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Dante Alighieri - Poeta (Firenze 1265-Ravenna 1321)

dante



Dante Alighieri


Poeta (Firenze 1265-Ravenna 1321). Nato da famiglia guelfa di piccola nobiltà (il padre si chiamava Alighiero di Bellincione, la madre donna Bella), allievo di Brunetto Latini, si dedicò presto alla poesia, stringendo amicizia con i poeti stilnovisti Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia. Nel 1274 incontrò Beatrice Portinari, morta nel 1290, donna di cui si innamorò e che ispirò tutta la sua opera poetica. A lei dedicò la Vita nuova (1292-1293), raccolta di 31 liriche in una cornice di prosa, in cui Dante, all'interno dello stilnovo, elaborò un personale concetto d'amore, non più solo fonte e frutto di nobiltà spirituale, ma sentimento che apre all'uomo la conoscenza (di tipo 'analogico') del Divino tramite la contemplazione della perfezione e della bellezza dell'amata. Altre poesie giovanili, d'imitazione siculo-toscana, sono raccolte nelle Rime (1283-1308), che contengono anche le cosiddette petrose (ispirate dalla passione per una 'donna pietra', cioè dura e insensibile) e composizioni allegorico-dottrinali. Sposatosi con Gemma Donati, ebbe da lei tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia. Prendeva intanto parte attiva alla vita politica schierandosi con la fazione dei guelfi bianchi; dopo aver combattuto a Campaldino contro i ghibellini d'Arezzo (1289), iscrittosi all'arte dei medici e speziali, fu tra i priori di Firenze (1300). Nel 1301, mentre era ambasciatore presso il papa Bonifacio VIII, i guelfi neri, prevalsi a Firenze con l'aiuto di Carlo di Valois, lo bandirono dalla città (1302), condannandolo in contumacia, sotto l'accusa di baratteria, a una multa e poi al rogo. Durante l'esilio, andò peregrinando, tra il 1304 e il 1310, per varie città e corti: fu a Forlì, Verona (presso gli Scaligeri), Bologna, in Lunigiana (presso i Malaspina), a Lucca. La discesa di Arrigo VII (1310) rinfocolò le speranze dell'esule, che scrisse per l'occasione tre delle sue 13 Epistole. Dopo l'ultima condanna a morte (1315) dimorò a Verona (ove espose dinanzi al clero una tesi filosofica in latino, la Quaestio de aqua et terra) e infine a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta: qui morì nel settembre 1321 e fu sepolto nella tomba che tuttora ne conserva le ceneri. L'esilio, esperienza centrale della vita di Dante, fu anche il principale elemento ispiratore delle opere della maturità: mentre il poeta affidò al Convivio (1304-1307) le residue speranze di tornare a Firenze grazie ai meriti della sua dottrina, rivendicò, nel De vulgari eloquentia (1304-1305; trattato incompiuto, in latino), la funzione insostituibile dello scrittore nella formazione del linguaggio di un popolo e pose il problema di creare, mediante regole, un volgare nazionale 'illustre', che avesse la stessa dignità letteraria del latino. Spetta infatti all'opera poetica e critica di Dante il merito di aver fatto assurgere il volgare toscano a livello di una grande lingua capace di alta poesia e di speculazione filosofica. Nel Monarchia (1312-1313 ca.; in latino) affermò l'autonomia dell'Impero rispetto alla Chiesa come garanzia per l'attuazione della felicità temporale. La Divina Commedia, infine, è il fondamento della letteratura nazionale; essa trascende ogni motivo occasionale ed è capolavoro di universale bellezza per la ricchezza di sentimenti umani che vi trovano espressione, per la vigorosa e armonica struttura e per il valore di sintesi della visione medievale dell'universo che apre al Rinascimento.



DIVINA COMMEDIA

Poema allegorico, iniziato probabilmente intorno al 1307 e compiuto negli ultimi anni di vita, fu chiamato dal poeta Commedia, in contrapposizione a 'tragedia', per i suoi aspetti linguistici e stilistici (fu composto in volgare, in uno stile mediano, anziché in latino aulico) e perché si conclude felicemente. Ebbe dai posteri, fin dal Trecento, l'epiteto di 'divina', consacrato dall'edizione veneta del 1555. È diviso in tre cantiche (Inferno, Purgatorio, Paradiso) di trentatré canti ciascuna, più un canto introduttivo; consta di 14.233 versi in terzine incatenate di endecasillabi. Soggetto letterale dell'opera è il viaggio immaginario dell'autore nell'oltretomba, compiuto nel 1300, anno del giubileo, con la guida di Virgilio nei primi due regni e di Beatrice, prima, e s. Bernardo, poi, nel Paradiso. A tale viaggio corrisponde allegoricamente quello dell'umanità, sorretta dalla ragione (Virgilio), verso la felicità terrena, simboleggiata dal Paradiso Terrestre, e illuminata dalla rivelazione (Beatrice), di cui è depositaria la Chiesa, verso la felicità eterna (l'Empireo, luogo di contemplazione dei misteri della fede cristiana).


