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Libro II

greco



Libro II

Alla morte di Ciro Cambise ereditò il regno: era figlio di Ciro e Cassandane, figlia di Farnaspe; per Cassandane, morta ancora prima del marito, Ciro aveva osservato un lutto molto stretto e lo aveva imposto anche a tutti i suoi sudditi. Figlio di questa donna e di Ciro, Cambise considerava gli Ioni e gli Eoli come schiavi appartenenti al patrimonio familiare; quando mosse guerra all'Egitto prese con sé truppe dalle varie popolazioni del suo dominio, compresi i Greci su cui comandava. Gli Egiziani, prima del regno di Psammetico, ritenevano di essere stati i primi uomini a venire al mondo; ma da quando Psammetico, salito al trono, volle sapere con certezza quale popolo avesse avuto origine per primo, da allora ritengono i Frigi più antichi di loro, e loro stessi, poi, più antichi di tutti gli altri. Nonostante le molte ricerche Psammetico non riusciva a scoprire quali uomini fossero nati per primi; allora escogitò il seguente espediente: prese due neonati, figli di persone qualsiasi, e li affidò a un pastore perché li allevasse presso le sue greggi; al pastore diede le seguenti istruzioni: che nessuno pronunciasse una sola parola davanti a quei bambini; essi dovevano starsene da soli in una capanna abbandonata; a ore stabilite il pastore doveva condurre da loro delle capre, sfamarli col latte e sbrigare le altre incombenze. Psammetico faceva e ordinava tutto questo con l'intenzione di ascoltare poi quale parola i bambini avrebbero pronunciata per prima quando avessero smesso di emettere vagiti senza senso. Come appunto accadde: ormai da due anni il pastore si comportava in quel modo, quando un bel giorno, mentre apriva la porta per entrare, i bambini gli andarono incontro tendendo le braccia e gridando "bekos". La prima volta il pastore li udì e non lo disse a nessuno; ma dato che si recava spesso dai bambini per provvedere alle loro necessità ed essi varie volte gli ripeterono quella parola, segnalò la cosa al suo padrone, che gli ordinò di portare i bambini al suo cospetto. Quando ebbe ascoltato personalmente i bambini, Psammetico cercò di sapere quali uomini chiamassero qualcosa "bekos" e ricercando scoprì che i Frigi chiamano così il pane. Pertanto, sulla base di questo esperimento gli Egiziani riconobbero che i Frigi erano più antichi di loro. Questo è quanto ho appreso dai sacerdoti del tempio di Efesto a Menfi. I Greci dicono invece molte altre sciocchezze, tra cui che Psammetico fece tagliare la lingua ad alcune donne e affidò loro i bambini da allevare. Così mi raccontavano i sacerdoti di Efesto sui due neonati e sul loro allevamento. Ma anche altre cose ho appreso a Menfi nei miei colloqui con questi sacerdoti; e per raccogliere informazioni mi recai anche a Tebe e a Eliopoli, desideroso di verificare se le versioni locali concordassero con quella di Menfi; perché i sacerdoti di Eliopoli hanno fama di essere i più dotti fra gli Egiziani. Ciò che mi dissero sugli dei, tranne appunto i nomi dei medesimi, non sono dell'idea di riferirlo perché ritengo che gli uomini in questo campo ne sappiano più o meno tutti lo stesso; se mi capiterà di farne menzione è perché le necessità del racconto mi ci costringeranno. Riguardo invece alle cose umane, sostenevano concordemente che gli Egiziani per primi al mondo scoprirono l'anno, avendo suddiviso le stagioni in dodici parti per formarlo, scoperta che facevano risalire alla osservazione degli astri. A mio parere il loro sistema di computo è più oculato di quello greco: i Greci ogni due anni inseriscono un mese intercalare nel loro calendario a causa delle stagioni; gli Egiziani invece calcolano dodici mesi di trenta giorni e aggiungono ogni anno cinque giorni soprannumerari, e così il loro ciclo delle stagioni viene sempre a cadere nelle stesse date. Secondo loro gli Egiziani furono i primi a designare i dodici dei con nomi caratteristici (e i Greci da essi derivarono