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Dante Alighieri (Firenze 1265 - Ravenna 1321)

dante



Dante Alighieri
(Firenze 1265 - Ravenna 1321)

Il più grande poeta italiano e uno dei maggiori del mondo. Nacque in Firenze nel quartiere di S. Martino da donna Bella, d'ignoto casato, prima moglie di Alighiero di Bellincione ed ebbe al fonte di S. Giovanni il nome di Durante, abbreviato familiarmente in Dante. La stirpe degli Alighieri (v.) era un ramo della nobile casa degli Elisei, decaduto e impoverito, tanto da vivere scarsamente delle rendite fondiarie e da doversi dare a piccoli traffici bancari e ad altri negozi per poter mantenere un certo decoro signorile. Ma D. fu fierissimo della generosa nobiltà del suo sangue, cui più volte accenna nelle sue opere, ravvisando nella tradizione domestica una fonte di virtù civili, uno stimolo all'educazione morale, un presidio contro gli assalti e le tentazioni dell'egoismo, vizio quanto mai plebeo ed ignobile. Fanciullo e giovinetto frequentò, pare, le scuole dei Francescani di Santa Croce, ma la rettorica, e specialmente l'ars dictaminis, più che nella scuola l'apprese dalla familiarità con ser Brunetto Latini, dal quale, per sua testimonianza, imparò pure, cosa assai più importante, «comme l'uom s'eterna». Studi rettorici completò poi probabilmente a Bologna e forse anche a Parigi. Non è improbabile che fin d'allora oltre che alla rettorica si avvicinasse anche al diritto. Ma ben più che le Istituzioni e le Pandette, amò in giovinezza e poi per tutta la vita i classici latini che allora si leggevano nelle scuole: Boezio e Livio, Cicerone e Seneca, Ovidio e Orazio, ma soprattutto Virgilio «suo maestro e suo autore» del quale derivò «lo bello stile». Molto si dilettò anche nell'apprendimento della musica e del disegno. Alla poesia volgare si volse ancor giovinetto e da sé apprese l'arte «di dire parole per rima» (Vita Nuova, III 9), e fu presto in grado di entrare in corrispondenza e in gara coi trovatori del suo tempo, non solo fiorentini: più che con gli altri si legò con Guido Cavalcanti e Lapo Gianni.
Si giovò specialmente del 333i88d la più matura esperienza del primo, soprattutto agli inizi; poi, sotto l'influenza del Guinizelli (dopo che ne fu divulgata la canzone Al cor gentil) egli stesso divenne maestro dei suoi amici ed elaboratore della poetica del «dolce stil nuovo». Furono questi studi e questi saggi poetici (sebbene da lui, come da Guido Cavalcanti e dagli altri migliori, elaboratori con profondissimo impegno morale) un aspetto della sua educazione e della sua vita di giovane gentiluomo, che si preparava a prender parte attiva alla vita del Comune. Si esercitò nelle armi, combatté per la patria e per parte guelfa fra i feditori (truppe a cavallo) a Campaldino e fu presente alla presa del castello di Caprona. Fu tra i gentiluomini deputati dal Comune a far corte al giovane pincipe Carlo Martello d'Angiò quando (1294) si fermò a lungo in Firenze, e se ne cattivò la stima e l'amicizia (Parad., VIII 54-57). Di questi anni sono gli amori di D. Il padre fin dal 1277 aveva fatto per lui, fanciullo, contratto di nozze con la piccola Gemma, figlia di Manetto Donati (un cugino del potente Corso, ma di un ramo finanziariamente decaduto e che si teneva piuttosto lontano dalla politica); seguirono le nozze celebrate attorno al 1295. Da questo matrimonio (che forse non fu molto felice: D. non nomina mai la moglie nelle sue opere, e la moglie, che non lo seguí nell'esilio, anche dopo che i figli furono grandicelli e anche essi banditi, probabilmente non lo rivide più), nacquero vari figli: Pietro, Jacopo, Antonia (che forse è una persona sola con suor Beatrice, la figlia che fattasi monaca a Ravenna gli fu vicina nell'ora della morte) e pare anche un Alighiero, un Gabriello, un Eliseo, morti. Se il Johannes Dantis Alagherii dei Florentia che comre in un aito dcl 1308 è, come pare probabile, un figlio di D. egli gli nacque prima e fuori del matrimonio. Ma altri amori ebbe D. in giovinezza: soprattutto il primo, e più lungamente rivissuto nella memoria e trasfigurato e indiato, ha interesse per noi, perché permea tutta l'opera del poeta: l'amore per Beatrice.

