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GIACOMO LEOPARDI - La vita

letteratura



GIACOMO LEOPARDI

La vita

Giacomo Leopardi nacque il 29 giugno 1798 a Recanati, primogenito del conte Monaldo e di Adelaide Antici. Recanati era un borgo di uno degli Stati a quel tempo più attardati e retrivi d'Italia, lo Stato pontificio. La famiglia Leopardi era tra le più cospicue della nobiltà terriera marchigiana, ma in cattive condizioni patrimoniali, tanto da dover osservare una rigida economia per conservare il decoro esteriore del rango nobiliare. Il padre era un uomo colto, che nel suo palazzo aveva messo insieme una notevole biblioteca, ma di una cultura attardata e accademica. I suoi orientamenti politici erano ferocemente reazionari, ostili a tutte le idee nuove che erano state diffuse dalla Rivoluzione francese e dalle campagne napoleoniche. Giacomo crebbe in questo ambiente bigotto e codino, che in un primo tempo influenzò le sue idee e i suoi orientamenti. La vita familiare era dominata soprattutto dalla madre, donna dura e gretta, interamente dedita alla cura del patrimonio dissestato, ed era caratterizzata da un'atmosfera autoritaria, arcigna, priva di confidenza e di affetto. Giacomo, come era costume nelle famiglie nobili del tempo, fu istruito inizialmente da precettori ecclesiastici, ma ben presto, intorno ai dieci anni, non ebbe più nulla da imparare da essi e continuò i suoi studi da solo, chiudendosi nella biblioteca patema, per quei "sette anni di studio matto e disperatissimo", come li definì egli stesso, che contribuirono a minare il suo fisico già fragile. Dotato di un'intelligenza straordinariamente precoce, si formò ben presto una vastissima cultura: imparò in breve tempo, oltre il latino, anche il greco e l'ebraico, condusse lavori filologici che stupirono i dotti dell'epoca, tradusse classici latini e greci, le Odi di Grazio, il I libro dell'Odissea, il II dell'Eneide, e contemporaneamente scrisse una massa ingente di componimenti poetici, odi, sonetti, canzonette, tragedie. Se questa vasta produzione intellettuale lascia sbalorditi in un adolescente, c'è anche da osservare che ne emerge il quadro di una cultura arcaica e superata, ancora ispirata a modelli arcadico-illuministici, e di un'erudizione arida e accademica, dagli orizzonti ristretti: era la cultura propria dell'ambiente familiare e di quell'attardato mondo provinciale. Anche sul piano politico Giacomo segue gli orientamenti reazionari del padre, come dimostra l'orazione Agli Italiani per la liberazione del Piceno (1815) e vuoi distogliere gli Italiani dalle aspirazioni patriottiche.



Tra il' 15e il' 16 si attua quella che egli stesso chiama la sua conversione "dall'erudizione al bello": abbandona le aride minuzie filologiche, e si.entusiasma per i grandi poeti. Omero, Virgilio, Dante. Comincia a leggere i moderni, la Vita di Alfieri, il Werther, l'Ortis; tramite la lettura della De Staèl viene a contatto con la cultura romantica (nei cui confronti ha però, come si vedrà, forti riserve). Un momento fondamentale della sua formazione intellettuale e della sua esperienza vissuta fu l'amicizia con Pietro Giordani, uno degli intellettuali più significativi di quegli anni. Nella corrispondenza con il Giordani poté trovare quella confidenza affettuosa che gli mancava nell'ambiente familiare, e al tempo stesso una guida intellettuale. Questa apertura verso il mondo esterno gli rese ancor più dolorosamente insostenibile l'atmosfera chiusa e stagnante di Recanati e del palazzo paterno, e suscitò in lui il bisogno di uscire da quella specie di carcere, di venire a contatto con più vive esperienze intellettuali e sociali. Nell'estate del 1819 tentò la fuga dalla casa patema, ma il tentativo fu scoperto e sventato. Lo stato d'animo conseguente a questo fallimento, acuito da un'infermità agli occhi che gli impediva anche la lettura, unico conforto alla solitudine alla "nera, orrenda e barbara malinconia", lo portarono a uno stato di totale prostrazione e aridità (si veda la lettera del 19 novembre 1819). Raggiunse così la percezione lucidissima della nullità di tutte le cose, che è il nucleo del suo sistema pessimistico. Questa crisi del 1819 segna un altro passaggio, sempre a detta di Leopardi stesso, dal "bello al vero", dalla poesia d'immaginazione alla



