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IL TEATRO DI RUZANTE

letteratura



IL TEATRO DI RUZANTE


La personalità del padovano Angelo Beolco, detto Ruzante (1502 ca.-1542), risalta per la sua eccezionale originalità, per l'anticonformismo delle sue scelte linguistiche e per il tono fortemente innovativo e polemico delle situazioni proposte. Dopo la sua morte, il teatro di Ruzante ebbe una rapida diffusione (testimoniata da numerose ristampe delle sue opere), ma a partire dalla metà del Seicento esso è stato completamente dimenticato, quasi rimosso, dal repertorio comico italiano, a causa forse dell'anomalia linguistica che lo distingueva nettamente dai testi tradizionali del teatro cinquecentesco. La riscoperta mod 838g67i erna si deve al francese Maurice Sand, figlio della scrittrice George, che inserì l'artista padovano in un repertorio di Masques et bouffons pubblicato a Parigi nel 1862. Ma soltanto nella seconda metà di questo secolo, grazie al lavoro di alcuni studiosi (tra cui Ludovico Zorzi), i testi di Ruzante sono stati riletti nella loro interezza e autenticità linguistica, più volte riproposti da compagnie d'avanguardia in nuovi allestimenti.

Diversamente da quanto accade nella riflessione teorica della letteratura del Rinascimento, in cui il modello linguistico del fiorentino colto modellato su Petrarca e Boccaccio andava prevalendo sulle spinte naturalistiche e sul plurilinguismo in generale, il teatro di Ruzante aveva fatto della anomalia e della difformità (evidente ad esempio nelle storpiature e nelle deformazioni linguistiche) la sua caratteristica più evidente e il suo punto di forza maggiore. La scelta del vernacolo costituiva per il Ruzante, autore, attore e regista dei propri testi, una chiara direzione dei contenuti del proprio teatro.



La sua rielaborazione intellettuale si concentra su alcune grandi questioni storiche e sociali: in particolare la rappresentazione della cultura contadina, da sempre contrapposta e sottomessa al potere dello stato e della Chiesa, offriva ampio spazio e materia di indagine, spesso polemica e dissacrante. Nella giovanile Pastoral, probabilmente composta nel 1520, il tema della snaturalité assume i contorni di un'autentica satira contro lo strapotere delle alte gerarchie ecclesiastiche e il prestigio degli intellettuali (nel dialetto di Ruzante i letterati e gli scienziati vengono chiamati sletràn e sinçiè: il prefisso s- è infatti uno stravolgimento e insieme un chiaro ribaltamento della loro funzione).

La contrapposizione città-campagna, la divaricazione sociale e economica tra il mondo contadino povero e la ricchezza commerciale delle classi inurbate, viene ricondotta a uno scontro tra la lingua della cultura (il toscano) e la lingua della natura (il dialetto).

La produzione del Ruzante consta di due commedie in versi e cinque in prosa, di tre Dialoghi e due Orazioni, oltre a due monologhi in forma epistolare e ad alcune liriche. Sono lavori vari, che toccano gran parte dei generi letterari in auge nel Cinquecento.

Nella sua prima commedia, La Pastoral, l'autore riprende l'egloga pastorale, ma nel mitico mondo dell'Arcadia, popolato di pastori e ninfe, compaiono personaggi come i due rozzi contadini protagonisti, che parlano in dialetto pavano, e un medico, che si esprime in bergamasco. Anche la Betía è una parodia in dialetto. L'esile trama, la storia dell'amore e del matrimonio tra i contadini Zilio e Betía, è solo un pretesto per rovesciare ironicamente il modello ideale dell'amor platonico proposto dal Bembo negli Asolani, e si ricollega alla tradizione popolare dei mariazi (maritaggi) in dialetto, assai diffusa in Veneto fin dal Trecento.

Nel prologo lo scrittore giustifica l'ambientazione contadina e l'uso del dialetto in base alle leggi della sua poetica, che sono la spontaneità e la naturalezza, valori da lui più volte ribaditi. Il Ruzante afferma esplicitamente di considerare insensato chiunque pretenda di far esprimere personaggi semplici e rozzi in un linguaggio letterario, inevitabilmente artefatto e stonato nelle loro bocche, e rivendica l'esigenza di usare un lessico e uno stile coerenti con l'argomento trattato.

Analoghe considerazioni sulla poetica si trovano anche nei Dialoghi, nei quali l'autore conferma l'importanza della naturalezza e contrappone allo stile convenzionale, che gli appare falso, una scrittura capace di ritrarre un mondo che gli sembra roesso (la parola, in dialetto pavano, vuol dire "rovesciato", ma anche "universo", cioè "intero", "totale"; in questo secondo significato sembra quasi il Ruzante intenda descrivere un mondo più "completo" rispetto a quello parziale caro alla letteratura colta).