E' questa gentilissima creatura d'arte e di sogno da riconoscere nella vivente realtà di una Bice dè Portinari, figlia di Folco, coetanea del poeta, andata sposa (1288) a Simone dè Bardi e prematuramente morta nel 1290.
Durante la desolazione oscuraperla morte della donna segretamente e castamente amata, D. ebbe eonforto da una «donna gentile» nella quale qualcuno ha voluto vedere quella che poi fu sua moglie, Gemma Donati. Altri amori per una Lisetta, per una Pargoletta, per una Pietra (questa di natura intensamente sensuale) hanno lasciato tracce nelle poesie di D. Ma più che in tutte queste esperienze d'arte e di vita, armi ed amori ed ansie e trepidazioni per il nuovo focolare, D. trovò conforto alla sua insoddisfazione interiore e ai suoi lutti nello studio della filosofia. Ormai giovane maturo, poco dopo il 1290 si avviò alle scuole «de li religiosi, a le disputazioni de li filosofanti» (Canv. II XII 7). Fiorivano in quegli anni a Firenze gli «studi» dei Domenicani, dei Francescani, degli Agostiniani e vi insegnavano illustri maestri; fresca era la memoria dell'Olivi che aveva tenuto cattedra con gran frutto fino all'89. D. attese intensissimamente allo studio sistematico della filosofia, e vi prese tanto diletto che «lo suo amor cacciava e distruggeva ogni altro pensiero». Di questo studio è testimonianza il Convivio. In questi stessi anni D. comincia a prendere parte viva alla cosa pubblica, e quando l'ordinanza del Comune del 6 marzo 1295 consentí che anche i nobili potessero essere eletti ad alcune cariche pubbliche purché si iscrivessero alle Arti, egli subito s'immatricolò in quella dei medici e degli speziali, forse come cultore di filosofia naturale o forse, come qualcuno ha supposto, come dilettante di pittura (i pittori erano iscritti infatti fra gli speziali). Fu nel Consiglio del popolo per la sessione dal novembre 1295 all'aprile 1296, fu dei Savi scelti nel dicembre del 1295 per riformare le norme dell'elezione dei Priori; dal maggio al settenbre del 1296 fu membro del Consiglio dei Cento. Poichè sono andati distrutti i verbali delle Assemblee Fiorentine del 1298 al febbraio del 1301, non è possibile sapere con precisione tutte le cariche pubbliche che D. ricoprí in quel periodo. Sappiamo tuttavia che nel maggio del 1300 fu ambasciatore del Comune a quello di San Gimignano per sollecitarlo a partecipare al consiglio per il rinnovo della Lega guelfa fra le città di Toscana, e che quell'anno stesso fu eletto fra i Priori per il bimestre 15 giugno - 15 agosto. Poiché allora il nemico della libertà del Comune fiorentino era papa Bonifacio VIII D. a viso aperto si batté per contribuire a mandare a vuoto tutte le richieste che il Legato pontificio venuto a Firenze avanzò via via ai Rettori e agli altri maggiorenti e pubblici ufficiali. La situazione politica, della quale la Cronica di Dino Compagni è specchio fedele, divenne torbida e pericolosissima. D. fu guelfo bianco con Vieri dè Cerchi, cioè col partito della libertà. All'avvicinarsi di Carlo di Valois (chiamato da papa Bonifacio per dargli in feudo il regno di Sicilia e per sottomettere prima ai suoi voleri la Toscana), la Signoria pensò di mandare un'ambasceria al Papa: D. fu uno dei tre ambasciatori che partirono nell'ottobre del 1301 alla volta di Roma. Il Papa rimandò gli altri due ambasciatori con controproposte e trattenne presso di sé il più pericoloso, D. il quale cosí fu assente da Firenze nell'ora cruciale in cui i Bianchi, per l'incertezza e la inettitudine di Vieri dè Cerchi e di altri capi, si lasciarono soffocare senza combattere dal partito di Corso Donati, sostenuto dal Papa e dal suo fido Carlo di Valois. Riuscito a lasciare la Corte pontificia nei primi giorni del 1302, sostando a Siena in attesa di notizie, lo raggiunse l'annunzio ai primi di febbraio che i Neri vincitori avevano devastato e depredato le sue case e lo avevano,il 27 gennaio,sotto accusa di baratteria e di guadagni illeciti e di opposizione al Papa, condannato a due anni di esilio, all'ammenda di 5000 fiorini e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici.