filosofia e ad un poesia nutrita di pensiero. 242c25c

Il 1819 è anche un anno di intense sperimentazioni letterarie. Molti filoni sono tentati e subito abbandonati, ma con l'Infinito comincia la stagione più originale della sua poesia. Si infittiscono anche le note dello Zibaldone una sorta di diario intellettuale, avviato due anni prima, a cui Leopardi affida appunti, riflessioni filosofiche, letterarie, linguistiche. Nel 1822 ha finalmente la possibilità di uscire da Recanati e di vedere il mondo esterno a quella "tomba de5 vivi", si reca infatti a Roma, ospite dello zio Carlo Antici. Ma l'uscita tanto desiderata si risolve in una cocente disillusione. Gli ambienti letterari di Roma gli appaiono vuoti e meschini, la stessa grandezza monumentale della città lo infastidisce. Tornato a Recanati nel' 23, si dedica alla composizione delle Operette morali, a cui affida l'espressione del suo pensiero pessimistico. E* cominciato un periodo di aridità interiore, che gli preclude di scrivere versi; perciò si dedica alla prosa, all'investigazione dell'acerbo vero". Nel "25 gli si offre l'occasione di lasciare la famiglia e di mantenersi con il proprio lavoro intellettuale: un editore milanese intraprendente e di moderne concezioni, lo Stella, gli offre un assegno fisso per una serie di collaborazioni. Soggiorna così a Milano e a Bologna; nel' 27 passa a Firenze. Trascorre l'inverno '27-'28 a Pisa: qui la dolcezza del clima e una relativa tregua dei suoi mali favoriscono un "risorgimento" della sua facoltà di sentire e di immaginare. Nella primavera del '28 nasce così A Silvia, che apre la serie dei "grandi idilli". Le necessità economiche però lo incalzano. Le prospettive di sistemazione che gli si presentano si rivelano via via inconsistenti. Nell'autunno del 1828, aggravatesi le condizioni di salute, divenuto impossibile ogni lavoro e sospeso l'assegno dell'editore, è costretto a tornare in famiglia, a Recanati. Vi rimane un anno e mezzo, "sedici mesi di notte orribile". Vive isolato nel palazzo paterno, senza rapporti con alcuno, immerso nella sua tetra malinconia. Nell'aprile del "30 si risolve ad accettare una generosa offerta degli amici fiorentini, che pochi mesi prima aveva respinto per fierezza: un assegno mensile per un anno. Lascia così Recanati, per non farvi più ritorno. Comincia una nuova fase della sua esperienza intellettuale: esce dalla cerchia chiusa ed esclusiva del suo io, stringe rapporti sociali più intensi, viene a contatto con il dibattito culturale e anche politico, e vi partecipa con fervore, sia pure da posizioni violentemente polemiche contro l'ottimismo progressistico dei liberali. A Firenze fa anche l'esperienza della passione amorosa, per Fanny Targioni Tozzetti. La delusione subito ispira un nuovo ciclo di canti, il cosiddetto "ciclo di Aspasia" in cui compaiono soluzioni poetiche decisamente nuove. A Firenze stringe una fraterna amicizia con un giovane esule napoletano Antonio Panieri, e con lui fa vita comune fino alla morte. Nel frattempo un sollievo alle sempre condizioni economiche gli viene da un piccolo assegno mensile, finalmente concesso dalla famiglia. Dal'33 si stabilisce a Napoli col Panieri. Qui entra in polemica con l'ambiente culturale, dominato da tendenze idealistiche e spiritualistiche, avverse al suo materialismo ateo. La polemica prende corpo soprattutto nell'ultimo grande canto. La ginestra. A Napoli lo coglie la morte, attesa e invocata da anni, il 14 giugno 1837.

Il pensiero

Tutta l'opera leopardiana si fonda su un sistema di idee continuamente meditate e sviluppate, il cui processo, prima dell'approdo ai testi compiuti, si può seguire attraverso le migliaia di pagine dello Zibaldone. La ricostruzione almeno sommaria di questo sistema nella sua evoluzione nel tempo è quindi una premessa indispensabile alla lettura della poesia e della prosa leopardiane. Al centro della meditazione di Leopardi si pone subito un motivo pessimistico, l'infelicità dell'uomo. Egli arriva a individuare la causa prima di questa infelicità in alcune pagine fondamentali dello Zibaldone del luglio 1820. Restando fedele a un indirizzo di pensiero settecentesco e sensistico, identifica la felicità con il piacere, sensibile e materiale. Ma l'uomo non desidera un piacere, bensì il piacere: aspira cioè a un piacere che sia infinito, per estensione e per durata. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri particolari goduti dall'uomo


