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GUIDO GOZZANO - VITA, EPOCA E STILE LETTERARIO

lettere



GUIDO GOZZANO




























TESINA SVOLTA DA PAROLA PAOLO

ALUNNO DELLA CLASSE VC Geometri

DELL' ISTITUTO TECNICO STATALE "G.A.GIOBERT"

VITA


Guido Gustavo Gozzano nasce nel 1883 a Torino il 19 dicembre, quarto figlio di Diodata Mautino (nipote dunque da parte materna del senatore Massimo Mautino, buon conoscente di D'Azeglio e Cavour) e dell'ingegner Fausto Gozzano, entrambi nativi di Agliè Canavese; e i soggiorni nella casa di Agliè paiono gli eventi più significativi della sua infanzia.

Frequenta le scuole a Torino con profitto, come anche in seguito, modesto.

Nel 1896 viene iscritto alla seconda ginnasiale presso il Liceo Cavour, mentre l'anno successivo è messo in collegio a Chiasso assieme all'amico di quegli anni, Ettore Colla.

Nel 1898 rientra al Cavour e si separa da Ettore, dislocato a Pinerolo, senza che perciò la loro amicizia si allenti; anzi intercorre tra i due ragazzi un fitto e interessante epistolario.

Di salute cagionevole, d'estate Guido viene portato, come già l'anno precedente e poi quasi sempre, a villeggiare al mare.

Nel marzo del 1900 muore il padre. Nel novembre viene iscritto alla prima liceo presso il collegio privato Ricaldone di Torino.

La corrispondenza con Colla registra, ma anche probabilmente moltiplica e ingigantisce, episodi piccanti e passioni adolescenti.

Tra il 1902 e il 1903 frequenta l'ultimo anno di liceo a Savigliano, in un collegio di assai blanda disciplina che favorisce fughe e avventure dai risvolti boccaccevoli. Ottiene la licenza liceale nella sessione autunnale.

Tra il 1903 e il 1906 si iscrive alla Facoltà di Legge a Torino, ma si aggira più volentieri nella Facoltà di Lettere attrattovi dalla presenza, alla cattedra di letteratura italiana, di Arturo Graf. Dale lezioni e letture dantesche di quest'ultimo deriverebbero la rilettura della Commedia di Gozzano e il famoso quaderno zeppo di citazioni. Erano allora allievi con lui molti personaggi importanti di quell'epoca come Vallini e Calcaterra.

Frequenta anche la Società di Cultura, che organizzava ogni giovedì una conferenza a palazzo Madama ed aveva una sede sociale con ricca biblioteca in via delle Finanze, ma il gruppo di cui più spesso fa parte Gozzano si segnala più per goliardismo che per amore della cultura.

Il curriculum studentesco di Gozzano procede lentissimamente; sono invece di questi anni, pare, anche le sue letture di poeti francesi e belgi.

È appassionato frequentatore di teatri e camerini, ammiratore fervidissimo di Emma Grammatica e ammiratore galante della giovane Lyda Borelli. I biografi lo vogliono teneramente innamorato e donnaiolo, ma amori e tisi sono anche un binomio topico biografico-lettera 919b14j rio.

Il 1907 è l'anno della Via del rifugio e dell'aperto rivelarsi della malattia con una violenta pleurite che lo costringe ad isolarsi fin da maggio in Liguria; è anche l'anno dell'avvicinamento ad Amalia Guglielminetti iniziato con la cortesia letteraria dello scambio delle loro fortunate raccolte, uscite quasi contemporaneamente in primavera. Con questo reciproco invio della Via del rifugio e delle Vergini folli e i reciproci giudizi di lode, comincia l'unico capitolo amoroso certo e importante della biografia gozzaniana.

Nel 1908 passa l'estate a Ronco Canavese; in novembre torna a San Francesco d'Albaro, l'abituale soggiorno ligure. Intanto prosegue l'elaborazione dei Colloqui.

Il 2 gennaio del 1909la madre di Gozzano, cinquantunenne, è colpita da paralisi: sopravvive e migliora, ma non si riprenderà più. Si accentuano anche le preoccupazioni economiche aperte dalla morte precoce del padre. I Gozzano devono vendere il Meleto (la casa di Agliè) e ridursi in un appartamento più modesto.