La Divina Commedia


Dopo secoli di indagini, studi critici, dibattiti e ricerche, il maggior poeta italiano rimane ancora, per molti aspetti, un enigma.
Della Commedia dantesca non è ancora stato trovato il manoscritto originale; noi non conosciamo l'autografo di Dante e non sappiamo come scrivesse; sul reperimento degli ultimi tredici Canti del Paradiso, poi, Giovanni Boccaccio ha divulgato la suggestiva leggenda del ritrovamento misterioso, in seguito all'apparizione in sogno del poeta al figlio Iacopo, alcuni mesi dopo la sua morte.
Non si conosce esattamente nemmeno la data di composizione delle tre Cantiche e si discute se l'Inferno sia stato iniziato quando Dante viveva ancora a Firenze, oppure si trovava già in esilio.
Infatti alcuni studiosi, sulla scorta del Boccaccio stesso che ci ha lasciato una vivace biografia del poeta (Trattatello in laude di Dante, 1355-7 ca.), ritengono che i primi sette Canti siano stati scritti a Firenze, prima dell'esilio; lo dimostra il verso introduttivo al Canto VIII:

Io dico, seguitando, [...]

«Seguitando» che cosa? Semplicemente la narrazione interrotta al settimo Canto, oppure la scrittura sospesa da un doloroso intervallo?
Altri critici, invece, convengono che la gestazone della Commedia avvenne in età giovanile e si collega al desiderio di tessere l'apoteosi della bellissima Beatrice di Folco Portinari, amata da Dante e morta a venticinque anni nel 1290; tuttavia la stesura del poema in lingua volgare inizia dopo il 1307. È accertato, comunque, che nel 1309 l'Inferno è concluso, nel 1314-16 è divulgato, noto e apprezzato anche il Purgatorio, mentre, intorno al 1320 pure il Paradiso è in fase risolutiva.
Conosciamo il titolo dell'opera da una Epistola che Dante invia a Cangrande della Scala, signore di Verona che lo ha ospitato tra il 1314 e il 1318, nella quale gli dedica il Paradiso e probabilmente gli manda alcuni Canti in visione. Non compare l'aggettivo divina che coniò in seguito il Boccaccio, ma suona così; Incipit Comedia Dantis Alagherii, florentini natione, non moribus (Comincia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino di origine, non di costumi). Titolo polemico nei confronti dei concittadini che lo bandirono dalla patria. Non sfugge nemmeno ai contemporanei la grandezza del poema dantesco.
L'epiteto divina, giustapposto dal Boccaccio, diventa ben presto parte integrante dell'intitolazione e l'edizione a stampa effettuata da Ludovico Dolce a Venezia nel 1554 lo suggella in maniera definitiva. Così è pervenuto sino a noi, e a buon diritto. Nella medesima Epistola a Cangrande Dante informa il lettore della ragione per cui l'ha chiamato Commedia; è un'opera che inizia tragicamente ma finisce felicemente. Infatti si parte dal dramma dei dannati per giungere alla beatitudine celeste.

