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DE BELLO GALLICO La Gallia complessiva è divisa in tre parti, di cui una l'abitano i Belgi, l'altra gli Aquilani, la terza quelli che nella loro lingua si chiamano Celti, nella nostra Galli. Tutti questi differiscono tra loro per lingua, istituzioni, leggi. Il fiume Garonna divide i Galli dagli Aquilani, la Marna e la Senna dai Belgi. Di tutti questi i più forti sono i Belgi, per il fatto che distano moltissimo dalla cultura e dalla civiltà della provincia e per nulla vanno da loro i commercianti e non importano quelle cose, che servono per effeminare gli animi e sono vicini ai Germani, che abitano oltre il Reno, coi quali continuamente fanno guerra. Per tale motivo pure gli Elvezi superano in valore gli altri Galli, perché con battaglie quasi quotidiane si scontrano coi Germani, quando o li respingono dai loro territori o loro stessi fanno guerra nei loro territori. Una parte di essi, quella che si disse che i Galli occupano, prende inizio dal fiume Rodano, tocca anche il fiume Reno dalla parte dei Sequani e degli Elvezi, si volge a settentrione. I Belgi cominciano dagli estremi territori della Gallia, si estendono alla parte inferiore del fiume Reno, si volgono a settentrione e ad oriente. L'Aquitania si estende dal fiume Garonna ai monti Pirenei ed a quella parte dell'Oceano, che è presso la Spagna, si volge tra il tramonto del sole e settentrione.
Gli Elvezi avevan già fatto passare le loro truppe attraverso le gole ed i territori dei Sequani ed erano giunti nei territori degli Edui e devastavano i loro campi. Gli Edui non potendo difendere se stessi ed i loro beni, mandano ambasciatori da Cesare per chiedere aiuto: essi in ogni tempo avevano così meritato riguardo al popolo romano che i campi non avrebbero dovuto essere devastati quasi al cospetto del nostro esercito, i loro figli essere condotti in schiavitù, le città espugnate. Nello stesso tempo gli Ambarri, parenti e consanguinei degli Edui, informano Cesare che loro, devastati i campi, non facilmente bloccavano la violenza dei nemici dalla città. Ugualmente gli Allobrogi che avevano villaggi e possedimenti oltre il Rodano, in fuga si rifugiano da Cesare e dichiarano che essi non avevano nulla di rimanente al di fuori del suolo del terreno. Spinto da tali fatti Cesare decise di non dover aspettare, fin che, rovinate tutte le ricchezze degli alleati, gli Elvezi giungessero tra i Santoni.
L'Arar è un fiume, che confluisce nel Rodano attraverso il territorio degli Edui e dei Sequani, con incredibile lentezza, così che con gli occhi non si possa giudicare in quale parte scorra. Gli Elvezi, congiunte barchette e zattere, lo attraversavano. Quando attraverso gli esploratori Cesare fu informato che ormai per tre parti gli Elvezi avevan attraversato il fiume, ma che una quarta parte era rimasta al di qua del fiume Arar, alla terza veglia, partito con tre legioni dall'accampamento, giunse da quella parte che non aveva ancora passato il fiume. Aggreditili (mentre erano) impediti e non se l'aspettavano abbatté gran parte di essi; i restanti si diedero alla fuga e si nascosero nelle selve vicine. Quel cantone si chiamava Figurino; infatti ogni popolazione elvetica è divisa in quattro parti o cantoni. Questo cantone da solo, essendo uscito dalla patria, al tempo dei nostri antenati, aveva ucciso il console L. Cassio e mandato il suo esercito sotto il giogo. Così sia per caso sia per provvidenza degli dei immortali, quella parte della popolazione elvetica che aveva inflitto una famosa sconfitta al popolo romano, quella per prima pagò il fio. In quel caso Cesare non solo vendicò le offese pubbliche, ma anche le private, perché i Figurini nella stessa battaglia con cui avevano ucciso Cassio, ( avevano ucciso) anche il legato L. Pisone, avo di suo suocero l: Pisone.
Fatta questa battaglia, per poter inseguire le restanti truppe degli Elvezi, fa costruire un ponte sull'Arar e così fa passare l'esercito. Gli Elvezi, colpito dal suo arrivo improvviso, comprendendo che ciò che essi avevano fatto molto faticosamente in 20 giorni, per passare il fiume, lui l'aveva fatto in un giorno solo, gli mandano ambasciatori. Di tale ambasceria fu capo Divisone, che nella guerra Cassiana era stato comandante degli Elvezi. Egli così trattò con Cesare: se il popolo romano facesse pace con gli Elvezi, gli Elvezi sarebbero andati e lì si sarebbero stanziati, in quella parte dove Cesare avesse deciso e avesse voluto che fossero; se invece perseverasse nella guerra, si ricordasse del vecchio inconveniente del popolo rom 555b13f ano e dell'antico valore degli Elvezi. Che all'improvviso avesse assalito un cantone unico, mentre quelli che avevano attraversato il fiume, non potevano portare il loro aiuto, non lo attribuisse troppo per tale motivo al suo valore o li disprezzasse. Loro così avevano imparato dai loro antenati, di misurarsi più col coraggio che con l'inganno o appoggiarsi alle trappole. Perciò non permettesse che quel luogo dove si erano fermati non prendesse il nome dalla sconfitta del popolo romano e dalla disfatta dell'esercito e ne tramandasse il ricordo.
A queste (parole) Cesare così rispose: per questo gli era dato minor dubbio, perché quei fatti, che gli ambasciatori elvetici avevano ricordato, li sapeva a memoria e tanto più dolorosamente li tollerava, quanto meno erano accaduti per colpa del popolo romano. Se egli fosse stato cosciente di qualche oltraggio, non sarebbe stato difficile guardarsene; ma era stato sorpreso in questo, che capiva che da parte sua non era stato commesso nulla di cui temere, e non credeva si dovesse aver paura senza motivo. Che se volesse dimenticarsi dell'antica offesa, forse poteva togliere il ricordo anche dei recenti oltraggi, che, (pur essendo ) lui contrario avevano tentato il passaggio attraverso la provincia con la violenza, che avevano danneggiato gli Edui, che (avevano danneggiato) gli Ambarri, che (avevano danneggiato) gli Allobrogi? Che si gloriassero tanto insolentemente della loro vittoria e che si stupivano che lui tanto a lungo avesse sopportato gli oltraggi, arrivava allo stesso punto. Infatti gli dei immortali erano soliti, perchè più dolorosamente gli uomini si addolorino dei cambiamenti delle cose, che talvolta concedano situazioni più fortunate ed una più lunga impunità a coloro che vogliono vendicare per il loro misfatto. Stando così le cose, tuttavia se da parte loro gli vengano dati ostaggi, tanto da capire che essi faranno quanto promettono, e se diano soddisfazione agli Edui per le offese che hanno recato loro ed agli alleati, e se ugualmente (diano soddisfazione) agli Allobrogi, lui avrebbe fatto la pace con loro. Divicone rispose: che gli Elvezi sono stati educati dai loro antenati tanto da esser abituati a ricevere ostaggi, non a darli; di tale tradizione il popolo romano era testimone. Data questa risposta se ne andò.