INFERNO

Nel mezzo dl cammino della sua vita, Dante, smarritosi in una selva oscura, tenta invano di ascendere al colle luminoso: tre fiere, che simboleggiano le concup 515g67f iscenze umane, gli contrastano il passo. Virgilio appare al poeta e gli propone un'altra via per giungere alla contemplazione di Dio (la vetta luminosa), un'aspra e terribile strada che si snoda attraverso i tre regni dell'oltretomba. Dante è incerto e spaventato, solo quando Virgilio lo informa che tale privilegio gli è concesso per le preghiere di una donna benedetta, Beatrice, cui sta tanto a cuore la sua salvezza, si rinfranca e si avvia verso le soglie dell'aldilà. Virgilio lo guiderà attraverso i luoghi del peccato e delle purificazioni, Beatrice attraverso il regno della beatitudine. Varcata la fatidica soglia infernale, Dante trova nel vestibolo i vili, coloro che vissero «senza infamia e senza lode», insieme agli angeli, che al tempo della rivolta di Lucifero non seppero da che parte schierarsi. Questi, che vollero evitare le battaglie, sono adesso condannati a correre a perdifiato dietro un'insegna, punzecchiati da vespe e calabroni. Primo esempio, questo della legge del contrappasso, secondo la quale in tutto l'Inferno le pene sono inflitte in stretto rapporto - di analogia o di contrasto - con i peccati commessi. La stessa legge governa anche in Purgatorio. Tra il vestibolo e il primo cerchio dell'Inferno scorre la riviera d'Acheronte. Qui sostano i nuovi arrivati in attesa che Caronte, il demonio dagli «occhi di bragia», sull'altra sponda, dove saranno giudicati da Minòs, mostruoso giudice che, annodandosi con più giri la coda, indica il cerchio cui ogni peccatore è destinato. Nel primo cerchio, al di là del fiume, vi è il Limbo, che accoglie le anime dei bimbi morti senza battesimo e quelle di coloro che onestamente vissero prima della venuta di Cristo sulla Terra. Non ci sono pene nel Limbo, ma un 'atmosfera di struggente malinconia. Dante vi incontra i grandi dell'antichità, Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e tanti altri. L'Inferno propriamente detto comincia quindi solo con il secondo cerchio, dove i lussuriosi sono travolti da una bufera di vento. Tra di essi, Francesca da Rimini, stretta ancora al suo Paolo, narra al poeta la sua tragica vicenda. Nel terzo cerchio i golosi sono sferzati da una pioggia putrida e ferocemente sorvegliati da Cerbero, orribile cane a tre teste. Il fiorentino Ciacco parla a Dante delle lotte fra le fazioni opposte della loro città. Nei cerchi seguenti sfilano gli avari e i prodighi, che sospingono enormi pesi, e poi gli iracondi, gli accidiosi, gli invidiosi ed i superbi, immersi tutti nel fango bollente della palude Stigia. Per attraversare la palude Dante e Virgilio approfittano della barca del demone Flegias, che li depone alla porta della città di Dite. Le mura infuocate racchiudono la parte più bassa dell'Inferno, quella dove più gravi sono le colpe e più spaventose le pene. Le pene sembrano spesso suggerite da impeti di sdegno; qualche volta da un'atroce fantasia. I diavoli sono ben decisi a impedire l'entrata nella città di Dite a colui che «sanza morte va per lo regno de la morta gente»: sprangano tutte le porte, mentre le tre Furie appaiono sugli spalti e fra esse Medusa cerca magicamente di pietrificare Dante. Giunge in tempo un messo celeste che con una verghetta spalanca le porte di Dite, rimproverando aspramente i diavoli. Il viaggio riprende, e Dante vede nei sepolcri infuocati gli eretici, tra cui Farinata; i violenti contro il prossimo, immersi in un fiume di sangue e colpiti dalle frecce dei Centauri, solo che osino alzare un poco la testa; i violenti contro se stessi, cioè i suicidi, come Pier Delle Vigne, trasformati in alberi nodosi; gli scialacquatori, inseguiti e dilaniati da cagne feroci. I violenti contro Dio ed i violenti contro natura sono sottoposti ad una implacabile pioggia di fuoco; però mentre i violenti contro natura (cioè i sodomiti, come Brunetto Latini) camminano, alleviando così un poco il loro tormento, i violenti contro Dio devono restare supini sotto la sferza della pioggia di fuoco. Anche gli usurai vi sono sottoposti, ma seduti, e