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- scenario -
Duecento anni fa, la prima rivoluzione industriale pose termine ad ottomila anni di creazione di ricchezza agricola. L'agricoltura, nel XVIII secolo la sola attività economica per il 98% della popolazione americana, alla fine del XX secolo dà occupazione a solo il 2% degli americani. Fonte principale di ricchezza personale, imprenditoriale e nazionale divenne l'attività industriale. La macchina a vapore è stata una fonte energetica mobile di gran lunga superiore a quella umana o animale, offrendo la possibilità di compiere ciò che prima era impossibile. Leonardo da Vinci immaginò ogni tipo di geniale congegno meccanico, ma tutti (o quasi) i suoi progetti rimasero sulla carta, senza prendere forma, non essendo concepibile un motore per alimentare tali congegni. Fu con l'avvento della macchina a vapore che molte delle cose che poteva soltanto immaginare divennero rapidamente realtà. Cento anni dopo, alla fine del XIX secolo, l'elettrificazione e la ricerca e lo sviluppo industriali sistematici produssero la seconda rivoluzione industriale. Con la lampadina elettrica, la notte divenne letteralmente giorno. La curva del rapporto prezzo-rendimento della lampadina è simile a quella odierna del computer. Nel 1883, per ottenere l'illuminazione che oggi è possibile avere con una lampadina da 100 watt al costo di 33 centesimi, occorrevano 1.445 dollari. Le stesse elaborazioni di prezzi percentuali trasformerebbero un computer da 13 milioni di dollari in uno da 3mila dollari, situazione non dissimile da quella creatasi dagli anni 60 ad oggi. L'aver qualcosa da fare dopo il tramonto cambiò le abitudini principali. Le persone iniziarono a dormire molto meno e la media di nove ore di sonno scese fino a poco più di sette ore a notte. L'elettrificazione permise la nascita di nuove industrie, basti pensare a quella cinematografica, e modificò radicalmente i processi produttivi delle vecchie. Diversi piccoli motori elettrici erano molto più efficienti e flessibili di una grande macchina a vapore. Con l'elettricità nacquero i sistemi di trasporto (metropolitana, ferrovie di superficie, ascensori) che permisero la formazione di grandi città. L'elettricità, alimentando il sistema di comunicazione telefonica, permise anche ai mercati locali di trasformarsi in ampi mercati nazionali. La Germania, con la creazione dell'industria chimica, elaborò il concetto di ricerca e sviluppo industriali sistematici fondati sulla 747e44h scienza. I progressi tecnici poterono essere programmati evitando così un ordine casuale. Non affidandosi più al caso, le frontiere tecnologiche si ampliarono molto più rapidamente che in passato. Alla fine del secondo millennio, e all'alba del terzo, è in atto un'interazione di sei nuove tecnologie - microelettronica, informatica, telecomunicazioni, nuovi materiali di sintesi, robotica e biotecnologia - per la creazione di ciò che gli storici dell'economia chiameranno la terza rivoluzione industriale. I progressi della scienza di base in queste sei aree hanno creato nuove tecnologie che hanno permesso la nascita, e stanno permettendo il rapidissimo sviluppo, di un insieme di nuove industrie, quali quella informatica. Mentre le vecchie industrie sono sottoposte ad un processo di re-invenzione. Il retailing via Internet sostituisce il retailing tradizionale. I telefoni cellulari sostituiscono i telefoni fissi e possono essere raggiunti nuovi traguardi. Nascono così piante e animali geneticamente modificati e gli occhiali da vista diventano una tecnologia obsoleta. Durante tutta la storia dell'uomo, la fonte di ricchezza è sempre stata il controllo delle risorse naturali: terra, oro, petrolio. Ora, improvvisamente, sta nel "sapere", nella "conoscenza". L'uomo più ricco del mondo, Bill Gates, non possiede risorse naturali e neppure eserciti. Per la prima volta nella storia dell'uomo, la persona più ricca del mondo possiede soltanto conoscenza. L'economia basata sul sapere prende quindi il posto dell'economia basata sull'industria. La trasformazione in atto è spesso descritta ingannevolmente come rivoluzione informatica. In realtà è molto di più. Le informazioni più rapide o meno costose non hanno di per sé un grande valore. Le informazioni sono soltanto uno dei numerosi nuovi input utilizzati per creare un'economia differente popolata di svariati prodotti e servizi. Ciò che realmente cambia non sono le informazioni su ciò che desideriamo acquistare, ma il modo in cui acquistiamo i beni essenziali e ciò che acquistiamo. I negozi fisici si avviano a cessare l'attività commerciale ed emergono i negozi elettronici. E in entrambi acquistiamo abiti in lycra e kevlar piuttosto che in cotone. Durante la prima e la seconda rivoluzione industriale, i lavoratori lasciavano l'agricoltura (settore con retribuzioni limitate e con un'ampia dispersione del reddito) ed entravano nelle attività manifatturiere e minerarie (settori con elevate retribuzioni e una distribuzione più equa del reddito). Nella terza rivoluzione industriale, i lavoratori stanno lasciando il settore manifatturiero per entrare nei servizi (settore con redditi più bassi e un'amplissima dispersione dei redditi). Le rivoluzioni che portavano a guadagni più alti e meglio distribuiti hanno ceduto il passo ad una rivoluzione caratterizzata da una distribuzione meno equa di guadagni inferiori. Come la seconda rivoluzione industriale ha trasformato le economie da locali a nazionali, così la terza rivoluzione industriale sta trasformando la nostra economia da nazionale a globale. Per la prima volta nella storia, le imprese possono acquistare e produrre dove i costi sono più contenuti e vendere dove i prezzi sono più alti. La più americana delle società americane, la Coca-Cola, vende l'80% dei propri prodotti fuori dagli Stati Uniti, e il più americano dei prodotti americani, l'automobile, è largamente composto di parti provenienti da tutto il globo. La storia del passaggio da economie locali a nazionali ci insegna che nella migliore delle ipotesi occorrerà parecchio tempo per imparare a far funzionare quest'economia globale, un apprendimento che sarà ostacolato da numerosi errori e sorprese. Per imparare a far funzionare le economie nazionali è