Il giorno dopo tolgono l'accampamento da quel luogo.Lo stesso fa Cesare e manda avanti tutta la cavalleria, in numero circa di quattro mila, che aveva raccolto da tutta la provincia, dagli Edui e dai loro soci, per vedere in quali direzioni i nemici facciano la marcia. Essi avendo inseguito troppo ardentemente la retroguardia su postazione estranea attaccano battaglia con la cavalleria degli Elvezi, e pochi tra i nostri cadono. Inorgogliti da quello scontro, gli Elvezi, poiché con cinquecento cavalieri avevano ricacciano una così grande moltitudine di cavalieri, talvolta cominciarono fermarsi più audacemente e con la retroguardia a provocare i nostri allo scontro. Cesare tratteneva i suo dallo scontro e considerava sufficiente impedire al momento i nemici da rapine e saccheggi. Per circa quindici giorni fecero la marcia così, che tra la retroguardia dei nemici e la nostra avanguardia non intercorresse più di cinque o sei mila passi.
Intanto cesare quotidianamente richiedeva agli Edui il frumento che essi pubblicamente avevano promesso. Difatti per i freddi - poiché la Gallia, come prima è stato detto, è situata a settentrione - non solo i cereali nei campi non erano maturi, ma neppure bastava a sufficienza la grande quantità di foraggio. Inoltre di quel frumento, che aveva trasportato con navi sul fiume Arar, poteva servirsi di meno per il fatto che gli Elvezi avevano sviato la marcia rispetto all'Arar, ma da essi non voleva allontanarsi. Gli Edui rimandavano di giorno in giorno: dicevano che si raccoglieva, si trasportava, arrivava. Quando capì che si tirava troppo per le lunghe ed era imminente il giorno, giorno in cui bisognava distribuire il frumento ai soldati, convocati i loro capi, e nell'accampamento ne aveva gran quantità, tra questi Diviziaco e Lisco, che presiedeva la massima carica, e che gli Edui chiamano vergobreto, e che viene nominato annualmente ed ha potere sui suoi di vita e di morte, li accusa pesantemente perché, non potendosi né comprare né prendere dai campi, in un momento così urgente, (essendo) i nemici così vicini non veniva aiutato da loro, soprattutto avendo intrapreso la guerra spinto per gran parte dalle loro preghiere. Si lamenta ancor più fortemente perché è stato ingannato.
Allora finalmente Lisco, spinto dal discorso di Cesare, presenta quello che prima aveva taciuto: che ci sono alcuni il cui prestigio presso il popolo vale moltissimo, che privatamente possono più che gli stessi magistrati. Costoro con discorso fazioso e malvagio terrorizzano la folla, che non portino il frumento, che devono: che è meglio, se ormai non possono ottenere il primato della Gallia, tollerare il comando dei Galli che dei Romani; che non devono dubitare che se vincessero gli Elvezi, i Romani avrebbero tolto la libertà agli Edui insieme con la restante Gallia. Dagli stessi erano denunciati ai nemici tutti quei nostri piani che si decidono nell'accampamento; costoro non possono essere bloccati da loro. Anzi perché costretto a dichiarare una cosa importante a Cesare, lui capiva con quanto rischio lo aveva fatto e per tale motivo aveva taciuto fin che aveva potuto.
Cesare con questo discorso di Lisco capiva che si designava Dumnorige, fratello di Diviziaco, ma perché non voleva che quelle cose si offrissero a troppi presenti, velocemente congeda l'assemblea, trattiene Lisco. Chiede a lui solo quello che aveva detto nella riunione. Parla piuttosto liberamente ed audacemente. Le stesse cose le chiede agli altri segretamente; trova che son vere: che era proprio Dumnorige, di audacia estrema, col grande favore presso la plebe per la liberalità, voglioso di fatti nuovi. Per parecchi anni egli aveva appaltato a poco prezzo le dogane e tutte le altre tasse degli Edui, per il fatto che, quando lui faceva l'asta, nessuno osava fare una offerta contro. Con questi metodi da una parte aveva aumentato il proprio patrimonio famigliare e dall'altra aveva accumulato grandi disponibilità per fare elargizioni; manteneva un gran numero di cavalleria sempre a sua spesa e la teneva attorno a sé; e non solo in patria, ma anche presso le popolazioni vicine poteva influentemente ed a causa di questa potenza aveva collocato la madre tra i Bituirgi per un personaggio lì mobilissimo e potentissimo, lui stesso aveva una moglie dagli Elvezi, aveva collocato la sorella da parte di madre e le sue parenti per sposarle in altre popolazioni. Favoriva ed assecondava gli Elvezi a causa di quella parentela, odiava pure Cesare ed i Romani per un suo motivo, perché col loro arrivo la sua potenza era diminuita ed il fratello Diviziaco era stato restituito nell'antico ruolo di favore e di onore. Se accadesse qualcosa ai Romani, correva nella grande speranza di ottenere il potere per mezzo degli Elvezi; per la supremazia del popolo romano non solo disperava per il potere, ma anche del favore che aveva. Nell'indagare Cesare scopriva anche che, per quello scontro equestre sfortunato che era accaduto pochi giorni prima, l'inizio della fuga era stato fatto da Dumnorige e dai suoi cavalieri - infatti Dumnorige era a capo della cavalleria, che gli Edui avevano mandato in aiuto a Cesare -; con la loro fuga il rimanente dei cavalieri era stato terrorizzato.
Conosciuti questi fatti, poiché a questi sospetti si aggiungevano fatti sicurissimi, (cioè) che aveva fatto passare gli Elvezi per i territori dei Sequani, che aveva provveduto a scambiarsi tra loro gli ostaggi, che tutte quelle cose non solo le aveva fatte senza il suo ( di Cesare) ordine e della nazione, a anche mentre loro non lo sapevano, riteneva esserci sufficiente motivo perché o in persona (Cesare) prendesse provvedimenti contro di lui oppure ordinasse alla nazione di prenderne. A tutte queste cose una sola si opponeva, il fatto che aveva conosciuto la somma devozione del fratello Diviziaco verso il popolo romano, il sommo affetto verso di lui, la lealtà straordinaria, la giustizia, la moderazione; infatti temeva che colla sua condanna offendesse l'animo di Diviziaco. Così prima di tentar qualsiasi cosa, comanda che gli sia chiamato Diviziaco ed allontanati gli interpreti quotidiani parla con lui tramite C. Valerio Troucillo, capo della provincia della Gallia, suo amico, in cui aveva la massima fiducia di tutte le cose; contemporaneamente lo informa di quelle cose che eran state dette su Dumnorige nel'assemblea dei Galli, lui presente e rivela quelle cose che separatamente ognuno davanti a lui (Cesare) aveva detto sul suo conto. Chiede ed esorta senza offesa del suo animo o in persona decida su di lui, fatto un processo, oppure ordini che la nazione decida.
Tra gli Elvezi di gran lunga il più famoso ed il più ricco fu Orhgetorige. Egli, sotto il consolato di M. Messala e M. Pisone, spinto dalla voglia di potere fece una lega della nobiltà e persuase la popolazione, che uscissero dai loro territori con tutte le truppe: esser facile, superando tutti in valore, impadronirsi del comando di tutta la Gallia. Su ciò li persuase più facilmente in questo, perché ovunque gli Elvezi sono delimitati dalla natura del posto: da una parte dal Reno, fiume larghissimo e profondissimo, che divide il terreno elvetico dai Germani, dall'altra parte dal Giura, monte altissimo, che è tra i Sequani e gli Elvezi, dalla terza (parte) dal lago Lemanno e dal fiume Rodano, che divide la nostra provincia dagli Elvezi. Per queste cose accadeva che vagassero di meno intorno e meno facilmente potessero portar guerra ai confinanti; e da questa causa uomini voglioso di combattere erano colpiti da grande dolore. Inoltre a confronto della quantità di uomini e della gloria di guerra e di potenza credevano di avere territori piccoli, che si estendevano 240 mila passi in lunghezza e 180 in larghezza.
