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EUTANASIA - Cos'è la bioetica

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EUTANASIA

Cos'è la bioetica

La bioetica è una disciplina che esamina i problemi morali e normativi in ambito bio-medico. Possiamo definirla una nuova disciplina, che nasce come campo di riflessione e di ricerca sui dilemmi morali sollevati dalla innovazione tecnologica in biologia e in medicina. La bioetica esprime il bisogno di affrontare i quesiti posti dalla ricerca biologica e medica e delle sue applicazioni per definirne percorsi e confini. Essa riflette l'esigenza di pensare gli stessi scopi della scienza medica che è arrivata a decifrare i processi biologici della nascita e della morte, che ha superato i confini della vita stessa: pù creare la vita in provetta e, posporre oltre i limiti naturali, la morte con la terapia intensiva. La bioetica esprime anche il bisogno di affrontare i quesiti posti dalle frontiere aperte dalla biologia molecolare e le perplessità sollevate dai progressi dell'ingegneria genetica che consente di intervenire sul patrimonio genetico (di uomini, piante e animali) per correggerlo e manipolarlo.



A partire dagli anni settanta i temi dibattuti spaziano, dall'ingegneria genetica alla tutela dell'ambiente, ma il nucleo centrale è rappresentato dai problemi legati all'etica medica, con le questioni di inizio e fine vita, come l'aborto, i trapianti d'organo, fecondazione artificiale e l'eutanasia.

Il termine "bioetica" nacque negli Stati Uniti ad opera dell'oncologo Van Rensselaer Potter, negli anni '70, seguito da grandi cambiamenti della medicina e della ricerca biologica, che cominciano ad influenzare sempre più la vita quotidiana delle persone. (Eugenio Lecaldano).

Potter affermava che la bioetica doveva essere "una nuova disciplina che combinasse la conoscenza biologica con la conoscenza del sistema dei valori umani". Egli rivendicava il pericolo per la sopravvivenza del nostro ecosistema, nella divisione tra due saperi, quello umanistico e quello scientifico, cioè la distinzione tra i valori etici (ethical value) e fatti biologici (biological facts). Riteneva che solo l'istinto alla sopravvivenza non bastasse, occorreva una nuova scienza, la bioetica, chiamata "scienza della sopravvivenza" (science of survival). Questa sopravvivenza, era garantita dall'unione di questi due saperi, scientifico e umanistico-morale. Inoltre, affermava che la bioetica non doveva occuparsi solo dell'uomo ma anche della sua vita in generale; una bioetica che chiamerà "global bioethics".

In quegli stessi anni è molto importante ricordare un famoso ostetrico di origine olandese, André Hellegers, fondatore del Kennedy Institute of Ethics. Fu il primo ad introdurre il termine bioetica nel mondo universitario. Hellegers considera la bioetica come una disciplina specifica capace di sintetizzare le conoscenze mediche e quelle etiche.

C'è da ricordare, che già qualche anno prima di Potter e Hellegers, nel 1969, era sorto l'Hastings Center, ad opera del filosofo cattolico Daniel Callahan e dello psichiatra Willard Gaylin, che studiavano e formulavano norme nel campo della ricerca e della sperimentazione in ambito biomedico, senza che venisse utilizzato ancora il termine bioetica. Il centro era un istituto di ricerca senza scopo di lucro. Diversi gli scopi specifici della sua attività: tentare di risolvere i problemi etici della medicina; elaborare direttive per molti difficili problemi morali della società contemporanea quali, l'AIDS, la sospensione delle terapie di sostegno vitale ecc. (E. Sgreccia).

Essa si propone, al di là di qualsiasi ideologia e religione, di affrontare e fornire una soluzione alle questioni etiche emerse con le nuove conquiste in campo biomedico. The Hastings Center si contraddistingue per il forte proposito politico-pedagogico. Alla fine degli anni '60 il passaggio di A. Hellegers alla Georgetown University e la presenza di P. Ramsey nella stessa sede con il compito di fare ricerca sull'etica medica, sfociano nella fondazione, nel 1971, del The Kennedy Institute of Ethics presso la Georgetown University di Washington. L'istituto si propone di promuovere una concezione di bioetica, inteso come "antropologia morale" fondata sulla ricerca di ciò che è universalmente umano, e concretizza la ricerca della Encyclopedia of Bioethics, pubblicata nel 1978: il più completo e autorevole strumento per chi si occupi di temi bioetici. Da allora questa "disciplina" nuova è stata introdotta nelle università. Nel 1985 è stata istituita in Italia la prima cattedra di bioetica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia della Università Cattolica di Roma. Nel 1993 il direttore generale dell'UNESCO ha istituito il CIB, Comitato internazionale di Bioetica, per studiare e valutare le prospettive e le immense potenzialità degli studi biomedici ed, in particolare, il progetto Genoma Umano. Anche in Italia nel 1990 è sorto, il Comitato Nazionale di Bioetica che sino ad oggi ha analizzato svariate tematiche etiche di scottante attualità. L'autorevole Encyclopedia of Bioethics, New York 1978, di cui ora disponibile una seconda edizione 1995, definisce la bioetica come "lo studio sistematico della condotta umana nell'ambito della scienza della vita e della cura della salute, in quanto questa condotta è esaminata alla luce dei valori morali e dei principi". La bioetica si pù concepire allora come "quella parte della filosofia morale che ha per oggetto e ambito l'intervento dell'uomo sull'uomo in campo biomedico". Si tratta quindi di un'elaborazione razionale che riguarda l'aspetto etico (il lecito e il non-lecito) nel vasto e importantissimo campo delle scienze mediche.

Il punto centrale è costituito da questioni etiche nate dai profondi mutamenti che la medicina e la biologia hanno provocato su ciò che concerne il nascere, curarsi e morire. Essa è identificata come un "laboratorio culturale" in cui le riflessioni sulle questioni morali si svolgono in modi pubblicamente comprensibili a tutti. In tale riferimento Ugo Scarpelli dice: "la bioetica non pù essere caratterizzata quale disciplina autonoma né con riguardo all'oggetto né con riguardo al metodo. Per l'oggetto, non c'è atto relativo alla macchina (il corpo) che non investa lo spettro nella macchina (lo spirito): la stessa contrapposizione fra la macchina e lo spettro è fallace e va abbandonata. Per il metodo la bioetica essendo parte dell'etica ne condivide il metodo o la mancanza di metodo".

Molti si sono interessati di tale disciplina, ad esempio Giovanni Berlinguer, che la considera come un Bridge to the Past. Sin dagli anni settanta il campo bioetico è stato occupato dalle scoperte biologiche, fra cui la conoscenza del DNA, la possibilità di modificare e costruire specie viventi, la medicina predittiva, la procreazione assistita, la terapia genetica, le tecniche dei trapianti ecc. L'uomo è diventato una forza genetica che influenza la natura stessa, trasformandola in modo irreversibile. La stessa specie umana, nata per evoluzione naturale e cresciuta per evoluzione culturale, si avvia ad una terza fase, di mutamenti per via tecnologica. Il concetto di responsabilità, cioè il dovere di rispondere, sia nel bene che nel male, delle proprie azioni, entra a far parte delle categorie morali (H. Jonas).

Non vi è una sola bioetica, ma molte. La bioetica di frontiera, per i temi dell'etica medica; bioetica quotidiana, cioè la morale che guida nelle scelte di ogni giorno. La bioetica attrae a sé molti specialisti: delle scienze naturali, della medicina, del diritto, della filosofia, dell'antropologia, della teologia, della psicologia e da vita alla figura del bioeticista, teorico o consigliere, che lavora negli Ospedali o centri di ricerca. (G. Berlinguer)

Matilde Callari Galli afferma che bioetica significa etica della v 636i84g ita ed implica la necessità che molte discipline siano chiamate ad interessarsi dei problemi che essa pone; problemi che investono livelli teorici, metodologici, epistemologici, interazioni e relazioni quotidiane, comportamenti e atteggiamenti, modelli culturali ed educativi. Proprio tra questi problemi che si innesta l'antropologia culturale.

Attraverso l'insegnamento di Emil Durkeim, M. Callari Galli, vuole usare la chiave antropologica per analizzare i diversi fenomeni, come la trasmissione culturale, il rapporto tra uomo e ambiente, la convivenza tra gruppi diversi, in seguito allo sviluppo delle nuove tecnologie della vita. Sono due, in particolare, gli aspetti su cui la riflessione antropologica apporta il suo contributo: il rapporto tra tecnologia e cultura e il rapporto tra differenza e alterità. (M. Callari Galli)

Giovanni Berlinguer ci parla anche di bioetica giustificativa, cioè la tendenza a ritenere che tutto ciò che è tecnicamente possibile, pù essere legittimo. Si mostra contrario alla fecondazione artificiale e alla compravendita degli organi da usare per fini di trapianto. La bioetica si occupa di argomenti nei quali è difficile evitare una qualche sorta di aspetto trascendentale: la vita, la nascita, la morte, la sofferenza, l'umana solidarietà ecc. W. T. Reich ritiene: "che è arrivato il momento per l'inserimento di più idee religiose e spirituali nella bioetica, specialmente quando essa pù essere sviluppata in un quadro che ha senso per persone impegnate in discipline laiche". Reich ci dice che c'è bisogno di religione, perché c'è bisogno di una morale trascendentale, in quanto il pensiero laico trascura la riflessione sui fondamenti della vita.

In questi ultimi decenni, se da una parte la medicina non è più solo assistenza, ma è anche un modo per intervenire sulla vita, dall'altra la ricerca e la sperimentazione biomedica, la nuova genetica e le biotecnologie, giunte ormai alle soglie del mistero della vita, consentono all'uomo di prendere in mano il proprio destino.

Tutto questo rappresenta una svolta epocale, impensabile solo pochi anni fa, che pone l'umanità di fronte al difficile problema di decidere quali, tra le pratiche oggi "tecnicamente" possibili, siano anche "eticamente" lecite. Questo è appunto il compito della bioetica.
"Decidere quali, tra le pratiche oggi tecnicamente possibili...". Ciò significa che per comprendere di cosa si sta parlando è di fondamentale importanza, innanzitutto, avere per lo meno un' idea di ciò che oggi è effettivamente possibile. Rendersi conto di ciò che costituisce materia di indagine e riflessione per la bioetica è qualcosa che richiede una conoscenza degli eventi più significativi in ambito scientifico e tecnologico, delle tappe che hanno condotto l'umanità agli attuali traguardi.

La bioetica, del resto, è chiamata a dare risposta non tanto a questioni meramente "astratte" o accademiche, ma a problemi dai risvolti assai concreti, spesso drammaticamente concreti. Come ha giustamente fatto notare H. T. Engelhardt, "la bioetica nasce spontaneamente dalle preoccupazioni di pazienti, medici e infermieri" (Opera cit.).

Ma tale "concretezza" ci mette subito di fronte ad una caratteristica intrinseca della bioetica: il suo essere sostanzialmente non una disciplina in senso stretto, bensì un approccio interdisciplinare. Infatti ognuna delle questioni sulle quali la bioetica si esercita presenta aspetti di grande rilevanza per discipline quali la medicina, la biologia, il diritto, la teologia, la filosofia, la psicologia, la sociologia, l'economia, l'ecologia, ecc. Occorre dunque che la bioetica si sviluppi attraverso un continuo confronto tra studiosi e operatori di matrice diversa, disposti a scambiarsi informazioni, interrogativi ed esperienze, oltre che a superare le inevitabili incomprensioni che scaturiscono da approcci e prospettive teoriche spesso assai distanti.

Un'altra caratteristica intrinseca della bioetica, non meno importante della precedente, è il suo essere "campo e occasione di un dibattito pubblico, che esplicitamente si propone di sottrarre alla esclusiva gestione degli esperti temi che sono di interesse comune" (A. Di Meo, C. Mancina).