occorso il primo cinquantennio del XX secolo. Per controllare le tendenze monopolistiche delle nuove società nazionali è stato necessario inventare le leggi antitrust. Le società, infatti, avevano imparato che facevano più soldi consorziandosi in monopoli e limitando la produzione piuttosto che aumentandola. La Standard Oil è stata smembrata nel 1911. Per la prima volta è nata l'esigenza di una moneta nazionale. La Federal Reserve Board è stata istituita nel 1913. Nei primi trecento anni di storia americana non era stato necessario creare una banca centrale, e furono le aspre vicende della Grande Depressione a insegnare agli americani che mercati finanziari senza freni possono implodere, trascinando nel crollo intere economie nazionali. La transizione da nazionale a globale sarà molto più turbolenta di quella da locale a nazionale. Quando il mondo è passato dalle economie locali a quelle nazionali, i Governi nazionali erano già pronti a imparare come gestire il processo. Al contrario, ora non vi è alcun Governo globale in grado di imparare a gestire l'economia globale. La risposta logica a questo problema gestionale potrebbero essere istituzioni globali che trasmettono ordini direttamente, senza dover ottenere il permesso dei Governi nazionali. Questo però non accadrà. Nessuno istituirà un Governo globale nel prossimo futuro, a prescindere dal fatto che ce ne sia o meno bisogno. Pertanto, il mondo avrà un'economia globale senza avere un Governo globale, il che significa un'economia globale senza una serie di norme e regolamenti applicabili e concordati. Non vi saranno sceriffi che applicano codici di buona condotta e neppure giudici o giurie ai quali appellarsi per chiedere giustizia. I Paesi stessi sono chiamati in gioco. Quindici Paesi costituiscono ciò che prima era l'Urss. La Cecoslovacchia si è divisa in due. La Jugoslavia si è scissa in cinque Stati, che forse diventeranno sette. Inoltre, gli inglesi stanno concedendo una semi-indipendenza alla Scozia, baschi e catalani chiedono l'indipendenza dalla Spagna e in Canada continua l'annoso dibattito sull'indipendenza del Quebec. Nel mondo in via di sviluppo è difficile che l'Indonesia torni a essere un solo Paese. E in Africa migliaia di gruppi etnici non vivranno certo per sempre in una manciata di Paesi definiti negli incontri fortuiti tra eserciti britannici e francesi nel XIX secolo. Gli inglesi hanno unificato l'India e la pianificazione centrale del socialismo l'ha mantenuta tale dopo l'indipendenza, ma oggi cosa la terrà unita? Nel contempo, vecchi Paesi d'importanza storica stanno lentamente dissolvendosi nell'Europa. Senza una propria moneta nessun Paese è pienamente indipendente e undici Paesi ne formeranno uno solo. Con il ridimensionamento delle prerogative, degli obiettivi e dei poteri dei Governi nazionali, il ruolo delle imprese globali si amplia. Le imprese possono, infatti, contrapporre sempre più un Paese a un altro per trarne vantaggi economici. Le grandi multinazionali si insediano nei Paesi che garantiscono i maggiori vantaggi in termini di efficienza globale, aiuti finanziari e sgravi fiscali (Israele, per esempio, ha "acquistato" un impianto di semiconduttori Intel per 600 milioni di dollari e il Brasile un impianto di assemblaggio Ford per 700 milioni).
Fasi storiche |
Caratteri principali |
Date |
I° Rivoluzione Industriale |
Utilizzo del vapore per controllare le macchine durante l'estrazione dei metalli. Uso della prima forma di automazione: il motore a vapore che sostituiva la forza animale. |
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II° Rivoluzione Industriale |
Uso del petrolio
per alimentare le macchine; imbrigliamento dell'energia elettrica per
automatizzare il settore industriale. |
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III° Rivoluzione Industriale |
Organizzazione
delle attività economiche della società. |
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Intorno ai primi anni settanta un mutamento profondo cominciò a investire alcuni settori della grande industria. L'organizzazione del lavoro che per quasi mezzo secolo si era retta sui sistemi tayloristico-fordistici comincia a entrare in crisi. Quel sistema, ricordiamo, era stato pensato per produrre il più gran numero possibile, e nel tempo più breve, di merci standardizzate, adatte a un pubblico indifferenziato di massa. Ma col tempo, dopo decenni di consumismo, nelle società cosiddette affluenti la domanda dei consumatori era mutata. Sempre di più essi si mostravano volubili nel gusto, desiderosi di cambiare continuamente, e soprattutto attenti alla qualità e all'originalità del singolo bene, capace di distinguersi in mezzo alla straripante offerta di prodotti di massa. A questa e ad altre esigenze diede una risposta efficace e originale una fabbrica giapponese di automobili, la Toyota, grazie a una profonda trasformazione tecnologica e dell'organizzazione del lavoro in fabbrica. Dentro i vecchi stabilimenti fordisti l'organizzazione del personale soggiaceva a una rigida struttura gerarchica: in alto stavano i dirigenti, poi c'era lo strato intermedio dei tecnici e degli impiegati, infine la massa degli operai addetti al lavoro sulla linea - o catena - di montaggio: vale a dire incaricati di assemblare i vari pezzi che scorrevano sui nastri trasportatori nei vari reparti. Però già alla fine degli anni venti i sociologi dell'industria americana avevano provato sperimentalmente (esperimento di Mayo) che la disaffezione verso il lavoro di operai condannati a passare tutta la propria giornata nell'esecuzione affannosa, in tempi accelerati, di poche e ripetitive mansioni manuali, riduceva inevitabilmente la produttività. Negli stabilimenti Toyota questo schema venne spezzato. Alla struttura verticale venne sostituita un'organizzazione orizzontale, per gruppi, composti dalle figure che una volta erano disposte gerarchicamente. Manager, ingegneri, tecnici e semplici operai lavoravano tutti insieme, organizzati per squadre. Se si voleva produrre un bene che fosse curato in ogni sua parte e in qualche modo personalizzato, occorreva un lavoro di cooperazione di tutti in tutte le fasi della lavorazione. Gli operai, così come tutti gli altri operatori, non si occupavano più, come un tempo, di un