Nello stesso giorno informato dagli esploratori che i nemici si erano appostati sotto il monte ad ottomila passi dal suo accampamento, inviò ad esaminare quale fosse la conformazione del monte e quale attorno la via (per salire). Si riferì che (la salita) era facile. Alla terza veglia ordina che il legato T. Labieno pro pretore salisse sulla sommità del monte con due legioni e con quei capi che avevano ispezionato il passaggio; chiarisce quale sia il suo piano. In persona alla quarta veglia per lo stesso passaggio, attraverso cui eran transitati i nemici, si dirige verso di loro e manda davanti a sé tutta la cavalleria. P. Conidio, che era considerato espertissimo di tecnica militare ed era stato nell'esercito di L. Silla e poi (in quello) di M. Crasso, viene mandato avanti con gli esploratori.
Diviziaco con molte lacrime abbracciando Cesare cominciò a scongiurare di non decidere nulla di troppo doloroso contro il fratello: che sapeva che quelle cose eran vere, che nessuno riceveva più dolore di lui da quel fatto, per il fatto che, mentre egli in patria e nella restante Gallia poteva moltissimo per il favore, quello (Dumnorige) pochissimo per la giovinezza, era cresciuto grazie a lui, servendosi di quelle ricchezze e mezzi non solo per diminuire il prestigio, ma quasi per la sua rovina. Lui però era scosso e per l'amore fraterno e per la stima del volgo. Che se gli fosse accaduto qualcosa di troppo doloroso da parte di Cesare, mentre lui teneva quel ruolo di amicizia presso Cesare, nessuno avrebbe creduto non esser capitato per sua volontà. Perciò sarebbe accaduto che gli animi di tutta la Gallia si sarebbero allontanati da lui. Chiedendo queste cose a Cesare piangendo, con molte parole, Cesare prende la sua destra; consolandolo prega di porre fine al pregare; dimostra che presso di sé il suo favore vale tanto che condona l'offesa allo stato ed il suo dolore al suo affetto e preghiere. Chiama a sé Dumnorige, si vale del fratello; dichiara quello che rimprovera in lui; espone quello che lui sa, quello che la nazione lamenta; ammonisce di evitare per il tempo restante tutti i sospetti; dice che perdona le cose passate grazie al fratello Diviziaco. Dispone sorveglianti per Dumnorige per poter sapere cosa faccia e con chi parli.
Alla prima luce (dell'alba), essendo in monte occupato da Labieno, lui in persona distando dall'accampamento dei nemici non più di mille e cinquecento passi, come poi viene a sapere dai prigionieri, o perché il suo arrivo o ( quello) di Conidio era stato scoperto, Conidio, lanciato il cavallo, corre da lui, dice che il monte che avrebbe voluto fosse occupato da Labieno, era tenuto dai nemici: aveva saputo ciò dalle armi galliche e dalle insegne. Cesare porta le sue truppe sul colle vicino, dispone lo schieramento. Labieno, come gli era stato ordinato da Cesare di non attaccare battaglia se non fossero state viste le sue truppe vicino all'accampamento dei nemici, perché da ogni parte in un solo istante si facesse l'attacco, occupato il monte, aspettava e si tratteneva dal combattimento.Infine a giorno inoltrato attraverso gli esploratori Cesare seppe e che il monte era tenuto dai suoi e che gli Elvezi avevano levato l'accampamento e che Conidio terrorizzato dalla paura, quel che non aveva visto, glielo aveva annunciato per visto. In quel giorno con l'intervallo che era solito, segue i nemici e pone l'accampamento a tremila passi dal loro accampamento.
Il giorno seguente a quello, perché in tutto restavano due giorni, dovendo distribuire il frumento all'esercito e perché da Bibratte, città degli Edui di gran lunga la maggiore e la più ricca, non distava più di 18 mila passi, pensando si dovesse pensare all'approvvigionamento devia la marcia rispetto agli Elvezi e vuole arrivare a Bibratte. Quel fatto viene comunicato ai nemici per mezzo dei disertori di L. Emilio, decurione dei cavalieri dei Galli. Gli Elvezi o perché pensassero che i Roamani terrorizzati dalla paura si scostavano da loro, ancor più perché il giorno prima, (pur) occupate le postazioni superiori non avevano attaccato battaglia, sia perché confidavano che si potesse bloccare il vettovagliamento, cambiata strategia e fatto dietro front, cominciarono ad inseguire i nostri ed a provocarli dalla retroguardia.
Dopo che si accorse di ciò, Cesare conduce le sue truppe sul colle vicino e mandò la cavalleria, che sostenesse l'attacco dei nemici. Lui stesso intanto a metà del colle allestì una triplice schiera delle quattro legioni veterane; ordinò che sulla sommità del giogo si schierassero le due legioni, che recentemente aveva arruolato nella Gallia cisalpina, e tutte le truppe ausiliarie, così da riempire sopra di sé tutto il monte di uomini, (ordinò) che intanto si riunissero i bagagli in un solo posto e che quello fosse controllato da quelli che si erano schierati nella formazione più alta. Gli elvezi seguendo con tutti i loro carri portarono le salmerie in un solo posto; essi con una schiera serratisssima, respinta la nostra cavalleria, fatta una falange, si avvicinarono alla nostra prima schiera.
Cesare prima allontanato il suo, poi allontanati dalla vista i cavalli di tutti, perché, eguagliato il rischio, togliesse la speranza di fuga, esortati i suoi, attaccò battaglia. I soldati scagliati i giavellotti dalla postazione più alta facilmente sbaragliarono la falange dei nemici. Spezzata quella, con le spade sguainate mossero loro l'attacco. I Galli avevano di grande impedimento per la battaglia, il fatto che essendo stati trafitti parecchi loro scudi dall'unico colpo dei giavellotti e legati insieme, e non potevano né strapparli, né combattere abbastanza agevolmente con la sinistra bloccata, sicché molti, scosso a lungo il braccio, preferivano lasciar cadere dalla mano gli scudi e compare a corpo scoperto. Finalmente spossati dalle ferite cominciarono sia a ritirare il piede sia, poiché il monte era distante circa mille passi, a ritirarsi là. Preso il monte e incalzando i nostri, i Boi ed i Tulingi, che con circa 25 mila uomini chiudevano la schiera dei nemici ed erano di protezione alla retroguardia, aggredendo i nostri dalla marcia sul fianco aperto li attorniavano e vedendo ciò gli Elvezi, che si erano rifugiati sul monte, di nuovo cominciarono ad incalzare e riprendere il combattimento. I Romani su due fronti portarono contro le insegne: la prima e la seconda fila per resistere ai vinti ed agli sbandati, la terza per affrontare quelli che arrivavano.