muovendo senza posa le mani per ripararsi. I due poeti giungono così all'estremità del settimo cerchio, dove si apre un profondo e scosceso burrone. Per superarlo, Dante deve assoggettarsi a montare con Virgilio in groppa a Gerione, un mostro alato con la coda aguzza, il quale, con lentissimo volo, scende con i due nel fondo del baratro. L'ottavo cerchio è diviso in dieci bolge, collegate tra loro da ponti. In un crescendo di orrore, in un'atmosfera sempre più allucinante si entra nel luogo detto Malebolge, «tutto di pietra di color ferrigno». La lunga sfilata di peccatori continua. Nella seconda parte dell'Inferno, lo spettacolo si fa raccapricciante. Ecco i mezzari sferzati da demoni cornuti; ecco gli adulatori immersi nello sterco; e di simoniaci ficcati a testa in giù in piccole buche, con le piante dei piedi accese; e gli indovini con le teste stravolte all'indietro. Nella quinta bolgia a barattieri si dibattono nella pece bollente: nugoli di diavoli armati di arpioni costringono i disgraziati a stare completamente sommersi. Gli ipocriti, oppressi da pesantissime cappe di piombo, si trascinano nella sesta bolgia. E la settima è gremita di serpenti: serpenti di tutte le misure, colori e veleni, che si avventano sui ladri; si avvinghiano alle loro membra, le stringono, le mordono. Al momento della trafittura l'uomo si incendia ed un attimo dopo è completamente incenerito, per risorgere poi subito dalle sue cenere come l'araba fenice. Più oltre invece i dannati, quando sono trafitti, si trasformano essi stessi in serpenti, mentre le bestie che li hanno morsicati diventano uomini. Tutta la bolgia brulica di strani esseri in metamorfosi, tra uno sbattere di code che diventano gambe, e di braccia che si ritirano nel corpo, e di lingue che si biforcano. Dopo questo mostruoso spettacolo, ecco guizzare le fiammelle che racchiudono i consiglieri fraudolenti, tra i quali Ulisse e Diomede. Ulisse racconta la sua estrema avventura, nell'oceano sconfinato. (Solenne la proclamazione del destino degli uomini: «fatti non foste a viver come bruti, Ma per seguir virtute e conoscenza»). Dopo aver parlato con Ulisse e con Guido da Montefeltro, Dante e il fido maestro riprendono il cammino, e incontrano i promotori di discordie e gli scismatici, tagliati a pezzi dalle spade affilatissime dei demoni; tra piaghe orrende e moncherini, grandeggia Betram dal Bornio, trovatore provenzale che, avendo con cattivi consigli separato un padre dal figlio, cammina reggendo per i capelli la sua stessa testa, spiccata dal busto. Nell'ultima bolgia sono stipati i falsari, oppresi da tormentose malattie: i falsari di metalli si grattano furiosamente per la scabbia, i falsari di monete sono gonfi per l'idropisia, i bugiardi ardono di febbre. Uscendo fuori di Malebolge il poeta crede di vedere un indistinto paesaggio turrito ma poi si accorge che le torri sono in realtà tre giganti incatenati, che a poco a poco emergono dalla caligine. Si tratta di Fialte, Anteo e Nembrotte, colui che osò sfidare Dio con la sua torre di Babele e che ora biascica parole che non hanno alcun senso. Ad Anteo tocca l'incarico di far scendere Dante e Virgilio nell'ultimo dirupo: si china e li depone nel più profondo cerchio infernale. Non più fuoco, non demoni non urla di dannati: il fondo dell'Inferno è gelido; è un immane blocco di ghiaccio. Rinserrato in esso, la testa sola affiorante su quella banchiglia, stanno i traditori; le lacrime nel gelo sigillano le loro palpebre. In quell'immobilità allucinante il Conte Ugolino rode rabbiosamente il cranio del suo nemico. Con la vista di Lucifero, l'angelo ribelle, ridotto ora a un mostro con tre bocche, ognuna delle quali maciulla uno dei tre massimi traditori (Giuda, traditore di Cristo e Bruto e Cassio traditori di Cesare, quindi dell'Impero), cala il sipario sulla spaventosa tragedia dell'umanità dannata. Aggrappandosi ai peli delle gambe di Lucifero, Dante e Virgilio scendono ancora, poi ad un certo punto si capovolgono e cominciano a salire: sono arrivati al centro della Terra, e uno stretto cunicolo li porterà a «riveder le stelle», dall'altra parte del mondo. Il viaggio attraverso l'Inferno è durato tre giorni.


