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Ver. 187-405
1) Spiega le seguenti parole di Ulisse: "...io però vado, è per me un duro dovere.".
Ulisse in questo caso dimostra una attenzione speciale per la salute dei compagni che lascia colpiti. In buona parte degli episodi letti fino ad ora, Ulisse è sì rammaricato e dispiaciuto quando perde alcuni dei suoi compagni, ma certamente non esita a trascinarli con sé nel pericolo, anche quando questo è perfettamente evitabile (vedi "L'incontro con Polifemo" Lib. IX ver. 170-566). Tuttavia è da osservare un particolare: Ulisse non ha mai avuto l'occasione di salvare i suoi compagni da una situazione pericolosa ormai compiuta, nella quale lui stesso non sia coinvolto. Fino a ora infatti, Ulisse si è sempre trovato involontariamente nei guai, in situazioni che la sua sete di conoscenza e la sua vocazione di esploratore lo hanno spinto a affrontare. In ognuna di queste situazioni di pericolo, Ulisse ha portato per primo sé stesso, trascinando poi alcuni compagni.
Il caso della maga Circe è però radicalmente diverso, questa volta, sono i compagni, ad essersi cacciati nei guai durante una spedizione di ricognizione sull'isola, e non sarebbe stato decoroso per un eroe quale Ulisse, lasciare i propri uomini in balia di una maga, quando fosse stato ancora possibile salvarli.
La figura di Ulisse esprime sempre e comunque qualità positive: coraggio e voglia di conoscere davanti all'ignoto, freddezza e astuzia davanti al pericolo immediato e, in fine, in questo episodio, senso del dovere nei confronti dei compagni. Così si spiega quindi questa frase di Ulisse: "...io però vado, è per me un duro dovere." egli dimostra così di essere coraggioso e scaltro non solo quando si tratta della propria vita ma di essere anche un bravo condottiero che si preoccupa della salvezza dei suoi uomini. Ulisse sa che ora che i compagni sono in pericolo, è un suo dovere salvarli. Tuttavia non appena si presenterà l'occasione di esplorare una nuova terra o conoscere nuove genti non esiterà a esporre con sé anche i suoi uomini a nuovi e tremendi pericoli, né si parla nel poema, per queste azioni, di un qualche segno del rimorso di Ulisse. E' una concezione del soccorso e soprattutto del comando un lontana dalle nostre e quindi anche un po' difficile da comprendere.
2) Come si può spiegare l'intervento di Ermes che aiuta Ulisse ? Senza questo intervento Ulisse si sarebbe salvato ?
L'episodio di Circe è immerso in una atmosfera fiabesca e riprende le tradizioni di secoli di narrazione orale di favole con al centro maghe e incantesimi. In questo brano, Ermes ha la stessa funzione che avrebbe svolto il cosiddetto "aiutante" in una fiaba. Ulisse non sarebbe mai riuscito nella sua impresa senza l'aiuto di Ermes, che lo fornisce delle erbe adeguate per resistere agli incantesimi di Circe. Qui la figura di Ermes ha ben poco di divino, è chiamato Ermes, ma potrebbe essere stato qualunque altro essere soprannaturale e la trama non sarebbe cambiata. Mentre quando Ermes scenderà dall'Olimpo per parlare con Calipso avrà prima consultato gli altri déi e agirà per volere di Zeus, in questo ep 616d38g isodio troviamo un Ermes molto "irreale" molto poco definito. Non è tipico degli déi nei poemi Omerici e nell'Odissea apparire d'improvviso, apparentemente senza una ragione, per aiutare un personaggio o un eroe. Qui la figura di Ermes è quindi un espediente narrativo per far sì che Ulisse riesca a superare la sua "prova". Non possiamo però fare a meno di notare una grande differenza di stile tra l'Ulisse che attribuisce, sì, le proprie vittorie al favore degli déi ma in sostanza se la cava con la propria astuzia e questo Ulisse, un po' più fiabesco, che sarebbe finito richiuso in un porcile, o peggio, se non avesse ricevuto un aiuto privilegiato dal cielo.
3) L'importanza del giuramento nell'antichità e oggi.
E' chiaro che l'importanza del giuramento nell'antichità doveva essere fortissima. Almeno mille volte più forte e sentita di quanto non lo sia ora. Ulisse affida praticamente alla parola di Circe la sua stessa vita, sicuro, che una volta giurato, ella non oserà farle del male. Così come questo, o forse anche di entità maggiore, troviamo nella letteratura antica centinaia di esempi che ci testimoniano l'importanza della pratica del giuramento nell'antichità. I garanti del giuramento sono sempre gli déi "...che sempre tutto vedono..." come di solito rammenta colui che propone il giuramento e che dovevano essere davvero dei garanti infallibili e severi nelle pene ai trasgressori se era ritenuta, anche in culture molto diverse da quella greca (gli Ittiti per esempio), tanto pericolosa e funesta la trasgressione di un patto strinto. Oggigiorno del giuramento antico ci è rimasto il simbolo: nei tribunali, tra i soldati delle forze armate, nelle cariche pubbliche, ma naturalmente si tratta solo di un simbolo, nessuno infatti oggi si sognerebbe mai di lasciare la porta della cella aperta a un assassino che ha giurato di non scappare.