Guido soggiorna a Bertesseno Viù, nelle Alpi Graie, da giugno a settembre.

Nel 1910 procedono la stesura e la pubblicazione in rivista ("La Riviera Ligure"e "La Rassegna Latina") dei Colloqui.

Gozzano trascorre l'estate ai duemila metri di Fiery d'Ayas in Valle d'Aosta.

Nel 1911  escono a stampa in volume i Colloqui.

A Torino si inaugura in primavera l'Esposizione per il cinquantenario del Regno d'Italia, e Gozzano si inserisce nell'occasione celebrativa con una serie di articoli giornalistici più torinesi, com'ra ovvio, che non risorgimentali.

Nel febbraio 1912 s'imbarca a Genova con l'amico Giacomo Garrone, anche lui malato, e sbarca il 5 marzo a Bombay. Soggiorna poi soprattutto a Ceylon, che sarebbe stata anche la culla di tutto un gruppo di poemetti "indiani" tipo Ketty poi scomparsi, distrutti o mai scritti. Lascia Bombay a fine aprile e torna in Italia.

Verso la cuna del mondo nasce in parte dal viaggio e in parte da un'invenzione esotico-orientaleggiante e misticheggiante nella quale ha giocato più Loti che l'esperienza diretta.

Tra il 1913 e il 1915 pensa e lavora alle Farfalle per le quali è pronto il contratto con Treves.

Alterna diversi soggiorni marini mentre abbandona, inspiegabilmente, la montagna. La malattia si aggrava.

L'Italia entra in guerra.

Nel 1916 torna in Liguria e, aiutata dal sole estivo, il 16 luglio la malattia esplode in una crisi decisiva.

Trasportato in condizioni ormai disperate a Torino, vi muore il 9 agosto a neanche trentatre anni.


EPOCA E STILE LETTERARIO


Il periodo compreso tra l'ultimo decennio dell'800 e gli anni precedenti la prima guerra mondiale, è caratterizzato da una violenta reazione al Positivismo: questo aveva celebrato la fede nella scienza, nel progresso sociale, nella pacifica collaborazione fra i popoli, ma la realtà, fatta di guerre, imperialismi, lotte di classe, era ben diversa da quanto si era sperato. Tale situazione determina nuovi atteggiamenti spirituali: subentra la disillusione, l'angoscia, la sensazione del vuoto e del nulla; in arte si reagisce con la rottura dei moduli naturalistici.

Distrutti i vecchi schemi della cultura positivistica, rinnegati i miti consolatori dell'800, immerso in un mondo sfiduciato nelle prospettive della scienza e della vita politica e sociale, posto di fronte all'ascesa vertiginosa della borghesia capitalistica che impone un modello di società tutto basato sulla logica del capitale e del profitto come unici valori, l'uomo di cultura (europeo) del primo '900 vive una profonda crisi d'identità, avverte chiaramente la fine di un'epoca e l'avvento di una nuova e prende coscienza della perdita del suo tradizionale ruolo sociale che era quello del "praeceptor", del "creatore di valori". Egli generalmente, al contrario di quanto avveniva nel secolo precedente, proviene dai ceti medi borghesi, una classe sociale che vede compiere il suo declassamento schiacciata com'è tra la forza indiscussa della grande borghesia finanziario-industriale e le emergenti forze del proletariato. Emarginata da questi due colossali protagonisti, la piccola e media borghesia, e con essa l'intellettuale, si sente frustrata, indebolita, disorientata ed, incapace di farsi classe egemone come aspira, si vede ridotta a classe subalterna e strumentale. In questa situazione di inferiorità per gli scrittori scrivere diviene un lavoro come un altro per procurarsi da vivere. In tal modo poeti e scrittori si sentono semplici lavoratori, uomini tra gli uomini, "poveri mortali" come tutti gli altri. Nasce da ciò una situazione di disagio, di noia esistenziale, di malcontento, di provocazione.

La coscienza del disagio esistenziale, del "male di vivere" che travaglia l'uomo contemporaneo è presente in gran parte della poesia e della narrativa dei primi del '900.