Tuttavia, se sul carattere interdisciplinare della bioetica, tutti gli studiosi sembrano concordi, sulla sua dimensione "pubblica" le idee sono dissonanti. Anzi, le divergenze in materia sono forse più profonde di quanto non lo siano quelle "classiche" tra etiche di derivazione teologico-religiosa, basate su verità rivelate e su dogmi, ed etiche laiche, che assumono valori più materiali quali principi-guida. Una buona parte degli studiosi, ad esempio, tende a limitare la propria indagine alle applicazioni della ricerca, evitando di porre il problema di tutto ciò che "sta a monte", e in particolare di quale concezione della scienza si debba ritenere preferibile, mettendo se necessario in discussione il modello imperante. La questione, invece, è della massima importanza, dal momento che se la scienza è comunque e sempre fuori discussione, se cioè si segue il vecchio adagio secondo cui "la scienza non è né buona né cattiva e il problema è costituito esclusivamente dall'uso che se ne fa", è inevitabile che la bioetica veda restringersi sensibilmente il proprio territorio e si precluda, di fatto, la possibilità di intervenire e di incidere in profondità. Ai non-specialisti, all'opinione pubblica, in tal caso, non resta che prendere atto che il dibattito è tutt'altro che "aperto" e "pubblico", che la possibilità di intervenire in esso è limitata alla fase in cui "i giochi sono già fatti" e la discussione, per quanto animata, rischia di assomigliare ad una semplice esercitazione accademica.  Spostando non di molto l'angolo visuale, si pù inoltre facilmente scorgere un altro importantissimo nodo della bioetica: il rapporto tra quest'ultima e la filosofia. Rapporto che si alimenta sia della riabilitazione della filosofia pratica in atto in questi anni nell'ambito della cultura tedesca (ma non solo), con particolare riferimento all'etica aristotelica e a quella di Kant, sia degli sviluppi della riflessione filosofica sull'etica in ambito anglosassone, che a partire dai primi anni settanta si è cimentata soprattutto nella costruzione di precise teorie normative (E. Lecaldano).I temi che in tal modo si sono imposti all'attenzione sono quelli della responsabilità ("di chi" e "verso chi"), del rapporto etica-scienza, etica-diritto, etica-religione, e infine quello che ben si compendia nel titolo di un saggio di Stephen Toulmin.
Domandarsi quale sia il posto della ragione nell'etica rappresenta certamente il più filosofico tra i temi del dibattito sulla bioetica. Ma è ancora più importante sottolineare che tale questione diventa decisiva nel momento in cui si fa sempre più strada la convinzione che, in una società pluralista, una civile convivenza tra posizioni, storie, religioni e culture diverse e talvolta lontanissime non pù che "cercare un superamento del disaccordo mediante il ricorso ad argomentazioni razionali", perché "il campo della morale è proprio quello in cui i disaccordi relativi a decisioni e scelte, ben lungi dal presentarsi come irrisolti, vengono resi pubblici nel tentativo di risolverli, non tanto con il ricorso alla forza o con un appello ad autorità o a intuizioni o emozioni personali, quanto con procedure razionali condivise da tutti". (E. Lecaldano)

H. T. Engelhardt ha espresso tutto ciò con questa magistrale osservazione: "La bioetica si sta sviluppando come la lingua franca di un mondo che si interessa nell'assistenza sanitaria ma non possiede una concezione etica comune".
"Forse nessun altro campo dell'etica applicata - scrive Antonio Autiero - manifesta tanta intolleranza alla polarizzazione come la bioetica". (C. Viafora). Ecco perché, "usciti dalla ubriacatura della ragione lineare dell'illuminismo e desiderosi di punti di riferimento ispirativi del vivere e normativi dell'agire", abbiamo bisogno di "una ragione trasversale che - lo aveva intuito Wittgenstein nella prefazione delle sue "Philosophiche Untersuchungen" - ha per caratteristica fondamentale quella di abbracciare il destino di una radicale pluralità in cui va a dissolversi la presunta totalità unificante, che era il sogno e l'impresa della modernità". Un'autentica sfida filosofica, questa, che sarebbe però un errore considerare alla stregua di una disputa tra filosofi. Infatti è probabilmente su di essa che si gioca il futuro stesso della bioetica. Un risvolto sociologico della questione - che ci riporta alla dimensione pubblica della bioetica, cui si è accennato in precedenza - è colto da Edgar Morin, per il quale una "folle" ragione, consumata la dissociazione dall'umanesimo è divenuta "il grande mito unificatore del sapere, dell'etica e della politica", rappresenta ormai "una delle fonti del totalitarismo moderno" (F. Terragni).

è inevitabile, a questo punto, aprire un immenso contenzioso nel quale vengono evocati scenari economici e politici di dimensione planetaria. Del panorama fanno parte a pieno titolo le biotecnologie, la brevettabilità, le clonazioni, le tecniche di fecondazione artificiale in vitro, le esigenze della globalizzazione dei mercati, la realtà dei rapporti tra il Nord e il Sud del mondo, il modello di società che si sta preparando. A ciascuno di noi, scienziati o semplici cittadini, studenti o uomini delle istituzioni, compete una precisa assunzione di responsabilità. Tutti hanno il diritto di essere informati, formati e interpellati sulle ricadute dei progressi scientifici e tecnologici, dal rischio biologico alle conseguenze per gli ecosistemi. Il che presuppone che vi sia chi si faccia carico, istituzionalmente o spontaneisticamente, di svolgere questo non facile compito. Ma nel contempo si richiede una rinuncia all'ignavia, un abito mentale che non è sempre e soltanto la conseguenza di una mancata o scarsa informazione/formazione.

La posta in gioco è, inutile dirlo, il futuro di ciascuno di noi. Ed ecco, qualora occorresse sottolinearlo, un ottimo motivo per portare la bioetica nella scuola. La bioetica però, si occupa anche di assistenza sanitaria e quindi del malato, della sua malattia, dei suoi diritti e dei suoi doveri, e del rapporto tra medico e paziente.

Rapporto medico-paziente

Originariamente il rapporto tra medico e paziente, tradizionalmente configurato dal medico di Ippocrate, si basava su un ordine preciso: il dovere del medico è fare il bene del paziente e il dovere di questi è di accettarlo.

Per ben 24 secoli l'atteggiamento paternalistico dominerà il rapporto tra medico e paziente, nella consapevolezza del medico ippocratrico di essere l'interprete unico e autorizzato della malattia e della salute. (M. D. Grmek)

Nell'antichità per il medico la prognosi, come per l'indovino, riguardava allo stesso tempo passato, presente e futuro. La prognosi era vista come una profezia, con la differenza la conoscenza si basava sui sintomi manifestati dal malato e non dai segni inviati dagli dei.

Si diveniva medico per l'acquisizione di un sapere tecnico di discendenza familiare o per la frequenza delle scuole riconosciute. Il medico ippocratico avverte il grande compito di ristabilire l'ordine della natura turbato dalla patologia, ed in tale visione il malato non può non confidare in lui.

Nella concezione etica naturalistica, il medico è visto come un sacerdote perché opera da mediatore con la divinità, avendo potere sulla vita e sulla morte. La certezza che il medico agisse per il bene del malato si è perpetuata nei secoli, moralmente e giuridicamente. Ad un'autorità così consolidata del medico corrisponde il dovere di obbedienza da parte del malato, dove il suo unico obbligo morale è proprio quello di ubbidire. Il cristianesimo si è innestato in questa visione della medicina, contribuendo a universalizzare l'etica ippocratica. (J. Jouanna).

Il medico cristiano, seguendo la scia del Buon Samaritano, paragona la sua missione ad un sacerdozio, con l'importante compito di guidare il malato verso la guarigione. Nel periodo medioevale il medico cristiano acquista consapevolezza delle proprie doti scientifiche e professionali nelle università, dove vi è anche una continua mescolanza tra il linguaggio medico e quello teologico. La salute e la medicina restano doni di Dio, il medico conserva l'obbligo morale di non vanificare il dono ricevuto, approfondendo il suo talento con studi severi e seguendo le norme dell'etica medica.

L'atteggiamento che scaturisce da tale visione è decisamente paternalista. La malattia turba l'ordine naturale delle cose e il medico è l'unico che può intervenire, mentre il malato non può contrastare il volere del medico. Il medico paternalista, nell'interesse del paziente può rifiutarsi di acconsentire a certe scelte, atti o desideri che gli vengono richiesti. Attraverso questo forte paternalismo il paziente viene trattato dal medico come un padre tratta il suo bambino.

Il medico ippocratico e paternalista non ha il dovere di dare informazioni al paziente, tutt'al più tali informazioni possono servire a rendere la terapia più gradita o a migliorare l'obbedienza del paziente.

Con il passare dei secoli, l'atteggiamento paternalista fortifica il carisma del medico, ma allo stesso tempo contribuisce alla nascita di un linguaggio sempre più inaccessibile all'uomo comune, che di conseguenza accresce la separazione del rapporto tra il medico e il paziente. (D. Gracia).

Molière, nella sua disparata e più violenta battaglia contro la medicina del suo tempo, bolla, nella sua opera "Il malato immaginario", la deleteria pretesa terapeutica dei medici e il loro assurdo potere.

Nella scena IX del II atto possiamo apprezzare l'attacco contro il linguaggio tecnico usato come nebbia per coprire la povertà dei saperi della medicina, mentre nella celebre scena VI dell'atto III si scaglia contro il paternalismo medico che estende la sovranità assoluta sul malato immaginario (vita e opere)..

Il distacco del medico dal paziente riflette anche lo sguardo della scienza, che per analizzare aspetti sempre più microscopici della malattia, finisce per perdere di vista l'elemento più importante, la persona malata.

/L'atteggiamento paternalistico associato alla rimozione del soggetto viene magnificamente descritto da Tolstoj nella visita di Ivan Il'Ic, un mirabile esempio del rapporto tra medico e paziente nella Russia del XIX secolo.

Il principio paternalistico, coniugato nella filosofia della medicina, implica che il medico può agire in nome di un'altra persona se ritenga, secondo scienza e coscienza, che ciò serva nel modo migliore ai suoi interessi.

Il paternalismo medico trova le sue radici nella consapevolezza del medico ippocratico di essere "l'unico interprete autorizzato della salute e della malattia".

Attorno alla roccaforte della medicina la società occidentale cambia scenario, spostando sensibilmente l'asse dei diritti e dei doveri.

Locke nel secondo dei due "Trattati sul Governo", enuncia nel 1690 la tavola dei diritti umani, civili e politici.

Kant, nella sua risposta alla domanda: "che cos'è l'Illuminismo", afferma che l'Illuminismo è l'uscita degli uomini dallo stato di minorità e cioè dall'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro.

L'invito kantiano a servirsi della propria ragione viene esteso in ogni campo della vita sociale e il concetto di autonomia dell'individuo riceve nel "Saggio sulla Libertà" di Mill,una enfatizzazione particolare. Il principio di autonomia prende completa forma e recita:
"Ogni uomo possiede originariamente una completa libertà di agire e di disporre delle sue proprietà e della sua persona secondo la sua volontà, nei limiti imposti dalla legge naturale, senza che le sue decisioni possano dipendere dalla volontà di nessun'altra persona". Mill rincara la dose asserendo che:
"Ciascuno è la persona maggiormente interessata al proprio benessere, l'interesse che chiunque altro può avervi è minimo in confronto al suo, inoltre l'uomo o la donna più ordinari hanno mezzi di conoscere i propri sentimenti incommensurabilmente superiori a quelli di cui può disporre chiunque altro".

Il principio paternalistico incomincia ad essere visto con sospetto e ad essere percepito come un'intollerante limitazione della libertà individuale.