può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua, un vuoto incolmabile dell'anima. Da questa tensione inappagata verso un piacere infinito che sempre gli sfugge nasce per Leopardi l'infelicità dell'uomo, il senso della nullità di tutte le cose. E Leopardi si preoccupa di sottolineare che ciò va inteso non in senso religioso e metafisico, come tensione verso un'infinità divina al di là delle cose contingenti, ma in senso puramente materiale. L'uomo è dunque, per Leopardi, necessariamente infelice, per la sua costituzione. Ma la natura, che in questa prima fase è concepita da Leopardi come madre benigna e provvidenzialmente attenta al bene delle sue creature, ha voluto sin dalle origini offrire un rimedio all'uomo: l'immaginazione e le illusioni, grazie alle quali ha velato agli occhi della misera creatura le sue effettive condizioni. Per questo gli uomini primitivi, e gli antichi Greci e Romani, che erano più vicini alla natura (come lo sono i fanciulli), e quindi capaci di illudersi e di immaginare, erano felici, perché ignoravano la loro reale infelicità. Il progresso della civiltà, opera della ragione, ha allontanato l'uomo da quella condizione privilegiata, ha messo crudamente sotto i suoi occhi il vero e lo ha reso infelice. La prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita su questa antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Gli antichi, nutriti di generose illusioni, erano capaci di azioni eroiche e magnanime; erano anche più forti fisicamente, e questo favoriva la loro forza morale; la loro vita era più attiva e intensa, e ciò contribuiva a far dimenticare il nulla e il vuoto dell'esistenza. Perciò essi erano più grandi di noi sia nella vita civile, ricca di esempi eroici e di grandi virtù, sia nella vita culturale. Il progresso della civiltà e della ragione, spegnendo le illusioni, ha spento ogni slancio magnanimo, ha reso i moderni incapaci di azioni eroiche, ha generato viltà, meschinità, calcolo gretto ed egoistico, corruzione dei costumi. La colpa dell'infelicità presente è dunque attribuita all'uomo stesso, che si è allontanato dalla via tracciata dalla natura benigna. Leopardi da un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni (che, non si deve dimenticare, è gravata dalla cappa oppressiva della Restaurazione), la vede dominata dall'inerzia e dal tedio; ciò vale soprattutto per l'Italia, miserevolmente decaduta dalla grandezza del passato. Scaturisce di qui la tematica civile e patriottica che caratterizza le prime canzoni leopardiane. E ne deriva anche un atteggiamento titanico', il poeta, come unico depositario della virtù antica, si erge solitario a sfidare il fato maligno che ha condannato l'Italia a tanta abiezione, e sferza violentemente la sua "codarda età". Questa fase del pensiero leopardiano è stata designata con la formula del pessimismo storico: nel senso che la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo storico, di una decadenza e di un allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità e pienezza vitale (ma non bisogna mai dimenticare che si tratta pur sempre di una felicità relativa, e che Leopardi è già sin d'ora consapevole del fatto che la vera condizione dell'uomo è infelice, e che la felicità antica era solo frutto di illusione, di un generoso e provvidenziale inganno). Questa concezione di una natura benigna e provvidenziale entra però in crisi. Leopardi si rende conto che, più che al bene dei singoli individui, la natura mira alla conservazione della specie, e per questo fine può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza.

Ne deduce che il male non è un semplice accidente ma rientra nel piano stesso della natura. Si rende conto inoltre del fatto che è la natura che ha messo l'uomo quel desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo. In una fase intermedia. Leopardi cerca di uscire da queste contraddizioni attribuendo la responsabilità del male al fato; propone quindi una concezione dualistica, natura benigna contro fato maligno. Ma ben presto arriva alla soluzione delle contraddizioni rovesciando la sua concezione della natura. Questo punto d'approdo è in realtà preceduto da un lungo travaglio, testimoniato dallo Zibaldone. Leopardi concepisce la natura non più come madre amorosa e provvidente, ma come meccanismo cieco, indifferente alla sorte delle sue creature; meccanismo anche crudele, in cui la sofferenza degli esseri e la loro distruzione è legge essenziale, perché gli individui devono perire per consentire la conservazione del mondo (ad esempio gli animali che devono servire da cibo ad altri animali).


E una concezione non più finalistica ( la natura che opera consapevolmente per un fine, il bene delle creature) ma meccanicistica e materialistica. La colpa dell'infelicità non è più dell'uomo stesso, ma solo della natura. L'uomo non è che vittima innocente della sua crudeltà. Se filosoficamente Leopardi rappresenta la natura come meccanismo inconsapevole, somma di leggi oggettive non regolate da una mente provvidenziale, miticamente e poeticamente ama però rappresentarla come una sorta di divinità malvagia, che opera deliberatamente per far soffrire e distruggere le sue creature. Viene così superato il dualismo natura- fato: alla natura vengono attribuite le caratteristiche che prima erano del fato, la malvagità crudele e persecutoria. Coerentemente con l'approdo materialistico, muta anche il senso dell'infelicità umana: prima, in termini sensistici, era concepita come assenza di piacere (vedi la "teoria del piacere" del luglio 1820), in una dimensione psicologica ed esistenziale; ora l'infelicità, materialisticamente, è dovuta soprattutto a mali esterni, a cui nessuno può sfuggire: malattie, elementi atmosferici, cataclismi, vecchiaia, morte. Se causa dell'infelicità è la natura stessa, nel suo cieco meccanismo immutabile, tutti gli uomini, in ogni tempo, in ogni luogo, sotto ogni forma di governo, in ogni tipo di società, sono necessariamente infelici; anche gli antichi, pur essendo capaci di illudersi, erano vittime di quei terribili mali. Al pessimismo "storico" della prima fase subentra così un pessimismo "cosmico": nel senso che l'infelicità non è più legata ad una condizione storica e relativa dell'uomo, ma ad una condizione assoluta, diviene un dato eterno e immutabile di natura. E' la concezione che informerà tutta l'opera di Leopardi successiva al 1824. Se l'infelicità è un dato di natura, vane sono la protesta e la lotta, e non resta che la contemplazione lucida e disperata della verità. Subentra infatti in Leopardi un atteggiamento contemplativo, ironico, distaccato e rassegnato. Suo ideale non è più l'eroe antico, teso a generose imprese, ma il saggio antico, la cui caratteristica è Atarassia, il distacco imperturbabile della vita. E' l'atteggiamento che caratterizza le Operette morali. Ma la rassegnazione dinanzi a ciò che è dato non è propria dell'indole di Leopardi: in momenti successivi tornerà l'atteggiamento di protesta, di sfida al fato e alla natura, di lotta titanica. Sinché al termine della vita, nella Ginestra, sulla base della concezione pessimistica della natura Leopardi arriverà a costruire tutta una concezione della vita sociale e del progresso.