4) Che cos'è la magia ?
La magia, le cose "magiche", sono tutta quella serie di aspetti del mondo della natura che per millenni l'uomo non è stato in grado di spiegare. Un semplice "Non lo so" non poteva bastare all'uomo e alla sua caparbia sete di conoscenze e allora si è dovuto ripiegare su spiegazioni fantastiche di pratiche e realtà soprannaturali. Nell'uomo è sempre stato radicatissimo il desiderio di capire tutta la natura che lo circonda, quando ciò non gli è stato possibile prima si è sforzato, poi si è costruito teorie sballate, poi si è arrabbiato e quindi ha esiliato l'oggetto del suo dubbio dal mondo della natura e lo ha confinato in quello del soprannaturale. La magia non è altro un grande contenitore nel quale l'uomo ha gettato tutto quello che di terreno non riusciva a capire e quindi a dominare. Le forze della natura, inspiegabili, insondabili volontà che condizionavano la sua vita, hanno sempre rappresentato per l'uomo una grande sfida: controllarle avrebbe voluto dire molto, con la magia,l'uomo ha disperatamente tentato per secoli questa impresa.
Testo di riferimento: Libro decimo dell'Odissea
LIBRO DECIMO
Giungemmo nell'Eolia, ove il diletto
Agl'immortali dèi d'Ippota figlio,
Eolo, abitava in isola natante,
Cui tutta un muro d'infrangibil rame
E una liscia circonda eccelsa rupe.
Dodici, sei d'un sesso e sei dell'altro,
Gli nacquer figli in casa; ed ei congiunse
Per nodo marital suore e fratelli,
Che avean degli anni il più bel fior sul volto.
Costoro ciascun dì siedon tra il padre
Caro e l'augusta madre, ad una mensa
Di varie carca dilicate dapi.
Tutto il palagio, finché il giorno splende,
Spira fragranze, e d'armonie risuona;
Poi, caduta su l'isola la notte,
Chiudono al sonno le bramose ciglia
In traforati e attappezzati letti
Con le donne pudìche i fidi sposi.
Questo il paese fu, questo il superbo
Tetto, in cui me per un intero mese
Co' modi più gentili Eolo trattava.
Di molte cose mi chiedea: di Troia,
Del navile de' Greci, e del ritorno;
E il tutto io gli narrai di punto in punto.
Ma come, giunta del partir mio l'ora,
Parole io mossi ad impetrar licenza,
Ei, non che dissentir, del mio vïaggio
Pensier si tolse e cura, e della pelle
Di bue novenne appresentommi un otre,
Che imprigionava i tempestosi venti:
Poiché de' venti dispensier supremo
Fu da Giove nomato; ed a sua voglia
Stringer lor puote, o rallentare il freno.
L'otre nel fondo del naviglio avvinse
Con funicella lucida d'argento,
Che non ne uscisse la più picciol'aura;
E sol tenne di fuori un opportuno
Zefiro, cui le navi e i naviganti
Diede a spinger su l'onda. Eccelso dono,
Che la nostra follìa volse in disastro!
Nove dì senza posa, e tante notti
Veleggiavamo; e già venìaci incontro
Nel decimo la patria, e omai vicini
Quei vedevam che raccendeano i fochi:
Quando me stanco, perch'io regger volli
Della nave il timon, né in mano altrui,
Onde il corso affrettar, lasciarlo mai,
Sorprese il sonno. I miei compagni intanto
Favellavan tra loro, e fean pensiero
Che argento ed oro alle mie case, doni
Del generoso Ippòtade, io recassi.
"Numi!" come di sé, "dicea taluno
Rivolto al suo vicin, "tutti innamora
Costui, dovunque navigando arriva!
Molti da Troia dispogliata arredi
Riporta belli e preziosi; e noi,
Che le vie stesse misurammo, a casa
Torniam con le man vote. Inoltre questi
L'Ippòtade gli diè pegni d'amore.
Orsù, veggiam quanto in suo grembo asconda
D'oro e d'argento la bovina pelle".
Così prevalse il mal consiglio. L'otre
Fu preso e sciolto; e immantinente tutti
Con furia ne scoppiâr gli agili venti.
La subitana orribile procella
Li rapìa dalla patria e li portava
Sospirosi nell'alto. Io, cui l'infausto
Sonno si ruppe, rivolgea nell'alma,
Se di poppa dovessi in mar lanciarmi,
O soffrir muto, e rimaner tra i vivi.
Soffrii, rimasi: ma, coverto il capo,
Giù nel fondo io giacea, mentre le navi,
Che i compagni di lutto empieano indarno,
Ricacciava in Eolia il fiero turbo.