Accanto alle tavole dei diritti e al principio di autonomia, inoltre, emerge anche un nuovissimo concetto, quello di "privacy", che tenta di creare e di difendere uno spazio incomprimibile e riservato attorno alla persona umana. Tale concetto, insieme al principio di autonomia e alle carte dei diritti attaccano dall'esterno la roccaforte della medicina, provocando non solo un cambiamento etico, ma anche una rivoluzione giuridica. Il medico gradualmente abbandona i panni autorevoli e impunibili del sacerdote della salute, per indossare quelli del tecnico che stipula un contratto con il proprio cliente.

Il medico non può più intervenire sul corpo di una persona senza il suo permesso, di conseguenza il paternalismo medico deve essere, in qualche modo, autorizzato dal paziente.

Diviene indispensabile il consenso esplicito e informato al trattamento medico.

Nel 1914 l'ambiente medicina incomincia a sgretolarsi, quando negli USA viene dibattuto il caso di una donna che, colpita da tumore fibromatoso all'addome, aveva dato il suo consenso a una laparatomia esplorativa, chiedendo espressamente di non essere operata: cosa che era poi avvenuta.

Il giudice Cardozo, in una sentenza ormai famosa, afferma:


"Ogni essere umano adulto e sano di mente ha il diritto di decidere su cosa va fatto al suo corpo; e un chirurgo che esegue un intervento senza il consenso del paziente commette un'aggressione e risponde delle conseguenze."

Per la prima volta la legge americana afferma il diritto del paziente all'autodeterminazione.

Ogni paziente ha, quindi, il diritto all'inviolabilità della propria persona, scegliendo come vuole essere trattato dal punto di vista medico, per cui qualsiasi intervento senza il suo consenso può configurarsi come reato di aggressione, anche quando sia eseguito alla perfezione e abbia effetti benefici.

In Italia dobbiamo attendere il 1990, quando la Corte di Assise di Firenze condanna un chirurgo per il reato di lesione personale volontaria perché avrebbe operato la paziente con un intervento demolitivi: "senza preventivamente notiziare la paziente o i suoi familiari, che non erano stati interpellati in proposito ne' minimamente informati dell'entità e dei concreti rischi del più grave atto operatorio che veniva eseguito, e non avendo comunque ricevuto alcuna forma di consenso a intraprendere un trattamento chirurgico di portata così devastante".

Nel 1992 il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica "informazione e consenso all'atto medico" propone una autorevole riflessione attorno ai problemi dell'informazione e del rapporto medico-paziente.

Abbiamo raggiunto così un punto cruciale dei mutamenti che stanno accadendo in medicina:
la necessità di rispettare il principio di autonomia e la pratica del consenso libero e informato, in qualche modo modificano la sede del processo decisionale dal medico al paziente. (S. Spinanti).

Ma vi sono altri due elementi che attaccano la medicina, secondo Pellegrino e Thomasma, sono:

1) "lo sviluppo della capacità tecnologica della medicina con l'aumento della complessità delle decisioni cliniche e con la difficoltà di offrire un'informazione corretta ed adeguata ai pazienti".

2) "la sempre maggiore importanza che assume l'aspetto economico nell'ambito delle scelte della medicina".

Faden e Beauchamp considerano le azioni autonome, quando soddisfano tre condizioni: intenzionalità, conoscenza e assenza di controllo esterno.

La prima, contrariamente alle altre due,
non ammette gradi, esiste o non esiste.

Se l'azione, seppure intenzionale, non è compresa dall'agente non può essere considerata autonoma.

La mia azione è autonoma quando sono in grado di capirne la natura e di prevederne le conseguenze.

L'informazione del medico, quindi, avrà l'obiettivo di aiutare il paziente a giungere a questo livello di consapevolezza.

Inoltre, affinché l'azione sia autonoma dovrà mancare un controllo esterno.

La coercizione, la manipolazione e la persuasione, sono i mezzi con cui una persona può essere controllata dall'esterno, il compito medico è quello di evitarli affinché il consenso sia libero e consapevole.

Secondo Dworkin per poter parlare di autonomia deve essere assicurata un'altra condizione: tale condizione e' rappresentata dall'autenticità. Egli, infatti, ritiene che un atto è autentico quando è coerente con il sistema dei valori e gli atteggiamenti generali di fronte alla vita, assunti razionalmente e coscientemente da una persona. (D. Gracia).

Pellegrino e Thomasma individuano tre dimensioni nelle quali il modello dell'autonomia si rivela carente in medicina:

a) limiti contestuali

b) esistenziali

c) concettuali

In base alla prima, il contesto della medicina è tale che talvolta il modello dell'autonomia è inapplicabile.

Ciò non avviene solo in caso di urgenze o quando il paziente è manifestamente incapace di intendere e di volere, ma accade in diversi momenti del rapporto medico-paziente.

Nella cura degli anziani un paternalismo "debole" può essere la scelta migliore.

Il contesto clinico, inoltre può cambiare anche nello stesso paziente e rappresenta un limite morale all'autonomia.

La seconda ci dice che la malattia rappresenta comunque un limite all'autodeterminazione. L'essere malato può influire molto sulle caratteristiche di un'azione autonoma, può modificare l'intenzionalità, può limitare le capacità di comprendere e può rappresentare un controllo interno ad un'azione moralmente autonoma.

La malattia, quindi, è in grado di interferire profondamente con l'autenticità di una persona.

Sembra quasi che il modello di autonomia, occupato a difendere i diritti del soggetto, finisca per sottovalutare il potere distruttivo della sofferenza umana.

Infine, secondo la terza, il modello dell'autonomia è limitato anche in quanto modello, perché è stato formulato in opposizione dialettica al modello paternalistico, ma né l'autonomia né il paternalismo, descrivono esattamente l'intero ambito di norme etiche che regolano il medico e il paziente.

Negli ultimi tempi, si è avuto un cambiamento profondo nella testa delle persone, un cambiamento che ha investito anche il rapporto medico- paziente.

Accendendo la televisione o la radio si sente spesso parlare di argomenti che riguardano il campo medico e sempre più frequentemente si vedono film o telefilm ambientati all'interno di ospedali; io credo che per questo motivo le persone si sentano ormai competenti e ben informate anche se purtroppo, nella maggior parte dei casi, non è così. Molto spesso la gente pensa di poter giudicare o criticare il lavoro del proprio medico, forse non rendendosi conto che qualche informazione presa qua e la non può essere paragonata ad anni ed anni di studio.

Ai giorni nostri è cambiato anche il rapporto "salute/malattia": quando si scopre di essere malati non ci si preoccupa più per la propria salute e ci si preoccupa invece di cose futili domandandosi cose del tipo: "Oh no! E adesso come farò ad andare a ballare?".

Un altro problema molto importante che oggi ci affligge è quello della burocrazia: lunghissime file e attese in ambulatorio; terapie molto costose che sembrano non finire mai. Per risanare questa situazione che sta degenerando, bisogna raggiungere un primo obiettivo, cioè il miglioramento del rapporto tra il medico e la persona, instaurando un rapporto basato sul dialogo e sulla fiducia da entrambe le parti.

"Una delle qualità essenziali del medico è l'interesse per l'uomo, in quanto il segreto della cura del paziente è averne cura". (Dr. Francio Peabody - XIX sec.).

In primo luogo è importante per il medico saper ascoltare, saper farsi "recettore" di tutto ciò che un paziente "porta" e cioè come descrive il problema, quali vissuti emotivi ha di questo, quali sono le sue interpretazioni, che svantaggi ed anche, paradossalmente, vantaggi ne ricava, quali enfatizzazioni ha di un sintomo piuttosto che un altro, quali sono le sue paure, le sue speranze, le sue delusioni, quanto investe emotivamente sulla risoluzione della malattia, quale è la sua vita (origini, istruzione, lavoro, famiglia, ambiente domestico), insomma, quale è in definitiva il suo "terreno globale" emotivo - affettivo - corporeo - sociale in cui "vive" ed è "vissuta" la malattia.

In secondo luogo (praticamente in contemporanea con il primo) il medico deve saper essere "neutro", e cioè essere privo di pregiudizi nei confronti del paziente che magari presenta stili di vita, attitudini e valori diversi da lui, anche in quei casi che in situazioni non mediche potrebbe giudicare ripugnanti o negativi (qui il medico deve porre particolare attenzione al suo comportamento affinché la principale motivazione delle sue azioni rimanga comunque e sempre, l'interesse del paziente).

In terzo luogo il medico deve saper "comunicare" (attraverso disponibilità, espressione di attenzione sincera), spiegando cioè al paziente, con un linguaggio accessibile a tutti, come procederà l'iter diagnostico, chiarendo il significato di esami, consulenze specialistiche, indagini complesse strumentali, eccetera, e quindi, in seguito, quale è la definitiva diagnosi e la conseguente terapia, o possibilità terapeutica, con tutti gli eventuali rischi che questa può comportare, senza promettere facili guarigioni.

Il Tribunale per i Diritti del Malato, promosso dal Movimento Federativo Democratico è stato fondato a Roma nel 1978. Presso il Policlinico Umberto I opera un Centro del tribunale per i Diritti del Malato. I volontari del Centro del Tribunale si impegnano per contribuire ad individuare e mettere in atto concretamente, assieme agli operatori sanitari, idonee soluzioni per i grandi problemi che la gente vive nel campo della salute, e per assicurare l'osservanza dei diritti contenuti nella Carta dei Servizi che l'Ospedale distribuisce ai cittadini al momento del ricovero.

L'azienda Policlinico è impegnata nella realizzazione di un Programma di miglioramento continuo della qualità dell'accoglienza, dei servizi e delle prestazioni offerte al cittadino con l'obiettivo di dare sempre maggiore certezza ai diritti degli utenti.

Il paziente ha diritto ad essere curato e assistito nel pieno rispetto della dignità della persona.

Il paziente ha diritto a ricevere, anche per telefono, in modo chiaro e completo, tutte le informazioni che gli sono necessarie per accedere ai servizi del Policlinico. Il malato ha diritto a ricevere informazioni chiare e complete sulla diagnosi e sulla cura della propria malattia, sui possibili disagi e pericoli connessi.

Ad eccezione dei casi di urgenza nei quali il ritardo può provocare un pericolo grave, il paziente ha diritto a ricevere tutte le notizie che gli permettano di esprimere un consenso effettivamente informato prima di essere sottoposto a terapie o ad interventi.

Il paziente ha diritto che le informazioni riguardo alla propria malattia e ad ogni altra circostanza rimangano segreti.

Ciascun paziente ha il dovere di rispettare i diritti degli altri ricoverati, l'ambiente e la tranquillità, elementi necessari ad assicurare una permanenza presso i reparti di degenza più serena e accogliente.


Cos'è l'eutanasia

Il termine EUTANASIA viene ripreso e introdotto nel linguaggio medico dal filosofo inglese Francesco Bacone, agli inizi del secolo XVII. Bacone scrive in un passo.

Il termine eutanasia è formato da due parole greche eu= "buona e thanathos = "morte", perciò il suo significato è quello di "buona morte". Il termine è stato usato, in questo senso, per la prima volta dallo scrittore latino Svetonio, per indicare il tipo di morte che Cesare Augusto soleva augurare a sé. Dal momento che tutti dobbiamo morire, ognuno di noi augura a sé una "buona" morte piuttosto che una "cattiva" morte. La morte è buona quando sopravviene in modo "calmo e dolce", senza dolore e sofferenza (Demetrio Neri ).

Secondo Rosangela Barcaro il termine "eutanasia" assume diversi significati, in riferimento ai diversi contesti storici.