Così a lungo si combatté con combattimento incerto ed aspramente. Non potendo sostenere a lungo gli attacchi dei nostri, alcuni, come avevano iniziato, si ritirarono sul monte, altri si recarono alle salmerie ed ai loro carri. Infatti in tutto questo scontro, essendosi combattuto dall'ora settima a sera, nessuno poté vedere il nemico volto (in fuga). Si combatté fino anche a notte inoltrata presso le salmerie, per il fatto che avevano posto i carri come una trincea e dalla postazione più alta lanciavano armi contro i nostri che arrivavano ed alcuni tra i carri e le ruote scagliavano matare e targole (proiettili) e ferivano i nostri. Essendosi combattuto a lungo, i nostri si impadronirono delle salmerie e dell'accampamento. Qui la figli di Orgetorige ed uno dei figli fu catturato. Da quella battaglia sopravvissero circa 130 mila uomini e per tutta quella notte viaggiarono. Per nessuna parte della notte interrotta la marcia, al quarto giorno arrivarono nei territori dei Linoni, mentre sia per le ferite dei soldati, sia per la sepoltura degli uccisi i nostri, fermatisi per tre giorni non avevano potuto inseguirli. Cesare inviò ai Linoni lettere e messaggeri, che non li aiutassero con frumento o altra cosa: se li avessero aiutati, egli li avrebbe considerati allo stesso modo degli Elvezi. Egli passati tre giorni cominciò ad inseguirli con tutte le truppe.
Gli Elvezi spinti dalla mancanza di ogni cosa gli mandarono ambasciatori per la resa. Avendolo incontrato durante la marcia ed essendosi prostrati ai piedi parlando supplichevolmente e piangendo avendo chiesto la pace e avendo ordinato che aspettassero il suo arrivo in quel luogo dove allora si trovavano, obbedirono. Dopo che Cesare giunse là richiese ostaggi, armi, gli schiavi che erano fuggiti da loro. Mentre cercano quelle cose e le portano, trascorsa la notte, circa sei mila uomini di quel cantone che si chiama Verbigeno, o spaventati dal terrore che, consegnate le armi, fossero colpiti dal supplizio, o spinti dalla speranza di salvezza perché pensavano che in una così grande folla di arresi. La loro fuga o si potesse nascondere o ignorare del tutto, all'inizio della notte usciti dall'accampamento degli Elvezi si diressero verso il Reno ed i territori dei Germani.
Quando Cesare seppe questo, ordinò a quelli per i cui territori erano passati di scovarli e di consegnarli, se volevano essere da lui giustificati; i riconsegnati li considerò nel novero dei nemici; tutti gli altri, consegnati gli ostaggi, le armi, i disertori, li accettò per la resa. Comandò agli Elvezi, ai Tulingi, ai Latobici di ritornare nei loro territori da cui erano partiti e poiché, perduti tutti i raccolti, in patria non c'era nulla con cui sopportare la fame, comandò agli Allobrogi che dessero loro una quantità di frumento; ordino che loro stessi ricostruissero le città ed i villaggi che avevano incendiato. Fece questo soprattutto per tale motivo, perché non volle che quel luogo da cui Gli Elvezi se n'erano andati fosse libero, che a causa della fertilità dei terreni i Germani che abitano oltre il Reno passassero dai loro territori nei territori degli Elvezi e diventassero confinanti della provincia della Gallia e degli Allobrogi. Concesse ai Boi, chiedendolo gli Edui, perché erano conosciuti per il loro straordinario valore, che porli nei loro territori; essi diedero loro campi e li accolsero poi a pari condizione di diritto e di libertà di come erano loro stessi.
Negli accampamenti degli Elvezi furono trovati dei registri scritti in lettere greche e portati a Cesare, ed in quei registri era stato segnato minutamente quale numero fosse partito dalla patria, chi di essi potesse portare armi e similmente separatamente i ragazzi, gli anziani e le donne. La somma di rutti quei dati era di duecento sessanta tremila persone degli Elvezi, trenta sei mila di Tulingi, tredici mila di Latobrici, venti tre mila di Rauraici, 32 mila di Boi; tra essi quelli che potevano portare armi circa novanta mila. La somma di tutti furono circa trecento sessantotto mila. Di quelli che erano ritornati in patria, tenuto il censimento come Cesare aveva ordinato, si calcolò un numero di cento diecimila.
Spinti da queste cose e scossi dal prestigio di Orgetorige stabilirono di preparare quelle cose che servissero per partire, di comprare il maggior numero possibile di carri e di giumenti, di fare le maggiori seminagioni possibili, perché la scorta di cereali bastasse durante la marcia, di rafforzare la pace e l'amicizia con le popolazioni vicine. Per completare quelle cose ritennero esser loro sufficiente un biennio, stabiliscono per legge la partenza per il terzo anno. Per completare quelle cose è scelto Orgetorige. Egli si assume l'ambasceria per le popolazioni. In quel viaggio persuade Castico, seguano, figlio di Catamantalede, il cui padre aveva tenuto il potere per molti anni tra i Sequani e dal senato era stato chiamato amico del popolo romano, di prendere nella sua nazione il potere, che prima aveva avuto il padre; così pure persuade l'eduo Dumnorige, fratello di Diviziaco, che in quel tempo deteneva il primato nella nazione ed era particolarmente gradito al popolo, perché faccia lo stesso e gli dà sua figlia in matrimonio. Assicura loro esser facilissimo da farsi realizzare gli sforzi, per il fatto che egli stava per ottenere il potere della sua nazione: non esserci (quindi) dubbio, che gli Elvezi potevano il massimo di tutta la Gallia; rassicura che lui con le sue truppe ed il suo esercito avrebbe loro agevolato il potere. Spinti da questo discorso si scambiano tra loro garanzia e giuramento e sperano, occupato il potere, di poter impadronirsi del comando di tutta la Gallia per mezzo di tre potentissimi e sicurissimi popoli. appena ripulito con secca pomice? Cornelio, a te: tu difatti solevi pensare valer qualcosa le mie cosucce già allora, quando hai osato unico degli Italici spiegare tutta la storia con tre libri dotti, per Giove, e complessi. Dunque tieniti quanto più questo di libretto quale che sia; ma lui, o vergine patrona, duri perenne più di un secolo.
Conclusa la guerra degli Elvezi, i capi di quasi tutta la Gallia vennero da cesare come ambasciatori per congratularsi: essi capivano, anche se per gli antichi oltraggi degli Elvezi contro il popolo romano egli aveva fatto pagare il fio con la guerra, tuttavia quella cosa era accaduta non meno per il vantaggio della terra della Gallia che del popolo romano, per il fatto che gli Elvezi avevano abbandonato le loro case con ricchezze floridissime, per dichiarare guerra a tutta la Gallia, impadronirsi del potere e per scegliere tra tanta possibilità per domicilio il luogo che tra tutta la Gallia avevano giudicato il più vantaggioso ed il più ricco e tenere le altre popolazioni come tributarie. Chiesero che indicesse per loro un'assemblea di tutta la Gallia per un giorno stabilito e poteva fare questo secondo il volere di Cesare; che essi avevano alcune cose che per comune assenso volevano chiedergli. Permesso questo, stabilirono il giorno e con giuramento, che nessuno parlasse se non a quelli che avevano il mandato per decisione comune, lo sancirono tra loro.