Dante, «fiorentino d'origine, non di costumi»

La Divina Commedia compendia il sapere medievale, ma si pone anche come invito alla riflessione per l'uomo di tutti i tempi; se noi oggi sorridiamo dell'ingenuità con cui il poeta spiega i fenomeni astronomici, non possiamo ignorare l'altezza del messaggio morale che contiene: nasce essenzialmente dall'esperienza dell'esilio e si pone come invito al recupero della rettitudine, per l'umanità corrotta, degenerata, violenta, avida, lontana dal bene.
Firenze, nel poema, appare quasi il concentrato della corruzione morale, anche se il poeta non nasconde la sua nostalgia e l'amore per il luogo dove aveva vissuto gli spensierati anni dell'infanzia, le feconde esperienze giovanili e da dove si origina la sua famiglia.
Molti sono gli elementi da cui partire per comprendere la genesi della Divina Commedia; giocano la personale esperienza dell'amore per Beatrice, il desiderio di scrivere un'opera sublime per vincere l'alloro poetico e riscattarsi, agli occhi del mondo, dell'umiliazione dell'esilio, gli stimoli culturali e gli esempi di una fiorente letteratura didattico-allegorica imperniata sul tema del viaggio nell'aldilà, ma, soprattutto, la coscienza della missione, che l'intellettuale riceve da Dio, di essere guida, per l'umanità, che va indirizzata al bene, sollecitata alla moralità e al rispetto della Parola del Signore.

Genesi e fonti della Divina Commedia



All'originario progetto di esaltare Beatrice, dicendo di lei «quello che mai non fue detto d'alcuna» (Vita Nuova, XLII,2) se ne aggiunge e sovrappone un altro prodotto da esigenze morali, sostenuto da un preciso clima culturale e dalla maturazione di una visione politica che l'esilio aiuta a definire. Dante abbandona le ristrette visioni letterarie dell'età giovanile e supera i moduli stilnovistici, arricchendo la sua poesia di una robusta visione etica, che, attraverso l'idea religiosa, rappresenta il motore della composizione del poema. Il bisogno di lanciare un messaggio di pace, di rigenerazione e presa di coscienza all'umanità si esprime attraverso l'allegoria del viaggio, che non è insolita nel panorama culturale del tempo. Pensiamo soltanto agli ingenui poemetti di Giacomino da Verona (De Ierusalem coelesti e De Babilonia civitate infernali, XIII secolo) e di Bonvesin da la Riva, (Libro delle tre Scritture, XIII secolo) o anche il romanzo allegorico coevo a quello dantesco di Bono Giamboni, (Libro de' vizi e delle virtudi) L'opera, così, sorge corroborata dal bagaglio culturale del poeta nel quale individuiano le fonti classiche, filosofiche e cristiane.
Innanzi tutto agiscono sulla fantasia di Dante opere in cui predomina il tema della visione e dell'elevazione al cielo, come il Somnium Scipionis nella Repubblica di Cicerone, o l'Apocalisse di san Giovanni. Inutile dire quanto importante sia il libro VI dell'Eneide virgiliana, non solo per i numerosi riferimenti mitologici, ma soprattutto per il ruolo che nella Commedia viene attribuito a Virgilio, maestro, guida, simbolo dell'umana ragione. Inoltre non sono ignote e Dante le composizioni allegoriche medievali come la Navigazione di san Brandano (opera anonima dell'XI secolo, in versi latini), la Visione di Tundalo, la Visione di san Paolo, la Visione di Alberico, il Purgatorio di san Patrizio, i Dialoghi di Gregorio Magno e gli scritti di mistiche tedesche o dei filosofi «vittorini», come Ugo da San Vittore, o di profeti millenaristi quali Giacchino del Fiore o anche testi ascetici del mondo musulmano, conservati in traduzone latina, come il Libro della Scala.
Le fonti dei numerosi riferimenti mitologici della Commedia sono essenzialmente i poeti latini Ovidio, Stazio e Lucano, e traduzioni dall'Iliade e dall'Odissea di Omero, mentre i riferimenti morali sono ricavati da Orazio, e, come s'è detto, Virgilio; riferimenti storici e naturalistici sono ricavati da Livio, Frontino, Plinio, Paolo Orosio, repertori enciclopedici come i Libri delle Etimologie di Isidoro da Siviglia, o il Tesoretto di Brunetto Latini. Tra i filosofi ricordiamo Severino Boezio (De consolatione philosophiae), san Tommaso (Summa theologiae), san Bonaventura (Itinerarium mentis in deum), san Bernardo di Chiaravalle, Platone e, soprattutto, Aristotele. Non manca, come fonte primaria della Commedia, il testo delle Sacre Scritture, che spesso sono richiamate, attraverso la citazione di passi o versetti di salmi, oppure con riferimenti a fatti e personaggi del mondo ebraico. Fondamentale, poi, risulta la II Epistola ai Corinzi di san Paolo.