La poetica del vago e indefinito

La "teoria del piacere", elaborata nel luglio 1820, è un crocevia fondamentale nel sistema di pensiero leopardiano. Lo sviluppo delle sue meditazioni si può seguire nei fitti appunti dello Zibaldone immediatamente successivi alle pagine sul piacere. Se nella realtà il piacere infinito è irraggiungibile, l'uomo può figurarsi piaceri infiniti mediante l'immaginazione ("il piacere infinito che non si' può trovare nella realtà, si trova così nell'immaginazione, dalla quale .derivano la speranza, le illusioni"). La realtà immaginata costituisce la compensazione, l'alternativa a una realtà vissuta che non è che infelicità e noia. Ciò che stimola l'immaginazione a costruire questa realtà parallela, in cui l'uomo trova l'illusorio appagamento al suo bisogno di infinito, è tutto ciò che è vago, indefinito, lontano, ignoto. Nelle pagine dello Zibaldone Leopardi passa minuziosamente in rassegna, in chiave sensistica, tutti gli aspetti della realtà sensibile che, per il loro carattere indefinito, possiedono questa forza suggestiva. Si viene a costruire una vera e propria teoria della visione: è piacevole, per le idee vaghe e indefinite che suscita, la vista impedita da un ostacolo, una siepe, un albero, una torre, una finestra, "perché allora in luogo della vista, lavora l'immaginazione e il fantastico sottentra al reale" lo stesso effetto hanno un filare d'alberi che si perde all'orizzonte, un declivio di cui non si riesce a vedere la fine, una fuga di stanze, il gioco della luce lunare tra gli alberi, sull'acqua, sui tetti delle case. Contemporaneamente, viene a costruirsi anche una teoria del suono. Leopardi elenca tutta una serie di suoni suggestivi perché vaghi: un canto che vada a poco allontanandosi, un canto che giunga dall'esterno dal chiuso di una stanza, il muggito degli armenti che echeggi per le valli, lo stormire del vento tra le fronde. A questo punto della meditazione leopardiana si verifica la


svolta fondamentale, e la teoria filosofica dell'indefinito si aggancia alla teoria poetica. Giunto al termine di questa rassegna di suoni. Leopardi osserva: "E tutte queste immagini in poesia sono sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe"; e otto giorni più tardi, il 24 ottobre 1821, riprende: «Quello che ho detto altrove sugli effetti della luce, del suono, e d'altre tali sensazioni circa l'idea dell'infinito, si deve intendere non solo di tali sensazioni nel naturale, ma nelle loro imitazioni ancora, fatte dalla pittura, dalla musica, dalla poesia. Il bello delle quali arti, in grandissima parte [... ] consiste nella scelta di tali o somiglianti sensazioni indefinite da imitare". D bello poetico, per Leopardi, consiste dunque nel vago e nell'indefinito, e si manifesta essenzialmente in immagini del tipo di quelle elencate nella teoria della visione e del suono (anche certe parole sono per lui eminentemente poetiche, per le idee indefinite che suscitano: ad esempio "lontano", "antico", "notte", "ultimo", "eterno"). Leopardi aggiunge poi una considerazione importante: queste immagini sono suggestive perché, per lo più, evocano sensazioni che ci hanno affascinati da fanciulli. La rimembranza diviene pertanto essenziale al sentimento poetico. Poetica dell'indefinito e poetica della rimembranza si fondono: la poesia non è che ricupero della visione immaginosa della fanciullezza attraverso la memoria.

In effetti. Leopardi osserva che maestri della poesia vaga e indefinita erano gli antichi: essi, perché più vicini alla natura, erano appunto immaginosi come fanciulli. E questo carattere "fanciullesco" è rivelato dal ricorrere spontaneo, nella loro poesia, di immagini vaghe e indefinite. Leopardi cita soprattutto due passi, che gli sono molti cari: una similitudine di Omero, che descrive un notturno lunare, e un episodio dell'Eneide, in cui il canto di Circe giunge ai Troiani da lontano, sul mare, nel buio della notte. I moderni, invece, per Leopardi, hanno perduto questa capacità immaginosa e fanciullesca. Egli, attraverso la De Staél, riprende la distinzione tra poesia ^immaginazione e poesia sentimentale. Ai moderni, che si sono allontanati dalla natura per colpa della ragione, e per questo sono disincantati e infelici, la poesia d'immaginazione è ormai preclusa; ad essi non resta che una poesia sentimentale, nutrita di idee, filosofica, che nasce dalla consapevolezza del vero e dall'infelicità. Leopardi stesso, nella sua produzione in versi segue puntualmente la poetica del vago e indefinito:

quegli esempi di visioni e suoni suggestivi che egli propone nello Zibaldone torneranno puntualmente nelle sue liriche (sinché, dopo il "30, subentrerà una nuova poetica). Quindi, pur conscio di appartenere a quella età moderna a cui è preclusa la poesia d'immaginazione, e pur accettando l'ineluttabile predominio di una poesia fondata sul pensiero e sulla consapevolezza dell'infelicità, che si esprime attraverso il patetico. Leopardi non si rassegna a escludere il carattere immaginoso dai suoi versi: così come (almeno fino al "30) non si rassegnerà a rinunciare alle illusioni, ma, pur consapevole della loro vanità, continuerà a vagheggiarle attraverso la memoria e a nutrire di esse la sua poesia.