Scendemmo a terra, acqua attignemmo e a mensa
Presso le navi ci adagiammo. Estinta
Del cibarsi e del ber l'innata voglia,
Io con un de' compagni, e con l'araldo
M'inviai d'Eolo alla magion superba;
E tra la dolce sposa e i figli cari
Banchettante il trovai. Sul limitare
Sedevam della porta. Alto stupore
Mostrâro i figli, e con parole alate:
"Ulisse", mi dicean, "come venìstu?
Qual t'assalì dèmone avverso? Certo
Cosa non fu da noi lasciata indietro,
Perché alla patria e al tuo palagio, e ovunque
Ti talentasse più, salvo giungessi".
Ed io con petto d'amarezza colmo:
"Tristi compagni, e un sonno infausto a tale
Condotto m'hanno. Or voi sanate, amici,
Ché il potete, tal piaga". In questa guisa
Le anime loro io raddolcir tentai.
Quelli ammutiro. Ma il crucciato padre:
"Via", rispose, "da questa isola, e tosto,
O degli uomini tutti il più malvagio:
Ché a me né accôr, né rimandar con doni
Lice un mortal che degli eterni è in ira.
Via, poiché l'odio lor qua ti condusse".
Così Eolo sbandìa me dal suo tetto,
Che de' gemiti miei tutto sonava.
Mesti di nuovo prendevam dell'alto:
Ma si stancavan di lottar con l'onda,
Remigando, i compagni, e del ritorno
Morìa la speme ne' dogliosi petti.
Sei dì navigavamo, e notti sei;
E col settimo sol della sublime
Città di Lamo dalle larghe porte,
Di Lestrigonia pervenimmo a vista.
Quivi pastor, che a sera entra col gregge,
Chiama un altro, che fuor con l'armento esce.
Quivi uomo insonne avria doppia mercede.
L'una pascendo i buoi, l'altra le agnelle
Dalla candida lana: sì vicini
Sono il dïurno ed il notturno pasco.
Bello ed ampio n'è il porto; eccelsi scogli
Cerchianlo d'ogni parte, e tra due punte,
Che sporgon fuori e ad incontrar si vanno,
S'apre un'angusta bocca. I miei compagni,
Che nel concavo porto a entrar fûr pronti,
Propinque vi tenean le ondivaganti
Navi, e avvinte tra lor; quando né grande
Vi s'alza mai, né picciola onda, e sempre
Una calma vi appar tacita e bianca.
Io sol rimasi col naviglio fuori,
Che al sasso estremo con intorta fune
Raccomandai: poi, su la rupe asceso,
Quanto si discoprìa, mirava intorno.
Lavor di bue non si scorgea, né d'uomo:
Sol di terra salir vedeasi un fumo.
Scelgo allor due compagni, e con l'araldo
Màndoli a investigar, quali l'ignota
Terra produce abitatori e nutre.
La via diritta seguitâr, per dove
I carri conduceano alla cittade
Dagli alti monti la troncata selva;
E s'abbattero a una real fanciulla,
Del Lestrigone Antìfate alla figlia.
Che del fonte d'Artacia, onde costuma
Il cittadino attignere, in quel punto
Alle pure scendea linfe d'argento.
Le si fêro da presso, e chi del loco
Re fosse, e su qual gente avesse impero,
La domandaro; ed ella pronta l'alto
Loro additò con man tetto del padre.
Tocco ne aveano il limitare appena,
Che femmina trovâr di sì gran mole
Che rassembrava una montagna; e un gelo
Si sentîro d'orror correr pel sangue.
Costei di botto Antifate chiamava
Dalla pubblica piazza, il rinomato
Marito suo, che disegnò lor tosto
Morte barbara e orrenda. Uno afferronne,
Che gli fu cena; gli altri due con fuga
Precipitosa giunsero alle navi.
Di grida la cittade intanto empiea
Antifate. I Lestrìgoni l'udiro,
E accorrean chi da un lato e chi dall'altro,
Forti di braccio, in numero infiniti,
E giganti alla vista. Immense pietre
Così dai monti a fulminar si diêro,
Che d'uomini spiranti e infranti legni
Sorse nel porto un suon tetro e confuso.
Ed alcuni infilzati eran con l'aste,
Quali pesci guizzanti, e alle ferali
Mense future riserbati. Mentre
Tal seguìa strage, io, sguainato il brando
E la fune recisa, a' miei compagni
Dar di forza nel mar co' remi ingiunsi,
Se il fuggir morte premea loro; e quelli
Di tal modo arrancavano, che i gravi
Massi, che piovean d'alto, il mio naviglio
Lietamente schivò: ma gli altri tutti
Colà restâro sfracellati e spersi.
Contenti dello scampo, e in un dogliosi
Per li troppi compagni in sì crudele
Guisa periti, navigammo avanti,
E su l'isola Eèa sorgemmo, dove
Circe, diva terribile, dal crespo
Crine e dal dolce canto, avea soggiorno.
