la severità della figura drappeggiata e l'interpretazione sempre pertinente e penetrante della vita interiore del soggetto, l'Euripide, il Sofocle, il Demostene etc.

Due considerazioni sono da farsi a proposito di questi ritratti ellenistici. Prima: la scultura è ritenuta l'arte più capace di individuare, fissare e tramandare la memoria di un personaggio illustre, affinché abbia forza di esempio; se la statua è la figura storica della persona, la scultura è l'arte che la definisce e rivela, e ha quindi una sua profonda affinità con la storia. Seconda: se la scultura deve rendere visibili le qualità morali nell'atteggiamento e nei tratti fisionomici della figura, questa interpretazione compendiosa e non analitica del vero implica la rinuncia ai canoni formali e il ricorso alle più sottili possibilità della tecnica.

La cultura figurativa ellenistica ha una radice classica, ma non risulta dalla diffusione dei modi attici; anzi, con il formarsi dei vari regni dopo la conquista di Alessandro, l'Attica e la Grecia stessa cessano di essere il centro direttivo della cultura artistica, e molti altri centri si formano, specialmente in Asia Minore, e nelle isole: Pergamo, Rodi, Alessandria, etc.

Nel III secolo Pergamo, dopo la vittoria di Attalo I sui Galati, diventa una grande città, con una Acropoli monumentale. Su di essa Attalo I eresse un tempio ad Atena Polias e ne ornò la piazza antistante con statue bronzee (che conosciamo in parte da copie in marmo); altre, simili nel tema e nello stile, Attalo II collocò nel donario sull'Acropoli di Atene (201 a.C.). Il tema dominante è la vittoria sui "barbari" , il trionfo della civiltà sulla forza; ma, benché accompagnato da figurazioni mitologiche, questo tema è ormai sentito come storia contemporanea. Il Galata morente, il Galata che si uccide con la sposa riflettono il dramma, umanamente sentito, dei barbari sconfitti: con tanta forza patetica e con tanta evidenza veristica mista ad enfasi oratoria, da meritare allo stile pergameno la qualifica, naturalmente impropria, di "barocco antico" . Il barbaro non è più un mostro; è un essere umano che associa alla naturale rudezza una sua nobiltà e una sua fiera bellezza. È l'essere delle forti, indomate passioni: e queste specialmente gli scultori s'impegnano a caratterizzare nei volti vigorosamente modellati, con i tratti duri e violenti sotto le ispide capigliature, e nei grandi corpi muscolosi. L'origine è, forse, la patetica scultura di Scopa la cui tarda opera nel Mausoleo di Alicarnasso ebbe larghi sviluppi in Asia Minore; ma nuovo è il modo di mescolare a un discorso rettorico, quasi per renderlo credibile, un'estrema, spesso virtuosistica, cura nella resa scultoria dei particolari.

La scultura è ora intesa come un'arte che, trasponendo ed eternizzando nel marmo il fatto reale, lo ingrandisce, gli conferisce dignità di fatto storico, lo traspone sul piano del "sublime" .

Sono conservate nell'originale le sculture della grande ara dedicata a Zeus Sotèr e ad Atena Nicefora da Eumene II dopo la seconda vittoria sui Galati (183 a.C.). Il monumento (ora ricostruito nel Pergamonmuseum, nel Museo di Stato di Berlino con quanto rimaneva delle sculture originali) aveva pianta quasi quadrata; uno dei lati maggiori era aperto, con una grande scalea; nell'alzato c'era un alto basamento decorato da un fregio scolpito continuo e sormontato da un porticato ionico. Invece della cella v'era uno spazio rettangolare scoperto, al cui centro era l'altare del sacrificio. Il grande rilievo dello zoccolo rappresentava, interpretata in senso cosmologico, la gigantomachia; il fregio minore, nell'interno del colonnato, le storie di Telefo. Il fregio esterno, firmato da scultori di varia provenienza operanti sotto la direzione di un solo maestro, sviluppa un complesso racconto cosmico-mitologico, che comincia nel lato ovest con le divinità del mare e della terra, séguita nel lato nord con le divinità della notte e nel lato sud con quelle del cielo diurno per concludersi nel lato est, frontale, con le divinità dell'Olimpo. Sul fondo liscio le figure spiccano in alto rilievo, spesso raggiungendo effetti di tutto-tondo; il movimento si svolge come un'onda continua, ma pieno di scatti, senza regolarità di ritmo. L'invenzione impetuosa travolge ogni consuetudine iconografica, l'immaginazione dell'artista insegue sfrenata strane combinazioni di umano e belluino, di bello e mostruoso, nelle figure dei giganti, dei geni alati, di divinità minori. L'ideatore del fregio sfrutta abilmente tutto il patrimonio formale della scultura greca, dalla luce irrompente di Fidia alla espressività esasperata e alla modellazione forte di Scopa. Ma si tratta di una esperienza nettamente formalistica, di un sapiente, calcolato ricorso a effetti già sperimentati per dare all'alta rettorica del discorso plastico una maggiore forza emotiva.