Lo scrittore avverte con angoscia che sta per compiersi la frattura definitiva, iniziata nell'Ottocento, tra io e mondo, tra artista e realtà e si sente "spersonalizzato", "disumanizzato", "disintelligenziato". Oramai "i tempi sono cambiati", come dice Palazzeschi, e gli uomini "non domandano più nulla ai poeti", a quei poeti che altro non sono che "articoli di non prima necessità", come afferma Gozzano.

Siamo in pieno Decadentismo, periodo che vede un uomo incerto e stanco, sconfitto sul piano politico nella sua libertà e frastornato dalle voci della guerra, che cerca dentro di sé, in un ripiegamento introspettivo, nuovi mondi in cui credere. La faticosa autoanalisi dell'uomo moderno è accompagnata dalla coscienza di quanto sia amaro far parte della storia in un mondo che cerca la propria grandezza nel sopruso, in violenti imperialismi e nazionalismi prevaricatori.

La risposta degli uomini di cultura alla profonda crisi esistenziale, morale e culturale che investe la coscienza dell'uomo agli albori del Novecento e alla crisi che travolge l'intellettuale tradizionale approda a soluzioni diverse e spesso contraddittorie.

Alcuni scrittori si impegnano in una inquieta e tormentosa analisi della malattia dell'uomo moderno nella civiltà industriale e borghese che essi condannano in maniera corrosiva e impietosa. Nelle loro opere questi scrittori parlano di malattia, di eroe in tensione, di inettitudine, di universo labirintico; e ancora di uomo senza qualità, di uomo spersonato nel male del tempo, di male di vivere. Escono dalle loro opere personaggi incapaci di agire, di darsi una consistenza, tesi a smontare la storia dei loro fallimenti e della loro coscienza frantumata. Tali personaggi lottano invano contro i pregiudizi e la morale borghese, contro la città che massifica l'uomo; essi individuano chiaramente i meccanismi alienanti e ripetitivi dell'inferno tecnologico che riduce l'uomo a semplice manovella, rovesciando così i miti imperialistici della macchina in "malattia industriale". Ma questi personaggi non riescono a configurare pienamente un "uomo nuovo" veramente alternativo; la loro protesta tende a risolversi in se stessa, in una dolente quanto amara impotenza.

L'Italia era stata anch'essa coinvolta dalla crisi di valori che caratterizzò l'intera Europa agli inizi del '900; ma la penetrazione della cultura e soprattutto della letteratura decadente, era stata rallentata nel paese dalla persistenza della tradizione aulica. Alcune spie di una nuova sensibilità erano già ravvisabili negli intellettuali futuristi, i quali tendono a risolvere la crisi storica e dell'intellettuale, che pure essi avvertono, in uno sfrenato attivismo, in un'esaltazione incondizionata della civiltà industriale, in una celebrazione della religione della macchina e della velocità. Essi, quindi, come risposta-reazione alla profonda crisi esistenziale, sia morale che culturale, che li travolse agli albori del'900, tesero a liquidare un certo vecchiume culturale, a credere nella positività della rivoluzione industriale e ad esaltare incondizionatamente la civiltà industriale, la macchina, la velocità e la guerra, sentita come azzeramento totale per una nuova ricostruzione, poiché dopo la necessaria distruzione si profetizzava un nuovo mondo guidato da una generazione giovane, forte, vigorosa.

Altri intellettuali e letterati, ossia i Crepuscolari, cercano di risolvere la crisi fuggendo la città, in un impossibile ritorno alla provincia, alla semplicità, all'innocenza ingenua degli affetti sani della campagna o alle "buone cose di pessimo gusto" del tempo passato. Sarà, però, un tentativo tutto programmato e spesso intellettualmente voluto, a cui gli stessi Crepuscolari, in ultima istanza, non crederanno.

La corrente culturale del Crepuscolarismo aveva, quindi, già avvertito, anche se in sordina, la crisi del secolo romantico di fronte ad un mondo sempre più movimentato, a un'Europa sempre più aperta grazie al lungo periodo di pace ed alle Esposizioni Universali che, oltre all'economia, favorivano lo scambio delle idee.