Leopardi e il Romanticismo

La teoria del vago e dell'indefinito è indispensabile per capire la posizione di Leopardi nei confronti della nuova poetica romantica, che in quegli anni, a partire dal 1816, veniva in conflitto con la radicata tradizione classicistica della cultura italiana. La formazione di Leopardi era stata rigorosamente classicistica, ed era stata consolidata anche dall'amicizia con un esponente qualificato del classicismo come Giordani. Perciò, nella polemica tra classicisti e romantici. Leopardi doveva inevitabilmente prendere posizione contro le tesi romantiche. Lo fece in due scritti che però non furono pubblicati e rimasero ignoti ai contemporanei. In realtà le sue posizioni sono molto originali rispetto a quelle dei classicisti. Per lui, come si è visto, la poesia è soprattutto espressione di una spontaneità originaria, di un mondo interiore immaginoso e fantastico, proprio dei primitivi e dei fanciulli. Per questo consente con i romantici italiani nella loro critica al classicismo accademico e pedantesco, al principio di imitazione, alle regole rigidamente imposte dai generi letterari, all'abuso meccanico e ripetitivo della mitologia classica. Però rimprovera agli scrittori romantici un'artificiosità





retorica simmetrica e contraria a quella dei classicisti, nella ricerca dello strano, dell'orrido, del truculento; rimprovera loro anche il predominio della logica sulla fantasia, l'aderenza al "vero" che spegne ogni immaginazione. Al contrario, proprio i classici antichi sono per lui un esempio mirabile di poesia fresca, spontanea, immaginosa. Leopardi ripropone dunque i classici come modelli, ma in senso diametralmente opposto al classicismo accademico, con uno spirito schiettamente romantico. Anzi, in questa esaltazione di ciò che è spontaneo, originario, non contaminato dalla ragione, appare più romantico degli stessi romantici italiani (e più vicino allo spirito della cultura romantica europea). In questo Leopardi si contrappone alla scuola romantica lombarda, che tende invece a una letteratura oggettiva, realistica, fondata sul vero, animata da intenti civili, morali, pedagogici, intesa all'utilità sociale, e che quindi predilige le forme narrative e drammatiche (anche nella stessa poesia, come si è visto per le odi e per i cori manzoniani). Viceversa, anche per questo aspetto Leopardi appare più vicino allo spirito della poesia romantica d'oltralpe. E' indubbiamente separato dalla cultura romantica (in senso largamente europeo) dal suo retroterra filosofico, che è illuministico, sensistico e materialistico, mentre presupposto del Romanticismo europeo è una visione del mondo idealistica e spiritualistica. Però è vicino al Romanticismo per una serie di grandi motivi che ricorrono nelle sue opere, la tensione verso l'infinito, l'esaltazione dell'io e della soggettività, il titanismo, l'enfasi posta sul sentimento, il conflitto illusione-realtà, con la scelta del mondo dell'immaginazione contrapposto a quello della realtà, l'amore per il vago e indefinito, il culto della fanciullezza e del primitivo come momenti privilegiati dell'esperienza umana.


Il primo Leopardi: le Canzoni e gli Idilli

II periodo successivo alla conversione "dall'erudizione al bello" del 1816, sino alla grande crisi del 1819, è ricco di esperimenti letterali, che si rivolgono in direzioni molto diverse. Molti di questi esperimenti rimangono allo stadio di puri progetti, o di abbozzi presto abbandonati. Di questo vario fermento di prove, si concretano due soli gruppi di poesie veramente mature, che approdano alla stampa (e confluiranno poi nei Canti): le Canzoni e gli Idilli. Le Canzoni furono composte tra il 1818 e il 1823, e pubblicate in un opuscolo a Bologna nel 1824. Si tratta di componimenti di impianto decisamente classicistico, che impiegano il linguaggio aulico, sublime e denso della tradizione, con sensibili influenze soprattutto di Alfieri e Foscolo. La base di pensiero è costituita da quel "pessimismo storico" che caratterizza la visione leopardiana in questo momento. Sono animate da acri spunti polemici contro l'età presente, inerte e corrotta, incapace di azioni eroiche, affogata in una "nebbia di tedio"; a questa polemica si contrappone un'esaltazione delle età antiche, generose e magnanime. Il pessimismo storico giunge a una svolta: si delinea l'idea di un'umanità infelice non solo per ragioni storiche, ma per una condizione assoluta. Non si incolpa ancora la natura, ma gli dèi e il fato, visti come forze malvagio che si compiacciono di perseguitare l'uomo. Ad esse si contrappone l'eroe singolo, che si ribella alla forza crudele che l'opprime, e afferma la propria libertà in un gesto di sfida suprema, dandosi la morte. E* l'affermazione più decisa del titanismo eroico che caratterizza il primo Leopardi. Un carattere molto diverso presentano gli Idilli, sia nelle tematiche, che sono intime e autobiografiche, sia nel linguaggio, che è più colloquiale e di limpida semplicità. Con quel titolo complessivo Leopardi designò alcuni componimenti, scritti tra il 1819 e il 1821, L'Infinito, La sera del giorno festivo (poi La sera del dì di festa), pubblicati sulla rivista "II Nuovo Ricoglitore" nel 1825 e poi nell'edizione dei Versi del 1826. Il titolo non ricompare nelle successive raccolte dei Canti, ma la designazione è rimasta di uso comune. Questi idilli del 1819-21 non hanno più nulla a che fare con la tradizione bucolica classica, che rappresentava una campagna stilizzata e figure idealizzate di pastori. Non hanno neppure a che fare con la nozione moderna di idillio, quell'idillio "borghese" che si era affermato nel Settecento nelle letterature nordiche, e che amava rappresentare scene della vita quotidiana di personaggi di mediocre condizione,

