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vita di ITALO SVEVO

letteratura



-ITALO SVEVO-

vita

Trieste, cosmopolita e fervida di traffici sotto il regime austroungarico è la città' in cui nacque Ettore Schmitz nel 1861 e nella quale verrà ambientata tutta la sua opera.

Di famiglia ebrea di agiati commercianti nel settore vetrario, viene messo in collegio in Baviera e si appassiona soprattutto alla letteratura tedesca.

Tornato a Trieste a 17 anni per completare gli studi commerciali, in seguito al fallimento dell'industria paterna, nel 18800 si trova nella necessità di trovare un lavoro: entra come impiegato alla Banca Union, dove resterà 20 anni.

Fa i suoi primi passi nell'esercizio letterario pubblicando qualche articolo e poi qualche racconto su un giornale triestino, "L'indipendente", legge i classici e i grandi autori del realismo, si interessa particolarmente a Schopenauer, che resterà un punto di riferimento costante.

Gravissimi lutti in famiglia- il carissimo fratello Elio, il padre e poi la madre- non gli impediscono una ricca attività: nelle ore libere dal lavoro si d 323b16d edica allo studio del violino e, soprattutto la notte, a scrivere.

Nel 1982 pubblica presso il tipografo Wram di Trieste il romanzo "Una vita" e nasce Italo Svevo, il <nom de plume> che accosta due culture e le due lingue dell'autore (gli studi medi erano stati compiuti in tedesco, in casa parlava il triestino) e che distinguerà lo scrittore dal bancario e poi dall'uomo di affari Schmitz.



Il libro guadagna qualche segnalazione, ma passa sostanzialmente inosservato.

Nel 1896 sposa una cugina, Livia Veneziani, figlia di un ricco industriale e l'anno dopo nasce la figlia Letizia.

Sono anni intensi creativi: nel 1898 esce il secondo romanzo, Senilità, che cade in silenzio ancora più totale del primo.

Dopo che il suocero gli chiede di lasciare la banca e di divenire socio nella sua fabbrica di vernici sottomarine, Schmitz viaggia spesso per l'Europa e si occupa intensamente dell'azienda: sembra che le velleità letterarie siano abbandonate.

In realtà, Svevo è vivo e vegeto: scrive novelle e testi letterari che forse nessuno leggerà, ma la vocazione letteraria e il piacere della scrittura sono più forti della delusione che è in lui per l'indifferenza che lo circonda.

L'incontro che metterà in moto quella che egli stesso definisce "La resurrezione di Lazzaro" avviene intorno al 1906: alla Berlitz School, dove si iscrive per migliorare il suo inglese, che gli è necessario nei rapporti di lavoro, conosce un insegnante irlandese eccezionale: James Joyce.

Presto le lezioni diventano private, tre volte la settimana: non si fa cenno alla grammatica, ma si parla soprattutto di letteratura: Joyce gli fa leggere alcuni suoi manoscritti.

Svevo, su insistenza di Joyce, gli dà i suoi romanzi, che vengono giudicati positivamente. Nasce un'amicizia importante.

Fra il 1908 e il 1910 Svevo legge Frued e i libri di psicoanalisi. Oltre all'interesse teorico c'è quello pratico: per valutare l'opportunità di far curare un suo parente tiene una corrispondenza con un medico collaboratore di Freud.

Non ha molta fiducia nell'applicazione terapeutica della psicoanalisi e scrive che Freud è più importante per i romanzieri che per i malati.

Intanto, con lo scoppio della guerra, la fabbrica di vernici è ferma: c'è molto tempo libero e il romanzo torna a prendere forma in Svevo.

Nel 1919 inizia a scrivere La Coscienza di Zeno che viene pubblicato, sempre a spese dell'autore, dall'editore Cappelli di Bologna nel 1932.

L'anno dopo Joyce, che si è trasferito a Parigi e che è entusiasta del libro, parla dell'amico italiano a Cremieux e Valery Larbaud, letterati italianisti, che vogliono conoscere la sua opera.

Viene deciso il "lancio" di Svevo in Francia.

Intanto Eugenio Montale, sulla rivista "L'esame", scrive in termini molto elogiativi del romanzo e dell'autore rivelandolo al mondo letterario.

Nel '27 La coscienza di Zeno viene tradotta in Francia e Svevo si batte per la riabilitazione dei primi due romanzi, annegati nell'oblio della critica italiana.

In un clima di rinnovata fiducia continua a scrivere novelle, poi inizia un nuovo romanzo e stende un suo "Profilo Autobiografico".

La salute tuttavia non è brillante.

Nel marzo del 1928 al Pen Club di Parigi viene organizzato per lui un omaggio celebrativo, con la presenza di oltre 50 intellettuali europei, fra i quali Joyce e Shaw. E' il momento che più lo ripaga delle delusioni e dell'attesa di vedere riconosciuta la sua opera.