PURGATORIO

Un istintivo respiro di sollievo, nell'emergere dall'«aurora morta» e ritrovar sopra di sé il cielo, «dolce color d'oriental zaffiro». Grazie a Dio, tutto è diverso in Purgatorio, il paesaggio, l'atmosfera, la luce che piove dall'alto. Scomparsi l'odio, la ribellione, il delitto. Mentre i personaggi infernali erano visceralmente legati alla vita trascorsa sulla terra, ai peccati che ancora rivivevano, e che avrebbero vissuto in eterno, i penitenti del Purgatorio, distaccati dalle vicende terrene, sono ansiosamente protesi verso il futuro congiungimento con Dio. Le tragedie patite sulla terra sono ormai remote, trasfigurate: non fanno più battere il cuore. Le pene stesse, cui gli espianti sono sottoposti, non hanno il plastico terribile rilievo dell'Inferno. La sofferenza fisica quasi scompare di fronte all'assai più cocente sofferenza spirituale, mitigata però dalla rassegnazione e dalla speranza. Appena giunto sulla spiaggetta dell'isola, mentre si guarda intorno e scopre le stelle dell'emisfero australe, e la splendente Croce del Sud, Dante vede d'un tratto accanto a sé un vegliardo dalla lunga barba bianca. È Catone, lo strenuo difensore della libertà, colui che in Utica si uccise per non sopportare che la Roma repubblicana soccombesse. Ora è il custode del Purgatorio, perciò la montagna dell'espiazione è appunto il regno della libertà, libertà dal peccato, libertà dell'arbitrio. Virgilio gli parla con somma riverenza ed ottiene per sé e per il suo discepolo il permesso di ascendere la montagna. Prima però di cominciare il viaggio Virgilio raccoglie la rugiada sull'erba e con essa lava il viso di Dante, per togliergli ogni traccia del sudiciume dell'Inferno. Intanto appare sul mare un lume che velocemente si avvicina: si tratta di un angelo, ritto a poppa di un vascello «snelletto e leggero» che egli sospinge col battito delle grandi ali. Siedono nella barca più di cento spiriti, che stanno giungendo nel regno dell'espiazione. Tra essi è Casella, che già in vita aveva musicato le canzoni di Dante e che ora, sbarcato e riconosciuto l'amico, non esita ad intonare la famosa: «amor che nella mente mi ragiona». Le anime si affollano intorno per gustare il «dolce canto», ma Catone le rimprovera per l'indugio, ed esse corrono allora verso la costa del monte. Anche i due poeti si affrettano verso la montagna e mentre Virgilio cerca un sentiero che consenta a Dante la salita, una schiera di anime li raggiunge. Dopo aver saputo perché un vivo si trovi in quel luogo, una di esse si palesa: è Manfredi che, pur scomunicato, si è salvato per un estremo moto di pentimento. La salita è erta e Dante arranca, aiutandosi con le mani, come meglio può. Giunge comunque sul primo ripiano, che costituisce una specie di vestibolo dove i lenti a pentirsi attendono di poter entrare in Purgatorio. Dante incontra Belacqua, un emerito pigrone dei suoi tempi; e Buon Conte da Montefeltro, combattente e Campaldino; e infine, dopo molti altri, la soavissina e sfortunata Pia de'Tolomei. Un incontro singolare lo fa anche Virgilio: è l'abbraccio con Sordello, mantovano come lui; un abbraccio che suscita sulle labbra di Dante la famosa invettiva contro la «Serva d'Italia». Passato nella Valletta dei Principi, dove sono riunite le anime dei re e signori, Dante si addormenta, per ritrovarsi il mattino seguente, misteriosamente davanti alla vera porta del Purgatorio. Un angelo gli traccia sulla fronte sette P, rappresentanti i sette peccati capitali. Saranno cancellati da altri angeli via via che Dante passerà di balza in balza, osservando da vicino coloro che espiano, appunto, i sette peccati capitali, e meditando su vari esempi di virtù, o di vizi castigati. La superbia si espia nella prima balza, e le anime camminano curve sotto gravi pesi e guardano sculture raffiguranti esempi di umiltà; l'invidia, nella seconda, e gli invidiosi siedono con indosso il cilicio, gli occhi cuciti col fil di ferro, mentre voci ignote gridano esempi di invidia punita; nella terza balza, dove le anime sono avvolte in un denso fumo, viene espiata l'ira. Nella quarta corrono gli accidiosi, nella quinta giacciono a terra, bocconi, gli avari. Sulla quinta cornice Dante e Virgilio incontrano l'anima del poeta latino Stazio, che, terminata l'espiazione sta salendo verso la cima della montagna; si accompagnano a lui, tutti e tre insieme passano il sesto girone do ve i golosi, tra cui Forese Donati amico di Dante, sono ridotti ad una scheletrica magrezza. Durante il cammino, Stazio parla della sua conversione al Cristianesimo, e Virgilio dei suoi compagni del Limbo. Il discorso si fa poi più erudito, vertendo sulla teoria della formazione del corpo e dell'anima sensitiva, sull'origine dell'anima razionale, e sul sopravvivere dell'anima al corpo. Così i tre giungono al settimo girone dove i lussuriosi ardono nel fuoco. Bisogna che Dante passi attraverso le fiamme per purificarsi, e il buon Virgilio deve ricorrere al ricordo di Beatrice per spronare il riluttante discepolo ad entrare nel fuoco. Superata la prova, Dante cade in un sonno profondo e sogna una donna giovane e bella che va cogliendo fiori per farsene ghirlande: è Lia, simbolo della vita attiva. Un'ultima salita, ed ecco le meraviglie del paradiso Terrestre. È giunto intanto il momento del congedo da Virgilio: ormai, in attesa dell'arrivo di Beatrice, Dante non ha più bisogno di essere sorretto dal suo consiglio. Nella «divina foresta, spessa e viva» il poeta muove da solo i passi, continuando a volgersi tuttavia verso il maestro, che lo sta a guardare affettuosamente di lontano. Giunge presso un limpido fiumicello, al di là del quale vede una donna i bellezza celestiale, Matelda, che cammina «cantando e scegliendo fior da fiore». Matelda è forse il simbolo dell'innocenza primitiva. Ma già si vede avanzare una mistica processione: sette candelabri ardenti, ventiquattro seniori cinti di fiordaliso, quattro animali strani e il carro allegorico della Chiesa, che subisce una serie di mostruose trasformazioni, intorno alle quali danzano le tre virtù teologali e le quattro virtù cardinali. E infine: «sovra candido bel cinta d'uliva Donna m'apparve, sotto verde manto, Vestita di color di fiamma viva». È Beatrice. L'emozione del poeta è al colmo. Egli sente rinascere in sé l'antica fiamma e si volta per render partecipe Virgilio di un così ardente avvenimento. Ma il buon maestro è scomparso, silenziosamente. Beatrice, che simboleggia la luce di Dio, in quanto verità, severamente incalza, aspra rimproverando a Dante le sue colpe, e inducendolo a confessarle egli stesso. La confessione purifica il poeta, che, dopo essere stato immerso da Matelda nei due fiumi del Paradiso Terrestre, che fanno dimenticare le colpe commesse e destano la memoria delle buone azioni, è pronto finalmente a salire il Paradiso. 