Il dibattito contemporaneo sul tema del suicidio ("mors volontaria"), e del'eutanasia (morte dolce e serena), tende a congiungere le due pratiche. Il suicidio è visto come una forma di eutanasia, nei casi in cui la persona agisce consapevolmente per togliersi la vita, tale realtà prende il nome di "euthanatic suicide". Il suicidio eutanasico, però va distinto da quello praticato per sottrarsi da una situazione di disagio sociale. Eutanasia attiva volontaria, suicidio medicalmente assistito e suicidio eutanasico, si differenziano tra loro per il modo in cui si ottiene la morte. Infatti, mentre nel suicidio eutanasico la persona sceglie i mezzi e si priva da sé della vita, negli altri casi compare la figura del medico, che nei casi di suicidio medicalmente assistito, da consigli e farmaci al paziente, e nei casi di eutanasia attiva volontaria, pratica 'iniezione letale richiesta dal paziente.

Frequentemente si distingue fra eutanasia attiva - o positiva, o diretta -, là dove il medico, o chi per lui, interviene direttamente per procurare la morte di un paziente, ed eutanasia passiva o negativa, o indiretta -, dove si ha invece astensione da interventi che manterrebbero la persona in vita. Si distingue inoltre fra eutanasia volontaria, quella esplicitamente richiesta dal paziente, ed eutanasia non volontaria, quando la volontà del paziente non può essere espressa, perché si tratta di persona incapace.

Eutanasia si oppone talora a distanasia o ad accanimento terapeutico, che indicano invece il ricorso a interventi medici di prolungamento della vita non rispettosi della dignità del paziente. Prossimo concettualmente e fattualmente al'eutanasia, benché distinto da essa, è poi il suicidio medicalmente assistito, in cui la morte è conseguenza diretta di un atto suicida del paziente, ma consigliato e/o aiutato da un medico. Si tratta, come si vede, di una mappa di significati tutt'altro che omogenea e definita, e assai sensibile alla prospettiva teorica adottata.

Una definizione completa e precisa - abitualmente citata anche da autori che non ne condividono le valutazioni etiche concomitanti - si trova nella Dichiarazione sul'eutanasia "Iura et bona", pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 5 maggio 1980 al n. 6. Una delle caratteristiche definitorie del'eutanasia è dunque il suo obiettivo di ridurre la sofferenza. Talora si ritiene che la richiesta di un intervento eutanasico o di un'assistenza al suicidio da parte dei pazienti sia direttamente proporzionale alla gravità della loro malattia, e alla loro sofferenza. Si tratta, invero, di una semplificazione indebita. Se prendiamo in esame i casi di suicidio, per esempio, "gli studi indicano - secondo il documento When Death Is Sought: Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context, pubblicato nel 1994 dallo Stato di New York. 'esperienza degli Hospice, cliniche il cui obiettivo primario è 'umanizzazione del'assistenza ai pazienti in fin di vita, e il trattamento del dolore - attraverso le cosiddette cure "palliative" - mette in dubbio ulteriormente questa correlazione fra sofferenza e desiderio di morire apparentemente così ovvia: si legge nel documento citato (L. Cantoni).

Oramai, quando si parla di eutanasia, ci si riferisce a quei casi di persone che desiderano la morte e chiedono aiuto per ottenerla. 'aumento della richiesta di legalizzazione è stato causato dai giudici e dai tribunali che hanno mostrato indulgenza verso i casi di eutanasia non-volontaria e di eutanasia volontaria.

Verso il 1920, in Italia si parlava di uccisione pietosa, piuttosto che di eutanasia, questo perché la maggior parte di coloro che venivano aiutati a morire, erano handicappati gravi. Quando nel processo di Norimberga, vengono resi pubblici i crimini commessi dai nazisti sugli Ebrei, tentare di giustificare 'eutanasia, venne concepito come un voler riproporre le stragi naziste allo scopo di nascondere le ragioni politiche ed ideologiche con la pietà per chi soffre. Le cose cambiano, però, nella seconda metà del secolo odierno, col verificarsi di casi di coma e malattie croniche. Gli esempi pinoti di persone mantenute in vita da apparecchiature per la rianimazione sono quelli di Karen A. Quinlan, Nancy Cruzan e Anthony Bland.

Hugo T. Engelhardt si è interessato in particolar modo della liceità morale e giuridica della pratica del suicidio e del'eutanasia volontaria. Nel suo saggio affronta il problema della libera scelta in favore della morte affermando che essa è razionale quando è il risultato della : "capacità degli individui di capire ed apprezzare le conseguenze delle loro azioni".

Per Engelhardt 'unica limitazione alla libertà individuale è la malattia mentale, perché offusca la possibilità di scegliere razionalmente.

'eutanasia attiva volontaria e il suicidio medicalmente assistito sono vietati dalla legge, perché esistono leggi che vietano e puniscono 'omicidio e 'assistenza al suicidio. La nostra libertà individuale non può esprimersi attraverso la richiesta della morte, ma al massimo attraverso il suicidio (R. Barcaro).

Secondo Kant, il suicidio come 'omicidio, dal punto di vista morale, è vietato perché contrario alla natura razionale del'uomo.

Per Bacone è compito del medico far in modo che la morte sia buona, anche quando non giunge naturalmente. Vi sono però delle condizioni nelle quali no si può parlare di morte "buona". Una delle condizioni necessarie della liceità del'eutanasia è che la morte costituisca un beneficio per il paziente.

Compito del'arte medica, secondo Bacone, è di evitare la sofferenza inutile, anche di fronte ai casi di malattie terminali.

La presenza delle tre caratteristiche importanti (condizioni oggettive, rapporto medico-paziente, beneficialità della morte per il paziente) ci consente di individuare il contesto in cui è corretto parlare di eutanasia. Si parla anche di usi aberranti, come 'eutanasia eugenetica (eliminazioni di individui deformi per migliorare la razza) o 'eutanasia economica (eliminazioni di tutti coloro che sono un peso per la società), ma qui il beneficio cercato non è quello del malato, ma quello della società.

Bacone ci parla di alcune forme di assistenza che oggi noi chiamiamo "accompagnamento del morente" e "umanizzazione della morte". La prima forma si riferisce ai profondi cambiamenti nelle circostanze del morire. Infatti, mentre prima si giungeva alla morte prematuramente, oggi si muore piùtardi e non per malattie infettive ma per malattie croniche di lunga durata. La seconda forma riguarda 'atteggiamento culturale, diffuso nella società contemporanea di "rimozione della morte", cioè si tende ad esorcizzare la morte, in modo che non possa turbare il normale svolgersi della vita (D. Neri).

Questo atteggiamento è stato favorito anche dalla crescente "ospedalizzazione della morte", infatti nei paesi ricchi '80% delle morti non avviene piùin casa, ma in ospedale. Tale soluzione ha trovato realizzazione nel movimento delle "cure palliative", nato sul'esempio degli "hospices" creati dalla dottoressa Cicely Saunders in Inghilterra, venti anni fa: il loro compito è quello di mettere le persone in grado di "morire bene", senza fare nulla per anticiparne il momento.

Se la vita è un bene e la morte è un male, allora è chiaro che anticiparla non è un atto benefico. Tale concezione è alla base del "vitalismo", che per molti anni ha caratterizzato una buona parte della pratica medica. Il "vitalismo" sostiene che la medicina sia legata con la vita umana, perciò ha il compito di difenderla ad ogni costo. Ad esso va il merito degli incredibili progressi, avvenuti a partire dagli anni '50, nel campo della rianimazione. Ma accanto agli aspetti positivi, nascono anche quelli negativi, perché 'ostinazione vitalistica o terapeutica, può trasformarsi in accanimento, che viene definito nel'art. 20 del Codice italiano di deontologia medica del 1989.

Un grande cambiamento ha riportato la medicina, negli ultimi anni. Infatti, oggi abbiamo medicine, come gli antibiotici, che guariscono malattie che prima portavano alla morte; abbiamo strumenti, come la dialisi, che sostituiscono funzioni vitali compromesse e macchine che tengono in vita 'organismo umano (D. Neri). Insieme a questi aspetti positivi vi sono quelli negativi; secondo Daniel Callahan ormai non si riesce piùa capire fin dove la tecnologia medica costituisca un reale beneficio per il paziente. Non si sa se, in realtà, stiamo aggiungendo vita ai giorni o solo giorni alla vita.

Per Callahan è da qui che nascono i problemi e la crescente pressione a favore del'eutanasia.

Con la creazione di tecnologie sempre piùsofisticate, ci siamo illusi di saper governarla, cioè capire fino a che punto possiamo arrivare per tenere in vita il paziente, invece ne siamo rimasti prigionieri e ora cerchiamo una via d'uscita rivendicando il diritto di morire. La proposta di Callahan mira al ridimensionamento del ruolo della medicina nella vita umana e alla creazione di una mentalità comune non piùossessionata dai miti individualistici del'autonomia e del controllo della propria vita; si tratta di cominciare a cambiare la "presunzione a curare sempre". Callahan aggiunge.

Secondo Antonio Tarantino parlare di eutanasia, vuol dire parlare del diritto alla vita. Tutti i problemi piùimportanti della vita sono collegati ai diritti della persona umana.

La storia ci ricorda che 'eutanasia era già giustificata nel'antichità classica greco-romana, praticata nella forma eugenetica, questo perché in un contesto socio-politico, i diritti della polis avevano la precedenza su quelli dei singoli cittadini, per cui la vita dei singoli era utile se rapportata a quella della polis. Ora 'eutanasia non si caratterizza piùnella forma eugenetica o nella programmazione eutanasia, come ha fatto Hitler nel 1939-1941, che ha eliminato piùdi 70.000 persone. In tale proposito si è espresso anche Mon. Sgreccia nella sua opera "Manuale di bioetica". Egli dice che quello di Hitler fu il primo programma politico del'eutanasia, studiato e messo in atto, dove migliaia di vite, definite "esistenze prive di valore vitale" furono eliminate (F. D'Agostino).Tutto ciò che accadde era da collegare al razzismo e allo statalismo assolutistico, fatto collimare con un cinico calcolo di alleggerimento delle spese dello Stato, per convogliare le risorse economiche nelle spese di guerra. è piùche giusto distinguere 'ideologia odierna per la legalizzazione del'eutanasia, da quella nazista. Nonostante ciò, vi è un punto in comune; la "mancanza del concetto di emergenza-trascendenza della persona umana", legato al'affermazione del'esistenza di un Dio personale, che comporta la pretesa, da parte del capo politico di un regime assoluto, del'arbitrio del'uomo sul'uomo (E. Sgreccia).

Oggi 'eutanasia si caratterizza nel'ambito di un movimento ideologico, dove si privilegia il diritto del malato ad essere protetto dalla sua malattia. In base a ciò, si passa da un diritto alla vita ad un diritto della qualità della vita, affermando, in modo assurdo, che una malattia che intacca una persona fisicamente, la renda socialmente inutilizzabile (A. Tarantino).

La secolarizzazione del pensiero e della vita non consente di capire il significato della morte e del dolore. La morte trova un senso solo se, privando 'uomo dei beni materiali, ci conduce verso la speranza di una vita piùpiena. Questa incapacità di dare un senso alla morte comporta due atteggiamenti: da una parte si tende ad eliminarla dalla vita, dalla coscienza; dal'altra la si anticipa (P. Ariés).

"'eutanasia si ricollega al processo di secolarizzazione che pervade la nostra società e che si esprime, soprattutto, come forma suprema di rivendicazione della indipendenza del'uomo anche - anzi soprattutto - di fronte a Dio e conseguentemente come vanificazione della sofferenza e come rifiuto del simbolismo religioso della morte". (G. Campanini).