Il primo dei dialoghi (scritti forse tra il 1527 e il 1531) è Parlamento de Ruzante che iera vegnú de campo (Discorso di Ruzante tornato dalla guerra); narra le disgrazie del contadino Ruzante che, dopo essersi salvato a stento dalla battaglia dell'Agnadello contro le truppe della Lega di Cambrai, desidera solo riunirsi alla moglie Gnua; costei però, stanca della vita durissima a cui è costretta, lo abbandona per unirsi ad un bravaccio di Venezia, al quale il Ruzante tenta invano di riprenderla. Nel Parlamento tornano motivi classici presenti nel teatro di Plauto, nel Miles gloriosus ad esempio: l'intento di Ruzante è quello di condannare ancora una volta lo sfruttamento e l'oppressione che il potere esercita sulle masse popolari e sui contadini in particolare, costretti a subire le disgrazie della guerra, a combattere e a morire.



Nel secondo dialogo, Bílora, il rustico protagonista (Bílora, appunto) va a Venezia per cercare di convincere la moglie, che lo tradisce con un ricco e vecchio possidente, a ritornare da lui. Quando costei gli oppone un netto rifiuto, Bílora si ubriaca e, senza rendersene pienamente conto, uccide il vecchio.

Il terzo dialogo, noto come Dialogo facetissimo, riprende la polemica contro lo sfruttamento dei contadini e la falsità della vita cittadina.

I Dialoghi confermano la sincera sensibilità dello scrittore verso il mondo rurale e la sua comprensione per i contadini soggetti alle sofferenze e alle ingiustizie derivanti da una ben misera condizione sociale; ma riescono anche a illuminare, attraverso interessanti annotazioni dell'autore sui loro usi e costumi, il legame profondo che i villani conservano con la terra; inoltre dipingono un vivace scorcio del ricco e genuino patrimonio tradizionale delle campagne. Alla vita travagliata ma schietta dei suoi personaggi, il Ruzante contrappone polemicamente l'ambiente artificioso della città. Il mondo cittadino, che ha l'ingannevole aspetto di un paradiso di benessere, si rivela poi un motivo in più di sconfitta per il campagnolo ingenuo, che resta emarginato o soffocato da gente ostile e chiusa in una gretta e sprezzante indifferenza.

Le Orazioni, l'una del 1521, l'altra del 1528, vengono composte e recitate dal Ruzante in onore di parenti del suo protettore, la prima per il cardinale Marco, la seconda per il cardinale Francesco Cornaro. Lo scrittore, sia pure in tono faceto e scherzoso, denuncia i disagi della vita rurale, legata al duro lavoro della terra, e le difficoltà di un'esistenza dominata dalla miseria e dallo spettro della fame, cui s'aggiunge la mancanza di leggi che assistano e difendano i contadini, vittime di maltrattamenti e di soprusi.

Del 1529 è la commedia La moscheta, il cui titolo allude al parlar moscheto, cioè "fino". In lingua "fina" cerca di parlare il protagonista Ruzante, per rendere più credibile il suo travestimento da cittadino, con il quale vuol mettere alla prova la moglie infedele, ottenendo invece di spingerla nelle braccia di un amante. La moscheta prosegue la polemica contro il linguaggio "alto", che qui diventa un vero strumento di danno contro il "naturale", incarnato dal povero Ruzante, sempre vittima della sopraffazione altrui e della propria ignoranza.

La Fiorina è un mariazo del 1531, meno riuscito della Betía, nel cui prologo il Ruzante conferma la sua convinzione che si debba non solo parlare, ma agire con naturalezza.

Fra il 1532 e il 1533 il Ruzante scrive le commedie La Piovana e La vaccaria. Nel rielaborare due trame tipiche del teatro antico (tratte dal Rudens e dall'Asinaria di Plauto), per la prima volta l'autore si avvicina al gusto teatrale letterario e classicheggiante, ma con interventi originali e di notevole interesse stilistico. La Piovana trasporta in campagna una storia cittadina ed è tutta in dialetto; La vaccaria giuoca sul contrasto tra il dialetto, usato dai personaggi umili, tutti servitori, e la lingua, in cui si esprimono i personaggi di estrazione sociale più alta: mercanti, notai e altri.

L'Anconetana, di datazione incerta, è fondata su un complicato intreccio di amori, inganni e travestimenti, con il tradizionale riconoscimento finale. Il testo alterna parti serie in lingua a parti comiche in dialetto e assegna ad ogni personaggio un modo di esprimersi diverso: il dialetto pavano, il veneziano e la lingua letteraria. Un particolare interessante di questa commedia è l'invenzione di due figure comiche che anticipano le maschere di Arlecchino e Pantalone.






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