Suora germana del prudente Eeta,
Dal Sole aggiornator nacque, e da Persa,
Dell'antico Oceàn figliuola illustre.
Taciti a terra ci accostammo, entrammo,
Non senza un dio che ci guidasse, il cavo
Porto, e sul lido uscimmo; e qui due giorni
Giacevamo, e due notti, il cor del pari
La stanchezza rodendoci e la doglia.
Come recato ebbe il dì terzo l'alba,
Io, presa l'asta ed il pungente brando,
Rapidamente andai sovra un'altezza,
Se d'uomo io vedessi opra, o voce udissi.
Fermato il piè su la scoscesa cima.
Scôrsi un fumo salir d'infra una selva
Di querce annose, che in un vasto piano
Di Circe alla magion sorgeano intorno.
Entrar disposi senza indugio in via,
E il paese cercar: poi, ripensando,
Al legno invece rivoltar i passi,
Cibo dare ai compagni, e alcuni prima
A esplorare invïar, mi parve il meglio.
Già tra la nave e me poco restava:
Quando ad un de' celesti, in cui pietade
Per quella solitudine io destai,
Grosso ed armato di ramose corna
Drizzare alla mia volta un cervo piacque.
Spinto dal Sole, che il cocea co' raggi,
De' paschi uscìa della foresta, e al fiume
Scendea con labbra sitibonde; ed io
Su la spina lo colsi a mezzo il tergo
Sì che tutto il passò l'asta di rame.
Nella polve cadé, mandando un grido,
E via ne volò l'alma. Accorsi, e, il piede
Pontando in esso, dalla fonda piaga
Trassi il cerro sanguigno, ed il sanguigno
Cerro deposi a terra: indi virgulti
Divelsi e giunchi, attorcigliaili, fune
Sei spanne lunga ne composi, e i morti
Piedi ne strinsi dell'enorme fera.
Al fin sul collo io la mi tolsi, e mossi,
Su la lancia poggiandomi, al naviglio:
Ché mal potuto avrei sovra una sola
Spalla portar così sformata belva.
Presso la nave scaricàila; e ratto
Con soavi parole i miei compagni,
A questo rivolgendomi ed a quello,
Così tentai rïanimare: "Amici,
Prima del nostro dì, d'Aide alle porte
Non calerem, benché ci opprima il duolo.
Su, finché cibo avemo, avem licore,
Non mettiamli in obblìo; né all'importuna
Fame lasciamci consumar di dentro".
Quelli ubbidendo alle mie voci, uscîro
Delle latebre loro, e, in riva al mare,
Che frumento non genera, venuti,
Stupìan del cervo: sì gran corno egli era!
E come sazi del mirarlo fûro,
Ne apparecchiâro non vulgar convito,
Sparse prima di chiara onda le palme.
Così tutto quel dì sino all'occaso
Di carne opìma e di fumoso vino
L'alma riconfortammo: il sol caduto
E comparse le tenebre, nel sonno
Ci seppellimmo al mormorio dell'onde.
Ma sorta del mattin la rosea figlia,
Tutti io raccolsi a parlamento, e dissi:
"Compagni, ad onta di guai tanti, udite.
Qui, d'onde l'austro spiri o l'aquilone,
E in qual parte il Sole alza, in qual dechina,
Noto non è. Pur consultare or vuolsi,
Qual consiglio da noi prender si debba,
Se v'ha un consiglio: di che forte io temo,
Io d'in su alpestre poggio isola vidi
Cinta da molto mar, che bassa giace,
E nel cui mezzo un nereggiante fumo
D'infra un bosco di querce al ciel si volve",
Rompere a questo si sentiro il core,
D'Antìfate membrando e del Ciclope
La ferocia, i misfatti, e le nefande
Della carne dell'uom mense imbandite.
Strida metteano, e discioglieansi in pianto.
Ma del pianto che pro? che delle strida?
Tutti in due schiere uguali io li divisi.
E diedi ad ambo un duce: all'una il saggio
Eurìloco, e me all'altra, indi nel cavo
Rame dell'elmo agitavam le sorti,
Ed Euriloco uscì, che in via si pose
Senza dimora. Ventidue compagni,
Lagrimando, il seguìan; né affatto asciutte
Di noi, che rimanemmo, eran le guance.
Edificata con lucenti pietre
Di Circe ad essi la magion s'offerse,
Che vagheggiava una feconda valle.
Montani lupi e leon falbi, ch'ella
Mansuefatti avea con sue bevande,
Stavano a guardia del palagio eccelso,
Né lor già s'avventavano; ma invece
Lusingando scotean le lunghe code,
E su l'anche s'ergeano. E quale i cani
Blandiscono il signor, che dalla mensa
Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano;
Tal quelle di forte unghia orride belve
Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo
Vederle s'arretraro, ivan blandendo.
Giunti alle porte, la deessa udìro
Dai ben torti capei, Circe, che dentro
Canterellava con leggiadra voce,
Ed un'ampia tessea, lucida, fina,
Maravigliosa, immortal tela, e quale
Della man delle dive uscir può solo.