PARADISO

Il Paradiso è la cantica della beatitudine, della consonanza della volontà dei beati con quella di Dio. È anche la cantica delle dissertazioni teologiche, delle dotte spiegazioni che Dante riceve dalla sua donna e da altri eletti. Ma soprattutto è la cantica della luce, una luce che splende, irraggia, fiammeggia, palpita ovunque, sulle figure dei beati, nehli occhi de Beatrice, sulle sfere ruotanti dei cieli e che si fa tanto più abbacinante quanto più si sale verso la visione di Dio. Dal Paradiso Terrestre Dante e Beatrice si innalzano con moto rapidissimo verso la sfera del fuoco e, oltrepassatala, giungono al primo cielo, quello della Luna, dove sono gli spiriti di coloro che furono costretti dalla violenza altrui a mancare ai voti religiosi. Dante vi incontra Piccarda Donati. In Paradiso i beati risiedono tutti nell'Empireo in contemplazione di Dio, più vicini e più lontani da Lui a seconda del loro merito, ma tutti felici del loro stato. Soltanto per far capire a Dante l'architettura celeste, e per mostrare il loro diverso grado di beatitudine, essi si raggruppano nei sette cieli planetari, ciascuno in quello di cui in vita ha subito l'influsso, secondo le regole astrologiche medievali. Una particolare virtù morale presiede ad ogni cielo: la fortezza nel cielo della Luna, la giustizia in Mercurio, la temperanza in Venere, la prudenza nel Sole; e nel cielo di Marte v'è la fede, in quello di Giove la speranza, in Saturno la carità. Nel cielo di Mercurio aleggiano gli spiriti che usarono il loro ingegno per fare il bene. E qui si rivela a Dante Giustiniano che celebra, a grandi linee la storia dell'impero romano, da Enea a Carlo Magno. Dopo l'incontro con l'imperatore, Beatrice scioglie alcuni dubbi di Dante parlandogli della morte di Cristo, della redenzione dell'uomo dal peccato originale, dell'incorruttibilità di ciò che è stato creato direttamente da Dio. E così discutendo arrivano nella sfera di Venere ove, tra gli spiriti che fortemente amarono, incontrano Carlo Martello, figlio di Carlo II d'Angiò. Passando per Firenze nel 1294, il giovane angioino aveva conosciuto Dante e gli aveva dimostrato una grande amicizia, subito troncata dalla sua immatura morte. Dopo Carlo, altri spiriti amanti si rilevano al poeta: Cunizza da Romano e Folco da Marsiglia, che inveisce contro la vergognosa avarizia degli ecclesiastici. Nel quarto cielo, del Sole, brillano le anime dei sapienti e trionfano le anime dei teologi. Dante vi incontra Tommaso d'Aquino e Bonaventura da Bagnorea, che tessono il panegirico dei due campioni della fede, San Domenico e San Francesco. Il quinto è il cielo di Marte dove le anime di coloro che morirono combattendo per la fede di Cristo sono disposte in forma di croce luminosa. Dal braccio destro della croce sfolgorante si rivela a Dante il suo trisavolo, Cacciaguida, caduto nella seconda crociata. Cacciaguida parla della Firenze dei tempi antichi, quando la popolazione, chiusa nella prima cerchia di mura, «si stava in pace, sobria e pudica» e predice a Dante l'esilio incoraggiandolo tuttavia a sopportare le ingiustizie fidando in Dio; soprattutto non abbia paura della verità, ma la gridi in faccia a tutti senza preoccuparsi delle conseguenze. Dante continua a salire con Beatrice: nel settimo cielo, di Saturno, gli spiriti contemplativi sono ordinati in una mirabile scala, che sale fino all'Empireo. San Pier Damiano parla del mistero della predestinazione, San Benedetto racconta di sé e del suo ordine, e ne lamenta la decadenza. L'ottavo è il cielo delle Stelle Fisse in forma di fulgido sole, in mezzo alle mille vivide luci dei beati, Dante vede il trionfo di Cristo. Sale  Cristo all'Empireo e, in un tripudio di fulgore, i beati celebrano il trionfo di Maria. Prima dell'ascesa al nono cielo, San Pietro, San Jacopo e San Giovanni interrogano il poeta sulla fede, la speranza, la carità. Dante supera felicemente l'esame intorno alle virtù teologali, e poi ode da Pietro la più fiera invettiva contro la corruzione del Papato, che sia nel poema. Ai tre apostoli si affianca Adamo, che svela al poeta la natura del peccato originale, e gli dice quanti anni siano trascorsi dal momento della creazione dell'uomo, quanto tempo egli sia rimasto nel Paradiso Terrestre e quale lingua abbia parlato. Dopo un inno di ringraziamento a Dio, i beati salgono nell'Empireo. Dal nono cielo, o Primo Mobile, Dante contempla nuovi splendidi cori angelici, di cui Beatrice gli illustra le virtù e i compiti; espone poi la causa, il luogo, il tempo della creazione degli angeli, le loro facoltà, il loro numero, e le tragiche differenze tra gli angeli fedeli ed i ribelli. Dileguatisi gli angeli, compare dinanzi agli occhi di Dante il fulgido, abbacinante spettacolo della Rosa celeste, formata dagli spiriti trionfanti e dagli angeli, intorno a Dio. È il Paradiso dei contemplanti. Beatrice lascia Dante e va ad assidersi nel suo seggio, nel terzo giro degli eletti. Accanto al poeta è ora San Bernardo, il più ardente dei mistici che gli farà da guida, giacché Dante, ora, non potrà più procedere con la forza della ragione, ma solo per rapimenti estatici. Invocata da San Bernardo con una stupenda preghiera, la Vergine intercede presso Dio ed ottiene per Dante la grazia sublime: il poeta ha la visione della divinità. È un attimo ineffabile, un intravedere al di là dei limiti delle capacità umane, un fulgore balenante, che la memoria non può trattenere. E con la vista dell'esprimibile termina il poema.


I PERSONAGGI:


L'INFERNO

Caronte: nella mitologia greca, nocchiero infernale, figlio dell'Erebo e della Notte. Traghettava oltre l'Acheronte le anime dei morti.

Minosse: nella mitologia greca, re e primo legislatore di Creta. Figlio di Zeus e di Europa, sposo di Pasifae e padre di numerosi figli. Ottenne da Posidone un toro, che avrebbe dovuto sacrificare al dio: non avendo mantenuto la promessa, Posidone rese furioso l'animale, che si unì con Pasifae. Da questa unione nacque il Minotauro, che Minosse rinchiuse nel labirinto. La figura di Minosse è legata allo splendore della civiltà cretese; sacerdote e legislatore, nell'Ade fu posto come giudice dei morti.

Francesca da Rimini: figlia di Guido Minore da Polenta (morta tra il 1283 e il 1286). Andata sposa a Gianciotto Malatesta nel 1275, fu da questi uccisa insieme al cognato Paolo perché sorpresa con lui in flagrante adulterio. La vicenda dei due amanti ispirò Dante e nell'epoca moderna numerosi drammaturghi e musicisti.



Cerbero: nella mitologia greca, cane a tre teste a guardia delle porte dell'Ade. Nell'Inferno dantesco vigila sui golosi del terzo girone.

Pluto: divinità greca, figlio di Demetra e Iasione. Dio della ricchezza, in particolare quella legata ai metalli.

Flegias: mitico figlio di Ares e di Dotide, incendiò il tempio di Apollo in Delfi e per questo fu costretto a predicare, nell'inferno, massime contrarie alle sue azioni. Dante lo fa traghettatore di anime sulla palude Stigia.

Farinata degli Uberti: ghibellino fiorentino (morto nel 1264). Capo dei ghibellini, alleatosi coi Senesi contro i guelfi, contribuì alla vittoria di Montaperti (1260) opponendosi poi alla distruzione della città. Personaggio dantesco (Inferno, X).