Guido Gozzano è il poeta di maggior spicco e l'interprete più originale della poesia crepuscolare. Dopo un esordio dannunziano, Gozzano si stacca decisamente dal maestro dietro sollecitanti letture di testi simbolisti. D'Annunzio in quegli anni portava ancora avanti la figura del "poeta - vate", produttore di cultura e guida spirituale, del poeta che pretende di essere la voce del proprio tempo e l'interprete delle esigenze di un popolo, elaborando valori, modelli culturali, paradigmi ideologici. Gozzano invece, e con lui gli altri crepuscolari, si accorge che i tempi sono cambiati, che le certezze della ragione e della scienza sono venute meno, né possono essere sostituite dal culto, inautentico, della "Vita inimitabile" e dei miti ottocenteschi. Si accorge che l'intellettuale, nell'epoca dell'imperialismo trionfante, è schiacciato tra la grande borghesia industriale e le nuove forze sociali del proletariato, ed ha ormai perso il suo ruolo di guida morale e spirituale. Nella nuova realtà il poeta è una figura superata dalla storia, da sottoporre a corrosione critica, a dissacrazione impietosa. L'ironia in Guido Gozzano, si trasforma in coscienza problematica dell'uomo moderno, solo, deluso, sfiduciato in un mondo sospeso tra il "non essere più" e il "non essere ancora", oscillante tra le cose che potevano essere e non sono state; un uomo sospeso in una condizione limbale tra un Ottocento che tarda a morire e un Novecento che fatica a nascere, quasi un bruco che non sa divenire crisalide.

E Gozzano esprime la sua delusione di letterato, definendo il poeta un "gianduia", fino a vergognarsi di "essere un poeta" e rifiutare "la vita sterile del sogno". La polemica sulla letteratura, sul nuovo modo di essere poeta e di poetare segnano la fine di un'età della cultura, l'esaurirsi di tutta una civiltà delle lettere.

La corrosione polemica contro la letteratura e il "poeta-vate" è rivolta da Gozzano, e qui sta la novità che lo differenzia dagli altri crepuscolari, non solo verso la tradizione letteraria e i suoi interpreti, ma anche verso i temi della propria poesia e, particolarmente, verso se stesso quale personaggio della sua opera. Gli strumenti di questa polemica sono l'ironia, l'atteggiamento critico, il gusto del commento, il prendere le distanze dalla propria materia. Ecco allora che gli oggetti tipici della tematica crepuscolare (topaie, materassi, vasellame, / lucerne, ceste, mobili) sono consapevolmente e lucidamente definiti "ciarpame / reietto, così caro alla mia Musa!" In "Totò Merùmeni" una sottile ironia investe il letterato, la sua tematica e i suoi atteggiamenti comportamentali; ma questa ironia è autoironia, in quanto Totò è la maschera di Gozzano stesso. Attraverso questa maschera, che gli consente il distanziamento critico e ironico, il poeta filtra la polemica ambivalente sia contro la tradizione letteraria che nella mitologia dannunziana aveva un polo di riferimento, fascinoso e nello stesso tempo respinto, sia verso i temi della propria poesia, a cui sentimentalmente Gozzano fatica ad aderire, sia infine verso se stesso come personaggio della propria opera e della propria avventura intellettuale.

Il "veleno" dannunziano, il "sogno di Sperelli", che, "troppo l'illuse", rimane una costante della psicologia e del temperamento dello scrittore e, con esso, della generazione crepuscolare. Totò Merúmeni ci appare come l'antieroe, non schematicamente opposto all'eroe dannunziano o estetista in genere, ma pro­blematico perché fatto di attrazione e repulsione verso quel mondo. Infatti Totò, filtrato dalla consapevolezza ironica, mentre dissolve i sogni di "Vita inimita­bile" ("Vita" con la V maiuscola) iniettati dal dannunzianesimo, non riesce a sfuggire all'aridità degli affetti, al freddo intellettualismo del ragionatore «sofista». Nelle rovine di un mondo sognato e mai raggiunto Totò non trova che la dimensione consolatoria della scrittura, atto liberatorio in negativo di una coscienza alienata e racchiusa fra le uniche date significative della sua vita: nascita e morte.