Congedata quella riunione, gli stessi capi delle nazioni, che c'erano stati prima, ritornarono da Cesare e chiesero che fosse loro permesso segretamente di parlare con lui della salvezza loro e di tutti in privato. Ottenuto questo, tutti piangendo si buttarono ai piedi di Cesare: (che) essi insistevano e si preoccupavano perché quello che dicevano non si rivelasse, non meno di quanto chiedessero ciò che volevano, per il fatto che, se si fosse rivelato, vedevano che essi sarebbero incappati in una estrema sofferenza. Per loro parlò l'eduo Diviziaco: (che) c'erano due partiti di tutta la Gallia: di uno di questi avevano la supremazia gli Edui, dell'altro gli Arverni. Scontrandosi questi tra loro per molti anni sull primato, è accaduto che dagli Arverni e dai Sequani erano stati assoldati i Germani con denaro. Dapprima circa 15 mila di questi avevano attraversato il Reno; dopo che uomini feroci e barbari avevano bramato campi, civiltà e ricchezze dei Galli, ne erano passati di più; ora c'era in Gallia un numero di circa cento venti mila. Contro costoro gli Edui ed i loro clienti più e più volte si erano scontrati con le armi; sconfitti avevano subito un grave danno, avevano perso tutta la nobiltà, tutto il senato, tutta la cavalleria. Rovinati da quei combattimenti e disfatte, quelli che per il proprio valore e per l'ospitalità del popolo romano in Gallia prima avevano potuto moltissimo, erano stati costretti a dare come ostaggi ai Sequani i più nobili della nazione e a legare la nazione con giuramento, (che) essi non avrebbero richiesto gli ostaggi, né avrebbero implorato l'aiuto del popolo romano, né si sarebbero sottratti, poiché per sempre erano sotto il loro potere e supremazia. C'era lui solo di tutta la nazione degli Edui, che non si poté obbligare a giurare o a dare i suoi figli come ostaggi. Per tale motivo era fuggito dalla nazione ed era venuto a Roma dal senato a chiedere aiuto, perché lui solo non era tenuto dal giuramento e dagli ostaggi. Ma era accaduto di peggio ai Sequani vincitori che agli Edui vinti, per il fatto che Ariovisto re dei Germani si era insediato nei loro territori ed aveva occupato la terza parte del terreno seguano, che era il migliore di tutta la Gallia ed ora ordinava che i Sequani se ne andassero da un'altra terza parte per il fatto che pochi mesi prima 24 mila uomini Arudi erano giunti da lui, per i quali erano preparati luogo e sede. In pochi anni sarebbe accaduto che tutti verrebbero cacciati dalla Gallia e tutti i Germani avrebbero attraversato il Reno; e non si poteva paragonare il gallico con il terreno germanico, né l'abitudine di vita si poteva confrontare con quella. Inoltre Ariovisto come aveva vinto una volta le truppe dei Galli, combattimento che era avvenuto presso Magetobriga, comandava superbamente e crudelmente, chiedeva come ostaggi i figli di qualunque nobile e promuove contro di essi tutti gli esempi e le punizioni, e una cosa non sia stata fatta secondo il suo cenno o la sua volontà.Era un personaggio barbaro, iracondo, temerario; i suoi dispotismi non si potevano sopportare a lungo. Se non ci fosse qualcosa di aiuto in Cesare e nel popolo romano, tutti i Galli devono fare la stessa cosa che hanno fatto gli Elvezi, emigrare dalla patria, cercare un' altra dimora,altre sedi, lontane dai Germani e tentare la sorte, qualunque capiti. Se queste cose fossero state riferite ad Ariovisto, non dubitava che per tutti gli ostaggi, che c'erano presso di lui, darebbe una dolorosissima punizione. Cesare poteva o col suo prestigio e con la vittoria anche recente dell'esercito o con la fama del popolo romano atterrirlo, perché una maggiore moltitudine di Germani attraversasse il Reno, e poteva difendere tutta la Gallia dall'oltraggio di Ariovisto.
Tenuto questo discorso da Diviziaco, tutti quelli che erano presenti con grande pianto cominciarono a chiedere aiuto a Cesare. Capì Cesare che i Sequani da soli fra tutti non facevano nulla di quelle cose che gli altri facevano, ma tristi a capo abbassato guardavano a terra. Stupito chiese loro quale fosse il motivo di quel fatto. I Sequani non rispondevano nulla, ma rimanevano silenziosi nella stessa tristezza. Interrogandoli più volte e non potendo assolutamente far uscire nessuna frase, lo stesso eduo Diviziaco rispose: (che) per questo la sorte dei sequani era più misera e più grave (di quella) degli altri, perché da soli neppure in privato non osavano lamentarsi né implorare aiuto e aborrivano la crudeltà di Ariovisto assente come se fosse presente, per il fatto che agli altri almeno era data la possibilità della fuga, ai sequani invece, che avevano accolto Ariovisto all'interno dei loro territori, le cui città erano tutte in suo potere, avrebbero patito tutte le atrocità.
Conosciute queste situazioni, Cesare rinfrancò con parole gli animi dei Galli e promise loro che quella situazione gli sarebbe stata a cuore; (che) egli aveva una grande speranza e che Ariovisto spinto dal suo intervento e prestigio avrebbe posto fine agli oltraggi. E dopo queste molte cose lo convincevano, per cui credeva che quel fatto doveva considerarlo e risolverlo, anzitutto perché vedeva che gli Edui, chiamati molto spesso dal senato fratelli e parenti, erano tenuti in schiavitù ed in sudditanza dei Germani e capiva che i loro ostaggi erano presso Ariovisto ed i Sequani; e questo in un dominio così grande del popolo romano credeva che fosse per lui e per lo stato molto vergognoso. Vedeva come pericoloso per il popolo romano che a poco a poco i Germani si abituavano a passare il Reno e giungeva in Gallia una loro gande moltitudine, e riteneva che uomini feroci e barbari non si sarebbero trattenuti, dopo aver occupata tutta la Gallia, come prima avevano fatto i Cimbri ed i Teutoni, dallo sconfinare nella provincia e di lì dirigersi verso l'Italia, dal momento che il Rodano divideva i Sequani dalla nostra provincia; per tali motivi dunque pensava si dovesse intervenire al più presto possibile. Lo stesso Ariovisto poi aveva assunto così gravi animosità, e cì grave arroganza, che no sembrava sopportabile.
Perciò gli piacque di mandare ambasciatori da Ariovisto, che gli chiedessero di scegliere un qualche luogo in mezzo ad entrambi per un colloquio: (che) egli voleva trattare con lui sullo stato e su importantissimi affari di entrambi. A quella ambasceria Ariovisto rispose: (che) se avesse bisogno di Cesare, egli sarebbe andato da lui; se lui voleva qualcosa, bisognava che lui venisse alla sua presenza. Inoltre egli non osava venire senza esercito in quelle parti della Gallia che Cesare possedeva, e non poteva concentrare in un solo luogo l'esercito senza una grande carovana e sforzo. Gli sembrava poi strano che interesse ci fosse per Cesare o insomma per il popolo romano nella sua Gallia che aveva vinto con la guerra.
