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LA TRAGEDIA TRA IL CINQUECENTO E IL SEICENTO

letteratura



LA TRAGEDIA TRA IL CINQUECENTO E IL SEICENTO


Il genere tragico non ebbe nel Cinquecento la stessa fortuna né raggiunse gli stessi risultati qualitativi della commedia. Nella sostanza esso rimase infatti una riproduzione piatta e accademica della tragedia antica, di cui ripeteva schemi e contenuti senza riuscire a realizzare un colle 414b14e gamento efficace con la realtà del suo tempo. Queste caratteristiche si riscontrano negli intrecci, largamente prevedibili e in gran parte ricavati dalla tradizione, nei personaggi, ridotti a simboli poveri di autentica umanità, e soprattutto nella lingua, rigidamente modellata su schemi classici e priva di quel realismo, di quella brillantezza e di quella inventiva che avevano invece caratterizzato la commedia e determinato il suo successo. La tragedia cercò di sopperire alla sua carenza di originalità accentuando gli effetti orrorifici, con un compiacimento per le scene truculente e sanguinose, che tuttavia non servirono ad assicurare un'autentica popolarità a questo genere drammaturgico: esso restò infatti confinato all'interno di una ristretta cerchia di specialisti e di dotti, impegnati in un accanito dibattito sulle regole formali dettate da Aristotele (l'unità di tempo, di azione e di luogo) e sui modelli (i tragici greci, Seneca, gli storici latini, l'epica classica). Si trattava evidentemente di questioni che non potevano coinvolgere un largo pubblico e che spostarono gli interessi e l'impegno degli autori dal piano creativo a quello dell'erudizione, dando luogo a testi ammirevoli per rigore filologico e ricchezza dottrinale, ma artificiosi, umanamente freddi, e statici dal punto di vista scenico.

Regole e caratteri del teatro tragico erano già stati fissati nel Cinquecento, per opera soprattutto di Gian Giorgio Trissino e Giambattista Giraldi, secondo un canone che intendeva riprodurre i modi della tragedia classica: divisione in cinque atti, presenza del coro, rispetto delle tre unità aristoteliche di tempo, di azione e di luogo. Questo schema rimane sostanzialmente invariato anche nel corso del XVII secolo, durante il quale la tragedia, a differenza della commedia, non presenta innovazioni e soluzioni alternative, scadendo in una mancanza di originalità e in una monotonia che, pur nella generale fortuna del teatro secentesco, allontanarono il grande pubblico e confinarono il genere in un ambito ristretto di specialisti e di eruditi.



Gli autori tragici del XVII secolo furono numerosi, ma rimasero oscuri e ignorati dai contemporanei. Degni di menzione per l'analisi psicologica dei personaggi e per il profondo pessimismo della visione del mondo, sono i nomi di Federigo della Valle (1560?-1628) e di Carlo de' Dottori (1618-1680).

D'altra parte, è evidente che questi testi furono concepiti più per essere letti che per essere rappresentati: il numero dei personaggi è limitato, l'intreccio ridotto al minimo, l'azione scenica priva di ritmo e di dinamismo, i dialoghi costituiti, più che da uno scambio di battute, da un succedersi di lunghi monologhi. I valori della tragedia secentesca non vanno dunque cercati nel suo specifico teatrale, ma nella forte concezione morale da cui essa è animata, nella drammatica visione del mondo, nella capacità di affrontare alcuni dei grandi nodi proposti dalla civiltà del Seicento: in primo luogo, il rapporto dell'uomo con il potere, sia quello politico (lo Stato, il sovrano), sia quello spirituale (gli imperativi morali, la volontà di Dio), che spesso entrano in reciproca contraddizione. Sotto il profilo stilistico, pur non sottraendosi del tutto al gusto del tempo (il compiacimento per i contrasti violenti e per le situazioni estreme, un linguaggio spesso declamatorio, la tendenza al fastoso e al grandioso), la tragedia del Seicento riesce a contenere gli eccessi del Barocco e a mantenersi su un livello di severo classicismo, accentuato dalla consuetudine di scegliere come protagonisti grandi personaggi tratti dalla storia politica o religiosa.




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