Il costante atteggiamento ambiguo e autoironico dell'ispirazione consente al poeta di non identificarsi, come invece succede negli altri crepuscolari, con l'og­getto della rappresentazione; a volte allontana questo oggetto nel tempo e nello spazio, a volte cerca di non prendere troppo sul serio quanto afferma. Alla signorina Felicita confessa: "Mi piaci.  Mi faresti più felice / d'un'intellettuale gemebonda... Ed io non voglio più essere io! / Non più l'esteta gelido, il sofista, / ma vivere nel tuo borgo natio, / ma vivere alla piccola conquista / mercanteg­giando placido, in oblio / come tuo padre, come il farmacista..." Ma l'inserimento in quel buon mondo provinciale è solo un momentaneo vagheggiamento: "Quello che fingo d'essere e non sono". All'esteta e al sofista che ha letto Nietzsche, Gozzano contrappone il "borghese buono", il "buon giovane sentimentale romantico", all'"intellettuale gemebonda" contrappone la signorina Felicita con la sua dimessa "faccia buona e casalinga"; ma la consapevolezza del cattivo gusto di quelle buone cose e di quel buon mondo, la vigile disposizione ironica impediscono una vera adesione affettiva a questa nuova realtà. L'ironia si trasforma in coscienza pro­blematica dell'uomo moderno, solo, deluso, sfiduciato in un mondo sospeso tra il « non essere più » e il « non essere ancora », oscillante tra le cose che pote­vano essere e non sono state; un uomo sospeso in una condizione limbale tra un Ottocento che tarda a morire e un Novecento che fatica a nascere, quasi un bruco che non sa divenire crisalide: "non amo che le rose / che non colsi".

Una costante di Gozzano è allontanare nello spazio e nel tempo gli oggetti e materiali della sua lettura del reale. Nel componimento "L'amica di nonna Speranza" tratto da "I Colloqui" l'occasione per la rappresentazione di un mondo passato è offerta al poeta da una fotografia con dedica ritrovata in un vecchio album di famiglia; la fotografia porta la data "ventotto di giugno del mille ottocentocinquanta", quando la nonna Speranza e l'amica Carlotta avevano appena diciassette anni. Alla regressione temporale, si accompagna l'allontanamento spaziale nell'intimo del salotto borghese di provincia, ricostruito dal poeta nelle sue suppellettili, nei suoi arredi, nei suoi abbigliamenti, ma anche nei suoi "conversari", nei suoi gusti letterari, politici, musicali. Nel giardino, di fronte al lago, le collegiali Speranza e Carlotta parlano d'amore sfogliando margherite "per sortilegio sui teneri versi del Prati", poeta romantico allora di moda.

Nei confronti del mondo rievocato, di quel mondo di "buone cose di pessimo gusto", Gozzano fa scattare un'affettuosa, divertita ironia. Il poeta, infatti, è troppo disincantato, "chiaroveggente", come dirà di se stesso, per lasciarsi trascinare e coinvolgere nel gioco della semplice evocazione di oggetti, d'ambienti, di personaggi affioranti dal passato, o per dare la propria  adesione sentimentale a quel pur caro mondo di memorie che riaffiorano alla fantasia. L'orizzonte fantastico-evocativo, stimolato dalla foto di Carlotta, trova un approdo finale nella labilità di quell'ingiallito cartone, emblema amaro della vanità dei sogni e dell'inutile evasione in un mondo di memorie accarezzate, ma fatalmente naufragate. L'unica donna che il poeta avrebbe voluto amare è quella della foto, cioè una donna che non esiste più.

La problematicità tematica, il contrasto tra un mondo di cose evocate e ripudiate, amate e derise, trovano conferma nel linguaggio, soprattutto nell'utilizzo frequente dell'aggettivo antitetico: "buone cose di pessimo gusto", "dolci bruttissimi versi"; Carlotta, nome "non fine ma dolce"; così "goffe ed aggraziate", così "snelle e tozze" ad un tempo, ecc. Frequente ancora il contrasto tra un lessico banale, sciatto, quotidiano, tipico dell'armamentario crepuscolare (stoviglie, biciclette, rotaie del tram, the, caffè, ecc.), e un lessico aulico, frutto del "veleno" dannunziano assorbito da Goz­zano giovane (peplo, rebescare, cornucopia, armillo, ecc.).