singolo segmento di lavoro, ma si muovevano in gruppo, quasi gruppo, quasi come una singola impresa, ed erano al corrente di tutte le fasi di lavorazione dell'automobile. D'altronde oggi, all'interno della fabbrica, grazie all'elettronica, ogni membro può essere informato su quello che accade negli altri reparti e nell'intera azienda. Finisce così un'epoca dell'organizzazione del lavoro, durata mezzo secolo. Una tale trasformazione viene resa possibile dalle straordinarie innovazioni tecniche fondate sul computer. Ai robot azionati elettronicamente si fa un sempre più largo ricorso nelle lavorazioni particolarmente pesanti. Ma quella del toyotismo costituisce solo una prima avvisaglia delle radicali innovazioni che con l'ingresso del computer si sono avviate in tutti i campi della vita produttiva, dei servizi, della vita quotidiana, della cultura e della scienza. I mutamenti e le trasformazioni, prodotte direttamente o indirettamente dall'elettronica appena agli inizi, hanno riguardato prevalentemente il campo del lavoro, della ricerca e dell'informazione. Nel mondo industriale i computer hanno rivelato la loro straordinaria potenzialità nella capacità di sostituire lavoro umano, per la quale secondo alcuni si è verificato un passaggio storico dalla « manifattura» alla « macchino-fattura», una seconda o -meglio - terza rivoluzione industriale. Se infatti tanto nella prima rivoluzione industriale che nella seconda (di metà Ottocento) si realizzò la sostituzione su larga scala della forza fìsica dell'uomo con l'energia delle macchine, ora è avvenuto qualcosa di non meno rivoluzionario: le macchine sostituiscono non solo le mani ma anche il cervello dei lavoratori. La cosiddetta « intelligenza artificiale» entra sulla scena del lavoro industriale e fa sì che le macchine producano da sole le merci.
La capacità dell'elettronica di sostituire lavoro è alla base di un processo grandioso di rivolgimento sociale, oggi appena agli inizi: in ogni fabbrica, ma ormai anche in ogni ufficio, imprenditori e manager guardano sempre più all'impiego dei computer come allo strumento privilegiato per risparmiare sui costi e rendere più competitiva l'azienda licenziando lavoratori. Il cosiddetto re-engineering - cioè la riorganizzazione del lavoro resa possibile dai computer -espelle dalle imprese non solo semplici operai, ma anche tecnici, impiegati, perfino manager e dirigenti. Solo alcuni di essi riescono a trovare un nuovo impiego sulla base delle proprie competenze e qualifiche, mentre il resto è quasi sempre costretto ad accettare lavori dequalificati e precari, o a uscire per sempre dal mercato del lavoro. In realtà non si verifica, o avviene solo in parte, ciò che secondo alcune teorie economiche dovrebbe essere l'« effetto a cascata », per cui le innovazioni tecnologiche dovrebbero favorire l'espansione economica così da riassorbire progressivamente, in nuovi settori, gli operai espulsi dalla produzione.
Nei fatti, i nuovi lavori sorti intorno alla rivoluzione informatica sono appannaggio di una ristretta élite di scienziati, progettisti, disegnatori, programmatori: in nessun caso essi sembrano in grado di assorbire la grande massa di lavoratori che quotidianamente viene messa sulla strada. Probabilmente, quelle teorie economiche ottimistiche sono state costruite per una società che era in grado di moltiplicare i propri settori produttivi grazie alle dimensioni ancora limitate dal proprio sviluppo. Nel corso del Novecento l'agricoltura ha perso lavoratori, che hanno potuto trovare impiego nell'industria; l'industria, soprattutto dalla metà del secolo, ha ridotto progressivamente i propri occupati, e questi hanno trovato nuove occasioni nei servizi pubblici e privati. Ma oggi lo scenario è radicalmente nuovo rispetto al passato. Le macchine spazzano via il lavoro umano simultaneamente sia in agricoltura che nelle fabbriche, tanto nei servizi privati (banche, assicurazioni ecc.) quanto nella pubblica amministrazione. Nel frattempo, quella che una volta era la classe media, non solo degli Usa ma di tutte le società industrializzate, vede perdere progressivamente il proprio peso e la stratificazione sociale tende a ridursi. La massa degli occupati generici e precari continua a crescere, mentre si va lentamente restringendo quella dei lavori specializzati e meglio pagati. La distanza fra le classi tende ormai ad allargarsi e a formare nel corpo sociale, quasi come alle origini delle società capitalistiche, ceti di ricchi sempre più ricchi e di poveri sempre più poveri. La logica e l'ideologia della competizione internazionale a tutti i costi, che anima ogni impresa e che è penetrata profondamente nella politica e nel comportamento degli Stati, fa oggi in modo che i lavoratori, vale a dire gli uomini, in una forma del tutto nuova rispetto ai tempi di Marx, stiano ormai diventando gli strumenti flessibili delle macchine. Potenziali strumenti per alleviare o liberare il lavoro umano dalla fatica, le nuove tecnologie - divenute le armi di una «guerra economica» mondiale che guarda al profitto come al suo fine supremo - si sono in realtà trasformate nel contrario: esse contendono agli uomini il posto di lavoro e li hanno posti, in tutti i paesi industrializzati, di fronte a un avvenire di perenne e frustrante insicurezza. Ma il concetto di flessibilità è da applicarsi anche alla dislocazione geografica delle imprese. Oggi i vecchi polmoni dello sviluppo industriale basato sull'acciaio e sul carbone, la Liverpool dell'industrializzazione ottocentesca e la Detroit e la Detroit già capitale dell'industria automobilistica mondiale, sono sulla via della smobilitazione, con le loro fabbriche chiuse, e i loro quartieri operai trasformati in sacche di emarginazione. Questo processo di deindustrializzazione appare inarrestabile. Scompaiono le industrie vecchie e spuntano nuovi aggregati produttivi in altre aree, magari assolutamente «vergini », valorizzando nuovi settori merceologici. Oggi, ad esempio, i diversi materiali plastici hanno ampiamente sostituito i metalli; e, sull'onda della rivoluzione informatica, i grandi insediamenti industriali della Silicon Valley, in California, hanno preso il posto anche simbolicamente, oltre che materialmente, degli antichi bacini industriali.