segnate da una tranquilla serenità. Anni dopo, nel 1828, Leopardi definì gli idilli come espressione di "sentimenti, affezioni, avventure storielle del suo animo". Negli idilli, dunque, la rappresentazione della realtà esterna, delle scene di natura serena, è tutta in funzione soggettiva: ciò che a Leopardi preme di rappresentare sono momenti essenziali della sua vita interiore.

Esemplare è l' Infinito (1819), in cui compare una situazione che può ricordare l'idillio classico (la siepe che definisce uno spazio limitato, lo stormire, del vento tra le foglie); ma non è lo scenario di una semplice quiete contemplativa e rasserenante, bensì lo spunto per una vertiginosa meditazione lirica sull'idea di infinito creato dall'immaginazione, a partire da sensazioni visive e uditive. Alla luna (forse 1820) affronta invece il tema complementare della "ricordanza" (tale era infatti il titolo primitivo), che, come l'immaginazione, trasfigura il reale e l'abbellisce, anche se la realtà è triste e angosciosa. La sera del dì di festa (primavera 1820) prende l'avvio da un notturno lunare, una di quelle scene suggestive per la loro vaghezza e indeterminatezza che Leopardi predilige, ma poi trapassa ad una confessione disperata dell'infelicità e dell'esclusione della vita patite dal poeta, per allargarsi infine a una più vasta meditazione sul tempo che cancella ogni traccia umana. In questi componimenti, tutti in endecasillabi sciolti. Leopardi fa la prima prova, oltre che di temi particolarmente congeniali, anche di un originalissimo linguaggio poetico, lontano dalla solennità e dalle arditezze metaforiche delle canzoni, tutto giocato sul vago e indefinito e su una musicalità segreta ed essenziale.

Le Operette morali

Chiusa la stagione delle canzoni e degli idilli, comincia per Leopardi un silenzio poetico che durerà sino alla primavera del* 28. Egli stesso lamenta la fine delle illusioni giovanili, lo sprofondare in uno stato d'animo di aridità e di gelo, che gli impedisce ogni moto dell'immaginazione e del sentimento. Per questo intende dedicarsi soltanto all'investigazione dell'arido vero". Da questa disposizione nascono le Operette morali, quasi tutte composte nel 1824, di ritorno da Roma. dopo la delusione subita nel suo primo contatto con la realtà esterna alla "prigione" di Recanati. A questo folto gruppo si aggiungeranno poi nel '27 il Dialogo di Plotino e Porfirio, infine nel '32, ormai in una temperie culturale tutta diversa, il Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Le Operette morali sono prose di argomento filosofico. Leopardi vi espone il "sistema" da lui elaborato, attingendo al vasto materiale accumulato nello Zibaldone. Molte delle operette sono dialoghi, i cui interlocutori sono creature immaginose, personificazioni, personaggi mitici o favolosi, in altri casi si tratta di personaggi storici, oppure di personaggi storici mescolati con esseri bizzarri o fantastici. In alcune operette l'interlocutore principale è proiezione dell'autore stesso. Altre invece hanno forma narrativa. In altri casi si hanno prose liriche ( // Cantico del gallo silvestre) o discorsi che si rifanno alla trattatistica classica. Da questa rassegna risulta la varietà dell'invenzione fantastica di Leopardi. Ma questa invenzione non ha nulla di argutamente bonario, di distesamente umoristico. Anche le invenzioni più aeree si concentrano intorno ai temi fondamentali del pessimismo: l'infelicità inevitabile dell'uomo, l'impossibilità del piacere, la noia, il dolore, i mali materiali che affliggono l'umanità. Con tutto questo non si ha un'impressione di cupezza, di tetraggine ossessiva e opprimente: ciò grazie allo sguardo fermo e lucido, all'assoluto dominio intellettuale e al distacco ironico con cui Leopardi contempla il "vero". Escono da questo quadro le operette più tarde, come il Piotino, dialogo sul problema del suicidio, tutto pervaso da un senso di pietà e di solidarietà fraterna verso gli uomini, che prelude alla svolta della Ginestra, o il Tristano, che già si inserisce nel clima dell'ultima stagione leopardiana.