Pòlite allor, d'uomini capo, e molto
Più caro e in pregio a me, che gli altri tutti
Sciogliea tai detti: "Amici, in queste mura
Soggiorna, io non so ben se donna o diva.
Che tele oprando, del suo dolce canto
Tutta fa risentir la casa intorno.
Voce mandiamo a lei." Disse, e a lei voce
Mandaro; e Circe di là tosto ov'era,
Levossi e aprì le luminose porte,
E ad entrare invitavali. In un groppo
La seguìan tutti incautamente salvo
Eurìloco, che fuor, di qualche inganno
Sospettando, restò. La dea li pose
Sovra splendidi seggi: e lor mescea
Il Pramnio vino con rappreso latte,
Bianca farina e mel recente; e un succo
Giungeavi esizïal, perché con questo
Della patria l'obblìo ciascun bevesse.
Preso e vôtato dai meschini il nappo,
Circe batteali d'una verga, e in vile
Stalla chiudeali: avean di porco testa,
Corpo, sétole, voce; ma lo spirto
Serbavan dentro, qual da prima, intègro.
Così rinchiusi, sospirando, fûro:
Ed ella innanzi a lor del cornio i frutti
Gettava, e della rovere e dell'elce,
De' verri accovacciati usato cibo.
Nunzio verace dell'infausto caso
Venne rapido Euriloco alla nave.
Ma non potea per iterati sforzi
La lingua disnodar: gonfi portava
Di pianto i lumi, e un vïolento duolo
L'alma gli percotea. Noi, figurando
Sventure nel pensier, con maraviglia
L'interrogammo; ed ei l'eccidio al fine
De' compagni narrò: "Nobile Ulisse,
Attraversato delle querce il bosco,
Come tu comandavi, eccoci a fronte
Magion construtta di politi marmi,
Che di mezzo a una valle alto s'ergea.
Tessea di dentro una gran tela, e canto,
Donna o diva, chi 'l sa? stridulo alzava.
Voce mandaro a lei. Levossi e aperse
Le porte e ne invitò. Tutti ad un corpo
Nella magion disavvedutamente
Seguìanla: io no, che sospettai di frode.
Svaniro insieme tutti; e per istarmi
Lungo ch'io feci ad esplorare assiso,
Traccia d'alcun di lor più non m'apparve".
Disse; ed io grande alle mie spalle, e acuta,
Spada, d'argento bullettata, appesi,
Appesi un valid'arco, e ingiunsi a lui,
Che innanzi per la via stessa mi gisse.
Ma Euriloco, i ginocchi ad ambe mani
Stringendomi e piangendo: "Ah! mal mio grado",
Con sùpplici gridò parole alate,
"Lá non guidarmi, o del gran Giove alunno,
Donde, non che altri ricondur, tu stesso
Ritornar non potrai. Fuggiam, fuggiamo
Senza indugio con questi, e la vicina
Parca schiviam, finché schivarla è dato".
"Euriloco", io risposi, "e tu rimanti,
Di carne e vino a riempirti il ventre,
Lungo la nave. Io, cui severa stringe
Necessitate, andrò". Ciò detto, a tergo
La nave negra io mi lasciava e il mare.
Già per le sacre solitarie valli
Della Maga possente all'alta casa
Presso io mi fea, quando Mercurio, il nume
Che arma dell'aureo caduceo la destra,
In forma di garzone, a cui fiorisce
Di lanugine molle il mento appena,
Mi venne incontro, e per la man mi prese,
E: "Misero!" diss'ei con voce amica,
"Perché ignaro de' lochi, e tutto solo,
Muòvi così per queste balze a caso?
Sono in poter di Circe i tuoi compagni,
E li chiudon, quai verri, anguste stalle.
Venìstu forse a riscattarli? Uscito
Dell'immagine tua penso che a terra
Tu ancor cadrai. Se non che trarti io voglio
Fuor d'ogni storpio, e in salvo porti. Prendi
Questo mirabil farmaco, che il tristo
Giorno dal capo tuo storni, e con esso
Trova il tetto di Circe, i cui perversi
Consigli tutti io t'aprirò. Bevanda
Mista, e di succo esizïale infusa,
Colei t'appresterà: ma le sue tazze
Contra il farmaco mio nulla varranno.
Più oltre intendi. Come te la diva
Percosso avrà d'una sua lunga verga,
Tu cava il brando che ti pende al fianco,
E, di ferirla in atto, a lei t'avventa.
Circe, compresa da timor, sue nozze
T'offrirà pronta: non voler tu il letto
Della dea ricusare, acciò ti sciolga
Gli amici, e amica ti si renda. Solo
Di giurarti costringila col grande
Degl'immortali dèi giuro, che nulla
Più non sarà per macchinarti a danno;
Onde, poiché t'avrà l'armi spogliate,
Del cor la forza non ti spogli ancora".