Elettronica, telematica, informatica sono le parole chiave di quella che già alcuni definiscono la <Terza rivoluzione industriale>. Sono parole che alludono al futuro, ma ad un futuro che è già cominciato. E non si può non parlarne, perché il mondo che noi oggi vediamo è già trasformato dalle nuove scienze e tecniche e, sempre più rapidamente, lo sarà nei prossimi anni.
Cambia, innanzitutto, anche la nostra percezione della Terra: satelliti inviati in orbita tra i 200 e i 1000 km d'altezza scrutano ogni aspetto della superficie terrestre (fino al numero di automezzi di una certa località) grazie a strumenti ultrasensibili.
La cartografia se ne serve per elaborare prodotti sempre più perfezionati. Ma i satelliti (con le loro appendici a terra) sono anche in grado di riconoscere ed indicare nuove risorse del sottosuolo e di guidare la coltivazione dei campi con tecniche avveniristiche in zone oggi incolte.
L'informatica modifica i dati del problema dell'educazione, della cultura, quelli stessi dell'analfabetismo.
Elettronica, telematica ed informatica modificano la vita quotidiana della gente, i suoi modi di coltivarsi e di divertirsi, le sue tendenze alla socialità oppure alla solitudine ed all'individualismo.
Ed ancora, esse modificano profondamente le tecniche lavorative, provocano un forte aumento di produttività, ma anche, come ogni grossa innovazione tecnologica, una vasta disoccupazione che dovrà essere assorbita da nuovi settori (e da un generale aumento del tempo libero).
Questo breve elenco di fenomeni, in grado comunque di mutare abbastanza rapidamente alcune caratteristiche del nostro presente, va preso in considerazione.
Negli ultimi anni la cartografia ha compiuto enormi progressi: gli USA sono oggi più avanti di qualsiasi altro paese nella nuova cartografia. Basti pensare che hanno ricavato qualcosa come 15 milioni di immagini di estrema precisione, dove si possono distinguere anche oggetti di grandezza 15-20 metri. La nuova cartografia sta migliorando in modo straordinario le nostre conoscenze per quanto riguarda la meteorologia , lo sfruttamento delle risorse e l'organizzazione delle attività umane.
Alle nuove conoscenze degli spazi cosmici occorre aggiungere la grande quantità di innovazioni tecniche e di scientifiche elaborate in occasione dei viaggi interplanetari, ma dimostratesi utilissime anche nella vita di tutti i giorni.
Anche il sistema delle telecomunicazioni terrestri ha ricevuto, grazie ai satelliti un notevole impulso. A partire dal 1963, speciali satelliti ripetitori consentirono un collegamento televisivo mondiale.
Ricordasi che i nuovi satelliti furono sfruttati anche dalla milizia, per controllare il territorio nemico.
Una rivoluzione ancora più dirompente che quella dei trasporti delle persone e delle merci avvenne nel trasporto di informazioni, voci, immagini, parole. Nel nostro mondo è diventato ancora più facile viaggiare, ed ancora più facile ricevere il resto del mondo restandosene a casa propria. Una rete di cavi sottomarini e di satelliti consente di telefonare direttamente da un capo all'altro del mondo: alla fine del 1986 gli utenti telefonici sono stati abilitati a collegarsi, semplicemente facendo un numero sul loro apparecchio, con l'equipaggio della nave spaziale "Columbia". Le agenzie d'informazioni trasmettono i loro testi con telescriventi, impiegando solo il tempo meccanicamente necessario alla battitura; grazie ad un sistema di cavi, una fotografia viene riprodotta tale e quale a migliaia di chilometri di distanza. La televisione fa della grande maggioranza della popolazione umana un unico grande pubblico. Reti televisive vengono usate per la circolazione stradale, navale o aerea o per i servizi di polizia. Le transazioni commerciali o finanziarie vengono compiute per telescrivente o per telefono. L'associazione tra telefono e computer modifica profondamente la vita quotidiana. Il controllo della rete elettronica delle informazioni è l'obbiettivo più ambito delle grandi società multinazionali, e la posta di una concorrenza che vede misurarsi USA, Europa e Giappone. Tredici paesi sono associati nell'ESA, l'Ente Spaziale Europeo. L'Ente si vale di satelliti messi in orbita di un razzo francese, l'<<Ariane>>, lanciato per la prima volta nel 1979. Entro il 1995 era stata prevista la messa in orbita da parte dei paesi occidentali di 250 satelliti commerciali, oltre che ad alcuni finalizzati allo spionaggio. Ma il primato dello sfruttamento dello spazio è detenuto dall'Unione Sovietica che dispone di un razzo "Energia" capace di portare in orbita un peso molto superiore a quello degli altri modelli.