tale usanza), i primi a dedicare altari e templi alle varie divinità e a scolpire sulla pietra figure di animali; e quasi sempre i sacerdoti comprovavano in modo tangibile la verità delle loro asserzioni. Sostennero tra l'altro che il primo uomo a regnare sull'Egitto fu Mina; a quell'epoca l'intero Egitto, tranne il territorio di Tebe, era una palude, dalla quale non emergeva alcuna delle terre ora esistenti a nord del lago Meride; il lago dista dal mare sette giorni di navigazione contro corrente. E mi pare che queste informazioni sul paese siano esatte. Infatti qualunque persona dotata di intelligenza, senza avere saputo mai nulla dell'Egitto, comprende con tutta evidenza, solo a vederlo, che il territorio egiziano a cui arrivano le navi greche è per gli Egiziani una terra acquisita, un dono del fiume; e lo stesso vale per le regioni situate a sud del lago Meride, fino a tre giorni di navigazione, anche se i sacerdoti, su di esse, non mi dicevano ancora niente del genere. La natura del paese in Egitto è tale che gettando lo scandaglio quando la nave è ancora a un giorno di distanza da terra, si tira già su del fango; e lì l'acqua è profonda undici orgie; e ciò dimostra che sin là si trova terreno alluvionale. L'Egitto raggiunge lungo la costa una estensione di sessanta scheni, se, come facciamo noi, se ne stabiliscono per confini il golfo di Plintina e il lago Serbonide, presso il quale si erge il monte Casio. Misurando a partire da quel lago si hanno i sessanta scheni. I popoli che possiedono poca terra, la misurano a orgie, a stadi quelli che ne possiedono un po' di più, a parasanghe quelli che ne hanno molta; quelli che ne hanno in grande abbondanza la misurano a scheni. Una parasanga corrisponde a trenta stadi, uno scheno, misura egiziana, a sessanta stadi. In questo modo le coste dell'Egitto equivarrebbero a 3600 stadi. La regione compresa fra la costa e Eliopoli è assai ampia, tutta pianeggiante, ricca d'acqua e di fango. Il tragitto dal mare fino a Eliopoli risalendo il fiume è pressoché pari in lunghezza a quello che porta da Atene, dall'altare dei dodici dei, fino al tempio di Zeus Olimpio a Pisa; a confrontare proprio con esattezza i due percorsi si troverebbe che una piccola differenza c'è e che le due distanze non sono proprio identiche, ma lo scarto non supera i quindici stadi. Infatti la strada da Atene a Pisa non raggiunge per soli quindici stadi i 1500, là dove la distanza fra il mare ed Eliopoli completa esattamente questa cifra. Continuando a risalire il fiume da Eliopoli l'Egitto si fa stretto; da un lato si stende la catena dell'Arabia, che è orientata da nord a sud e si prolunga verso l'interno e verso il mare detto Eritreo; in questi monti si trovano le cave di pietra da dove furono estratti i blocchi adoperati per le piramidi di Menfi. Qui la catena si arresta e piega verso la direzione su menzionata: nel suo punto più largo questa catena, così m'hanno detto, raggiunge una estensione di due mesi di cammino, in direzione est-ovest, e nel suo settore più orientale è assai ricca di incenso. Ecco come sono i monti dell'Arabia; in direzione della Libia l'Egitto è attraversato da un'altra montagna pietrosa, proprio dove si innalzano le piramidi, tutta coperta di sabbia e protesa verso meridione alla stessa maniera della catena d'Arabia. Insomma a partire da Eliopoli non c'è più molto territorio a paragone del resto del paese: per una estensione di quattordici giorni di navigazione l'Egitto vi è ridotto a una sottile striscia. La parte pianeggiante intermedia fra le suddette montagne non mi pareva misurare, nel suo punto più stretto, più di 200 stadi dalla catena d'Arabia fino al massiccio denominato Libico. Più avanti l'Egitto si fa di nuovo largo. Tale è la configurazione naturale dell'Egitto. Da Eliopoli a Tebe ci sono nove giorni di navigazione pari a 4860 stadi ovvero 81 scheni. Riassumendo, le dimensioni dell'Egitto sono: 3600 stadi di sviluppo costiero, come ho già