Interessante è l'uso del "dialogo" nel testo poetico ("Avvocato, non parla: che cos'ha?"), che diviene una strumentazione espressiva di contrasto e di strania­mento tra messaggio poetico ed autore, onde evitare ogni adesione sentimen­tale o retorica.

La rima è spesso usata contrapponendo parole di diverso livello stilistico e con funzione dissacrante ed ironica: divino/ intestino, lusinga/ casalinga/ fiamminga, Yacht/ cocotte, ecc.

Insomma tutta la strumentazione espressiva è da Gozzano giocata su un sa­piente dosaggio di prosaico e di sublime, di aulico e di banale; il tutto control­lato dalla sottile e vigile ironia che non si smentisce neppure quando il poeta de­finisce il suo modo di fare poesia: "lo stile di uno scolare/ corretto un po' da una serva".



OPERE


Poesia

  • La via del rifugio, 1907
  • I colloqui, 1911
  • Tutte le poesie, 1980

Narrativa e prosa

  • I tre talismani, 1914
  • La principessa si sposa. Fiabe, 1918
  • Verso la cuna del mondo. 1917
  • L'altare del passato,  1917
  • L'ultima traccia. Novelle,  1919
  • Primavere romantiche,  1924
  • La moneta seminata e altri scritti con un saggio di varianti e una scelta di documenti,  1968

Epistolari

  • Lettere d'amore di Guido Gozzano e Amalia Guglielminetti, 1951
  • Lettere a Carlo Vallini con altri inediti, 1971

Nel 1907 pubblicò la sua prima raccolta di versi, La via del rifugio , che gli diede subito successo di pubblico e di critica. La sua poetica si definì in termini più precisi e originali nei Colloqui , una raccolta del 1911 che contiene alcuni dei suoi componimenti più noti, come il poemetto La signorina Felicita . Di minor valore i volumi di racconti e di fiabe: I tre talismani (1914), e i postumi La principessa si sposa (1917), L'alta re del passato (1918), L'ultima traccia (1919). Incompiuto è rimasto il poemetto entomologico Le farfalle . Interessante sul pia no documentario biografico il carteggio (raccolto nelle Lettere d'amore , 1951) con Amalia Guglielminetti, con cui Gozzano ebbe una inquieta relazione.




















VERSO LA CUNA DEL MONDO


Diario di viaggio pubblicato postumo nel 1917, e in edizione definitiva nel 1937. È nel suo primo intento una serie di corrispondenze per un giornale torinese, "La Stampa", dall'India ove il Gozzano malato andò nel 1912 in un viaggio di tre mesi, a illudersi di cercare e trovare la guarigione. E, con la salute, anche qualche compenso all'anima avariata, qualche offerta eccitante alla sua sazietà, "un po'd'inverosimile, di soprannaturale". Le corrispondenze uscirono pubblicate sul giornale nel 1914. In realtà sono qualcosa di più che relazioni buttate giù alla svelta con gli ingredienti soliti di un facile impressionismo. Anzi, con alcune poche novelle, "Torino d'altri tempi", "La marchesa di Cavour" (quest'ultima scomparsa dall'edizione definitiva), queste pagine di vagabondaggio sono i saggi migliori della sua prosa e, nella vasta biblioteca di questo genere di scritture, un libro che merita un posto singolare. Il complesso delle varietà, delle magnificenze, delle stranezze esotiche è descritto con uno stupore che ti sembra d'un Marco Polo in casco coloniale: ma l'inquietudine dell'osservatore è l'inquietudine di chi cerca non cose da enumerare, ma una convinzione in cui rifugiarsi, un nuovo destino cui adattarsi. Questo sentimento ansioso ci accorgiamo che ha suggerito tante contemplazioni, ma le pagine vivono per una loro nitidezza che ti fa vedere ogni particolare in mezzo a una folla di impressioni, per la disinvoltura correttissima con la quale lo scrittore passa, per esempio, dalla rievocazione della rivolta di Nana Sahib ("L'olocausto di Cawnpore") a un capitolo sugli animali dell'India ("Il vivajo del buon  Dio").
Nulla è più erroneo che credere le lettere dall'India un resoconto di viaggio. Sono al contrario un libro d'arte, alla Gozzano, non condotto all'ultima finezza per la morte sopraggiunta; sono una raccolta di nuovi colloqui, da lui tenuti con se stesso, con ombre inafferrabili del passato e con immagini trascoloranti dell'oggi, presso le piaghe favolose, che si dicono delle origini e non danno che un'altra fantasiosa figura del tempo e dello spazio, tra il tutto e il niente: sono un immenso scenario, disegnato da uno spirito vagabondo, alla distanza di mesi, dopo il ritorno, ora con inestinguibile tristezza umana, ora con la scintillante "gaiezza profanatrice", con cui l'amico di nonna Speranza riguardava le anticaglie, i rottami, il disfacimento delle parvenze umane...