Lo stesso andamento apparentemente aritmico ha lo scopo di rompere la fluenza continua delle figure, di farle balzar fuori, una ad una, dal pur legato contesto. La stessa insistenza con cui sono incisi nei volti e nei gesti i segni di una concitazione passionale o icasticamente descritti certi particolari (le ciocche dei capelli, le penne delle ali, le squame dei serpenti) concorrono a rendere verosimile e quasi a documentare il racconto fantastico: fino a fare uscire dal rilievo alcune figure, che si appoggiano con le ginocchia o con le mani sui gradini della scalea.

Carattere molto diverso ha il rilievo con le storie di Telefo. Il nesso che collega le figure non è più un profondo ritmo formale, come negli esemplari classici, né l'enfasi travolgente di un discorso poetico, come nella gigantomachia dello zoccolo, ma lo svolgimento continuo di una narrazione, un succedersi di episodi pacatamente narrati e accuratamente ambientati: è il primo esempio, cioè, della "narrazione continua" che avrà un largo sviluppo nella scultura romana. Poiché la narrazione evita l'enfasi, non vi sono figure fortemente emergenti: l'artista preferisce comporre in profondità: invece del piano liscio che sbalza le figure della gigantomachia, il fondo ha una profondità prospettica in cui si disegnano, illusionisticamente, edifici, alberi, rocce. Il modellato delle figure è moderato, pieno di sfumature, di pretesti a una varietà infinita di effetti di luce che mirano a fondere figure e spazio paesistico in una stessa atmosfera luminosa. Al plasticismo esasperato del primo fregio, che intensifica i chiari e gli scuri fino al contrapposto luministico, succede un pittoricismo disteso, che sfrutta coloristicamente anche le minime variazioni luminose.

Nella costellazione dei centri micro-asiatici di cultura figurativa ellenistica emergono Antiochia, dove al principio del III secolo opera EUTYCHIDES, un sottile, manierato allievo di Lisippo; laBitinia, dove BOETOS tocca la leziosità nel gruppo del fanciullo con l'oca, ma DOIDALSAS, nell'Afrodite accovacciata, sa unire la ricerca di una luminosità umida e quasi epidermica a un raccolto ritmo di linee curve e di angoli; Magnesia, dove il grande Artemision dell'architetto ERMOGENE, aveva nel fregio una movimentata amazzonomachia, dal rilievo intensamente luministico; Tralles, dove gli scultori del supplizio di Dirce, noto dalla mediocre copia romana già nelle Terme di Caracalla, ostentano un virtuosismo quasi acrobatico nelle pose dei personaggi intorno al toro infuriato e nella resa illusionistica del pelo ispido degli animali o delle zolle smosse del terreno.

Anche da Lisippo muove la corrente rodia, attraverso CHARES, autore del famoso colosso, statua gigantesca del Sole dedicata nel 290 a.C. Di artisti rodioti è uno dei massimi capolavori della scultura ellenistica, la Nike di Samotracia: alata figura che atterra, nel risucchio del vento, sulla prua di una nave. Il drappeggio, ora premuto dal vento sul corpo, ora sfuggente in ariosi svolazzi, ha qui la duplice funzione di rendere, in una rapida sintesi plastica, la figura e il vortice d'aria prodotto dal suo volo e dal sùbito arresto, e di suscitare nella massa marmorea tensioni lineari che le tolgono ogni peso di materia e la librano libera nello spazio.

Malgrado il tema tanto diverso, la stessa ricerca si nota nella Musa Polimnia, da un originale di FILISCO (II secolo a.C.): una massa chiusa, che poco o nulla lascia trasparire del movimento del corpo, ma resa leggera dalla modulazione delle curve ascendenti e dal gioco luminoso del drappeggio, fitto e profondo in basso e dispiegato, in alto, in morbide superfici madide di luce.