I grandi idilli

II 2 maggio 1828 Leopardi scrive alla sorella Paolina da Pisa: "Ho fatto dei versi quest'aprile, ma versi veramente all'antica, e con quel mio cuore d'una volta". Il lungo periodo di silenzio poetico, che coincideva con un periodo di aridità interiore, si è concluso. Il poeta assiste a un "risorgimento" delle sue facoltà di sentire, commuoversi e immaginare. Pochi giorni dopo nasce A Silvia. Tornato a Recanati alla fine di quell'anno, non vede interrompersi il felice momento creativo neppure nei sedici mesi di "notte orribile" trascorsi nella casa patena. Nell'autunno del '29 compone La quiete dopo la tempesta. II sabato del villaggio; tra l'inverno del "29 e la primavera del "30 il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. A questa fase, anche se non databile con certezza, risale anche il Passero solitario, ripresa di uno spunto del '19.

Questi componimenti, nati dal "risorgimento" della sensibilità giovanile, riprendono temi, atteggiamenti,, linguaggio degli "idilli' del '19-''21: le illusioni e le speranze, proprie della giovinezza, le rimembranze, quadri di vita borghigiana e di natura serena e primaverile, la suggestione di immagini e suoni vaghi e indefiniti, il linguaggio limpido e musicale, lontano dall'aulicità ardita del linguaggio delle canzoni, ma, pur nella sua semplicità, impreziosito da termini e locuzioni "peregrine". Per questo è nell'uso comune designare i canti pisano-recanatesi del '2^30 con la formula "grandi idilli" (che non è di Leopardi, ma pura estensione per analogia del termine usato per gli idilli). A veder bene, però, questi componimenti non sono la semplice ripresa della poesia di dieci anni prima. Nel mezzo si collocano esperienze decisive, la fine delle illusioni giovanili, l'acquisita consapevolezza del "vero", la costruzione di un sistema filosofico fondato su di un pessimismo assoluto. Perciò, se il moto della memoria ricupera dal passato la stagione dell'illusione e della speranza e fa rivivere immagini, sensazioni, sentimenti antichi, a questo riaffiorare si accompagna sempre, mai dimenticata, la consapevolezza del "vero", della vanità di quegli "ameni inganni". Per questo i grandi idilli sono sì percorsi da immagini liete (che sono quelle rimaste più famose:

il "maggio odoroso", "le vie dorate e gli orti", gli "odorati colli". Silvia "assai contenta" del "vago avvenir" che ha in mente, Nerina che va "danzando", mentre in lei splende "quel confidente lume di gioventù", la donzelletta che viene dalla campagna "in sul calar del sole", il "romorio usato" della vita del borgo che riprende dopo la tempesta, la primavera che "brilla nell'aria e per li campi esulta / si ch'a mirarla intenerisce il core"); ma queste immagini sono come rarefatte, assottigliate, e perdono ogni corposità fisica, materiale: create dalla memoria, si accompagnano sullo sfondo del nulla, sono accompagnate costantemente dalla consapevolezza del dolore, del vuoto dell'esistenza, della morte. Sarebbe sbagliato, pertanto, ridurre i grandi idilli alla sola componente "idillica", come ha fatto la critica crociana, trascurando la presenza del « vero». Va però rilevato come la consapevolezza non eserciti un potere distruttivo su quelle immagini di vita, portando in primo piano 1'"acerbo vero" in tutta la sua crudezza; il «vero» è richiamato con delicatezza e riserbo, pur impregnano di sé ogni immagine evocata. La caratteristica che individua i grandi idilli è quindi un miracoloso equilibrio che si instaura tra due spinte che dovrebbero essere contrastanti, il "caro immaginar" e il "vero". Proprio la presenza di questa consapevolezza e di questo equilibrio determina un'altra fondamentale differenza tra i grandi idilli e i primi idilli di un decennio prima: non compaiono più gli slanci, i fremiti, gli impeti di disperazione e di rivolta, le esasperazioni patetiche (si pensi alla Sera del dì di festa: Qui per terra mi getto, e grido, e fremo"). Leopardi ha assorbito nella poesia l'esperienza delle Operette, quell'atteggiamento di contemplazione ferma e di lucido dominio dinanzi a una verità immutabile. Coerente rispetto a questo atteggiamento è il linguaggio, che a ben vedere è sostanzialmente diverso da quello dei primi idilli: non più espressioni intense e patetiche, ma un linguaggio più misurato, sia nella direzione della tenerezza e della dolcezza, quando viene evocata la giovinezza e l'illusione, sia nel senso della desolazione, quando viene evocato il "vero". Nuova rispetto ai primi idilli è anche l'architettura metrica: il poeta non usa più l'endecasillabo sciolto, ma una

strofa di endecasillabi e settenari che si succedono liberamente, senza alcuno schema fìsso, con un gioco egualmente libero di rime, assonanze, enjambements. Questa libertà metrica asseconda perfettamente la vaghezza e indefinitezza delle immagini e del movimento fantastico, ed è una conquista originalissima nel contesto della poesia lirica italiana del primo Ottocento, ancora legata a schemi strofici fissi (vedi Manzoni e gli altri romantici).