Una novella in versi. La Signorina Felicita ovvero la Felicità è una novella in versi che prende a soggetto la "vacanza" in un innominato paesino del canavese di un avvocato raffinato, colto e letterato, cui accade di definirsi un «esteta gelido» (v. 321) e che è uno scoperto alter ego di Gozzano. Qui egli incontra Felicita, donna nubile non più giovanissima, non bella e tanto più semplice e povera di lui, da apparire agli occhi di chiunque (anche della stessa Felicita, v. 272) un oggetto non desiderabile per lui. Ma l'avvocato-letterato cittadino è saturo del mondo delle donne «rifatte sui romanzi»(v. 258) e dei poeti magniloquenti che «tra clangor di buccine s'esaltano» (v. 202); pertanto in qualche misura indulge a vagheggiare nel paesino di provincia, nella secentesca villa Amarena, ridotta a misura prosaica dalla «cortina / di granoturco» (vv. 21-22), e in Felicita, dalla «faccia buona e casalinga» (v. 75), dagli occhi «d'un azzurro di stoviglia» (v. 84), un'alternativa autentica al proprio mondo e alla propria abituale esistenza. Di qui nasce la storia, oggettivamente crudele e patetica - ma di una crudeltà e di un pathos riscattati da un senso di profonda pietà e complicati dall'ironia -, del corteggiamento di Felicita, delle deboli ripulse di lei, del suo «sgomento indefinito» (v. 266), dell'inutile promessa carpita nel momento dell'abbandono (vv. 403-404)...
Consapevolezza della finzione. Ma se è vero che l'avvocato è saturo di quel mondo che ha momentaneamente lasciato, è anche vero che non lo è abbastanza per tagliare definitivamente i ponti con esso, sul piano della realtà di fatto. Tutto il vagheggiamento di Felicita, della sua autenticità e della sua semplicità d'altri tempi («semplicità che l'anima consola, / semplicità dove tu vivi sola / con tuo padre la tua semplice vita», vv. 46-48) avviene in effetti nella dimensione di un sogno ad occhi aperti (condotto in presenza della ragione, verrebbe da dire), di un compiaciuto fantasticare, della cui impossibilità e irrealtà il protagonista è perfettamente conscio. Si badi: l'avvocato non è lacerato dall'incertezza se lasciare o meno quel mondo "falso" e tuffarsi in questo "vero"; egli non è, in questo senso, un personaggio drammatico. Sa perfettamente qual è il suo mondo (e il suo destino) e sa che in ogni caso non potrebbe realmente adattarsi a vivere con Felicita a Villa Amarena. Sa di fingere con se stesso, sa che il suo sogno è una finzione. E concluderà infatti nel segno della consapevolezza commentando l'immagine di «buono / sentimentale giovine romantico...» con le parole «quello che fingo d'essere e non sono! ». Questa consapevolezza che una finzione (con Felicita e con se stesso) è in atto determina e condiziona l'intero trattamento della materia narrativa e linguistica, come vedremo.
La malattia. L'avvocato è poi malato. Malato in duplice senso. In primo luogo soffre d'una malattia fisica (la tisi?) che, soprattutto, getta un'aura malinconico-crepuscolare su tutta la vicenda e in particolare sull'ambiguo legame con Felicita (lei promette, lui sa che non tornerà perché gli resta poco da vivere - ma così vede le cose Felicita e così ama figurarsele l'avvocato che però, in fondo, sa che non tornerà anche per altri motivi). In secondo luogo la malattia dell'avvocato è una malattia morale che ha più vaste e complesse risonanze. È la malattia morale di chi vuole e disvuole, ma in fondo non sa desiderare realmente nulla, di chi non sa vivere autenticamente, né in fondo lo vuole davvero, compiaciuto com'è della propria ambigua condizione, di chi guarda a ogni sentimento e a ogni ideale - alla vita stessa - con garbato cinismo. Estetismo razionalmente rifiutato, ma vagheggiato nel profondo, insomma.