Inoltre i sovietici hanno battuto gli USA in tempi di progettazione e costruzione, realizzando nel 1986 la prima stazione spaziale orbitante in grado di funzionare come base di lancio per satelliti.
Il controllo delle informazioni è importante per due ragioni: una economica, poiché un'enorme ricchezza sarà investita nei prossimi anni nel settore delle telecomunicazioni; e una politica, poiché la scelta delle notizie e il modo di distribuirle da una grande potere. Per questo, contrasti accesi oppongono stati e compagnie. Sono americane ed europee la maggiori aziende d'informazioni. Le "banche dati", sono anch'esse prerogative dei paesi più ricchi, i quali gestiscono l'informazione a loro piacere, con molto malcontento dei paesi in via di sviluppo.
Telematica si chiama il campo di applicazione della combinazione fra computer, televisione e telefono. Con la telematica ci si potrà collegare (e ci si può collegare) con biblioteche, bar, scuole o altri svariati luoghi standosene a casa propria (un esempio di questo è il film "The Net" con Sandra Bullok). Con la telematica si potrà lavorare in posti distaccati dalla città, come si lavora nella stessa città. Insomma, anche in aperta campagna ci si potrà creare un proprio studio moderno, con la possibilità di vivere lontano dalla megalopoli. Riguardo a questo fatto ci sono due opinioni: i pessimisti che credono in uno spopolamento delle città e in un decentramento della popolazione, rendendo gli uomini ancora più passivi tra di loro. Invece, gli ottimisti credono in una diminuzione della passività data dall'uso di materiale multimediale. I più consistenti pericoli riguardo a questa rivoluzione sono quelli relativi alla discrezione, alla privacy.
Come nel corso della seconda rivoluzione industriale si era verificato un mutamento dei settori economici dominanti, e l'affermarsi della chimica, della siderurgia, del petrolio e dell'energia elettrica aveva mutato radicalmente tutto il sistema produttivo, così la terza rivoluzione industriale ha ridisegnato il sistema produttivo in base allo sviluppo di settori profondamente innovativi: quelli dell'informatica e della telematica. Essi hanno influenzato l'organizzazione del lavoro e stimolato la produttività anche nelle attività economiche più tradizionali. Nel campo della produzione automobilistica l'introduzione dell'informatica ha determinato un rapido progresso dell'automazione, una riorganizzazione delle reti commerciali, e nuove modalità nella gestione delle scorte e delle forniture che è diventata più rapida e snella.
L'automazione Negli anni Settanta il sistema industriale della grande fabbrica, basato sulla meccanizzazione e sulla organizzazione in linea della produzione venne messo in crisi dalla utilizzazione di nuove tecnologie di automazione e informazione che introducono nuovi elementi di flessibilità nei cicli produttivi. L'automazione era stata introdotta in primo luogo nei processi continui, sostituendo il lavoro degli operai con macchine dotate di poca o nulla flessibilità: questo tipo di automazione restava interno alla logica di flussi predeterminati, per esempio in una raffineria o in una cartiera. L'automazione profondamente innovativa si è verificata, invece, con una particolare meccanizzazione, che ha introdotto l'uso di macchine intelligenti, in grado cioè di fronteggiare in modo automatico la complessità e la variabilità delle situazioni. La condizione indispensabile per introdurle é che la complessità sia strutturata in un codice. L'automazione è osservabile nei processi discontinui, per lo più nelle lavorazioni meccaniche per pezzi di grande e piccola serie. Gli esempi più rilevanti sono: le macchine utensili a controllo numerico, i robot, macchine dotate di manualità e mobilità entro raggi d'azione che possono essere fissi o non predeterminati, il CAM, Computer Aided Manufacturing, sistema di più macchine governato da un computer che ne coordina le operazioni e il CAD, Computer Aided Design, la progettazione assistita da computer. Il convergere e lo sviluppo di queste tecnologie porterà negli anni Ottanta alla nuova fabbrica automatizzata.
Negli anni
Ottanta si cominciò a parlare di fabbrica integralmente automatizzata, con il
compattamento di tutto il sistema nel governo centralizzato delle macchine, dei
movimenti interni, degli input e output tra fabbrica e magazzino. Fin dagli
anni Sessanta le aziende si erano impegnate in opere di risanamento ambientale
(insonorizzazioni, ricambi d'aria) e con l'automazione il lavoro divenne meno
gravoso e più flessibile. In alcuni reparti sono state introdotte radicali
innovazioni, come Robogate e Digitron nelle officine di carrozzeria e il Lam
nelle officine di meccanica. Gli stabilimenti Fiat di Termoli e di Cassino sono
esempi di fabbriche ad alta automazione in Italia. Al loro interno si presentò
il problema del dislivello tra le nuove tecnologie ad automazione spinta e
l'assetto organizzativo rimasto ai tempi della tecnologia precedente. La
fabbrica ad alta automazione comportava un'importante evoluzione nel lavoro
operaio, con diminuzione nello sforzo fisico e diffusi miglioramenti ergonomici
e ambientali. Tuttavia la produzione continuava ad obbedire al criterio di
accumulare risorse per fronteggiare gli imprevisti, permaneva un taylorismo
amministrativo con pesante gerarchia e suddivisione spinta delle competenze.