Finito il ragionar l'erba salubre
Porsemi già dal suol per lui divelta,
E la natura divisonne: bruna
N'è la radice; il fior bianco di latte;
Moli i numi la chiamano: resiste
Alla mano mortal, che vuol dal suolo
Staccarla; ai dèi, che tutto ponno, cede.
Detto, dalla boscosa isola il nume
Alle pendici dell'Olimpo ascese;
Ed io vêr Circe andai; ma di pensieri
In gran tempesta m'ondeggiava il core.
Giunto alla diva dalle belle trecce,
La voce alzai dall'atrio. Udimmi, e ratta
Levossi, e aprì le luminose porte,
E m'invitava: io la seguìa non lieto.
Sovra un distinto d'argentini chiovi
Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,
Mi pose: lo sgabello i piè reggea.
Quindi con alma che pensava mali,
La mista preparommi in aureo nappo
Bevanda incantatrice, ed io la presi
Dalla sua mano, e bebbi; e non mi nocque.
Però in quel che la dea me della lunga
Verga percosse, e: "Vanne", disse, "e a terra
Co' tuoi compagni nella stalla giaci",
Tirai dal fianco il brando, e contra lei,
Di trafiggerla in atto, io mi scagliai.
Circe, mandando una gran voce, corse
Rapida sotto il colpo, e le ginocchia
Con le braccia afferrommi, e queste alate
Parole mi drizzò, non senza pianto:
"Chi sei tu? donde sei? la patria dove?
Dove i parenti a te? Stupor m'ingombra,
Che l'incanto bevuto in te non possa,
Quando io non vidi, cui passasse indarno
Per la chiostra de' denti il mio veleno.
Certo un'anima invitta in petto chiudi.
Saréstu forse quel sagace Ulisse,
Che Mercurio a me sempre iva dicendo
Dover d'Ilio venir su negra nave?
Per fermo sei. Nella vagina il brando
Riponi, e sali il letto mio: dal core
D'entrambi ogni sospetto amor bandisca".
"Circe", risposi, "che da me richiedi?
Io cortese vêr te, che in sozze belve
Mi trasformasti gli uomini? Rivolgi
Tacite frodi entro te stessa; ed io
La tua penetrerò stanza secreta,
Onde, poiché m'avrai l'armi spogliate,
Del cor la forza tu mi spogli ancora?
No, se non giuri prima, e con quel grande
Degl'immortali dèi giuro, che nulla
Più non sarai per macchinarmi a danno".
Dissi; e la dea giurò. Di Circe allora
Le belle io salsi maritali piume.
Quattro serviano a lei nel suo palagio
Di quelle Ninfe che dai boschi nate
Sono, o dai fonti liquidi, o dai sacri,
Che devolvonsi al mar, rapidi fiumi.
L'una gittava su i politi seggi
Bei tappeti di porpora, cui sotto
Bei tappeti mettea di bianco lino:
L'altra mense d'argento innanzi ai seggi
Spiegava, e d'oro v'imponea canestri:
Mescea la terza nell'argentee brocche
Soavissimi vini, e d'auree tazze
Coprìa le mense: ma la quarta il fresco
Fonte recava, e raccendea gran fuoco
Sotto il vasto treppié, che l'onda cape.
Già fervea questa nel cavato bronzo,
E me la ninfa guidò al bagno, e l'onda
Pel capo mollemente e per le spalle
Spargermi non cessò, ch'io mi sentii
Di vigor nuovo rifiorir le membra.
Lavato ed unto di licor d'oliva,
E di tunica e clamide coverto,
Sovra un distinto d'argentini chiovi
Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,
Mi pose: lo sgabello i piè reggea.
E un'altra ninfa da bel vaso d'oro
Purissim'acqua nel bacil d'argento
Mi versava, e stendeami un liscio desco,
Che di candido pane e di serbate
Dapi a fornir la dispensiera venne:
"Cìbati", mi dicea la veneranda
Dispensiera, ed instava; ed io, d'ogni esca
Schivo, in altri pensieri, e tutti foschi,
Tenea la mente, pur sedendo, infissa.
Circe, ratto che avvidesi ch'io mesto
Non mi curava della mensa punto,
Con queste m'appresso voci sul labbro:
"Perché così, qual chi non ha favella,
Siedi, Ulisse, struggendoti, e vivanda
Non tocchi, né bevanda? In te sospetto
S'annida forse di novello inganno?
Dopo il mio giuramento a torto temi".
Ed io: "Circe, qual mai retto uomo e saggio
Vivanda toccheria prima, o bevanda,
Che i suoi vedesse riscattati e salvi?
Fa' che liberi io scorga i miei compagni,
Se vuoi che della mensa io mi sovvegna".
Circe uscì tosto con in man la verga,
E della stalla gl'infelici trasse,
Che di porci novenni avean l'aspetto.
Tutti le stavan di rincontro; e Circe,
D'uno all'altro passando, un prezïoso
Sovra lor distendea benigno unguento.