Ad una fase molto più inoltrata appartiene il tanto celebrato gruppo statuario del Laocoonte opera di AGHESANDRO, POLIDORO, ANTANADORO. Emerso da uno scavo nel 1506, a Roma, fu uno dei modelli del classicismo del Rinascimento; più tardi, nel secolo XVIII, fornì al Lessing l'occasione di un saggio famoso, che muovendo dalla critica del principio barocco "ut pictura poesis" giunge a enunciare le premesse di una critica d'arte fondata sui valori della visione figurativa. Ma non può negarsi la relazione (diretta o per dipendenza da una fonte comune) tra la descrizione plastica e quella poetica che, del medesimo fatto, dà Virgilio nell'Eneide. Gli scultori del Laocoonte hanno lavorato su un tema letterario, cercando di tradurlo in scultura, descrivendo lo sgomento del padre e dei figli assaliti dai serpenti marini, l'invettiva contro gli dèi ingiusti. La scultura è ormai una tecnica al servizio di un fine rettorico: e per dare evidenza all'immagine e commuovere lo spettatore pone in atto gli espedienti più scaltri, anche se con il crescente virtuosismo tecnico s'indebolisce la forza plastica della forma.

Rientra ugualmente nell'ambito della rettorica, nel senso dato al termine da Aristotele e dai suoi commentatori, il gusto, specialmente alessandrino, di fingere aspetti singolari e curiosi, spesso anche disgustosi, della realtà naturale e sociale. Aristotele diceva che si possono imitare le cose come si vorrebbe che fossero, come sono, peggio di come sono: dunque non è la bellezza del modello ma la bravura dell'artista che fa la bellezza dell'arte. La stessa civiltà che produce immagini di bellezza come l'Afrodite di Milo e l'Afrodite di Cirene o la fanciulla di Anzio produce anche il vecchio pescatore e la vecchia ubriaca: l'arte è un modo di interpretare la realtà e gli aspetti della realtà sono infiniti, belli e brutti; ma tutti interessano ugualmente l'artista.

Il mondo ellenistico è un mondo di movimento, di relazioni, di scambi: ceti sociali differenziati non più soltanto per casta o per nascita, ma per censo e professioni; cultura diffusa e specializzata; grande sviluppo tecnico; produzione e traffici intensi. Le grandi città hanno ciascuna un proprio carattere, i proprii monumenti, le proprie scuole artistiche; ma tutte attingono alla comune fonte classica, tutte si sentono partecipi di un'immensa comunità, fatta di stirpi e di genti diverse, una "ecumène" . All'organismo chiuso della polis succede la città come organismo aperto e in continuo sviluppo, frequentata da stranieri che spesso vi si stabiliscono: è luogo di produzione industriale, emporio commerciale, centro culturale.

Dal punto di vista urbanistico, la città ellenistica può a prima vista apparire soltanto come un ingrandimento della città classica: conserva e sviluppa lo schema regolare, a scacchiera, e la distribuzione a terrazze sui pendii naturali, che IPPODAMO DI MILETO, un architetto del tempo di Temistocle, aveva teorizzato come schema ideale. Ed è significativo che proprio ad Ippodamo Strabone attribuisca, sia pure dubitativamente, la fondazione e il primo tracciato di Rodi, una delle più famose città ellenistiche. Di fatto, la città ellenistica è una realtà sociale ed edilizia molto diversa da quella classica. Poiché la natura stessa non è più concepita come una forma costante sotto le apparenze mutevoli, ma come un vario insieme di fenomeni, la struttura urbana, che è sempre in rapporto con la concezione dello spazio naturale, è una struttura priva di costanti normative, intimamente connessa con la configurazione del suolo, con il paesaggio, con le condizioni climatiche. La rete stradale a scacchiera è bensì uno schema ricorrente, ma la sua funzione è soprattutto di rendere possibili una distribuzione di spazi e un allineamento edilizio che diano luogo a grandi, scenografiche, sempre diverse prospettive di veduta. Anche i "monumenti" , i grandi edifici d'interesse pubblico sono pensati in funzione di questo ordinato paesaggio urbano: sono i fondali delle piazze, la conclusione di una lunga prospettiva, il centro di un incrocio di grandi vie, un punto di riferimento visibile da tutta la città o da chi vi giunga per terra o per mare. Più che come unità plastica a sé, l'edificio è un elemento di quella più grande architettura che è la città: perciò prendono valore le facciate, i portici, le scalee, i propilei, cioè tutti quei tipi che si prestano a una buona situazione e distribuzione prospettica e a una organica articolazione degli animati spazi urbani. La grande invenzione ellenistica è infatti la concezione della città come paesaggio architettonico, scenario dai molti aspetti al muoversi di una società quanto mai varia e animata.