Minotauro: nella mitologia greca, mostro dalla testa taurina e dal corpo umano, nato dall'unione del toro, inviato da Posidone, con Pasifae. Rinchiuso da Minosse nel labirinto, ogni anno gli venivano sacrificati 7 fanciulli e 7 fanciulle, finché non fu ucciso da Teseo.

Pier della Vigna, o delle Vigne: uomo politico, giurista e letterato (Capua ca. 1190-presso Pisa 1249). Influente consigliere di Federico II, fu accusato di congiura e di tradimento. Si uccise in carcere. La sua figura è ricordata da Dante nel canto XIII dell'Inferno, nella selva dei suicidi.

Ulisse: mitico eroe greco, figlio di Laerte e di Anticlea, marito di Penelope e padre di Telemaco. Personaggio di primo piano nell'Iliade e protagonista dell'Odissea, è rappresentato da Omero come il più astuto dei Greci, artefice di innumerevoli stratagemmi (dalla presa del Palladio all'idea del cavallo di Troia, al modo per sfuggire a Polifemo) e protagonista di una serie infinita di avventure e di peregrinazioni. Nell'Odissea in particolare, si narrano le ventennali peripezie dell'eroe greco prima di riuscire a far ritorno alla sua Itaca, dove, trovata la propria dimora invasa dai Proci, li uccide con l'aiuto di Telemaco.

Conte Ugolino della Gherardesca (famiglia Gherardesca): famiglia feudale che la tradizione fa discendere dal longobardo S. Walfrido (morto ca. 765). Prende il nome dalle terre della Gherardesca in Maremma, possedute dalla famiglia sin dal X sec. Capostipite è considerato Gherardo (morto ca. 990). Fra i suoi membri il più famoso è Ugolino, conte di Donoratico (morto nel 1289). Ghibellino, passò poi ai guelfi. In guerra con Genova, cedette a Firenze e a Lucca alcuni castelli. Alleatosi coi ghibellini, fu però imprigionato da questi e lasciato morire per fame coi figli e coi nipoti. Alla sua fine è ispirato un famoso canto dantesco (Inferno, XXXIII).

Lucifero: nome e attributo, nella tradizione apocalittica (latino lucifer: che porta la luce), del principe degli angeli prima che la sua ribellione a Dio lo mutasse in capo dei demoni.

PURGATORIO

Catone: uomo politico romano (Roma 95-Utica 46 a. C.). Seguace di Pompeo, sostenitore della repubblica e nemico di Giulio Cesare, si ritirò a Utica quando questi rimase padrone incontrastato di Roma. Si uccise per non assistere alla fine delle libertà repubblicane.

Manfredi (di Sicilia): re di Sicilia (1232-Benevento 1266). Figlio di Federico II di Svevia e di Bianca Lancia. Fattosi incoronare re (1258) di Sicilia, si pose a capo delle forze ghibelline, riuscendo a sconfiggere i guelfi toscani a Montaperti (1260). La sua potenza fu stroncata dall'azione della Chiesa, che, dopo averlo scomunicato, gli suscitò contro Carlo d'Angiò, offrendo a quest'ultimo la corona di Sicilia (1263). Lo scontro fra i due rivali avvenne a Benevento (1266), dove Manfredi fu sconfitto e ucciso. La fine di Manfredi è rievocata da Dante nel Purgatorio (III, versi 103 e seguenti).

Guido da Montefeltro: uomo d'armi (morto ca. 1298). Di origine ghibellina, combatté contro Siena (1271) e i Bolognesi (1275). Nel 1295 fece atto di sottomissione a Bonifacio VIII e l'anno successivo si ritirò in convento.

Pia de' Tolomei: gentildonna senese (XIII sec.). Moglie di Nello de' Pannocchieschi, che la fece morire in un castello della Maremma. Evocata da Dante (Purgatorio, V).

Sordello da Goito: trovatore italiano in lingua provenzale (Goito, Mantova, ca. 1200-ca. 1269). Restano di lui circa 40 poesie d'amore e altri componimenti, tra cui il celebre Compianto (1236), scritto in morte del cavaliere provenzale ser Blacatz.

Oderisi da Gubbio: miniatore (XIII sec.). Gli sono attribuite le miniature di alcuni codici conservati in S. Pietro a Roma. Dante lo ricorda nel canto XI del Purgatorio.

Stazio, Publio Papinio: poeta latino (Napoli ca. 45-ca. 96). È noto come poeta epico per la Tebaide, in 12 libri, sulla guerra dei Sette contro Tebe e la rivalità di Eteocle e Polinice, e per l'incompiuta Achilleide, di cui restano 2 libri, ispirata alla leggenda di Achille a Sciro. Più vicine al gusto dei moderni e più spontanee sono le Selve, 32 poesie d'occasione d'argomento vario, improvvisate, dove sono impiegati, oltre all'esametro, metri e strofe della melica.

Forese Donati (famiglia Donati): nobile famiglia fiorentina già nota nel sec. XII. Avversaria dei Buondelmonte e dei Cerchi, partecipò alle lotte civili in Firenze. Corso, capo dei guelfi neri, rientrò nella città con l'aiuto di Carlo di Valois (1300), nel 1304 e 1308 espulse i bianchi e perì ucciso in una sommossa popolare (1308). Forese (morto a Firenze 1296), poeta, amico di Dante, scambiò con lui versi burleschi. Gemma fu moglie di Dante.

Matelda: personaggio del Purgatorio dantesco (canti XXVIII-XXXIII), la donna che guida Dante nel paradiso terrestre: simbolo della vita attiva.