L'ultimo Leopardi

L'ultima stagione leopardiana, che si colloca dopo il 30 e dopo l'allontanamento definitivo da Recanati, segna una svolta di grande rilievo rispetto alla poesia precedente. Presupposto fìlosofìco della scrittura poetica di Leopardi resta sempre quel pessimismo assoluto, su basi materialistiche, a cui il poeta era approdato tra il '24 e il '25. Ma, dopo il distacco rassegnato e ironico della fase delle Operette, dopo il ripiegamento sull'io ed il ricupero dell'età giovanile proprio della fase dei grandi idilli Leopardi ristabilisce un contatto diretto con gli uomini, le idee, i problemi del suo tempo. Non solo, ma appare più orgoglioso di sé, della propria grandezza spirituale, più pronto e combattivo nel diffondere le sue idee, nel contrapporle polemicamente alle tendenze dominanti dell'epoca. L'apertura si verifica anche sul piano umano, interpersonale. Nasce a Firenze la fraterna amicizia con Antonio Panieri, e si colloca negli anni fiorentini la prima vera esperienza amorosa di Leopardi: non più un amore adolescenziale, tutto risolto nel chiuso dell'immaginazione, ma un'autentica passione, vissuta con intenso fervore per una dama fiorentina, Fanny Targioni Tozzetti. La delusione cocente subita in tale rapporto segna per Leopardi la fine dell'inganno estremo", che aveva creduto eterno: l'amore. Dalla passione e dalla delusione nasce il cosiddetto "ciclo di Aspasia", dal nome greco con cui, in una di queste liriche, il poeta designa la donna amata (Aspasia era la cortigiana amata da Pericle nel V secolo a. C.). Ma, soprattutto, si instaura in questo periodo un rapporto intenso con le correnti ideologiche del tempo. La critica leopardiana si indirizza contro tutte le ideologie ottimistiche che esaltano il progresso e profetizzano un miglioramento indefinito della vita degli uomini, grazie alle nuove scienze sociali ed economiche e alle scoperte della tecnologia moderna;

bersaglio polemico sono inoltre le tendenze di tipo spiritualistico e neocattolico che, tramontato l'Illuminismo, si vanno sempre più affermando nel periodo della Restaurazione combinandosi talora con l'ottimismo delle correnti liberali moderate, e che inneggiano al posto privilegiato destinato da Dio all'uomo nel cosmo. A queste ideologie Leopardi contrappone, con una durezza che tocca spesso lo scherno, le proprie concezioni pessimistiche che escludono ogni miglioramento della condizione, umana, affermando che l'infelicità e la sofferenza sono dati di natura, eterni e immodificabili. Allo spiritualismo di tipo religioso, che cerca consolazione nell'aldilà. Leopardi contrappone invece il suo duro materialismo che esclude ogni speranza in un'altra vita, bollando quelle credenze come favole infantili e sciocche, al tempo stesso vili e superbe.

Leopardi critica il liberalismo moderato dei patrioti non in nome di posizioni politiche più avanzate, democratiche e autenticamente progressiste, come spesso si equivoca, ma dal punto di vista del suo pessimismo assoluto, che nega ogni possibilità di miglioramento politico e sociale per un'umanità vittima della natura. Una svolta essenziale si presenta con la Ginestra (1836), il testamento spirituale di Leopardi, la lirica che idealmente chiude il suo percorso poetico. Il componimento ripropone la dura polemica antiottimistica e antireligiosa. Però qui Leopardi non nega più la possibilità di un progresso civile: cerca anzi di costruire un'idea di progresso proprio sul suo pessimismo. La consapevolezza lucida della reale condizione umana, indicando la natura come la vera nemica, può indurre gli uomini a unirsi in "social catena" per combattere la sua minaccia; e questo legame, può far cessare le sopraffazioni e le ingiustizie della società, dando origine a un più' "onesto e retto conversar cittadino", a "giustizia e pietade", al "vero amore" tra gli uomini. La filosofia di Leopardi, che non è mai stata misantropica, come il poeta stesso tiene a sottolineare, si apre qui a una generosa utopia,


basata sulla solidarietà fraterna degli uomini, che nasce a sua volta dalla diffusione del "vero". La Ginestra, sul piano letterario, è anche la massima realizzazione di quella "nuova poetica" antiidillica già sperimentata a partire dal '30. E* un vasto poemetto, costruito sinfonicamente con sapiente alternanza di toni, dal quadro grandioso e tragico del vulcano minacciante distruzione e delle distese di lava infeconda, all'aspra polemica ideologica, agli squarci cosmici che proiettano la nullità della terra e dell'uomo nell'immensità dell'universo, alla visione dell'Infinito svolgersi dei secoli della storia umana su cui incombe immutabile la minaccia della natura, sino alle note gentili dedicate al "fiore del deserto", in cui si compendiano complessi significati simbolici, la pietà' verso le sofferenze umane, la dignità che dovrebbe essere propria dell'uomo dinanzi alla forza invincibile della natura che lo schiaccia.







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