Non mutano sostanzialmente gli elementi basilari della morfologia architettonica classica; muta radicalmente il modo di svilupparli e combinarli, muta la proporzione degli edifici, muta infine la concezione stessa della costruzione, non più intesa come forma chiusa ma come organismo aperto. Le innovazioni sono minime nella forma del tempio, in cui è reso più libero e atmosferico il rapporto tra la peristasi (il colonnato) e il volume chiuso della cella; ma il tempio stesso diventa l'elemento di un complesso più vasto, formato di piazze o corti porticate, di gallerie di colonne etc. (si veda l'Artemision di Magnesia, costruito nel III secolo da Ermogene). Frequente è lo schema rotondo, per lo più adottato per templi di piccole dimensioni, quasi sempre inseriti in un contesto prospettico. Un tipo nuovo, di tempio "aperto" è l'ara monumentale, di cui è massimo esempio il già descritto altare di Pergamo: più che tempio, è un luogo o recinto sacro, largamente praticabile, con l'ara sacrificale al centro. Le sue superfici esterne, con il loro ampio sviluppo, sembrano fatte apposta per il dispiegarsi della decorazione scultoria. Altra forma aperta, di raccordo tra il nucleo dell'edificio e lo spazio circostante è il portico, galleria a colonne, che nella città ellenistica appare ovunque: all'esterno, come recinto di piazze e come articolazione tra diversi corpi di fabbrica; all'interno degli edifici pubblici e privati, come recinto di cortili e collegamento interno tra i lati della costruzione. Un tipo particolare di portico, detto "pergameno" , consta di due ordini sovrapposti, dorico e ionico. Rientra nella tipologia del portico e delle sue applicazioni e varianti la cosiddetta sala ipostila (Delo, III secolo): costruzione rettangolare con tetto a spioventi sostenuto da colonne, per riunioni di mercanti. Particolarmente notevole, in età ellenistica, è lo sviluppo degli edifici per spettacoli. Ne sorgono ovunque, ripetendo con varianti lo schema classico: le trasformazioni principali si hanno nella forma della scena e dell'orchestra, in rapporto con il prevalere della nuova commedia sulla tragedia, col progressivo ridursi della funzione del coro e dei suoi movimenti, col trasporto di tutta l'azione sul proscenio. L'anfiteatro, dedicato specialmente ai giochi ginnici, raddoppia la forma del teatro, che diventa un anello o un'ellisse intorno all'area delle gare. Collegata alla forma del teatro è quella del bouleuterion (famoso quello di Mileto), per le assemblee popolari: risulta dall'innesto di una scalea semicircolare, come quella dei teatri, su una corte quadrangolare porticata. Architetture aperte possono anche considerarsi i ginnasi e le palestre: il primo è uno spazio scoperto per gli esercizi di corsa, lancio del disco etc., il secondo un luogo chiuso per gli esercizi di lotta e pugilato: spesso i due tipi sono collegati, disponendosi gli ambienti chiusi intorno a uno spazio scoperto porticato (peristilio). Le terme, bagni pubblici spesso collegati con ambienti per trattenimenti e per esercizi sportivi, sono rare nell'ambiente ellenistico greco; saranno invece molto frequenti a Roma.

L'abitazione privata ha, in epoca ellenistica, un grande sviluppo anche dimensionale: la casa conserva il tipo tradizionale a mègaron, con ambienti distribuiti intorno a un cortile che si trasforma via via in peristilio, ma, ingrandendosi, adornandosi, collegandosi a giardini, diventa poco a poco distintivo di grado sociale.

Molto varie sono le forme dell'architettura funeraria: si va dal semplice cippo di pietra, con un'iscrizione e talvolta un piccolo rilievo, al grande mausoleo architettonico. Particolarmente notevoli sono le tombe scavate nel terreno o nella roccia (ipogei) con facciate monumentali: le tombe rupestri di Petra, in Arabia, sono il tipico esempio di un'architettura puramente frontale, libera da ogni esigenza statica e quindi aperta a tutte le possibilità formali, e collegabile, perciò, da un lato con l'architettura della scena teatrale (per influsso romano) e, dall'altro, con le architetture dipinte della decorazione parietale ellenistica.






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