Occorre fare una distinzione tra "eutanasia attiva" ed "eutanasia passiva". La prima si riferisce al causare direttamente la morte del paziente, la seconda al'astenersi dal fare qualcosa per mantenere in vita il paziente o il causarne la morte in modo indiretto. Possiamo ritenere differente, togliere il sondino nasogastrico per 'idratazione e 'alimentazione artificiale e spegnere il respiratore automatico, dal'iniettare una dose mortale di un medicinale. Difatti il medico trova piùgiusto moralmente, "lasciar accadere qualcosa" invece di "far accadere qualcosa". In tale ambito, è molto importante in riguardo alle nostre responsabilità nei confronti della vita umana, questa evidente differenza tra 'azione e 'omissione, tra il fare e il non fare. Anche la teleologia e la deontologia si sono interessate di tale problema.

Per la teleologia, 'etica riguarda ciò che accade alle persone in conseguenza delle loro azioni. La piùimportante etica teleologica è 'utilitarismo che s'interessa alle conseguenze che le nostre azioni possono avere sul mondo.

'etica deontologia si occupa "del dovere", cioè dei doveri che una persona ha e che non dovrebbe violare.

La tesi centrale del'etica medica ritiene che è sempre sbagliato uccidere intenzionalmente un paziente, mentre ritiene lecito lasciarlo morire intenzionalmente. Bisogna fare una distinzione tra uccisione "diretta" e "indiretta". 'uccisione "diretta" è quella perseguita intenzionalmente, sia come fine che come mezzo per raggiungere uno scopo, come ad esempio proteggere un segreto militare. Quella "indiretta", non è perseguita anche se prevista. Ciò che importa è che, mentre la prima è sempre vietata, la seconda, in alcuni casi, è giustificata, come nel caso della legittima difesa.

Fu per 'appunto San Tommaso che elaborò la giustificazione della uccisione per legittima difesa, in seguito alla quale si sviluppò la complessa teoria, dottrina del doppio effetto, che stabilisce le condizioni in base alle quali una persona può causare la morte di un'altra, senza però perdere la propria dignità morale. Questa dottrina è di tipo consequenzialistico, cioè s'interessa del bilancio delle conseguenze, ed elabora quattro condizioni in riferimento alla permissibilità di un atto che causa conseguenze buone e cattive (D. Neri).

Secondo James Rachels, Socrate quattro secoli prima di Cristo diceva: "Un medico non avrebbe mai cercato di curare corpi che la malattia aveva penetrato sempre più a fondo, non voleva allungare vite di nessuna utilità". Ciò significa che per tutti era lecito permettere di morire quando le sofferenze erano insostenibili. Uccidere, però restava inammissibile.

Con le nuove apparecchiature, respiratori ecc., oggi è possibile mantenere in vita anche "vegetali umani" privi di pensiero. Ma, farlo è inutile. Il Papa ha riaffermato un permesso: "Pio XII sosteneva, nel 1958, che possiamo - permettere al paziente che è già virtualmente morto di trapassare in pace".

Anche il documento del'AMA condanna : "'uccisione per pietà, ma dice che è ammissibile - sospendere o omettere il trattamento per lasciar morire un paziente terminale". La comunità medica, perciò, accetta la distinzione tra eutanasia attiva e quella passiva. Per "eutanasia attiva" si intende un'azione positiva volta ad uccidere il paziente, cioè fare un'iniezione di cloruro di potassio ecc.; "eutanasia passiva" vuol dire evitare di fare ciò che servirebbe a tenere in vita il paziente, cioè lasciar morire in modo naturale.

Agli inizi del XX secolo nascono le società e i movimenti a favore del riconoscimento e della regolamentazione giuridica del suicidio assistito e del'eutanasia volontaria. Talune società si basano su alcuni principi. I movimenti a favore del'eutanasia sono uniti da un'unica opinione, che sia un dovere morale aiutare a morire chi a chiederlo è senza alcuna speranza di guarigione. Il loro obiettivo finale è rappresentato dal raggiungimento della legalizzazione e depenalizzazione del'eutanasia attiva e del suicidio assistito.

Esiste una Federazione Mondiale di Società per il diritto di morire ("World Federation of Right to Die Societies") di cui fanno parte le "Voluntary Eutanasia Sicieties" e la piùnota "Hemlock Society". Quest'ultima è fuatrice di "referendum" popolari pro-legalizzazione del'eutanasia attiva volontaria e del suicidio assistit. Tra i suoi fondatori ricordiamo Derek Humphry, giornalista inglese, famoso per 'attività a sostegno della legalizzazione e per aver aiutato tre suoi, in quella che lui definisce "autoliberazione". Autore di molti libri ed articoli dove spiega i motivi che ritengono leciti 'eutanasia attiva volontaria ed il suicidio assistito. Secondo Humphr, ogni uomo, in possesso delle proprie capacità mentali, deve poter decidere della propria morte, quando si trova in gravi condizioni, come ad esempio, 'Aids, il cancro, sclerosi multipla e il morbo di Alzheimer. Il suo punto di forza risiede nel concetto di autonomia individuale, qualità della vita, piuttosto, che quantità di vita. Tra le sue pubblicazioni: "Final Exit", che consiste in un guida al suicidio per i malati terminali, dove si consigliano i farmaci e come dosarli.

Negli ultimi tempi si è fatta strada 'idea che il malato costituisca una parte attiva nella relazione terapeutica col medico, acquistando consapevolezza su ciò che deve subire, e responsabilità sottoscrivendo un documento legale liberatorio. La Hemlock Society ha favorito la diffusione, delle "advance directives", cioè dei documenti riportanti i desideri di un individuo, circa le cure mediche; la forma piùnota è il "living will", un documento nel quale 'individuo indica le cure che vuole o non vuole ricevere, nel caso in cui si venisse a trovare in una situazione di malattia terminale. La "healt care durable power of attorney" contiene 'indicazione di una o piùpersone che decidono le cure che il firmatario deve ricevere, nel caso che egli non piùin grado di intendere e volere. Il "value history form"è un completamento del "living will" (R. Barcaro).

A parte la differenza nella forma e negli effetti, le norme anticipate hanno in comune due concetti (S. Hornett ).

Per poter sottoscrivere le "advence directives" bisogna aver raggiunto la maggior età e 'essere in condizione di intendere e volere. Però tali documenti, come il "living will", non sono vincolanti per il medico che deve essere, ugualmente, informato dal paziente. La "durable heath care power of attorney" consente di delegare a terzi tali decisioni mediche, solo se il firmatario non è piùin grado di decidere da sé.

La "value history form"è un documento che contiene le dichiarazioni del'individuo, basate sulle proprie motivazioni, i propri principi.

Riferito al modello del "living will", anche in Italia la Consulta di Bioetica ha proposto la scelta di una carta di autodeterminazione, che però non ha valore legale. Nel gennaio 1997 hanno presentato una nuova carta (Biocard), essa prevede che il firmatario sia informato sulla sua salute, sulle cure e rinunciare a determinati mezzi di sostegno.

Mons. E. Sgreccia ha affermato che il "Natural Death Act" approvato in California nel 1976, è in assoluto la prima forma di depenalizzazione del'eutanasia (A. Meisel).

Le obiezioni di Mons. Sgreccia riguardano la validità morale del documento, in base al quale la persona dispone della propria vita in anticipo rispetto ai problemi di salute che si potrebbero insorgere.

Oltre alle "advance directives" si è cercato di trovare un nuovo diritto, che garantisca una morte dignitosa a chi la richiede, il cosiddetto "diritto di morire".

Leon R. Kass, in un atricolo del 1993, differenzia quattro significati riferiti al "diritto di morire" (Y. Kamisar).

Vi è la tendenza ad "umanizzare la morte", cioè a considerare il diritto di morire, un "diritto ad una morte umana o dignitosa" (R. Barcaro).

In riferimento al tema del'eutanasia, si veda il film "Il collezionista d'osse".


Il suicidio

Prima di entrare in merito al dibattito sull'eutanasia, occorre soffermarci su un'altra questione connessa all'eutanasia, il suicidio.

Non tutti gli atti autodistruttivi sono suicidi.

Tom L. Beauchamp dice in proposito:

Una persona commette suicidio se:

1. tale persona provoca intenzionalmente la propria morte;

2. nessun altro la costringe a compiere tale azione;

3. la morte è causata da condizioni predisposte dalla persona per questo scopo preciso .

Per molte persone la parola "suicidio" è piena di emotività: essa indica qualcosa verso cui si ha un atteggiamento negativo. I cattolici ritengono il suicidio un peccato mortale, perciò negano che atti ammirevoli di autodistruzione siano suicidi. I neutrali, per così dire, considerano atti ammirevoli di autodistruzione come suicidi degni di ammirazione. Pertanto non esiste un concetto di suicidio, ma concetti differenti, uno più ampio e uno più ristretto .(James Rachels).

Secondo Rachels esiste una connessione con l'eutanasia, basata su un principio generale di ragionamento morale: "se è lecito per una persona porre in essere una certa situazione, allora è lecito per quella persona richiedere l'aiuto liberamente dato da terzi nel porre in essere tale situazione". Il principio così formulato risulta falso, occorre riformularlo, aggiunge Rachels.

Se è ammissibile per una persona (o se una persona ha il diritto di) compiere una certa azione, o porre in essere una certa situazione, allora è ammissibile per quella persona (egli/ella ha il diritto di) richiedere l'aiuto, prestato spontaneamente, di qualcun altro nel compiere l'atto o porre in essere la situazione, a patto che ciò non violi i diritti di un terzo.

Ne deriva, che se è giusto che una persona commetta suicidio, sarebbe altrettanto giusto per quella persona, sollecitare assistenza, a patto che nel processo non vengano violati i diritti di terzi . (J. Rachels).

Vi sono due punti di vista sul tema della morte; una basata sull'immortalità dell'anima e l'altra che ritiene la morte del corpo, la morte assoluta della persona. Su questa concezione si possono differenziare quattro interpretazioni sull'"essere morto" (R. Barcaro).

Il suicidio, nel mondo classico, era legittimo in molti casi; per salvare l'onore, sfuggire ad una grave malattia o alla povertà. I metodi più usati erano, l'impiccagione, il veleno, morire di fame ecc.

Anche sul tema del suicidio vi sono due posizioni, sia dal punto di vista religioso che filosofico, di proibizione e di istigazione. Platone nella Repubblica  e a favore di una medicina che aiuti i malati inguaribili a morire, perché ritiene scorretto mantenere in vita persone che non hanno un ruolo attivo nella società. Nel Fedone ci parla dei motivi per i quali, la scuola pitagorica, proibisce il suicidio. Infatti si ritiene che gli dei, per punizione, hanno collocato le anime degli uomini nei corpi, perciò il suicidio è un'ingiustizia, perché si viola il loro volere. Infine, Platone nelle Leggi , concepisce tale atto, solo come possibilità di salvezza dell'animo umano, cioè quando il comportamento di una persona è cattivo e senza rimedio.

Aristotele nell'Etica Nicomachea  affronta il problema da una prospettiva giuridica; ritenendo il suicidio un atto che la legge vieta, chi lo fa commette un'ingiuistizia verso se stesso e verso la po'lis. I filosofi stoici considerano la filosofia come l'arte del corretto vivere e del morire bene e sostengono che ogni uomo è libero di decidere quando terminare la propria vita.

Tra gli stoici si può ricordare Seneca, che nella Lettera LXX, sostiene che morire al momento giusto è una dimostrazione di libertà morale, purché la scelta sia fatta razionalmente. Il famoso giuramento di Ippocrate, risalente al V secolo a.C. , contiene norme generali che il medico deve seguire nei confronti dei suoi pazienti, tra cui quella riguardante il divieto di somministrare o consigliare veleni: "Non darò a nessuno farmaci mortali, neppure se richiesto, né mai suggerirò di prenderne" (L. R. Angeletti). Tale proibizione, era in netto contrasto con la morale comune e l'esercizio dell'arte medica, in Grecia e a Roma, perciò venne accolta solo più tardi, nel V secolo d. C., dopo la caduta dell'Impero Romano, quando s' imposero i valori cristiani relativi al rispetto della vita.