PARADISO

Giustiniano I: (482-565). Succedette a Giustino I (527) e regnò con la collaborazione della moglie Teodora. Con l'aiuto dei generali Belisario e Narsete, vinse i Vandali in Africa (533), i Goti in Italia (535-552), i Visigoti in Spagna (554). Importantissima l'opera di codificazione del diritto romano, che porta il suo nome, per la quale tutte le leggi furono raccolte nel Corpus iuris civilis

Cacciaguida: trisavolo di Dante, morto durante la II crociata (1147). Nel Paradiso (canti XV, XVI, XVII) rievoca l'austerità dei costumi della Firenze antica e predice a Dante l'esilio.



Bonaventura da Bagnoregio: santo e dottore della Chiesa (Bagnoregio 1221-Lione 1274), al secolo Giovanni Fidanza. Francescano, filosofo e teologo all'Università di Parigi. Eletto generale dell'Ordine nel 1257, conciliò le due correnti avverse degli spirituali e dei conventuali. Mistico, considerò la conoscenza come un processo di elevazione della mente, che culmina nella visione di Dio. Itinerario della mente a Dio, Commento sui quattro libri delle sentenze. Festa 14 luglio.

Tommàso d'Aquìno: santo, teologo e filosofo italiano (Roccasecca 1225 - Fossanova 1274). Nato da nobile famiglia di origine longobarda, fu inviato a cinque anni oblato a Montecassino. Studiò poi a Napoli, ed entrato nell'ordine domenicano, ricevette l'abito religioso nel 1243-44. Continuò gli studi a Parigi (1245-48), poi a Colonia, dove ascoltò Alberto Magno. Ritornato a Parigi, vi insegnò (1252-55) come baccalarius biblicus e baccalarius sententiarum; nel 1256 ottenne la ''licenza'' e nel 1257 fu accolto come maestro nella facoltà di teologia. In questi anni parigini Tommaso d'Aquino scrisse, oltre al Contra impugnantes Dei cultum et religionem in difesa degli ordini mendicanti, il Commento alle Sentenze, le Quaestiones de veritate e alcuni Quodlibeta. Ritornato in Italia, sotto Urbano IV entrò (1261) come lector curiae nella corte papale a Viterbo, poi a Orvieto. In questo periodo Tommaso d'Aquino conosce il confratello Guglielmo di Moerbeke, che per lui tradurrà o rivedrà dal greco le opere aristoteliche; porta a termine la Summa contra Gentiles; scrive le Quaestiones disputatae e il commento al De divinis nominibus dello Pseudo Dionigi; incomincia la Summa theologica e il De regimine principum. Dopo un altro periodo a Parigi (1269-72), dove scrive contro gli averroisti il De unitate intellectus e continua la stesura della Summa theologica, ritorna a insegnare in Italia, nello studio di Napoli (1272-74). Chiamato da Gregorio X nel 1274 al Concilio di Lione, muore durante il viaggio nell'abbazia dei cistercensi di Fossanova. Fu canonizzato da Giovanni XXII nel 1323 e da Pio V nel 1567 dichiarato dottore della Chiesa (''dottore angelico''). L'opera di Tommaso d'Aquino deve essere vista sullo sfondo del processo di assimilazione del pensiero aristotelico in corso nella Scolastica sin dai primi decenni del XIII sec. Da una parte assumendo dall'aristotelismo dottrine fondamentali per la sua metafisica, dall'altra cercando di sceverare quanto nella tradizione aristotelica era genuinamente di Aristotele per mostrarne l'accordabilità con la fede cristiana, Tommaso d'Aquino ha decisamente contribuito a immettere la scienza aristotelica nell'ambito della nuova filosofia cristiana. Da Aristotele, Tommaso d'Aquino desume lo stesso metodo teologico: distaccandosi dalla tradizione agostiniana, egli concepisce la teologia come scienza, poiché per lui il pensiero teologico muovendo dai dati della Rivelazione, accettati per fede, può pervenire secondo le tecniche della dimostrazione scientifica aristotelica ad altre verità non immediatamente evidenti nel linguaggio della Rivelazione stessa. Questo nuovo concetto della teologia come scienza è sostenuto in Tommaso d'Aquino da un fermissimo sentimento dei diritti della pura ricerca filosofica e della scienza. Anche se in Tommaso d'Aquino non si può trovare affermata quell'indipendenza assoluta della filosofia dalla fede religiosa quale era stata teorizzata da Averroè, tuttavia una forte esigenza razionale lo porta a tener nettamente distinte, contro la tradizione agostiniana, fede e ragione, ricerca filosofica e teologia. Restringendo il concetto agostiniano della filosofia come approfondimento della fede (fides quaerens intellectum), Tommaso d'Aquino rivendica alla ragione umana un suo specifico campo d'indagine, dove essa si muove autonoma. Né fede e ragione possono mai contraddirsi poiché comune è la loro origine divina. Con questo ''razionalismo'' di Tommaso d'Aquino converge, sempre su una base aristotelica, il suo ''naturalismo'', cioè il riconoscimento della realtà, efficienza e razionalità della natura, così netto da attirare su di lui l'accusa di semipelagianesimo. La natura, pur dipendendo continuamente dalla libera volontà creatrice di Dio, costituisce un ordine retto da leggi di causalità. In polemica con l'''occasionalismo'' di certi indirizzi teologici musulmani (mutakallimun), ma anche con Avicenna e, si può dire, con il pensiero agostiniano, i quali insistendo sulla volontà di Dio finivano con il togliere ogni efficacia alle ''cause seconde'', cioè agli esseri creati, Tommaso d'Aquino rivendica la realtà di una natura ordinata secondo processi e leggi necessarie, costituita di esseri creati da Dio simili a sé in quanto veramente capaci di agire. La natura dotata di una effettiva capacità causativa nulla toglie alla potenza di Dio, bensì ne manifesta la bontà. La differenza delle creature dal Creatore viene peraltro fermamente assicurata da Tommaso d'Aquino con la dottrina della reale distinzione fra essenza ed esistenza nelle cose finite; soltanto in Dio, perfezione pura, essenza ed esistenza coincidono. Fondamentali sono ancora nella metafisica di Tommaso d'Aquino la teoria dell'unità della forma sostanziale e quella della materia come principio di individuazione. Negli esseri creati composti di materia e forma (tra questi l'uomo) la radice delle caratteristiche peculiari di un individuo, per le quali esso si distingue dagli altri individui della stessa specie, è la materia quantitate signata, la quantità di materia diversificata in vista della forma (uguale per tutti gli individui). Coerentemente, Tommaso d'Aquino per i puri spiriti, gli angeli, che sono forme pure senza materia, sostiene che ognuno di essi è specie a se stesso. Quanto alla dottrina dell'unità della forma sostanziale, essa vale anche per l'uomo: unico è il principio formale per cui egli vive, sente e intende, cioè l'anima che si unisce immediatamente al corpo, senza intermediari. Poiché l'anima per Tommaso d'Aquino non è, come per Avicenna e Bonaventura, una sostanza separata, bensì forma del corpo, con il quale costituisce un composto sostanziale. Certo l'anima può sussistere anche dopo la morte e la dissoluzione del corpo, ma non per questo la separazione dell'anima dal corpo si può considerare naturale. Costitutivamente strutturata per essere unita al corpo, l'anima umana è condizionata, per così dire, dal corpo anche nelle sue operazioni conoscitive. L'anima non può, a differenza delle sostanze separate, cioè delle intelligenze angeliche, cogliere direttamente gli intelligibili; vi perviene solo per ''astrazione'' dai dati della sensibilità. In merito al processo dell'intellezione Tommaso d'Aquino preoccupato di salvare l'individualità dell'atto dell'intendere e quindi l'immortalità individuale, respinge la dottrina averroistica per cui l'intelletto possibile è una sostanza separata unica per tutta la specie umana; neppure l'intelletto agente è unico, come affermavano gli agostiniani avicennizzanti, bensì è facoltà delle singole anime, luce divina impressa nell'anima singola. Così anche in questa polemica anti-averroistica la filosofia di Tommaso d'Aquino si conferma filosofia dell'individualità concreta, nel senso di quella rivalutazione della natura, del mondo dell'uomo e quindi della ragione e della scienza che, in opposizione alla tradizione agostiniana, caratterizza il tomismo nella storia della cultura medievale.