Un banale incidente automobilistico ha conseguenze definitive: Svevo muore nel settembre del 1928 a Motta di Livenza a 67 anni.


L'opera


Al centro dell'opera letteraria di Svevo è la coscienza individuale, l'ambiente, la piccola borghesia della Trieste del tempo.

Ma all'ottimismo intraprendente dell'ambiente triestino oppone un pessimismo scettico circa la possibilità dell'uomo di essere protagonista o artefice della propria vita.

I personaggi sono "inetti", come l'autore aveva definito l'Alfonso Nitti di "Una Vita", cioè impegnati in un confronto perdente col mondo che li circonda, frustati e deboli, "antieroi" anche quando vorrebbero essere eroi. Molti i motivi autobiografici, molti gli spunti che Svevo trae dalla realtà.

"Una Vita", che avrebbe dapprima voluto intitolarsi appunto "un inetto", è la storia di un impiegatuccio di banca che tenta di salire la scala sociale attraverso studi filosofici, la letteratura e il matrimonio con la figlia del principale, ma è schiacciato dalla propria incapacità fino alla perdita del lavoro e delle illusioni, che lo portano al suicidio.

In "Senilità", al centro della vicenda c'è Emilio Brentani: 35 anni circa, un impiego modesto, un avocazione di scrittore mancata, un'esistenza grigia accanto a una sorella nubile e già sfiorita, Amalia.

Ma un giorno Emilio incontra Angiolina, una ragazza del popolo bella e disponibile, elementare nella sua vitalità e sensualità, ma anche naturalmente bugiarda e infedele.

Dapprima crede di poter gestire il rapporto senza farsi coinvolgere sentimentalmente, ma presto si innamora senza avere il coraggio di assumersi alcuna responsabilità. La verità è che Emilio è incapace di amare. Del resto, lei conduce un gioco fatto di ingenuità e di inganno, di istinto e di calcolo, collezionando uomini e occasioni.

Ma che cosa le rimprovera i fondo Emilio: la sua dubbia moralità o la sua bellezza troppo appariscente?

Dopo un ultimo incontro drammatico in cui Emilio grida ad Angiolina il suo disprezzo e la sua disperazione, Amalia muore e lascia il fratello solo e inutile, avviato a una senilità che è rinuncia, noia, incapacità di qualunque progetto e di qualunque riscatto.

Il terzo libro sveviano, La coscienza di Zeno, scardina l'impianto classico del romanzo.

Il protagonista è lo stesso io narrante, non c'è uno sviluppo cronologico dei fatti, ma un continuo alternarsi di passato e presente, una molteplicità di punti di vista e di prospettive: è una specie di diario di viaggio nella ricerca introspettiva di sé.

Zeno Cosini, in preda a strani disturbi nervosi, a un disagio del vivere che lo fa star male è stato in cura dallo psicanalista. Il medico, a un certo punto, gli ha consigliato di scrivere la storia della sua vita, di riviverne le esperienze salienti e, attraverso lo scavo di coscienza e il riflesso della memoria, psicanalizzare se stesso. Vengono così alla luce il problema del protagonista col vizio del fumo, dal quale non riesce a liberarsi, il suo matrimonio in apparenza deciso casualmente, la relazione con una giovane amante, il rapporto contraddittorio con il cognato rivale Giulio, al quale si associa in un impresa che non andrà a buon fine e in seguito alla quale Giulio arriva, per sbaglio, ad uccidersi. Nel dipanarsi della matassa interiore, si illumina la malattia di Zeno, che è sì immaginaria e di comodo, ma anche reale e concreta visto che riesce a condizionarlo pesantemente.

In realtà, egli è vittima del suo continuo analizzarsi creandosi degli alibi e delle giustificazioni, della sua incapacità di aderire alla realtà e di lottare per conquistare questa fondamentale adesione.

La "guarigione" viene poi quando, in seguito alle vicende del cognato, è Zeno a prendere la direzione della ditta  e le redini della famiglia. Si accorge quindi che la necessità lo ha aiutato a prendere delle responsabilità, lo ha spinto all'azione, facendogli superare il disagio esistenziale o per lo meno rendeglielo governabile.

Lucido, consapevole, Zeno usa l'arma dell'autoironia per sopportare la dimensione del vivere: non si illude sulla natura umana e neppure sulla società.

Il capitalismo imperante non lo convince, ma non vede alternative.

L'unica salvezza possibile per riuscire a vivere sta nel conoscere la precarietà dell'esistenza e dei suoi limiti: accettare con il sorriso dell'ironia, ma anche dell'indulgenza le debolezza proprie e altrui, accontertarsi della tranquillità che deriva dal coltivare il proprio giardino senza chiedere alla vita più di quanto ci possa dare.




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