Nella Bibbia non vi è un vocabolo corrispondente alla parola "suicidio"; né nel Vecchio, né nel nuovo Testamento, vi sono condanne morali o chiare proibizioni contro il suicidio. Solo nel Vecchio Testamento si fa riferimento ad alcuni casi, come quello di Sansone e di Re Saul, considerati però, come sacrifici personali. Un punto fermo è la convinzione che solo Dio può dare e togliere la vita.

I Padri della Chiesa si occuperanno di tale argomento, solo in epoca più tarda, rispetto alla diffusione del Cristianesimo, questo perché, tra le comunità cristiane la proibizione di togliersi la vita era ancora molto condivisa. Uno dei primi Padri della Chiesa che si espresse in maniera decisa contro l'ammissibilità morale di ogni forma di suicidio, fu S. Agostino, il cui pensiero influenzò la cristianità medievale. Nella sua opera, La città di Dio, dice, che chi uccide se stesso è un omicida, perché priva se stesso, in questo modo, della possibilità del pentimento. Nel Medio Evo vi era una visione del mondo ispirata profondamente dalla Chiesa, al punto di credere che chi si toglieva la vita era posseduto dal demonio, e perciò, per questi individui, era vietata la celebrazione religiosa e i loro corpi venivano esposti ai crocevia, trafitti da un palo. A partire dal XVI secolo tale visione inizia a vacillare e verso la fine del XVII si concepisce una nuova visione del suicidio, che diviene il frutto di una scelta personale, priva di biasimo morale (R. Barcaro). Nel Rinascimento però tale proibizione sembra ancora diffusa, solo due scrittori sono contrari: Sir Thomas More e Michel de Montagne. Dalla prima parte dell'opera di More, "Utopia" , sembra che egli sia un fautore "ante litteram"della pratica dell'eutanasia attiva volontaria, ma dall'ultima parte del brano emerge, che l'asserzione che lui faà, è in modo sarcastico e l'opera rappresenta, in realtà, una critica della società inglese durante il regno di Enrico VII.

Michel de Montagne, invece, nel suo saggio degli "Essais", esprime la convinzione che Dio stesso ci daà il permesso di morire, quando ci riduce nella condizione che è meglio morire che vivere. La prima opera in difesa del suicidio è "Biathanatos"di John Donne, pubblicata postuma, tra il 1644 e il 1647. Egli afferma che Dio a volte ci comanda di compiere atti che sono giudicati peccaminosi, perciò la giustezza di un atto staà nella situazione in cui e a causa delle quali viene compiuto. David Hume, nel saggio "Sul suicidio", si esprime in favore del suicidio, sostenendo che non viola l'ordine della Provvidenza divina, perché se così non fosse, ogni azione che l'uomo compie sarebbe una violazione della legge di Dio . (R. Barcaro).

Nella seconda metà del Settecento, Immanuel Kant,  esprime un netto rifiuto al suicidio, basato sul rispetto dell'ordine morale come emanazione della razionalità. Secondo Kant, il suicidio non può essere giustificato con l'appello ai diritti di autonomia dell'uomo, perché l'autonomia non riguarda la libera scelta morale, ma la scelta di fare ciò che la ragione ci comanda, cioè "agire per il dovere" .

Alla fine dell'Ottocento, si manifesta in Europa un aumento del numero dei suicidi. Nell'opera di Emile Durkeim , "Il suicidio", tale questione è trattata solo come un fatto sociale. Egli ci dice: " è suicidio qualsiasi tipo di morte che derivi direttamente o indirettamente da un atto positivo o negativo, compiuto dalla vittima stessa, la quale sapeva che esso doveva produrre tale risultato" .

R.L. Barry , in una sua opera, analizza la definizione di "suicidio" proposta da Durkheim, dichiarandola insufficiente e incompleta, perché non dà una distinzione tra auto-uccisione, martirio e sacrificio di sé a vantaggio di un altro, ma soprattutto, ha trascurato gli effetti emotivi e motivazionali di chi si toglie la vita.

Quando il suicidio è compiuto in condizioni psico-fisiche alterate, è considerato meno grave moralmente, perché la sofferenza lo rende incapace di intendere e di volere. Non assolutamente facile dare un giudizio morale sulla pratica del suicidio, proprio perché tale giudizio e legato all'ambito culturale, religioso e sociale.

In Giappone ad esempio, il suicidio rituale, detto "hara-kiri", fa pare della vita morale dell'individuo e vi si ricorre, nei casi in cui si è compiuta un azione disonorevole, per cancellare la vergogna.

La scelta del suicidio può essere interpretata in due modi: scelta razionale o il risultato di alterazioni psicologiche. Quando la scelta avviene secondo quest'ultimo caso, non la si può ritenere intenzionale e volontaria. Il suicidio, come l'eutanasia attiva volontaria diventa una fuga dal dolore, causata da meccanismi patologici che possono influire sulla capacità di scelta dell'individuo. Risulta molto difficile, però, stabilire se la scelta sia veramente razionale o meno . (R. Barcaro).

Salvatore Natoli, nella sua opera , afferma che : "il dolore si conosce per esperienza" , e che non essendo condivisibile, forma un distacco tra coloro che soffrono e che non soffrono. (S.Natoli).

Differenza tra eutanasia e suicidio-omicidio

Ciò che accomuna l'eutanasia e il suicidio è il desiderio di porre fine alla propria vita. Ma, mentre nel suicidio chi matura tale desiderio di morte, per motivi psicologici o fisici, lo porta a termine da solo; per quanto riguarda l'eutanasia, ci si ricorre nei casi di malattia allo stadio terminale, quando il malato, che prende questa decisione, non ha la forza fisica o psicologica, di farlo da solo. Perciò si parla di eutanasia attiva o passiva.

Chi si trova in una situazione così terribile, perde di vista il dono della vita, perché la sofferenza è talmente insopportabile, da offuscare tutto il resto. Per eutanasia s'intende procurare o aiutare a morire un paziente dichiarato terminale, esclusivamente ad opera di un medico, tutti gli altri casi vengono considerati omicidi e come tali puniti.

Nel codice penale italiano esiste un determinato articolo che viene applicato in taluni casi, l'art. 579.

L'errore sull'esistenza del consenso fa sussistere la figura criminosa in virtù dell'art. 47 c.p., cpv. L'ignoranza o l'errore fa ritenere inesistente un consenso esistente, invalido un consenso valido, "Ex lege", (B. Pannain, F. Scalfani, M. Pannain).

Il dibattito etico-filosofico sull'eutanasia e sul suicido assistito, verte intorno alle posizioni (deontologia e utilitarismo) di rifiuto o di accettazioni di tali pratiche. I deontologi affermano che le azioni moralmente illecite lo sono in se stesse, a prescindere dalle conseguenze che l'atto può provocare, ed il comando "non uccidere"vale sempre; gli utilitaristi invece basano la liceità dell'azione sulle conseguenza previste, e la violazione di una regola sarà ammessa, se il beneficio di tale azione superi quello dell'accettazione della regola.

In campo biomedico appare evidente il conflitto tra etica utilitaristica ed etica deontologica. Alla conservazione della vita si oppone alcune volte, la necessità di provvedere a situazioni difficili. E' ammissibile somministrare dei farmaci ad una gestante, sapendo che potrebbero causa la morte del feto? Esiste la soluzione proposta dalla teoria del duplice effetto, ma non risulta coerente, né coi principi deontologici, né con quelli utilitaristici (R. Barcaro).

L'utilitarismo risale ai secoli XVIII e XIX ad opera di due filosofi: Jeremy Bentham e John S. Mill. Mill ci ha parlato del principio di utilità, dal quale si può dedurre tutti i giudizi morali razionali.

L'approccio utilitaristico ritiene che nessun bene, compresa la vita umana, ha un valore assoluto da imporre un forte vincolo al rispetto di esso.

Un esempio di dottrina deontologica è dato dall'etica kantiana, secondo la quale "la moralità di un'azione è determinata dall'accordo con regole morali esprimenti dei doveri".

Tra i sostenitori dell'eutanasia ricordiamo Peter Singer e James Rachels.

Secondo Singer l'eutanasia è ammissibile sia per i malati terminali che per i neonati malformati, perché in base al concetto di qualità della vita, tali individui non sono più in grado di esercitare la propria razionalità, autocoscienza e autonomia. Il punto debole del pensiero di Singer sta nel voler attribuire un diritto alla vita agli animali, sulla base del fatto che gli animali sono in grado di avvertire la minaccia alla propria esistenza.

Rachels nel suo articolo del 1975 "Active and Passive Eutanasia", afferma che l'agire morale è un <<problema del fare ciò che è meglio per chi viene coinvolto dal nostro comportamento>>: uccidere è vietato perché si causa del male a qualcuno. Per Rachels vi sono dei casi per cui è possibile fare eccezione alla regola "non uccidere", come ad esempio nei casi di legittima difesa.

Joseph Fletcher ha affermato che anche la tradizione religiosa è concorde nel sostenere, che nei casi terminali non esiste un obbligo morale a prolungargli la vita. Molte religioni (protestante, cattolica, ebraica, buddista, induista) mostrano di essere favorevoli ad una eutanasia passiva, cioè in quella forma che rappresenta la sospensione dei trattamenti inutili nei pazienti "senza speranza".

Daniel Callahan si è interessato del tema della "dolce morte" in alcune sue opere:

In "Settino Limits ", Callahan sostiene che l'eutanasia non può essere legalizzata. In modo diffuso, Callahan torna sul problema dell'eutanasia in "What Kind of Life". Secondo Callahan la legalizzazione dell'eutanasia comporterebbe l'introduzione di una forma del tutto nuova di contratto tra adulti consenzienti, un contratto che implicherebbe la morte di una delle parti che lo sottoscrive: l'autodeterminazione non ha un potere così forte da implicare l'annullamento dei propri diritti a vivere e ad essere libero per trasformarli in diritto a morire (Callahan cita anche John Stuart Mill e l'argomento contro la schiavitù volontaria, che si può riassumere in modo epigrammatico: è contraddittorio scegliere liberamente di non essere liberi). Contro Rachels, Callahan sostiene che la distinzione tra "uccidere" e "lasciar morire" è dotata di fondamento. Dopo una serrata analisi dei concetti di uccidere e lasciar morire, Callahan perviene ad una conclusione. La distinzione tra uccidere e lasciar morire a sua volta trova fondamento su tre premesse: una di tipo "metafisico", la quale è legata ad una premessa di tipo "morale", l'ultima è una premessa di tipo "medico". Nel volume "The Troubled Dream of Life, Callahan concentra la propria attenzione su due punti che rappresentano il "leit-motiv" sul quale i sostenitori dell'eutanasia fanno leva per le rivendicazioni di legalizzazione: la mancanza di familiarità con la morte, che già aveva sottolineato Philippe Ariés,  e l'esasperata enfasi posta sul principio di autodeterminazione, che sembra essere finalizzato esclusivamente ad elaborare scelte che consentano l'eliminazione della sofferenza e la decisione del momento della propria morte.


Definizione di morte

Che cos'è la morte?

Nel Medioevo vi era una certa familiarità con la morte, una forma di accettazione dell'ordine naturale. L'uomo subiva con la morte una delle grandi leggi della specie, e non pensava né a sottrarvisi, né ad esaltarla; l'accettava semplicemente. Vi era una familiare rassegnazione al destino comune della specie (P. Ariès).