Benedetto da Norcia: santo (Norcia ca. 480-Montecassino ca. 547). Di famiglia aristocratica, studiò a Roma, quindi si ritirò in una comunità monastica a Vicovaro. Abbandonatala per l'indisciplina dei monaci, fondò nella valle dell'Aniene 12 monasteri. Di qui si trasferì a Montecassino (529) dove eresse il famoso monastero e nel 540 ca. dettò la Regola dell'ordine benedettino. Festa 21 marzo.

Pier Damiani: santo, dottore della Chiesa (Ravenna 1007-Faenza 1072). Dopo aver insegnato a Parma, si ritirò nel monastero di Fonte Avellana (1035) e fu successivamente nominato cardinale e vescovo di Ostia (1057). Mistico, si oppose alla nascente scolastica che voleva conciliare argomentazioni razionali e dogmi di fede. Ebbe gran parte nella riforma della Chiesa a fianco di Ildebrando di Soana (futuro papa Gregorio VII) e dei papi Niccolò II e Alessandro II. Vide la perfezione del cristianesimo nell'abbandono della vita terrena per la solitudine dei monasteri. Lettere, Sermoni, De fide catholica, De divina providentia. Festa 21 febbraio.

STORIA

Dante Alighieri (1265-1321), massimo poeta italiano, nel primo periodo della sua formazione culturale, quello della vita mondana, degli amori giovanili, delle spedizioni militari e della poesia amorosa scrive la sua prima opera, Vita nova (1294), considerata il capolavoro dello Stil novo. Tema centrale l'amore per Beatrice e la crisi per la sua morte a soli 24 anni. Compone varie rime amorose e un serventese in lode della 60 donne più belle di Firenze. Raggiunta la maturità, fra il 1293 e 1304 si dedica a intensi studi e partecipa attivamente alla vita politica di Firenze, dilaniata dalle lotte intestine fra guelfi e ghibellini. Condannato al rogo dalla fazione avversa, vittoriosa in una dei tanti conflitti, andrà no alla morte vita da esule. L'intenso fervore culturale si concreta nel trattato di filosofia Il Convivio e nel De vulgari eloquentia, opera scientifica sulla lingua letteraria italiana che prepara l'unità linguistica, come presupposto della coscienza nazionale.

Dante Alighieri va componendo, dal 1307, la Divina Commedia, opera in 20.000 versi composta di tre cantiche che rappresentano i tre rispettivi regni dell'al di là: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Dante descrive un viaggio simbolico-iniziatico attraverso i regni dell'oltretomaba, accompagnato da Virgilio, simbolo della ragione, e da Beatrice simbolo della Grazia. Già prima di Dante esistono figurazioni dell'Inferno come luoghi naturali (grotte, caverne, anfratti), e i morti sono deboli ombre: ma Dante lo reinventa come architettura immateriale pensata da Dio, nella quale i dannati vivono una vita dell'anima con le sue passioni, interessi, sentimenti; in tal modo la storia del mondo di qua, cioè quella di Dante, rivive nei personaggi del mondo di là.

La grande varietà dei temi (problemi politici e filosofici, l'amore passione, la sua storia personale, l'invettiva e la compassione) è affrontata con una varietà prodigiosa di linguaggi, similitudini, allegorie. Originalissima è l'invenzione, nel Purgatorio, della purificazione attraverso la guida della umana filosofia. La Divina Commedia è il grande affresco di un tempo, il Trecento, di una città, Firenze e dell'umanità stessa nei suoi caratteri permanenti.






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