Il disegno generale

Ciò che differenzia la Commedia dagli altri poemi allegorici anteriori o coevi è il possente impianto strutturale che coinvolge l'universo intero; l'organizzazione e la distribuzione delle anime nell'aldilà è così minuziosamente descritta, da apparire realistica e plausibile. Sulla scorta della concezione tolemaica, geocentrica dell'universo, affidata all'Almagesto di Claudio Tolomeo (II sec.d.C.) e recuperata da san Tommaso, Dante colloca presso Gerusalemme, che sorge equidistante ai confini del mondo, le foci del Gange e le colonne d'Ercole, l'imboccatura dell'inferno. Ai suoi antipodi sorge la montagna del purgatorio, che corrisponde esattamente al vuoto della voragine infernale; entrambi sono stati causati dalla caduta di Lucifero, che è divenuto l'espressione del male e della bruttezza, incastrato al centro della terra. Attorno alla terra immobile ruotano nove cieli; oltre a questi, nella pura luce metafisica dell'Empireo, i beati siedono in adorazione di Dio, circondato dai nove cori angelici. La disposizione dei dannati, degli espianti e dei beati segue regole ben precise, improntate alla gerarchia meritocratica. Mano a mano che si scende verso il fondo dell'inferno, i peccati si fanno sempre più gravi; a ispirarne la classificazione sono i testi giuridici e l'Ethica Nicomachea di Aristotele.
Le cornici purgatoriali vedono l'espiazione dei peccati in senso decrescente secondo la classificazione della Chiesa dei sette vizi capitali.
La beatitudine paradisiaca è strutturata nel senso dei diversi meriti acquisiti dagli uomini sulla terra. Protagonista della Commedia è Dante, che svolge il duplice ruolo di personaggio principale (agens) e di autore dell'opera (auctor). Egli è affiancato da guide che sono configurazioni simboliche; Virgilio, che guida Dante nell'inferno e in purgatorio, rappresenta la ragione che riporta l'uomo sulla retta via, Stazio esprime il valore della poesia illuminata dalla fede, Beatrice, simboleggia la fede e la teologia, che porta l'uomo a Dio, mentre san Bernardo esprime il valore dell'estasi ascetica che consente di immedesimarsi in Dio, comprendendone i misteri che sfuggono alla ragione.
Dante-personaggio, infine, configura l'intera umanità del suo tempo, perduta nel peccato e bisognosa di compiere un lungo percorso di redenzione.
I personaggi danteschi sono numerosissimi e svariati; taluni sono appena abbozzati e fungono da esempio di una certa condizione umana. Altri, invece, sono scavati psicologicamente o si trovano inseriti in un contesto che ne svela la potente umanità, o la tragedia vissuta in vita, o il rimorso che li attanaglia dopo morti; così il lettore può ritrovarvi tutte le passioni, le speranze, le angosce, le caratteristiche proprie della vita sulla terra. Numerosissimi, poi, sono i personaggi politici, che attestano l'attenzione del poeta per questi problemi, soprattutto in relazione a Firenze.
Il paesaggio dell'Inferno e del Purgatorio è rappresentato plasticamente con molta verosimiglianza: soprattutto nella seconda Cantica abbondano marine, prati, valli fiorite, selve, aspri passi montani, scarpate, dirupi che riproducono la terra. Più drammatico è il paesaggio infernale dove a fiumi ribollenti, si alternano ghiacci, paludi buie, orrende apparizioni di mostri, terribili metamorfosi, foreste animate, lande infuocate. Nella terza Cantica, invece, domina la luce, segno di esultanza e della grazia illuminante di Dio.
Il messaggio, dell'opera si collega all'intima convinzione di Dante di essere stato investito dalla missione di riportare l'umanità sviata nella giusta prospettiva della salvezza: così il poema ha un valore didattico, oltre che allegorico.