Gli odiati peli, che la tazza infesta
Produsse, a terra dalle membra loro
Cadevano; e ciascun più che non era,
Grande apparve di corpo, e assai più fresco
D'etade in faccia, e di beltà più adorno.
Mi ravvisò ciascuno, ed afferrommi
La destra; e un così tenero e sì forte
Compianto si levò, che la magione
Ne risonava orrendamente, e punta
Sentìasi di pietà la stessa Maga.
Ella, standomi al fianco: "O sovrumano
Di Laerte figliuol, provvido Ulisse,
Corri", diceami, "alla tua nave, e in secco
La tira, e cela nelle cave grotte
Le ricchezze e gli arnesi: indi a me torna.
E i diletti compagni adduci teco".
M'entrò il suo dir nell'alma. Al lido io corsi,
E i compagni trovai, che appo la nave
Di lagrime nutrìansi e di sospiri.
Come, se riedon le satolle vacche
Dai verdi prati al rusticale albergo,
I vitelli saltellano, e alle madri,
Che più serraglio non ritienli o chiostra,
Con frequente muggir corrono intorno:
Così con pianto a me, vistomi appena,
Intorno s'aggiravano i compagni,
E quei mostravan su la faccia segni,
Che vi si scorgerìan, se il dolce nido,
Dove nacquero e crebbero, se l'aspra
Itaca avesser tocca: "O", lagrimando
Dicean, "di Giove alunno, una tal gioia
Sarebbe a stento in noi, se ci accogliesse
D'Itaca il porto. Ma, su via, l'acerbo
Fato degli altri raccontar ti piaccia".
Ed io con dolce favellar: "La nave
Si tiri in secco, e nelle cave grotte
Le ricchezze si celino e gli arnesi.
Poi seguitemi in fretta; ed i compagni
Nel tetto sacro dell'illustre Circe
Vedrete assisi ad una mensa, in cui
Di là d'ogni desio la copia regna".
Pronti obbediro. Ripugnava Euriloco
Solo, ed or questo m'arrestava, or quello,
Gridando: "Sventurati, ove ne andiamo?
Qual mai vi punge del disastro sete,
Che discendiate alla maliarda, e vôlti
Siate in leoni, in lupi, o in sozzi verri,
Il suo palagio a custodir dannati?
L'ospizio avrete del Ciclope, quando
Calâro i nostri nella grotta, e questo
Prode Ulisse guidavali, di cui
Morte ai miseri fu lo stolto ardire".
Così Euriloco; ed io la lunga spada
Cavar pensai della vagina, e il capo
Dal busto ai piè sbalzargli in su la polve,
Benché vincol di sangue a me l'unisse.
Ma tutti quinci riteneanmi, e quindi
Con favella gentil: "Di Giove alunno,
Costui sul lido, se ti piace in guardia
Della nave rimangasi, e alla sacra
Magion noi guida". Detto ciò, dal mare
Meco venìan, né restò quegli indietro:
Tanto della minaccia ebbe spavento.
Cura prendeasi Circe in questo mezzo
Degli altri, che lavati, unti, e di buone
Tuniche cinti e di bei manti fûro.
Seduti a mensa li trovammo. Come
Si sguardâro l'un l'altro, e sul passato
Con la mente tornâro, in pianti e in grida
Davano; e ne gemean pareti e volte.
M'appressò allora, e mi parlò in tal guisa
L'inclita tra le dive: "O di Laerte
Gran prole, o ricco di consigli Ulisse,
Modo al dirotto lagrimar si ponga.
Noto è a me pur, quanti nel mar pescoso
Duraste affanni, e so le crude offese
Che vi recâro in terra uomini ostili.
Su via, gioite omai, finché nel petto
Vi rinasca l'ardir, ch'era in voi, quando
Itaca alpestre abbandonaste in prima.
Bassi or gli spirti avete, e freddo il sangue,
Per la memoria de' vïaggi amari
Nelle menti ancor viva, e l'allegrezza
Disimparaste tra cotanti guai".
Agevolmente ci arrendemmo. Quindi
Pel continuo rotar d'un anno intero
Giorno non ispuntò, che a lauta mensa
Me non vedesse e i miei compagni in festa.
Ma rivolto già l'anno, e le stagioni
Tornate in sé col varïar de' mesi,
Ed il cerchio dei dì molti compiuto,
I compagni, traendomi in disparte:
"Infelice!" mi dissero, "del caro
Cielo nativo e delle avite mura
Non ti rammenterai, se vuole il fato
Che in vita tu rimanga, e le rivegga?"
Sano avviso mi parve. Il sol caduto,
E coverta di tenebre la terra,
Quei si corcâro per le stanze; ed io,
Salito il letto a maraviglia bello
Di Circe, supplichevoli drizzai
Alla dea, che m'udì, queste parole:
"Attiemmi, o Circe, le impromesse, e al caro
Rendimi natìo ciel, cui sempre vola,
Non pure il mio, ma de' compagni il core,
De' compagni, che stanno a me d'intorno,
Sempre che tu da me t'apparti, e tutta
Con le lagrime lor mi struggon l'alma".