Il Novecento ha accorciato le distanze tra gli uomini grazie al poderoso sviluppo dei mass media: "È come se il mondo si fosse rimpicciolito" ha detto Marshall McLuhan, celebre teorico canadese dei mezzi di comunicazione. "La nuova risorsa strategica, il petrolio del ventesimo secolo, è l'informazione" ha scritto lo studioso americano John Naisbatt. Cinema, radio, telefono, televisione, computer, videoregistratori, cellulari, satelliti, sono tutti parte di un mosaico tecnologico contenuto in meno di cent'anni di ricerche, di scoperte e di sperimentazioni. Un mosaico entrato nelle case di milioni di persone e applicato a oggetti diventati ormai di uso comune. I media hanno conquistato una posizione centrale nella vita sociale dei paesi industrializzati perché si è messo in moto un processo per molti versi analogo a quello registratesi alla fine dell'Ottocento con la seconda rivoluzione industriale: le rapide applicazioni tecnologiche delle scoperte scientifiche e la formazione di nuovi mercati. Enormi cambiamenti si sono registrati nell'ambito della diffusione della stampa e della stessa commercializzazione dei libri. Le prime collane tascabili e a un prezzo decisamente economico furono pubblicate nel 1935, quando in Inghilterra l'editore Alan Lane lanciò i Penguin Books (in Italia i primi tascabili sono invece firmati Rizzoli e sotto il marchio Bur si diffondono dal 1949). Per parlare di comunicazione di massa, bisogna aspettare però la radio e la televisione che hanno il potere di arrivare a milioni di persone nello stesso istante, anche a quelle che non sanno leggere, di parlare il linguaggio compreso dai più, di influenzarne le abitudini e i pensieri. Nel 1933 si sperimenta la Tv, ma soltanto dopo la Seconda guerra mondiale il piccolo schermo autoilluminante supera la fase sperimentale. Nell'arco di sette anni, dal 1947 al 1954 il nuovo mezzo è presente già nella metà delle case degli americani, nel 1960 in Italia (dove la Tv debutta nel 1954) se ne contano poco più di due milioni. Oggi, nei paesi industrializzati la Tv tocca percentuali di presenza record del 90% dei nuclei familiari. Mezzi così potenti e soprattutto così semplici da usare (basta premere un bottone) rivoluzionano le abitudini, uniformano i linguaggi, hanno un ruolo determinante per costruire il consenso politico e per orientare le opinioni della gente. Possono creare una moda o decretarne la fine.
Quale possa essere il ruolo dei mass-media lo comprendono bene i governi che tentano di assicurarsene presto il controllo. Un controllo che in particolari momenti storici è apparso in tutta evidenza. Nell'Europa dei regimi totalitari cinema, radio e giornali furono assoggettati al completo dominio del potere politico. Joseph Goebbels creò nella Germania hitleriana il Ministero della propaganda e dell'illustrazione del popolo diviso scrupolosamente in cinque settori: radio, stampa, cinema, teatro, orientamento generale della propaganda. È un controllo totale per impedire l'arrivo alla popolazione di dottrine o notizie considerate in qualche misura dannose al regime. Un analogo atteggiamento ebbe il socialismo sovietico che un emigrato russo, Serghei Ciacotin, bollava con una definizione diventata poi famosa: "Lo stupro delle folle". In forma diversa il controllo sui mezzi di comunicazione fu esercitato comunque da tutti i paesi belligeranti: dagli Stati Uniti all'Inghilterra, dalla Francia all'Italia. Nel 1930 l'Eiar, l'ente radiofonico nazionale, riceve l'ordine di piazzare impianti di trasmissione a tutte le grandi adunate del regime fascista. Nasce il MinCuIPop, il Ministero della Cultura Popolare, che non solo ha il compito di censurare, ma anche di dettare norme di comportamento e di scrittura ai vari mezzi di informazione. A questi ultimi vengono recapitati ordini ("veline") del tipo: "Non pubblicare corrispondenze sui nostri bombardamenti in Africa orientale" (7 dicembre 1935), oppure "Ignorare ciò che si riferisce all'inchiesta sull'uccisione dei fratelli Rosselli" (15 gennaio 1938). Ancora: "Notare come il Duce non fosse affatto stanco dopo quattro ore di trebbiatura" (4 luglio 1938).
La forza delle immagini che irrompe a metà del secolo segna una svolta epocale, un ulteriore balzo in avanti della società della comunicazione. Scrive Carlo Sartori in un saggio dal titolo Dalla selce al silicio: "Con la sua sola presenza, indipendentemente dai contenuti veicolati - siano essi un discorso di Fidel Castro o una puntata di 'Dallas' - la televisione modifica l'uomo, la sua struttura mentale, la sua realtà e il modo in cui egli può e vuole conoscerla".
La televisione manda messaggi a tutti coloro che la guardano, compresi gli analfabeti. Entra nelle case di milioni di persone, dagli anni '70 gli schermi diventano a colori e nel 1974 e nel 1976 due sentenze della Corte costituzionale introducono in Italia le emittenti private, le televisioni commerciali finanziate esclusivamente dalla pubblicità (già attive in altri paesi). Per effetto di quella sentenza nascono centinaia di emittenti locali private e alcune reti nazionali si sono concentrate nelle mani dell'imprenditore milanese Silvio Berlusconi, diventato leader del movimento di Forza Italia (da lui stesso promosso) e nel 1994 presidente del Consiglio. In America intanto si diffondono le Tv via cavo, le pay-Tv, cioè le televisioni a pagamento che negli anni Novanta sbarcano anche in Italia. Le reti via cavo possono offrire all'utente varie forme di accesso ai programmi: negli Stati Uniti, per esempio, gli abbonati pagano un canone mensile che da loro diritto a un servizio di base (il cosiddetto Basic service) a cui si possono aggiungere una serie di optional, servizi educativi, religiosi, artistici nonché l'accesso a canali locali.
Sul potere persuasivo della televisione sono stati scritti centinaia di saggi e di ricerche: negli anni '90 sette americani su dieci, secondo una stima della Roper Organization, attingono dal video elementi coi quali formare i propri giudizi.