Riportate queste risposte a Cesare di nuovo manda a lui degli ambasciatori con queste istruzioni: poiché era stato trattato con così grande benevolenza sua e del popolo romano, essendo stato nominato dal senato durante il suo consolato re ed amico, restituiva a lui ed al popolo romano questo favore che invitato rifiutava di venire a colloquio e non pensava dover parlare ed approfondire su un argomento comune, erano queste le cose che da lui richiedeva: primo, di non far passare oltre il Reno il Gallia più nessuna folla di persone; secondo, di restituire gli ostaggi che aveva dagli Edui e di permettere ai Sequani che fosse loro lecito con la sua autorizzazione restituire quelli che loro avevano; di non provocare con l'oltraggio gli Edui e non dichiarare ed esse ed ai loro soci guerra. Se così si fosse comportato, con lui ci sarebbe stata riconoscenza ed amicizia perpetua per lui (Cesare) e per il popolo romano; se non l'otteneva, egli in persona, poiché sotto il consolato di M. Messala e M. Pisone il senato aveva stabilito che chiunque governasse la Gallia, potesse agire per il bene del popolo romano, difendesse gli Edui e gli altri amici del popolo romano, egli non avrebbe trascurato gli oltraggi degli Edui.
.A queste cose Ariovisto rispose: (che) era diritto di guerra, che quelli che avevano vinto comandassero su quelli che avevano vinto, come volessero; ugualmente il popolo romano era solito comandare ai vinti non secondo la decisione di un altro, ma secondo il proprio arbitrio. Se egli non prescriveva al popolo romano come servirsi del proprio diritto, non bisognava che lui fosse ostacolato nel suo diritto dal popolo romano. Gli Edui, poiché avevano tentato la sorte della guerra ed erano venuti alle armi e sconfitti, erano diventati suoi tributari. Cesare gli faceva un grave oltraggio, che col suo arrivo gli rendeva peggiori le sue entrate. Egli non avrebbe restituito agli Edui gli ostaggi e non avrebbe dichiarato guerra né a loro né ai loro alleati contro giustizia, se fossero rimasti a quello che avevano convenuto, ed ogni anno pagassero il tributo. Se non l'avessero fatto, per loro il nome fraterno del popolo romano sarebbe stato molto lontano. Poiché Cesare gli dichiarava che non avrebbe trascurato gli oltraggi degli Edui, nessuno si era misurato con lui senza danno. Volendo, si scontrasse: avrebbe capito cosa potevano in valore i Germani invincibili, molto esercitati nelle armi, che per 14 anni non erano entrati a casa
Nello stesso tempo venivano riferite a Cesare queste missive giungevano ambasciatori sia dagli Edui che dai Treviri: gli Edui a lamentarsi che gli Arudi che da poco erano stati portati in Gallia, devastavano i loro territori; che loro, neppure dopo aver dati gli ostaggi, avevano potuto ottenere la pace di Ariovisto; i Treviri invece (riferivano) che cento cantoni di Suebi si erano insediati presso le rive del Reno per tentare di passare il Reno; li comandava Nasua e Cimberio, fratelli. Cesare, fortemente turbato da queste cose, pensò che dovesse affrettarsi perché se il nuovo manipolo di Suebi si fosse unito alle vecchie truppe di Ariovisto, meno facilmente si poteva resistere. Così, preparata al più presto che poté il vettovagliamento, a marce forzate di diresse contro Ariovisto.
Tale cosa fu rivelata agli Elvezi con una denuncia. Secondo le loro tradizioni costrinsero Orgetorige a difendersi in tribunale in catene; bisognava che (se) condannato scontasse la pena di essere bruciato col fuoco. Il giorno stabilito della difesa in tribunale Orgetorige da ogni parte raccolse per il processo tutta la sua tribù, circa diecimila persone, e condusse là tutti i clienti ed i suoi debitori, di cui aveva un gran numero; per mezzo di essi si sottrasse per non affrontare il processo. Poiché la nazione colpita da quella situazione tentava di eseguire la propria legge ed i magistrati raccoglievano dalle campagne una moltitudine di persone, Orgetorige morì; e non manca il sospetto, come pensano gli Elvezi, che egli si sia dato la morte.
Essendosi accorto di questo, convocata l'assemblea e chiamati i centurioni di tutti gli ordini a quella assemblea, li attaccò violentemente: (che) anzitutto perché dovevano chiedere oppure pensare o in quale parte o con quale piano fossero guidati. Ariovisto, quando lui era console, aveva richiesto molto ardentemente l'amicizia del popolo romano; perché qualcuno pensava che tanto temerariamente si sarebbe allontanato dal suo dovere? Senz'altro egli era persuaso che sapute le sue richieste e valutata l'equità delle condizioni quello non avrebbe rifiutato né il suo né il favore del popolo romano. Che se spinto da furore e pazzia avesse dichiarato guerra, cosa temevano in fondo? Oppure perché disperavano del proprio valore e della sua ( di Cesare) accortezza? Il pericolo di quel nemico era accaduto al tempo dei nostri antenati, quando, sconfitti i Cimbri ed i teutoni da parte di Mario sembrava che l'esercito avesse meritato non minore lode dello stesso comandante; era accaduto recentemente in Italia durante la rivolta degli schiavi, ma tuttavia li aiutava in qualche modo la pratica e la disciplina, che avevano imparato da noi, e da ciò si poteva giudicare quanto abbia di buono in sé la costanza, per il fatto che quelli che talvolta senza motivo avevano temuto inermi, questi poi li avevano superati anche se armati e vincitori. Infine questi erano gli stessi Germani, coi quali spesso gli Elvezi avevano vinto non solo nei propri, ma anche nei loro territori, e questi (gli Elvezi) tuttavia non poterono essere pari al nostro esercito. Se la battaglia sfortunata e la fuga dei Galli spaventava qualcuno, questi, se indagavano, potevano scoprire che Ariovisto, essendosi trattenuto per molti mesi negli accampamenti e nelle paludi e non avendo dato la possibilità di sé ( di attaccarlo), mentre per la lunghezza della guerra i Galli erano spossati, li aveva vinti mentre ormai disperavano della battaglia e dopo averli assaliti all'improvviso più con la tattica e la strategia che con il valore. Quella strategia ebbe spazio contro uomini barbari ed inesperti, ma con essa neppure lui non può sperare che i nostri eserciti si possano prendere. Quelli che attribuiscono il loro timore nella scusa del vettovagliamento e nelle difficoltà della marcia, lo fanno arrogantemente, o perché non hanno fiducia nel dovere del comandante oppure osano dargli istruzioni. Egli ha a cuore questo; Sequani, Leuci, Linoni procurano il frumento ed ormai i cereali sono maturi nei campi; sulla marcia fra breve tempo giudicheranno. Quanto al fatto che si dica che non saranno obbedienti al comando, della cosa non era turbato per nulla; sapeva infatti che a quelli a cui l'esercito non fu obbediente al comando, o finita male l'impresa la sorte li ha abbandonati o l'avidità , scoperto qualche delitto, fu dimostrata. La sua innocenza è stata dimostrata da tutta la vita, la fortuna dalla guerra degli Elvezi. Così lui svelerà quello che avrebbe rivelato ad una data più lontana e la notte seguente alla quarta veglia avrebbe levato l'accampamento per capire il prima possibile se presso di loro fosse più forte la vergogna ed il dovere o il timore. Che se poi nessuno lo seguisse, tuttavia lui sarebbe andato con la sola decima legione, di cui non dubitava e per lui sarebbe stata la coorte pretoria. Cesare soprattutto preferiva questa legione e per il valore vi confidava moltissimo.