"O di Laerte sovrumana prole",
La dea rispose, "ritenervi a forza
Io più oltre non vo'. Ma un'altra via
Correre in prima è d'uopo: è d'uopo i foschi
Di Pluto e di Proserpina soggiorni
Vedere in prima, e interrogar lo spirto
Del teban vate, che, degli occhi cieco,
Puro conserva della mente il lume;
Di Tiresia, cui sol diè Proserpina
Tutto portar tra i morti il senno antico.
Gli altri non son che vani spettri ed ombre".
Rompere il core io mi sentìi. Piagnea,
Su le piume giacendomi, né i raggi
Volea del Sol più rimirare. Al fine,
Poiché del pianger mio, del mio voltarmi
Su le piume io fui sazio: "Or qual", ripresi,
"Di tal vïaggio sarà il duce? All'Orco
Nessun giunse finor su negra nave".
"Per difetto di guida", ella rispose
Non t'annoiar. L'albero alzato, e aperte
Le tue candide vele, in su la poppa
T'assidi, e spingerà Borea la nave.
Come varcato l'Oceàno avrai,
Ti appariranno i bassi lidi, e il folto
Di pioppi eccelsi e d'infecondi salci
Bosco di Proserpìna: e a quella piaggia,
Che l'Oceán gorghiprofondo batte,
Ferma il naviglio, e i regni entra di Pluto.
Rupe ivi s'alza, presso cui due fiumi
S'urtan tra lor rumoreggiando, e uniti
Nell'Acheronte cadono: Cocito,
Ramo di Stige, e Piriflegetonte.
Appréssati alla rupe, ed una fossa,
Che un cubito si stenda in lungo e in largo,
Scava, o prode, tu stesso; e mel con vino,
Indi vin puro e limpidissim'onda
Vèrsavi, a onor de' trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspergi.
Poi degli estinti prega i frali e vôti
Capi, e prometti lor che nel tuo tetto
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell'armento fiore
Lor sagrificherai, di doni il rogo
Riempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,
Immolerai nerissimo arïete,
Che della greggia tua pasca il più bello.
Compiute ai mani le preghiere, uccidi
Pecora bruna, ed un monton, che all'Orco
Volgan la fronte: ma converso tieni
Del fiume alla corrente in quella il viso.
Molte Ombre accorreranno. A' tuoi compagni
Le già sgozzate vittime e scoiate
Mettere allor sovra la fiamma, e ai numi,
Al prepotente Pluto e alla tremenda
Proserpina drizzar voti comanda.
E tu col brando sguainato siedi,
Né consentir, che anzi che parli al vate,
I mani al sangue accostinsi. Repente
Il profeta verrà, duce di genti,
Che sul vïaggio tuo, sul tuo ritorno
Pel mar pescoso alle natìe contrade
Ti darà, quanto basta, indizio e lume".
Così la diva; e d'in su l'aureo trono
L'Aurora comparì. Tunica e manto
Circe stessa vestimmi; a sé ravvolse
Bella, candida, fina ed ampia gonna;
Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un vago
Su i ben torti capei velo s'impose.
Ma io, passando d'una in altra stanza,
Confortava i compagni, e ad uno ad uno
Con molli detti gli abbordava: "Tempo
Non è più da sfiorare i dolci sonni.
Partiamo, e tosto. Il mi consiglia Circe".
Si levâro, e obbedîro. Ahi che né quinci
Mi si concesse ricondurli tutti!
Un Elpénore v'era, il qual d'etate
Dopo gli altri venìa, poco nell'armi
Forte, né troppo della mente accorto.
Caldo del buon licore, onde irrigossi,
Si divise dagli altri, ed al palagio
Mi si corcò, per rinfrescarsi, in cima.
Udìto il suon della partenza, e il moto,
Riscossesi ad un tratto, e, per la lunga
Scala di dietro scendere obblïando.
Mosse di punta sovra il tetto, e cadde
Precipite dall'alto: il collo ai nodi
Gli s'infranse, e volò l'anima a Dite.
Ragunatisi i miei: "Forse", io lor dissi,
"Alle patrie contrade andar credete.
Ma un altro pria la venerabil diva
Ci destinò cammin, che ai foschi regni
Di Pluto e di Proserpina conduce,
Per quivi interrogar del rinomato
Teban Tiresia l'indovino spirto".
Duol mortale gli assalse a questi detti.
Piangeano, e fermi rimanean lì lì,
E la chioma stracciavansi: ma indarno
Lo strazio della chioma era, ed il pianto.
Mentre al mar tristi tendevamo, e spesse
Lagrime spargevam, Circe, che in via
Pur s'era posta, alla veloce nave
Legò la bruna pecora e il montone.
Ci oltrepassò, che non ce ne avvedemmo,
Con piè leggiero. Chi potrìa de' numi
Scorgere alcun che qua o là si mova
Quando dall'occhio uman voglion celarsi?
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