"Siamo arrivati a una situazione pericolosa - ha osservalo Bill Moyers, giornalista televisivo della Cbs - in cui si è rafforzata la convinzione che la telecamera non menta mai e che basti l'immagine a rappresentare pienamente la realtà. Per milioni e milioni di americani la democrazia rappresentativa oggi non è niente di più che la rappresentazione televisiva della democrazia". Per le forze politiche attuali vale dunque la regola dei prodotti di largo consumo: la loro immagine replicata all'infinito sul piccolo schermo è indispensabile al loro successo. Anche se, per la verità, sostiene Clem Whilaker, esperta pubblicitaria californiana "la vendita di un candidato è più difficile di quella di un'automobile perché l'auto è muta e il candidato invece è capacissimo di rovinarsi con i propri discorsi".
La televisione comunque oggi sta rapidamente cambiando. Videoregistratori, satelliti per la ricezione diretta dei programmi tramite antenna parabolica stanno trasformando l'apparecchio televisivo in un terminale capace di dialogare (interattivo) nell'ambito di un sistema di collegamenti.
Nicholas Negroponte, del Massachusetts Institute of Technology, ha scritto che alla fine del secolo è ormai tramontata l'era della comunicazione di massa per far spazio a una comunicazione sempre più mirata sui bisogni e sulle caratteristiche dell'individuo. "La differenza tra lo schermo di un televisore e lo schermo di un personal computer sta diventando una mera questione di dimensioni e quelli che un tempo erano i mass media stanno trasformandosi a poco a poco in mezzi di comunicazione personalizzati. L'informazione non sarà più spacciata a potenziali consumatori, ma saranno gli utenti stessi a crearsi la specifica informazione di cui hanno bisogno".
Siamo di fronte a una nuova svolta tecnologica con la possibilità di trasformare qual-siasi tipo di segno o di messaggio, visivo, acustico o scritto, in un unico codice numerico (digitalizzazione). E nell'era digitale tutti i tipi di messaggio diventano informazione e si misurano in un'unica unità di misura, il bit.
I calcolatori e poi i personal computer entrano nelle aziende, velocizzano l'archiviazione dei dati, la loro analisi, razionalizzano i vecchi sistemi contabili. Ma la vera rivoluzione dell'era digitale esplode con le interconnessioni delle reti e con Internet. Dentro la rete c'è il mondo virtuale. Ci sono musei, università, negozi, ospedali, mappe di città, c'è la possibilità di consultare i libri delle biblioteche, di leggere le news dei quotidiani on line, non soltanto italiani, ma anche americani, inglesi, francesi, canadesi e via dicendo, di utilizzare i videogiochi, infine, i cui personaggi con le loro spericolate avventure compongono il nuovo immaginario giovanile. C'è la possibilità di fare shopping senza muoversi da casa, di ordinare una pizza cliccando con il mouse sullo schermo del computer e inviando il messaggio in rete. "Vivremo sempre più sospesi fra realtà e simulazione", prevede lo scrittore di fantascienza e teorico del cyberspazio William Gibson. Attraverso Internet si possono prenotare treni e aerei, alberghi e viaggi, si può comprare un motorino pagando con la carta di credito, oppure conoscere l'andamento della borsa in tempo reale. Sono innumerevoli le strade dentro la "rete delle reti" e ogni strada ha un numero civico, un sito da visitare. Ne esistono milioni: fondazioni scientifiche, industrie, associazioni benefiche, enti di ricerca, amministrazioni comunali, provinciali, regionali, ministeri. Oggi c'è anche chi cerca lavoro lasciando messaggi sulle bacheche virtuali. Attraverso Interne! poi si possono mandare messaggi di posta elettronica (e-mail). La "grande ragnatela" ha dato un'anima ai terminali. Ira avviato l'era dell'interattività. Non è più solo e muto l'utente del computer: navigando in rete può interloquire con altri cybernauti, può discutere in tempo reale sui terni più svariati confrontandosi con le persone collegate. L'interconnessione fra i computer renderà possibile tra breve il telelavoro, ovverosia il lavoro fatto da casa, senza spostarsi. Qualcuno dirà che è alienante, qualcun altro lo sceglierà per non essere più costretto ad immergersi ogni mattina nel traffico (e nello smog) delle ore di punta per arrivare in orario in ufficio. Sull'argomento ci sono diverse scuole di pensiero: da un lato chi sostiene che la rivoluzione informatica dischiuda una totale libertà di comunicazione e informazione, dall'altro chi sottolinea che le nuove tecnologie rischiano di impigliarci in un'ambigua rete e di asservirci alla macchina. Alcuni enfatizzano un lavoro liberato dai vincoli spaziotemporali, l'opportunità di scegliere spettacoli, divertimenti, informazioni da casa, semplicemente premendo un tasto, dall'altro c'è chi è convinto che l'eccesso di informazione costituisce una falsa libertà, che il telelavoro rischia di isolarci sempre più, di incatenarci davanti a uno schermo che diventa la nostra unica finestra sul mondo.
La rete delle reti è un universo affascinante che ha senza dubbio contribuito alla diffusione dei computer: negli Stati Uniti sr stima che 38 milioni di persone siano collegale a Internet. Ma il suo non è ancora un accesso semplice e alla portata di tutti, come la radio o la televisione. E poi, la rete come spesso accade per i computer usa principalmente la lingua inglese per dialogare e questo è un ulteriore elemento di selezione dei suoi naviganti. Certo è difficile oggi immaginare quali sviluppi potrà avere Internet, enorme campo anarchico dove teoricamente tutti possono navigare. "Teoricamente" perché in verità non è così: il "villaggio globale" di McLuhan non è diventato mai una realtà planetaria. C'è una fetta di mondo, quello dei paesi non industrializzati che resta esclusa da questa nuova alfabetizzazione e qualcuno ha parlato di "diseredati della comunicazione".