Nel XII secolo, si ha un altro atteggiamento di fronte alla morte; esprime l'importanza attribuita in tutta l'età moderna, alla propria esistenza individuale, che si identifica con "la morte di sé.

Nel XVIII secolo, l'uomo delle società occidentali tende a dare alla morte un senso nuovo. L'esalta, la drammatizza, la vuole impressionante e dominante, romantica, retorica, è innanzitutto, la morte dell'altro, proprio perché si occupa meno della propria.

L'altro il cui ricordo e rimpianto ispirano, nel XIX e XX secolo, il nuovo culto delle tombe e dei cimiteri Nel XIX secolo, vi è un'esagerazione del lutto, i sopravvissuti accettano con più difficoltà, di un tempo, la morte dell'altro, la morte del "tu".

Anche Epicuro, nella Lettera a Meneceo, s'interessò della morte.

Esistono due posizioni: secondo la prima la morte è un evento eticamente neutro, né buono né cattivo; l'altra sostiene l' ntrinseca negatività della morte, che ci priva dei beni (B. Morcavallo).

Lucrezio sosteneva, in riguardo alla morte: "nulla è dunque la morte per noi".

Alcuni sostengono che la morte è qualcosa di cattivo "Deprivation of Goods Principle" (DGP). Tra i difensori di questa tesi, "Existence Principe" (EP), vi è Thomas Nagel.

Abbiamo, perciò, due i principi contrapposti: l'EP e il DGP.

Il DGP comporta che la sia un bene, e che sia a favore dell'eutanasia. Nagel dice: "Se la morte, è la fine inequivocabile e permanente della nostra esistenza, si pone il problema se morire sia una cosa cattiva; se la morte è un male, non può esserlo per le sue caratteristiche positive, ma solo a causa di ciò che ci sottrae".

Per noi la morte rappresenta la perdita ed è naturale allontanarla. Secondo Epicureo, dobbiamo eliminare la paura della morte. Giacomo Leopardi sosteneva che la morte è un passaggio insensibile verso il nulla, simile all'addormentamento.

Anche la morte, nell'accezione comune del termine, ha avuto una propria nascita. Innanzitutto la morte esiste poiché esiste la vita, e pertanto, fino a quando sulla Terra non sono comparse le prime forme biologiche, essa può essere tranquillamente relegata a mero concetto filosofico e a pura astrazione (morte di una stella, morte dell'universo, morte di Dio, ecc.). La morte implica l'esposizione di 4 concetti fondamentali: Atemporalità; Immortalità; Morte biologica; Morte aleatoria. La cosa importante da dire sulla morte biologica e quella aleatoria è la loro certezza e ineluttabilità.

"Morte villana, di pietà nemica,

Di dolor madre antica,

Giudicio incontestabile gravoso".

Dante Alighieri.

Omicidio del consenziente

Come ho già specificato nel terzo capitolo, esiste una chiara distinzione tra eutanasia e omicidio del consenziente. Il seguente paragrafo mira proprio ha spiegare quello che, nel nostro codice penale, viene definito come "omicidio del consenziente".

L'art. 579 c.p. stabilisce:

Ciò che distingue l'omicidio del consenziente dall'omicidio comune è la dichiarazione di volontà della vittima, espressa all'agente. Il consenso deve essere libero e cosciente, lontano da vizi e condizionamenti sulla decisione presa dalla vittima. Deve essere espresso verbalmente, sottoposto ad un termine e fino ad allora efficiente, è revocabile in qualunque momento. L'errore sull'esistenza del consenso fa sussistere la figura criminosa in virtù dell'art. 47 c.p., cpv. L'errore può riguardare anche le condizioni di validità del consenso, come l'età, la violenza, minaccie, inganno è la capacità del consenziente. L'ignoranza o l'errore fa ritenere inesistente un consenso esistente, invalido un consenso valido. "Ex lege", non sono capaci di dare un consenso valido (B. Pannain, F. Scalfani, M. Pannain).

Le ipotesi di violenza o minaccia per indurre qualcuno a farsi togliere la vita. Sono alquanto inverosimili. Convincente è invece l'ipotesi dell'inganno o suggestione, dove si innesca un meccanismo psichico che porta l'individuo ad accettare le richieste dell'altro. La suggestione consiste nell'influenza che un soggetto attivo (suggestionante) pratica su un soggetto passivo (suggestionato),con parole, gesti, manipolando l'autonomia dell'Io, cioè provocando nell'atro una diminuzione delle proprie difese.

Quando consenso e suggestione convivono, danno vita al fatto delittuoso più grave, perché il consenso rappresenta l'elemento del reato. L'indagine non può essere rivolta solo sulla persona, ma anche sull'agente.

L'eutanasia ha diverse forme e diversi significati, ma la distinzione più importante è quella tra "morte dolce" e "morte a fin di bene". Nella prima ritroviamo le ipotesi di morte naturale; nella seconda un comportamento che provochi la morte diretta del paziente. Possiamo parlare di eutanasia "eugenia"; eutanasia "collettivista"; "criminologica"; "sperimentale"; "solidaristica".

Ai molti sostenitori nel passato dell'eutanasia, quali, Moore, Bacon, Maeterlink, Nietzsche, Binding, Binet-Sanglé, Shaw, Nobel, se ne sono aggiunti altri che riconoscono un "diritto alla morte con dignità". Nel 1974 fu pubblicato un "Manifesto" per chiedere la decriminalizzazione dell'eutanasia., nella rivista "The Humanist", da parte di tre premi Nobel, Jacques Monod, Linus Pauling e Sir Gorge Thompson, basato sulla considerazione che la sofferenza è inutile, ed è immorale tollerarla, accettarla o imporla. Successivamente nel 1984, viene pubblicato da alcuni medici francesi, un altro "Manifesto", nel quale si affermava che al "rispetto della persona umana ed al rispetto della vita vada aggiunto quello per le condizioni della morte che comprende una migliore qualità della vita terminale e della morte stessa". A queste posizioni a favore dell'eutanasia si contrappongono quelle contrarie, come quelle di molte Chiese, ad esempio la Cattolica Romana. Il Concilio Vaticano II ritiene l'eutanasia un attentato contro la vita, nonché una pratica vergognosa, che inquina più chi la compie che chi la richiede. Il Magistero della Chiesa considera l'eutanasia attiva illecita e l'eutanasia passiva lecita solo in alcuni casi, mentre considera comprensibile, chi agisce mosso da pietà e da continue richieste da un proprio caro, e moralmente gravissimo, chi agisce di iniziativa propria. Il 26 giugno 1980, viene pubblicata la Dichiarazione sull'eutanasia della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede del 5 maggio, ove è affermata la sacralità della vita, e ribadito che " nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno inoltre può richiedere questo gesto omicida, per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo". Per la Chiesa Greco-Ortodossa la vita terrena è qualcosa di momentaneo che comprende anche la morte, vinta solo dal Cristo.

L'eutanasia attiva rappresenta in alcuni casi, l'omicidio del consenziente, in altri provoca la morte di un individuo senza il suo consenso, realizzando il contenuto del'art. 575, salvo l'eventuale attenuante per motivi di particolare valore morale o sociale ex art. 62, n. 1 c.p..

L'eutanasia passiva può essere consensuale o volontaria e non consensuale. La prima si concretizza nel rifiuto delle cure da parte del paziente; la seconda è intesa come un interruzione delle cure, dal momento che, ex art. 40, 2° commaA1 , c.p.. Il compito del medico è quello di assistere moralmente il paziente e fornirgli le cure adeguate per evitare inutili sofferenze. Nell'ambito giuridico ritroviamo alcune ipotesi riguardanti la condotta del medico.

In base all'art. 40, del codice di deontologia medica del 1978, si deve parlare non di eutanasia ma di terapia dell'agonia. Nei casi di morte cerebrale irreversibile, il medico non è obbligato a continuare le cure di sostegno vitale. Nel nostro Paese, in materia di eutanasia non si nota una necessità incombente, di una specifica disciplina. Non vi sono stati casi (per nostra informazione) di medici inquisiti di comportamenti eutanasici.

Per il reato di omicidio del consenziente, occorre analizzare il comportamento e la personalità della vittima insieme a quella dell'agente. Bisogna studiare i processi interattivi, cioè la relazione e la dialettica interpersonale, e situazionali per chiarire l'etiologia e la dinamica del fatto e, in particolare, l'influenza e il ruolo svolto dalla vittima, che in questo tipo di delitto può rivelarsi assorbente, ponendosi come causa specifica e riducente la "quantità" di reato attribuibile all'agente. In alcuni casi i ruoli della vittima e dell'aggressore sono invertiti e, nella lunga serie di forze causali, la vittima assume il ruolo di fattore determinante; "l'acting-out" dipende, infatti, dalle capacità inibitorie che sono anche in funzione del tipo di vittima e degli atteggiamenti reciproci tra essa e l'agente. La vittima, con il suo comportamento entra nella dinamica del reato come partecipante, ne condivide la parte di soggetto attivo, fino anche a diventare "funzionalmente responsabile". Nell'omicidio del consenziente, si parla di vittima "volontaria", che è tale per sua scelta (la cui condotta assume rilevanza giuridica), a seguito di richiesta o di consenso, come in taluni casi di eutanasia o di omicidio.

Posizioni degli altri paesi

San Marino. Nel codice penale della Repubblica di San Marino, l'omicidio del consenziente è punito come misfatto dall'art. 150, con la prigionia di settimo grado e l'interdizione di quarto grado dai pubblici uffici e dai diritti politici. L'ultimo comma di tale articolo dice: "Si applica la prigionia di quarto grado nel caso di consenso della vittima ". L'articolo successivo dice: "L'istigazione al suicidio e l'agevolazione, se si verifica la morte, sono punite con la prigionia e l'interdizione di quarto grado. Se dal tentativo di suicidio deriva una lesione personale grave si applica la prigionia di terzo grado.

Svizzera. "L'art. 114 (omicidio del consenziente) del codice penale svizzero del 21 dicembre 1937, dispone: "E' punito con la detenzione chi cagiona la morte di una persona dietro inesistente e seria richiesta di lei". Sono previsti inoltre l'omicidio intenzionale (art. 11 c.p.), l'assassinio (art. 112 c.p.) e l'omicidio passionale (art. 113 c.p.). L'art. 115 punisce con la reclusione fino a cinque anni o con la detenzione chiunque "per motivi egoistici istiga alcuno al suicidio p gli presta aiuto", se il suicidio è stato consumato o tentato".

Francia. Il codice penale francese, non tiene conto né del consenso, né del motivo della vittima; non rappresentano una reale causa di giustificazione. "I nuovi articoli di legge, ferma la non punibilità dell'autore materiale dell'azione suicida, sanzionano (elemento legale) la condotta del terzo che istiga altri al suicidio (pur se non riuscito), ritenendola aggravata se la persona istigata è minore degli anni 15, o che propaganda o pubblicizza - in qualsiasi maniera - prodotti, oggetti o metodi "raccomandati come mezzi per darsi la morte"(Pannain).

Spagna."L'art. 409 del codice penale vigente in Spagna stabilisce: <<Chi presta aiuto o istiga altri al suicidio è punito con la pena della prision mayor (carcerazione di lunga durata); se l'aiuto lo prestasse sino al punto da eseguire egli stesso l'uccisione sarà punito con la pena della reclusion menor (reclusione di breve durata)".

Germania. Lart. 211 del codice penale tedesco, stabilisce la pena della detenzione a vita per il reato di omicidio volontario aggravato (Mord). L'art. 212 punisce con una pena non inferiore a cinque anni, l'omicidio volontario semplice (Totschlag). L'art. 213 punisce con una detenzione da sei a cinque anni. L'aiuto e l'istigazione al suicidio non sono punibili, mentre l'art. 216, punisce con una detenzione da sei a cinque anni, l'omicidio su richiesta esplicita della vittima.

