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L'ira di Achille

letteratura



Così parlava e si metteva giù a sedere: e tra loro si alzò l'eroe Atride, Agamennone dall'ampio potere.

Era torvo: gli si riempivano di rabbia le viscere tutte nere, i suoi occhi parevano fuoco che splende. E prima che ad ogni altro rivolse, con guardatura di minaccia, a Calcante la parola: «Profeta di sventure tu sei! Mai una volta a me hai detto cosa che m'andasse a genio. Sì, sempre ti è caro vaticinare qui dei guai, e una parola di buon augurio mai finora l'hai pronunciata né fatta avverare. E anche adesso in mezzo ai Danai, con aria da ispirato, vai cianciando che il dio arciere proprio per questo, secondo te, fabbrica, a costoro, malanni: perché io non ho voluto accettare gli splendidi doni offerti per il riscatto della giovane Criseide! Certo, io preferisco davvero tenermela con me. E non ho paura a dire che mi piace più di Clitemnestra, la legittima sposa; non è inferiore a lei né per maestà di forme e bellezza, né per il buon senso e i lavori delle sue mani. Ma anche così son disposto a darla indietro, se proprio questo è meglio. Voglio, per parte mia, che l'esercito sia salvo e non che perisca. Ma voi preparate per me qui subito un premio in segno d'onore! Così non sarò l'unico, io, tra gli Argivi, a restar senza ricompense: non sarebbe neanche giusto. Lo vedete bene, credo, tutti quanti, che sorta di dono mi va via.»

E a lui rispondeva allora il grande Achille dai piedi gagliardi: «Atride glorioso, il più avido sei, fra tutti qui, di possedere ricchezze! Dill 535g65f o tu: come faranno i magnanimi Achei ad assegnarti un premio? Non ci sono più da parte, in abbondanza - che noi sappiamo - beni della comunità: ma le spoglie che portammo via dalle città distrutte sono già spartite, e non sarebbe giusto che i soldati le raccogliessero di nuovo e le adunassero in un mucchio. Senti, tu per ora mandala libera al dio, la ragazza: e gli Achei da parte loro ti ripagheranno il triplo e il quadruplo, quando Zeus un giorno o l'altro ci concede di abbattere la città di Troia dalle solide mura.»



Gli rispose allora il sovrano Agamennone: «No, Achille! Pur con tutta la tua prodezza, non voler derubarmi così, dentro di te! Già con me non l'avrai vinta: è inutile che tu insista. Ah, intendi forse che io me ne resti qui, quieto quieto, a mani vuote? e tu intanto ti terrai il tuo premio? e m'imponi poi di restituirla, la ragazza? E sta bene, lo farò: se gli Achei m'assegneranno un altro dono d'onore che mi piaccia, di mio gusto, e procurano che sia di pregi uguali. Se invece non me lo danno, verrò io da solo a prendermelo, il premio: o il tuo o quello di Aiace, o mi menerò via di mia mano quello di Odisseo. E se ne starà là con la sua rabbia chi mi vede arrivare. Ma a tale faccenda naturalmente penseremo più tardi. Ora, via, tiriamo una nave dentro il mare divino: raduniamo i rematori che ci vogliono, imbarchiamo le bestie per la solenne ecatombe e facciamo salire anche la Criseide dalle belle guance! E capo della spedizione sia un uomo di senno, o Aiace o Idomeneo o Odisseo: oppure tu, Pelide, che sei il più tremendo fra tutti quanti i guerrieri. Così ci placherai il dio arciere compiendo i sacrifici.»

E a lui, guardandolo torvo, diceva Achille dai rapidi piedi: «Ah, un uomo vestito di spudoratezza sei tu, che pensi solo al tuo interesse. Come farà, mi chiedo, uno degli Achei a ubbidire volentieri ai tuoi ordini - mettersi in marcia per una spedizione militare e battersi da prode contro guerrieri nemici? Quanto a me, lo sapete, non venni qui a battagliare per odio contro i Troiani valorosi: essi non hanno, nei miei riguardi, colpe. Mai una volta, vedete, razziarono le mie mandrie di bovini e cavalli né mai saccheggiarono i raccolti a Ftia, là nella mia terra dalle larghe zolle, nutrice di eroi: e a dir il vero, c'è tanta distanza - monti ombrosi e la distesa sonora del mare. Ma dietro a te, o grande spudorato, siamo venuti, noi qui, per i tuoi comodi, cercando di ottenere un risarcimento da parte dei Troiani per Menelao e per te - faccia di cane. Ma di questo non ti dai pensiero né ti curi! E poi minacci - è il colmo - di portarmi via, proprio tu, il mio premio, quando sopportai, per averlo, tanti travagli, e a me l'assegnarono i figli degli Achei. E del resto non ho mai un dono uguale a te, ogni volta che gli Achei distruggono qualche popolosa città dei Troiani. Eppure la parte maggiore dei tanti scontri in battaglia la sostengono le mie braccia. E quando viene il momento di spartire la preda, per te, ecco, il premio è molto più grande: io invece ne ho uno piccolo sì ma caro, e con quello me ne torno verso le navi stanco di combattere. Ora così me ne andrò a Ftia perché, vedo, è molto meglio far ritorno a casa con le navi: e neanche intendo restar qui senza onore ad ammucchiare per te beni e ricchezze.»