Tenuto questo discorso in modo straordinario tutti i cuori cambiarono e si inserì una grandissima ansia e volontà di far la guerra, e la decima legione per prima lo ringraziò per mezzo dei tribuni militari, e poiché su di lei aveva dato un ottimo giudizio, confermò pure di essere prontissima per far la guerra. Poi le altre legioni coi tribuni militari ed i centurioni dei primi ordini fecero in modo di scusarsi con Cesare per mezzo di loro; loro non avevano mai dubitato né temuto né pensato che sulla strategia di guerra valesse il loro giudizio, ma quello del generale. Accolta la loro scusa e scelto l'itinerario per mezzo di Diviziaco, perche tra i Galli aveva in lui la massima fiducia, partì alla quarta veglia, come aveva detto, per condurre l'esercito in zone aperte con un giro più lungo di cinquanta miglia. Al settimo giorno, non interrompendo la marcia, fu informato dagli esploratori che le truppe di Ariovisto distavano dalle nostre venti quattro mila passi.
Conosciuto l'arrivo di Cesare, Ariovisto gli manda ambasciatori: quello che aveva prima chiesto circa il colloquio, ciò da parte sua era possibile si facesse, poiché si era avvicinato di più e lui pensava che si potesse fare senza rischio. Cesare non respinse la condizione, e pensava che ormai tornasse a ragionevolezza, offrendo spontaneamente ciò che prima aveva rifiutato e giungeva ad ampia speranza, grazie ai suoi e del popolo romano favori verso di lui, che, sapute le sue richieste, avrebbe desistito dalla arroganza, Fu fissato il giorno per il colloquio, in quinto a partire da quello. Intanto poiché si inviavano da una parte e dall'altra degli ambasciatori, Ariovisto chiese che Cesare non portasse alcun fante al colloquio: temeva di essere circondato con tranelli; ognuno venisse con la cavalleria; con altro patto, lui non sarebbe arrivato. Cesare, perché non voleva che il colloquio fosse annullato per interposto motivo e non osava affidare la sua incolumità alla cavalleria dei Galli, stabilì essere molto conveniente, sottratti tutti i cavalli ai cavalieri galli, mettervi i soldati legionari della decima legione, sui cui contava moltissimo, per avere la guarnigione più fidata, se ci fosse bisogno di qualcosa. Accadendo questo, qualcuno dei soldati della decima legione osservò non senza scherzo che Cesare gli concedeva più di quanto aveva promesso: avendo promesso di considerare la decima legione come coorte pretoria, la promuoveva al cavalierato.
La pianura era grande ed in essa c'era un'altura abbastanza esteso. Questa postazione distava quasi lo stesso spazio dagli accampamenti di entrambi. Là, come era stato detto, vennero per il colloquio. Cesare fermò la legione, che aveva portato a cavallo, a duecento passi da quell'altura; similmente i cavalieri di Ariovisto si fermarono ad uguale intervallo. Ariovisto chiese che si parlasse a cavallo e conducessero con sé al colloquio dieci cavalieri ciascuno. Come si giunse là, Cesare inizialmente ricordò i favori suoi e del senato verso di lui, che era stato chiamato re dal senato ed amico, che erano stati inviati doni con magnificenza; ricordava che quel fatto era capitato sia a pochi sia si soleva attribuire per grandi servizi di uomini; lui, pur non avendo diritto né giusto motivo di chiederlo, aveva ottenuto quei riconoscimenti per favore e liberalità sua e del senato. Ricordava anche quanti antichi e quanti giusti motivi di amicizia intercorressero tra loro (Romani) e gli Edui, quali decreti del senato quante volte e quanto onorevoli erano state emanate per loro, tanto che gli Edui in ogni tempo avevano occupato il primato di tutta la Gallia, prima ancora di chiedere la nostra amicizia. (Che) era questa una tradizione del popolo romano, che gli alleati e gli amici non solo non perdevano nulla del loro, voleva che fossero più grandi di favore, dignità, onore; quello dunque che avevano portato per l'amicizia del popolo romano, questo chi poteva permettere fosse loro tolto? Chiese infine le stesse cose, che aveva dato agli ambasciatori nelle istruzioni: di non dichiarare guerra o agli Edui o ai loro alleati, restituire gli ostaggi, se nessuna parte dei Germani poteva rimandare in patria, non permettesse però che alcuni passassero più il Reno.
Molte cose furono dette da Cesare in questo senso, perché non poteva desistere da quel dovere; non era né consuetudine sua né del popolo romano permettere di abbandonare alleati ottimamente benemeriti né poteva ritenere che la Gallia fosse più di Ariovisto che del popolo romano. Gli Arverni ed i Ruteni erano stati vinti in guerra da Q. Fabio Massimo, ed il popolo romano aveva loro perdonato né li aveva ridotti in provincia né aveva imposto il tributo. Che se bisognasse guardare qualsiasi epoca antichissima, il potere del popolo romano era stato giustissimo in Gallia; se si dovesse osservare il giudizio del senato, la Gallia doveva essere libera, e aveva voluto che (seppur ) vinta con una guerra godesse delle sue leggi.
Mentre queste cose si discutevano nel colloquio, fu annunciato a Cesare che i cavalieri di Ariovisto venivano più vicino all'altura e cavalcavano verso i nostri, lanciavano pietre e frecce. Cesare pose fine al discorso e si ritirò dai suoi ed ordinò ai suoi di non rilanciare assolutamente arma contro i nemici. Infatti anche se vedeva che uno scontro con la cavalleria sarebbe avvenuto senza rischio della decima legione prescelta, tuttavia riteneva di non attaccare, perché respinti i nemici si potesse dire che essi erano stati da lui circondati in buona fede durante il colloquio. Dopo che fu rivelato alla folla dei soldati quale arroganza usando durante il colloquio, Ariovisto aveva proibito ai Romani tutta la Gallia ed i suoi cavalieri avevano fatto un attacco contro i nostri e quella situazione aveva sciolto il colloquio, molta maggiore ansia e maggiore voglia di combattere si insinuò nell'esercito
Mentre queste cose si discutevano nel colloquio, fu annunciato a Cesare che i cavalieri di Ariovisto venivano più vicino all'altura e cavalcavano verso i nostri, lanciavano pietre e frecce. Cesare pose fine al discorso e si ritirò dai suoi ed ordinò ai suoi di non rilanciare assolutamente arma contro i nemici. Infatti anche se vedeva che uno scontro con la cavalleria sarebbe avvenuto senza rischio della decima legione prescelta, tuttavia riteneva di non attaccare, perché respinti i nemici si potesse dire che essi erano stati da lui circondati in buona fede durante il colloquio. Dopo che fu rivelato alla folla dei soldati quale arroganza usando durante il colloquio, Ariovisto aveva proibito ai Romani tutta la Gallia ed i suoi cavalieri avevano fatto un attacco contro i nostri e quella situazione aveva sciolto il colloquio, molta maggiore ansia e maggiore voglia di combattere si insinuò nell'esercito
Lo stesso giorno fece avanzare gli accampamenti e si stabilì sotto il monte a sei mila passi dagli accampamenti di Cesare. Il giorno seguente a quello trasferì le sue truppe oltre gli accampamenti di Cesare e pose gli accampamenti più avanti di lui a duemila passi con il piano di bloccare Cesare dal frumento e rifornimento, che veniva portato dai Sequani e dagli Edui. Da quel giorno per cinque giorni consecutivi Cesare fece uscire le sue truppe davanti agli accampamenti e tenne l'esercito schierato, perché, se Ariovisto volesse scontrarsi in battaglia, non gli mancasse la possibilità. Ariovisto in tutti quei giorni tenne l'esercito negli accampamenti, ogni giorno attaccò con scontro di cavalleria. Questo era il genere di battaglia in cui i Germani si erano esercitati: c'erano sei mila cavalieri, altrettanti di numero fanti velocissimi e fortissimi, che da tutta la truppa si sceglievano a vicenda per la propria incolumità; con essi si trovavano in scontri, i cavalieri si ritiravano tra questi; questi, se c'era qualcosa di troppo pericoloso, accorrevano; se uno, ricevuta una ferita piuttosto grave, era caduto da cavallo, lo attorniavano; se c'era da avanzare troppo lontano o ritirarsi troppo velocemente, era tale la loro velocità con l'esercizio, che sollevati dalle criniere dei cavalli ne eguagliavano la corsa.