I COLLOQUI


È la seconda raccolta di versi pubblicata nel 1911, e, in edizione definitiva, nel 1936, arricchita quest'ultima di rime inedite e dei frammenti del progettato poema su Le Farfalle. Un'edizione del 1925, intitolata I primi e gli ultimi colloqui, comprendeva anche una scelta della Via del rifugio. Il volume dei Colloqui è distribuito in tre parti. "Il giovanile errore": episodi, come l'autore dichiarava, "di vagabondaggio sentimentale e documento di quel male mio e del mio tempo che chiamerei impotenza platonica"; e comprende, per dir delle liriche più note, "Le due strade", ch'era già nella Via del rifugio, e "Invernale", un saggio di quel facile novellare mondano, migliore qui nella sua breve costruzione che non nella maggior parte dei racconti radunati nell'Altare del Passato e nell'Ultima traccia. "Alle soglie" è la seconda parte del libro, e adombra "qualche colloquio con la morte": raggruppa le poesie più celebri, "Paolo e Virginia, La signorina Felicita, L'amica di nonna Speranza, Cocotte". La terza parte è intitolata "Il reduce", e aduna i motivi di malinconia, di disinganno ("reduce dall'amore e dalla morte - gli hanno mentito le due cose belle!"), di amara chiaroveggenza e di qualche nuovo fervore, che concorrono a formarci il ritratto di Totò Merùmeni. In quest'ultima parte è, delle più conosciute, la lirica "Torino". I Colloqui sono, nella sua maggior compiutezza, l'espressione di un mondo di fantasmi leggeri, di evocazioni a un tempo affascinate e disilluse. Voce originale, tutta gozzaniana, questa dei Colloqui (anche se vi senti qualche eco di Pascoli, Jammes, De Musset, ma non più D'Annunzio), così nella maniera già in essa insita e che dilagò nei "facili seguaci", come nei felicissimi saggi di poesia genuina. Il Gozzano stesso ha dato, sparsamente ne'suoi versi, qualche definizione della sua ispirazione né molto vasta né molto profonda; scegliamo questa: "e non so quali voci esili inquiete - sorgano dalla mia perplessità". Perplessità è la parola giusta per suggerirci quella vaghezza di sentimenti in cui ci sentiamo altalenati dalla psicologia e dalla musica spesso ambigua del poeta. Il cui atteggiamento più definito è quello di un sopravvissuto che al passato guarda ora con distacco, ora con affettuosa nostalgia, e al presente con un accanimento di sincerità introspettiva e un proposito di rassegnazione che mal celano il tormentato rammarico. Il mondo di Gozzano è una "gioconda (ma la giocondità è un atteggiamento voluto) aridità larvata di chimere": di questo contrasto egli fu spesso, oltre che l'osservatore, il cantore. Delle chimere molte appartengono alle memorie fanciullesche; in quel tempo remoto il poeta amò trasferire i più cari miraggi della sua vita, ma non seppe mai goderli con pieno abbandono, e tentò con una artificiata ironia di spezzarne il romantico inganno. In questo gioco ci rivela non la sua maturità, d'intelletto e d'esperienza, ma la sua giovinezza irrequieta, quella che con tanto dolce tristezza ci affida come sua immagine perenne.
Gozzano riesce a essere un nuovo e saporito verseggiatore con delle parole comuni, degli accenti cascanti e delle rime approssimative. Ha la civetteria degli accordi che paion falsi, delle bravure che sembrano goffaggini di novizio; si diverte a fare il piemontese, l'avvocato, il provinciale. Invece è un artista. uno di quelli per cui le parole esistono, prima di ogni altra cosa.
In ciò sta la sua salvezza; nel sapere attenersi con la fantasia, non fatta per i grandi voli, bene aderente alla vita delle cose, alla realtà che non mente.




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