Austria.L'art. 77 austriaco stabilisce: "Chi cagiona la morte di un'altra persona, su sua richiesta seria e insistente, punibile con la detenzione da sei a cinque anni". L'art. 78 dice: "Chiunque induce un'altra persona al suicidio, oppure le presta aiuto, è punibile con la detenzione da sei a cinque anni". Ai sensi del 1°co.dell'art. 37 c.p., può essere inflitta una pena pecuniaria invece di quella detentiva.

Norvegia.L'art. 235 stabilisce norvegese che la pena prevista dagli art. 228 e 229 non viene inflitta quando il fatto è commesso con il consenso della vittima. L'art. 228 dispone: "Chi percuote altri o comunque gli fa violenza fisica o concorre in tale azione è punito con una pena pecuniaria o carcere fino a sei mesi". L'art. 229 detta: "Chiunque cagiona lesioni personali o pone altri in condizioni di indebolimento, di incoscienza o in condizioni simili, ovvero vi concorre, viene punito col carcere fino a tre anni; sino a sei se dall'azione del colpevole è derivata una malattia o incapacità al lavoro per una durata superiore a due settimane o altra menomazione incurabile o lesione inguaribile; sino ad otto anni se è derivata la morte o lesione gravissima". L'art. 236 stabilisce: " Chiunque presta assistenza al suicida o a chi si provoca gravissima ferita o malattia verrà punito come correo di omicidio o di lesioni personali gravissime del consenziente. Se non si verifica la morte o lesione personale gravissima, l'agente non è punibile".

Islanda."Il codice penale dell'Islanda all'art. 213 prevede: "Chi uccide altri su sua richiesta espressa, sarà punito con la reclusione fino a tre anni o con la detenzione semplice non inferiore a sessanta giorni". L'art. 214 punisce con la detenzione semplice o con l'ammenda chi aiuta altri al suicidio: Se il fatto è commesso per motivi di interesse personale, la pena sarà quella della reclusione fino a tre anni".

Grecia.Il codice penale greco del 1950 all'art. 300 di omicidio col consenso dice: "Chiunque ha deciso ed ha commesso omicidio su richiesta seria ed insistente della vittima e per pietà verso questa che soffriva per malattia insanabile è punito con la carcerazione". L'art. 301 dispone: "Chiunque, con intenzione, ha indotto altri al suicidio, se il suicidio si è realizzato o si è verificato il suo tentativo, così come chiunque vi ha prestato aiuto, è punito con la carcerazione". La richiesta deve essere insistente, per essere valida.

Regno Unito. Il diritto inglese ritiene che " nessuna persona ha la facoltà di distruggere la vita se non per ordine ricevuto da Dio, suo Creatore". L'omicidio del consenziente viene considerato come un caso di "voluntary manslaughter" e non di "murder".

U.S.A. Negli U.S.A. non vi è uniformità penale sul suicidio, né è previsto l'ipotesi dell'omicidio del consenziente. In California è nato il "Natural Death Act" che si bette per l'accettazione dell'eutanasia, inseguito al caso Quinlam del 1976.

Costa Rica.In Costarica l'art. 116 del 1970 dispone: " Si applica la pena detentiva da sei mesi a tre anni a chi, spinto da un sentimento di pietà, uccide un malato grave o incurabile, a seguitodi sua richiesta seria ed insistente, anche quando questi sia legato all'uccisore da vincoli di parentela". L'art. 93 c.p. (sub 6), può concedere il perdono giudiziale al condannato per omicidio "pietatis causa", commesso su richiesta della vittima in stato terminale. L'art. 114 dice: "A chi abbia manifestato concretamente intenzione di suicidarsi, si applicherà la misura di sicurezza di un trattamento psichiatrico adeguato". L'art. 115 prevede: "Sarà punito con pena detentiva da uno a cinque anni chi istiga altri al suicidio o l'aiuta a suicidarsi, se l'evento si verifica. Se l'evento non si verifica, ma si producono lesione gravi (art. 124 c.p.), la pena sarà da sei mesi a tre anni".

Colombia.L'art. 326 del codice penale del 1980 della Repubblica di Colombia prevede: "Chiunque cagiona la morte di altri per porre fine ad intense sofferenze derivanti da menomazioni fisiche o da infermità grave ed incurabile, sarà punito con la prigione da sei mesi a tre anni". L'art. successivo stabilisce: "Chiunque efficacemente induce altri al suicidio, o gli presta aiuto efficiente, sarà punito con la detenzione da due a sei anni".

Uruguay.In Uruguay l'art. 315 punisce chi aiuta altri al suicidio, mentre l'art. 37 considera impunibile, la pietà nell'omicidio disponendo che: "I giudici hanno la facoltà di esentare dalla pena chi, senza precedenti penali (sujeto de antecedentes honorables), si rende autore di omicidio commesso per motivi di pietà, a seguito di suppliche reiterate dalla vittima".

Somalia.L'art. 436 del 1963 del codice penale somalo, punisce l'omicidio del consenziente con la detenzione da sei a quindici anni e la pena di morte, nel secondo comma, se la vittima è minore di diciotto anni o infermo di mente. L'art. 437 dice: "Chiunque con atti idonei attenta alla propria vita, è punito con la reclusione fino a cinque anni o con la multa fino a Sh.So. 10.000". L'art. 438 dispone: "Chiunque determina altri al suicidio, o rafforza l'altrui proposito di suicidio. Ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dieci anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima".

Libano.L'art. 552 libanese stabilisce: "Sarà punito con la detenzione non superiore a dieci anni colui che, per un sentimento di compassione, avrà intenzionalmente dato la morte a una persona su sua pressante richiesta". L'art. 553 dispone: "Colui che, con qualsiasi mezzo avrà determinato altri al suicidio o che l'avrà aiutato a darsi la morte sarà punito: con la detenzione non superiore a dieci anni se il suicidio avviene; con la carcerazione da tre mesi a due anni in caso di tentativo di suicidio da cui sarà derivata una lesione o un'incapacità permanente".

Olanda.

La Congregazione per la Dottrina della fede è intervenuta sul caso Olandese con il documento Iura et Bona (Dichiarazione sull'eutanasia). Martedì 28 novembre 2000 il Parlamento dell'Aja ha approvato con 104 voti a favore e 40 contrari una legge sull'aiuto alla morte, con la quale viene legalizzato completamente il ricorso al sostegno del medico per porre fine alla propria vita ("Avvenire" 29/11/00).

Le condizioni richieste per potere domandare la morte di Stato sono: un dolore insopportabile e l'assenza di speranze di guarigione Ora, c'è da notare che - per la legge olandese - il dolore insopportabile non è inteso solo nel senso fisico, come nel caso di una malato di cancro giunto alla fase terminale, ma anche nel senso di un dolore psicologico, come quello di un paziente che ha appreso di essere allo stadio iniziale del morbo di Alzheimer. La legge varata dalla Camera è passata al Senato, dove il 10 aprile 2001 è stata approvata. Si conclude così un lungo dibattito cominciato in Olanda da molto tempo. Già una legge, votata nel 1993, tutela il dottore dall'essere perseguito per eutanasia se il paziente si trova in un male insopportabile, se egli ha ripetutamente domandato di morire, se due dottori acconsentono alla procedura, se i parenti sono stati consultati. Il codice penale olandese prevede l'art. 293 e l'art. 294.

La decisione olandese lascia comunque amareggiati: il "via libera" definitivo alla legalizzazione dell'eutanasia è in aperto contrasto con diversi documenti etici internazionali. La Dichiarazione di Ginevra (1948), siglata dall'Associazione Medica mondiale, impegna il medico a mantenere "il massimo rispetto per la vita umana dal momento del concepimento". Il rispetto della vita e della persona umana costituisce la verità dell'etica medica, fedele alla sua tradizione ippocratica e rinforzata dalla tradizione giudaica e soprattutto da quella cristiana. La Guida Europea di Etica e di Comportamento Professionale dei Medici (1982) ricorda che: "il diritto dell'individuo al rispetto della propria vita e dell'integrità fisica e mentale della sua persona risponde al desiderio istintivo di ogni uomo". Ora il medico, mediante l'esercizio della sua professione, è chiamato in prima persona a proteggere la vita, sia mediante le sue azioni terapeutiche, sia mediante le sue azioni di prevenzione. Questo sentimento, profondamente sentito da tutti, è il fondamento della fiducia che il paziente deve poter porre nel medico: ricorrere a un medico vuol dire in primo luogo affidarsi a lui. Pertanto, ricorda l'autorevole testo "tale azione, che domina tutta l'etica medica, proibisce, di conseguenza, alcune azioni ad essa contrarie. Così il medico non può procedere all'eutanasia".
Come si potuto approvare una legge direttamente in contrasto con i principi dell'etica medica internazionale? La risposta non è facile, ma potremmo dire che tale decisione è il frutto della cultura contemporanea, per la quale non esiste più un bene assoluto ed oggettivo, che domanda di essere accolto con responsabilità, ma esiste il bene-per-me. Detto in altre parole: il rispetto per la vita non è più condiviso come un valore fondamentale, ma è vissuto come un valore subordinato ad altri parametri. Ad esempio alla qualità di vita. Una vita sana e felice merita di essere vissuta, una vita segnata dalla sofferenza e forse distrutta dalla malattia ha perso il suo valore ed è meglio per la persona non vivere. È una scelta che ormai spetta al singolo: lui solo è arbitro della propria esistenza e deve decidere se vivere o morire, se lottare o arrendersi. A questa deriva ha portato in epoca moderna il concetto di autonomia, tanto invocato oggi dalla bioetica laica, anche da quella italiana. Nel Primo Manifesto di Bioetica Laica (1996) leggiamo: "il primo dei principi che ispira noi laici è quello dell'autonomia. Ogni individuo ha pari dignità e non devono esservi autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui in tutte quelle questioni che riguardano la sua salute e la sua vita. Questo significa che la sfera delle decisioni individuali in questioni come l'eutanasia (.) deve venire allargata al di là di quanto oggi non accada". Non è difficile prevedere che presto in Italia qualcuno inviterà a guardare con ammirazione alla scelta olandese! In questo orizzonte si domanda alla legge di esprimersi garantendo a ciascuno la più grande libertà e, in particolare, il diritto di decidere della propria vita. Ma è questo il compito della legge? Certamente non si può pretendere che il diritto codifichi nel particolare tutte le esigenze etiche, ma neanche si può accettare che prescinda totalmente dall'etica. Al contrario: etica e diritto sono in relazione, perché sono due diversi modi di considerare l'uomo, la sua dignità, il suo valore; per fare un esempio, sono come le due sponde lambite da un medesimo fiume: entrambe sono raggiunte dal valore dell'uomo e dalla sua dignità; ciascuna, secondo la propria competenza, rielabora questo valore formulando indicazioni operative, leggi, nel campo giuridico, principi, in quello morale. Il diritto è impegnato nella difesa della persona in tutti i suoi aspetti: dignità, vita, nascere, morire, libertà, nome, etc. Una volta tutelati questi, l'etica può offrire il proprio contributo portando nuovi elementi alla riflessione per comprendere come attuare concretamente il rispetto per la persona. Insieme, diritto ed etica, sono impegnate nel riconoscere e realizzare l'autentico bene dell'uomo e quindi il bene comune. Fuori da questo contesto la legge perde il suo riferimento alla moralità e si piega ad altri interessi o segue i parametri dell'efficienza e del benessere: l'eutanasia di Stato è un sintomo di quella che Giovanni Paolo II chiama "cultura di morte" ("Evangelium Vitae" n. 64): davanti ad essa i credenti sono impegnati coraggiosamente a presentarsi nel mondo come il vero popolo della vita.










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