Quando Cesare capì che lui si teneva negli accampamenti, scelse un luogo adatto agli accampamenti per non restare bloccato dal vettovagliamento più a lungo, al di là della postazione, nella quale postazione s'erano insediati i Germani, a circa seicento passi da loro, e schierato l'esercito su triplice schiera, venne a quel luogo. Ordinò che la prima e la seconda schiera restassero in armi, che la terza fortificasse gli accampamenti. Questa postazione distava dal nemico, come è stato detto, circa seicento passi. Là Ariovisto inviò circa sedicimila (fanti) leggeri con tutta la cavalleria, perché quelle truppe terrorizzassero i nostri e bloccassero la fortificazione. Nondimeno Cesare, come aveva deciso prima, ordinò che le due schiere tenessero lontano il nemico, che la terza completasse l'opera. Fortificati gli accampamenti, lasciò lì due legioni e parte delle truppe ausiliarie, le restanti quattro legioni li riportò negli accampamenti maggiori.
Dopo la sua morte, non di meno, gli Elvezi tentano quello che avevano stabilito di fare per uscire dai loro territori. Quando essi ritennero di essere già pronti per quella impresa, incendiano tutte le loro città, circa dodici, i villaggi, circa cinquecento, i restanti edifici privati, bruciano tutto il frumento, eccetto quello che avevano intenzione di portare con sé, perché, tolta la speranza del ritorno in patria, fossero più pronti ad affrontare tutti i pericoli; comandano che ciascuno porti da casa per sé cibarie macinate per tre mesi. Persuadono i Rauraci, i Tulingi ed i Latobrigi, confinanti, che utilizzando lo stesso piano, bruciate le loro città e villaggi, partano insieme con loro e si associano i Boi, che avevano abitato oltre il Reno ed erano passati nel territorio Norico e assediavano la Noria, dopo averli uniti a loro.
Il giorno seguente, secondo suo sistema, Cesare fece uscire le sue truppe da entrambi gli accampamenti e avanzatosi un poco dagli accampamenti maggiori schierò l'esercito e diede ai nemici la possibilità di combattere. Quando capì neppure allora essi uscivano, a mezzogiorno circa, riportò l'esercito nell'accampamento. Allora finalmente Ariovisto inviò parte delle sue truppe, che assediasse gli accampamenti minori. Si combatté aspramente da entrambe le parti fino a sera. Al calar del sole Ariovisto, date e ricevute molte perdite, ricondusse le sue truppe negli accampamenti. Cesare interrogando i prigionieri, per quale motivo Ariovisto non si battesse in uno scontro, scopriva questa causa, che presso i Germani c'era questa tradizione, che le madri di famiglia dichiarassero con i loro sortilegi e profezie, se fosse di vantaggio che si attaccasse battaglia o no; (che) esse così dicevano: non essere volontà divina che i Germani vincessero, se avessero attaccato con uno scontro prima delle luna nuova.
Il giorno seguente a quello Cesare lasciò a difesa per entrambi gli accampamenti, quello che sembrò esser sufficiente, schierò tutti gli alari al cospetto dei nemici di fronte agli accampamenti minori, poiché disponeva meno di quantità di soldati legionari in rapporto al numero dei nemici, in modo da usare gli alari per diversivo; in persona schierata la triplice schiera si avvicinò fino agli accampamenti dei nemici. Allora finalmente inevitabilmente i Germani fecero uscire le loro truppe dagli accampamenti e li schierarono per tribù ad uguali intervalli - Arudi, Marcomani, Triboli, Mangioni, Nemesi, Sedusi, Suebi -, e circondarono tutta la schiera con vetture e carri, perché non rimanesse alcuna speranza nella fuga. Là vi posero le donne, che piangendo a mani aperte imploravano quelli che partivano per la battaglia, perché non li consegnassero in schiavitù ai Romani.
Cesare mise a capo delle singole legioni altrettanti delegati ed un questore, perché ognuno li avesse come testimoni del proprio valore; lui, in persona, dall'ala destra, perché aveva capito che quella parte dei nemici non era assolutamente salda, attaccò battaglia. I nostri soldati, dato il segnale fecero l'attacco così aspramente, ed i nemici corsero avanti così improvvisamente e celermente, che non era concesso lo spazio di lanciare i giavellotti contro i nemici. Lasciati i giavellotti si ricombatté corpo a corpo con le spade. Ma i Germani velocemente secondo la loro abitudine, fatta una falange, sostennero gli assalti delle spade. Si trovarono parecchi dei nostri, che saltarono sopra la falange e strappavano gli scudi con le mani e ferivano da sopra. Essendo stata sbaragliata e messa in fuga la schiera dei nemici dall'ala sinistra, dall'ala destra incalzavano violentemente con una moltitudine dei loro la nostra schiera. Essendosi accorto di ciò P. Crasso, il giovane, che era a capo della cavalleria, poiché era più libero di quelli che si trovavano tra la schiera, mandò in aiuto ai nostri che erano in difficoltà la terza schiera.
Così si riprese lo scontro e tutti i nemici volsero le spalle e non smisero di fuggire prima che giungessero al fiume Reno a circa cinque mila passi da quel luogo. Qui pochissimi o confidando nelle forze cercarono di passare a nuoto o trovate delle imbarcazioni si trovarono la salvezza. Tra questi vi fu Ariovisto, che raggiunta una barchetta legata presso la riva, fuggì con essa; i nostri inseguendo con la cavalleria uccisero tutti gli altri. Vi furono le due mogli di Ariovisto, una di nazionalità svea, che aveva portato con sé dalla patria, l'altra norica, sorella del re Voccione, che aveva portato in Gallia, mandatagli dal fratello: l'una e l'altra morì in quella fuga; due (furono ) le figlie: una di queste fu uccisa, la seconda catturata. C. Valerio Procillo, mentre era trascinato con tre catene dalle guardie in fuga, s'imbattè nello stesso Cesare che inseguiva i nemici. Certamente tale fatto portò a Cesare non minore piacere della stessa vittoria, perché vedeva restituito a sé il personaggio più stimato della provincia della Gallia, suo amico ed ospite, strappato dalle mani dei nemici né la sorte aveva diminuito nulla con la sua disgrazia di così grande piacere e gioia. Egli diceva che, alla sua presenza, tre volte si era deciso con le sorti se fosse mandato subito al rogo e fosse conservato per un'altra occasione; (che) era incolume per la fortuna delle sorti. Ugualmente M. Mezio fu trovato e ricondotto da lui.
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