I «quattro sensi» della scrittura

Chiave interpretativa della Commedia è offerta da un passo del Convivio (II,1) in cui Dante asserisce che un'opera può essere vagliata sotto quattro aspetti, o «sensi»:
- letterale,
- allegorico,
- morale,
- anagogico.
Sul piano letterale il poema descrive un viaggio nell'aldilà, iniziato il venerdì santo (8 aprile) del 1300, l'Anno Santo del Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII.
Sul piano allegorico il poema descrive simbolicamente il percorso dell'anima dalla «selva» inestricabile del peccato alla salvezza. Dante ha cercato di rendere lo stato di smarrimento in cui si trova l'umanità del suo tempo, priva delle guide fondamentali del papa e dell'imperatore, poiché il primo prevarica il potere temporale e il secondo non lo esercita con sufficiente rigore.
Il senso morale emerge nelle considerazioni sull'uomo che costellano qua e là il poema; più volte Dante invita l'uomo a resistere alle tentazioni, a rafforzare la volontà sull'istinto, a confidare nelle Sacre Scritture, a rifiutare la corruzione, a resistere alle tentazioni delle ricchezze.
Il senso anagogico si riferisce soprattutto alle citazioni bibliche e alla simbologia in esse contenuta, che aiuta l'anima a elevarsi. Questi due ultimi sensi «traslati» corroborano l'allegoria contenuta nel poema che trasferisce il significato a una sfera più alta

Il simbolismo numerico

Un rigido determinismo anima la Commedia e un sistema di corrispondenze a cui non è estraneo il simbolismo numerico. Nella tradizione ebraico-cristiana alcuni numeri hanno un significato mistico e magico; per esempio il tre, esprime la Trinità, mentre l'uno, simboleggia l'unità di Dio e il valore del dieci risiede nel numero dei comandamenti affidati a Mosè sul Sinai. Questi numeri ritornano insistentemente nella Commedia, che si divide in tre Cantiche, ciascuna composta di trentatrè Canti ciascuna; trentatrè corrisponde all'età di Cristo quando morì e risorse. Un Canto funge da prologo; è il primo dell'Inferno, che permette di contare, in tutto il poema, cento Canti: il numero che rappresenta dieci moltiplicato per se stesso. I Canti si compongono di terzine, mentre nei tre regni vi sono nove settori (cerchi, zone purgatoriali, cieli), laddove il nove corrisponde al tre moltiplicato per se stesso. L'attenzione di Dante per le corrispondenze numeriche mostra la sua conoscenza della filosofia antica (soprattutto delle elaborazioni di Plotino e Pitagora) della Bibbia, dei filosofi ebraici del Medioevo e, forse, anche della Cabala, il libro ebraico della scienza numerologica, magari in compendio.
Il determinismo, però, non si ferma a un semplice fatto di simbologia numerica, ma investe importanti contenuti e momenti strutturali del poema.
Per esempio:
- il Canto VI di tutte e tre le Cantiche è dedicato al problema politico;
- tutti i cerchi infernali, le cornici purgatoriali, i cieli paradisiaci hanno una sorta di guardiano che sarà un demone, un angelo, un'intelligenza angelica;
- in tutti e tre i regni c'è una progressione di pena o di intensità di beatitudine che corrisponde a un'interna gerarchia.
Nell'Inferno e nel Purgatorio le pene sono attribuite in base al contrappasso, una regola secondo cui la pena riflette la colpa, per analogia, oppure per contrasto, e non è mai attribuita né immaginata dal poeta senza un nesso logico.
La Commedia, insomma, riflette la visione del reale propria dell'uomo medievale, in cui nulla è lasciato al caso, ma tutto si inserisce in una collocazione logica, come preciso effetto di una causa.
Un'ultima osservazione sulla lingua del poema, che presenta una straordinaria duttilità e adeguatezza; Dante sa passare dal comico al grottesco, dal lirico al drammatico, coniando neologismi arditi, soprattutto nel Paradiso, e latinismi assai eleganti. Il volgare appare decisamente adatto anche ad affrontare ardue questioni teologiche e ad applicare figure retoriche, quali le celebri similitudini, di cui Dane è davvero maestro.



