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CIBERSPAZIO

comunicazione



CiBERSPAZIO


Diciamo subito che il termine in se stesso è tecnicamente privo di importanza. Vengono usate in sua vece molte altre espressioni che vanno considerate come altrettanti sinonimi: cyberia, spazio virtuale, mondi virtuali, dataspace, regno digitale, mondo elettronico, sfera dell'informazione. facile analizzarne il contenuto etimologico: kyber è la parola greca che significa 'pilota', 141h77b da cui 'cibernetica', che significa propriamente l'arte di governare un'imbarcazione e quindi la scienza dei meccanismi di controllo. La parola cyberspace fu coniata dal romanziere di fantascienza W. Gibson nel 1984, il quale dichiarò di averla usata per suggerire quel punto in cui i media confluiscono insieme e ci circondano. è l'estensione finale dell'isolamento dalla vita quotidiana. Col ciberspazio ci si può letteralmente avvolgere nel media, senza dover più preoccuparsi di vedere cosa sta accadendo intorno a noi. Si trattava di una versione romanzesca del concetto originale di Ivan Sutherland: il 'display definitivo', una forma di presentazione contemporanea dell'informazione a tutti i sensi, in una specie di immersione totale. L'idea di Sutherland era quella di 'uno specchio rivolto verso un Paese delle meraviglie matematico'. Ma Gibson l'aveva estesa fino ad abbracciare l'intero universo dell'informazionedefinendola, più o meno ricordando qui le sue parole una rappresentazione grafica dei informazioni estratte dalle banche dati di tutti i computer esistenti nel sistema umano. Una complessità inimmaginabile.



Poiché i viaggi di andata e ritorno in giornata per la Luna si erano dimostrati impossibili, l'attenzione si rivolgeva ora al mistero delle spedizioni nel regno digitale. Mentre il drammaturgo e il cineasta cercano di comunicare l'idea di un'esperienza, lo spacemaker cerca di comunicare l'esperienza medesima. Egli prepara e presenta al pubblico un mondo, all'interno del quale il pubblico possa agire direttamente. L'elettricità - scriveva Marshall McLuhan nel 1964 - ha ridotto il globo a poco più di un villaggio. Dopo essere esploso per tremila anni con mezzi tecnologici frammentati e puramente meccanici, il mondo occidentale è ormai entrato in una fase di implosione. Nelle ere della meccanica, avevamo operato un'estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo oltre un secolo d'impiego tecnologico dell'elettricità, abbiamo esteso il nostro stesso sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. Una realtà virtuale intesa come una fuga dal reale verso il virtuale può essere interpretata come una fuga ascendente, liberatoria verso l'assoluto. Soprattutto se questo viene teorizzato come qualcosa che accade tramite una 'decorporalizzata sensorialità umana' (disembodied human sensoria), ossia tramite una sensorialità che le tecnologie digitali avanzate hanno reso autonoma rispetto al corpo. Si tratta poi di vedere se questo tipo di scongiungimento mente-corpo, o spirito-corpo sia attuabile (vedi capitolo 'cyborg e corpo disseminato'). Tutto questo ricorda l'estasi plotiniana, la fuga dal sensibile verso l'intelligibile e sposta spesso il dibattito in una dimensione mistica. Per i cyberspaceians, come per i mistici, il corpo decorporalizzato rimane un problema, anche perché, volenti o nolenti, nello spazio che loro chiamano postcorporale, il corpo, seppur illusorio, continua a esistere e ad agire come un corpo reale. Si tratta in sostanza di sapere se la produzione computazionale di immagini ad altissima fedeltà, ossia le pratiche e i prodotti dell'attività eidomatica, siano veramente in grado di arricchire la nostra esperienza, anzi di fornirci più esperienza di quella che noi avremmo potuto raccogliere, senza la mediazione dell'immaginale, in un rapporto 'empirico' con la realtà. La questione sollevata concerne ciò che è stato chiamato il 'valore conoscitivo dell'immaginale' (Anceschi). una questione riguardante tutto l'universo delle immagini illusorie. Da un lato le realtà virtuali ci allontanano dall'esperienza, dall'altro esse cadono all'interno e non fuori dei confini dell'esperienza. È vero, i due assunti non collimano tra loro, ma la contraddizione è nello stesso oggetto esaminato, si tratta di un'ambivalenza.



Fra il 1990 e il 1991, in America, in Giappone e in Inghilterra stavano già spuntando qua e là luoghi molto simili a teatri in ciberspazio. La dimostrazione offerta dall'Autodesk era invece chiamata 'Cyberspace', termine per l'appunto preso a prestito dal libro di William Gibson, 'Neuromancer': "Ma ciò che avevo vissuto si limitava a una serie di grossolane immagini colorate con colori primari. Non avevo provato nessuna delle sensazioni di liberazione, o anche di disorientamento, che mi erano state promesse: solo un senso di frustrazione per l'inadeguata reattività dell'attrezzatura."







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