"Mi preoccupano l'accesso e i valori nella società dei network," sostiene Karamjit Gill, indiano, docente a Brighton e editore della rivista 'Artificial Intelligente & Society'. "Non tutti hanno la possibilità economica, tecnica e culturale di collegarsi a una rete e di diventare mèmbri della comunità emergente".
Quello degli esclusi dal "villaggio globale" è uno dei grandi nodi che il Novecento regala in eredità al secolo successivo. Perché, se è vero che la circolazione sulle autostrade tele-matiche è libera, è altrettanto vero che per entrare in corsia bisogna pagare un pedaggio al casello. Si pone quindi il problema della scelta del casellante, delle sue tariffe, delle sue regole di comportamento.
I nuovi media tendono a interagire fra loro, ad integrare le informazioni e i linguaggi senza però mai sovrapporsi. Non c'è uno strumento che soppianta l'altro: nessuno per esempio pensa che la possibilità di leggere un libro al computer possa decretare la fine del libro, così come attingere informazioni ori line non comporterà automaticamente la fine della carta stampata. Di certo l'era multimediale ha aperto una nuova frontiera i cui contorni non sono ancora nitidi. Derrick De Kerkove, massmediologo canadese, erede di McLuhan evidenzia come i nuovi media per via della loro rapidità "abituino la mente umana a ricevere un flusso di informazioni centuplicato come quantità e come velocità. Insegna a porre domande nuove, a ricevere risposte più accurate. Insomma - conclude De Kerkhove - un certo contributo a! risveglio dell'intelligenza può darlo, basta saperlo canalizzare". Resta comunque un dubbio: in mezzo a tutte queste innovazioni telemati-che, fuori e dentro realtà e mondi virtuali, l'uomo riesce a dominare le macchine? E nella società della comunicazione chi sceglie le notizie e la realtà da rappresentare? "Le scelte che trasformeranno gli eventi in notizie - scrive il giornalista Claudio Fracassi in un pamphlet dal titolo Sotto la notizia niente -per quanto oneste, sono più o meno rigidamente legate alla struttura dei poteri, ai dislivelli economici, alla facilità o alla difficoltà
delle comunicazioni, agli interessi, agli stereotipi culturali".
E fa pensare il fatto che Internet è nata nel 1969 da studi di un gruppo di ricercatori americani per conto del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti.
Fu un processo all'inizio impercettibile, ma inesorabile. Incominciarono qua e là, a mutare singoli punti sulle linee: un robot di saldatura, un automatismo di verniciatura... Un calcolatore di processo a gestire un magazzino... Automazione, si disse: se ne parlava dagli anni cinquanta (scambiandola in realtà con la meccanizzazione), e non aveva mutato nulla. Invece mutò tutto: dalla meccanica il "principio tecnico" della nuova fabbrica si trasferì all'elettronica [...]. Dall'esterno nulla sembrava mutato: lo stesso involucro grigio, in prefabbricati di cemento espanso, continuava a contenere la sfera produttiva, gli stessi muri infiniti dei reparti, lo stesso rumore sordo di macchine a regime. Ma dentro la metamorfosi era radicale: a poco a poco le cose si andarono ritraendo dagli uomini, il ciclo lavorativo si fece sempre più distante, intangibile dall'azione operaia, non più condizionabile dal proprio posto di lavoro. Le linee, lunghissime, interminabili, si spezzarono in una pluralità di segmenti, sincronizzati non più da rigidi convogliatori a nastro, ma serviti da agili e soprattutto mobili carrelli telecomandati da calcolatori di processo. Sembrava una rivoluzione tecnologica. Era invece una palingenesi organizzativa. Era la struttura di fabbrica che mutava il proprio statuto- da visibile (nella morfologia stessa del sistema di macchine) a invisibile, celato nel segreto del software di gestione. Da lineare a sistemica, indipendente da ogni suo singolo lavoratore, da ogni singola stazione di montaggio non più disposta rispetto alle altre in successione unilineare rigida, ma articolata in "sistema", l'una in grado di rilevare la produzione dell'altra, di aggirare i "colli di bottiglia", di nullificare l'azione soggettiva di piccoli gruppi. E da personale, il comando si fece d'un colpo astratto, impersonale, oggettivo: non più incarnato nella figura dispotica del capo, del cronometrista, dell'operatore che ti "impone" il ritmo, ti "taglia" il tempo, ma latente nella stessa logica di funzionamento, nel flusso dei pezzi che automaticamente affluiscono alla postazione di lavoro, nei valori digitali che compaiono sul monitor, nell'onniscienza del sistema informatico che dispone silenziosamente e invisibilmente. Anche gli uomini si fecero via via più radi nei reparti. Sempre più distanti l'uno dall'altro, più separati da barriere crescenti di macchine. O semplicemente da spazi vuoti. Da aree "desertificate", come recitano i manuali tecnici del tempo. Non scompariva il lavoro manuale. E neppure si faceva necessariamente più leggero, meno devastante fisicamente. Ma si rarefaceva. Perdeva il carattere compatto di massa che aveva assunto nei decenni precedenti. Si perdeva tra l'impassibilità degli impianti. Anche l'uscita di un turno non offriva più l'immagine torrentizia di prima: sporadici gruppi, individui sparsi, uscivano da vecchie strutture ancora segnate dal gigantismo delle origini, a denunciare an-cor più la sproporzione di dimensioni, la piccolezza degli uomini... La grande fabbrica, prima compattamente produttiva, si faceva di colpo "porosa", attraversata da zone morte, da settori d'improvviso decaduti, e avvizziti.
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