La fortuna della Divina Commedia

Il successo del poema e delle opere minori di Dante è già notevole presso i contemporeanei; le voci di dissenso sono poche e isolate. Cecco d'Ascoli stronca la Commedia nel suo poema Lacerba, ma è davvero un'eccezione. Molti sono i commentatori del poema, a partire dai due figli di Dante stesso, Pietro e Iacopo, per continuare con il Lana, Graziolo de' Bambuglioli, un anonimo che è noto come l'Ottimo, Guido da Pisa, Francesco da Buti, Benvenuto da Imola, Filippo Villani e lo stesso Boccaccio. Meno fortuna ha Dante nei secoli successivi, forse influenzati dal giudizio tiepido del Petrarca. L'umanesimo, che rivaluta il latino, mal tollera il volgare dantesco.
Anche nel Cinquecento Pietro Bembo preferisce additare in Petrarca un modello di stile poetico, mentre il Seicento non comprende affatto la profondità del messaggio dantesco. Il razionale Settecento illuministico non ama il Medioevo, che giudica periodo di ignoranza e superstizione e glissa con indifferenza sull'opera di Dante. In Italia, di fronte a detrattori come il Cesarotti e il Bettinelli, si levano, tuttavia, le voci di estimatori quali Gasparo Gozzi, Giambattista Vico e Vittorio Alfieri. L'Ottocento vede la piena rivalutazione della Commedia, a partire dal Foscolo, che inizia l'interpretazione «ghibellina» del poema per proseguire con Francesco De Sanctis, la cui critica è ricca di geniali intuizioni e mostra di prediligere l'Inferno. La scuola positivistica del Carducci, che si prolunga nel Novecento con critici quali D'Ovidio, Torraca, Parodi, Barbi (fondamentale punto di riferimento per le valutazioni filologiche), Karl Vossler, arricchisce l'indagine estetica di minuziose ricerche d'archivio, veramente illuminanti per cogliere quei supporti storici e biografici che consentono di comprendere meglio la poesia dantesca. Il Novecento è il secolo degli studi linguistici e strutturali della Commedia. Il saggio di Benedetto Croce La poesia di Dante tende a distinguere i passi lirici da quelli dottrinali, tacciati di non-poeticità.
La scuola crociana annovera critici come Attilio Momigliano, sensibile soprattutto agli aspetti lirici e storico-politici del poema, nonché Francesco Flora e Giovanni Getto che rivalutano in particolare il Paradiso. Di recente contributi fondamentali per il problema dell'allegoria sono stati offerti da Erik Auerbach e altri: fra gli italiani ricordiamo Bruno Nardi, mentre il Contini e lo Spitzer si sono distinti per i saggi sullo stile del poeta e sulla struttura del poema. Pregevole contributo è stato offerto da Umberto Bosco che ha curato la monumantale Enciclopedia Dantesca (1970-78).








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