Gli rispose allora Agamennone signore di guerrieri: «Scappa pure, se hai voglia! Io non ti supplico davvero di restare per amor mio. Accanto a me, sì, rimangono gli altri che mi renderanno i dovuti onori - e avanti a tutti il provvido Zeus. Il più odioso, te lo dico, tu mi sei tra i re nutriti da Zeus: ché sempre ti è cara la lotta, sempre ti son care guerre e battaglie. E se poi sei molto gagliardo, è stato un dio, certo, a farti questo dono. Ma vattene a casa con le tue navi e i tuoi compagni d'armi, a comandare sui Mirmidoni! Di te, vedi, non mi curo, e non mi do pensiero del tuo rancore. Anzi ti voglio fare qui una minaccia: come mi porta via, Febo Apollo, la Criseide - e io la farò accompagnare con una mia nave e miei uomini - ecco, io, di persona, vengo alla tua baracca a menar via la Briseide dalle belle guance, il dono là tuo. Così saprai quanto sono più potente di te: e anche qualchedun altro avrà ben paura a credersi mio uguale e a mettersi di fronte a me da pari a pari.»

Così parlava. E al Pelide venne dolore: e fu incerto, lì per lì, il suo cuore dentro il petto villoso. Non sapeva se trarsi dal fianco la spada tagliente e far indietreggiare loro là e poi uccidere l'Atride, o se frenare la collera e contenere il suo impulso.

Mentre pensava così ed estraeva dal fodero la grossa spada, ecco arrivò Atena dal cielo: l'aveva mandata giù la dea dalle candide braccia Era, che voleva bene a tutti e due nello stesso modo e si curava di loro.

Si fermò dietro a lui e lo prese, il Pelide, per la bionda chioma: a lui solo appariva, nessuno degli altri la scorgeva. Fu scosso, Achille, da stupore e si voltò indietro: subito riconobbe Pallade Atena.

Terribili i suoi occhi balenarono: e a lei rivolgeva parole: «Come mai sei venuta qui ancora, o figlia di Zeus egioco? a vedere l'arroganza senza misura di Agamennone l'Atride? Ma una cosa ti voglio dire e si avvererà, penso: con le sue prepotenze ben presto, una volta o l'altra, ci lascia la vita.»

E a lui rispose la dea dagli occhi lucenti, Atena: «Son venuta qui a placare il tuo sdegno, se mi vuoi dar retta: dal cielo sono giunta. Mi mandò giù la dea Era che vuol bene a tutt'e due nello stesso modo e si cura di voi. Ma via, desisti dal fare una zuffa, non tirar fuori la spada! A parole, sì, rinfacciagli ingiuriosamente quanto succederà qui senz'altro. Una cosa poi voglio dire e si avvererà di certo: un giorno saranno a tua disposizione magnifici doni, tre volte tanti, per via della prepotenza di oggi. Tu ora frenati e dai retta a noi!»

Le rispondeva Achille dai rapidi piedi: «Devo proprio, o dea, seguire la parola di voi due, anche se sono furibondo. Così, credo, è meglio. Chi ubbidisce agli dei, sempre loro l'ascoltano in tutto.»

Disse: e sull'impugnatura a fregi d'argento trattenne la pesante mano, ricacciò dentro il fodero la grossa spada e non disubbidì all'ordine di Atena. E già lei se n'era andata all'Olimpo, nella casa di Zeus egioco, in mezzo agli altri dei.

E il Pelide si rivolse di nuovo con parole insolenti contro Agamennone e non la smetteva più di sfogare la sua collera: «Un ubriacone sei! Hai guardatura di cane e il cuore di un cervo! Mai una volta ti arrischi a vestir con l'esercito l'armatura per una battaglia aperta e tanto meno per muovere insieme ai più valorosi degli Achei a un'imboscata. Naturale! qui c'è lo spettro di una morte violenta. Certo è molto più vantaggioso restare nel vasto campo degli Achei a portar via i premi di chi parla franco di fronte a te. Un re tu sei che si mangia i beni della comunità, perché governi su dei buoni a nulla: altrimenti sarebbe l'ultima volta, oggi, o Atride, che tu rechi oltraggio. Ma una cosa ti voglio dire e faccio, a conferma, solenne giuramento. Sì, lo giuro per lo scettro qui: ecco, questo non metterà mai più foglie e rami, da quando ha lasciato il suo tronco sui monti, e non rinverdirà mai più: l'ascia di bronzo, vedete, l'ha spogliato tutto all'intorno delle sue foglie e della corteccia, e ora i figli degli Achei lo portano in mano quali amministratori della giustizia, perché hanno in custodia le leggi sacre in nome di Zeus - e così per te sarà giuramento grande. Sì, un giorno verrà agli Achei rimpianto di Achille, a tutti quanti. Ma allora tu non avrai potere, con tuo cruccio, di portar loro soccorso, quando numerosi cadranno giù moribondi sotto i colpi di Ettore sterminatore di guerrieri. E tu allora dentro ti roderai dalla rabbia, per non aver onorato il più valoroso degli Achei.»

Così parlava il Pelide e gettò a terra lo scettro adorno di borchie d'oro. Poi si sedeva.





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