precedentemente chiarito, e, lo preciso ora, 6120 stadi dal mare verso l'interno fino a Tebe, 1800 stadi da Tebe alla città chiamata Elefantina. La maggior parte della terra di cui s'è parlato è parsa anche a me essere, per gli Egiziani, una "acquisizione", come sostenevano i sacerdoti. Infatti mi fu abbastanza chiaro che tutta la parte mediana fra le montagne prima citate, a sud della città di Menfi, costituiva un tempo una ampia insenatura del mare, come la zona circostante Ilio o Teutrania o Efeso o come la piana del Meandro, sempre che sia lecito confrontare il piccolo con il grande; in effetti nessuno dei fiumi che hanno originato coi loro sedimenti questi territori è abbastanza grande da essere paragonato degnamente anche solo a uno dei rami del Nilo; e di rami così il Nilo ne ha cinque. Esistono altri fiumi, non della stessa portata del Nilo, che possono vantarsi autori di una imponente opera naturale: potrei citarne molti, l'Acheloo per esempio, che scorre attraverso l'Acarnania: sfociando in mare ha già trasformato in terra ferma una buona metà delle isole Echinadi. Nel paese d'Arabia, non lontano dall'Egitto, c'è un golfo che dal Mare Eritreo penetra nell'interno, lungo e stretto quanto mi accingo a precisare: in lunghezza, per arrivare dal suo punto più interno al mare aperto, occorrono quaranta giorni di navigazione a remi; in ampiezza, dove è più largo, misura mezza giornata di viaggio. In quel braccio di mare ogni giorno si verifica un moto di flusso e di riflusso. Io credo che anche l'Egitto fosse una volta un golfo di questo tipo: dal mare settentrionale, penetrava in direzione dell'Etiopia, mentre il golfo d'Arabia da sud si volge verso la Siria; i due golfi avevano quasi comunicanti le loro parti più interne divise soltanto da una sottile striscia di terra ferma. Ora, se il Nilo per caso volesse deviare il proprio corso verso il golfo d'Arabia, che cosa gli impedirebbe di interrarlo completamente nel giro di 20.000 anni? Io credo anzi che potrebbe riempirlo in 10.000 anni soltanto. E allora in tutto il tempo passato prima che io nascessi non avrebbe potuto interrarsi anche un golfo molto più ampio, ad opera di un fiume così immenso e così attivo? Pertanto non solo credo a quanti descrivono così la formazione dell'Egitto, ma io stesso sono convinto che quella è la giusta spiegazione. Io ho visto che l'Egitto si inoltra nel mare più delle terre circostanti, che sulle montagne si trovano conchiglie e che a tratti il sale affiora fino al punto di corrodere le piramidi, che le uniche montagne che hanno sabbia si trovano a sud di Menfi; e inoltre che il suolo dell'Egitto non somiglia né a quello dell'Arabia, con cui confina, né a quello della Libia e neppure a quello della Siria (la zona costiera dell'Arabia è abitata da Siri): ma è terra nera e friabile, perché composta di fango e detriti che il fiume ha trasportato dall'Etiopia. Noi sappiamo che il suolo della Libia è più rossastro e sabbioso, mentre in Arabia e in Siria è più argilloso e ricco di pietrisco. I sacerdoti mi hanno fornito una ulteriore prova sulla natura di questo terreno, raccontandomi che al tempo del re Meride ogni volta che il fiume superava una altezza di otto cubiti inondava tutta la parte dell'Egitto a nord di Menfi; e quando io udivo questi racconti dei sacerdoti, non erano ancora trascorsi 900 anni dalla morte di Meride. Ora invece, se il livello del fiume non sale almeno a quindici o a sedici cubiti, non straripa nelle campagne. Secondo me gli Egiziani residenti a nord del lago di Meride e in particolare nel cosiddetto Delta, se l'Egitto continuerà a sollevarsi e ad allungarsi con lo stesso ritmo, visto che il Nilo non romperebbe più gli argini, dovranno soffrire per tutto il tempo a venire la stessa sorte che una volta mi prospettarono per i Greci. In effetti una volta, apprendendo che tutto il territorio dei Greci non è irrigato da fiumi come il loro, ma è bagnato soltanto dalle piogge, mi dissero che i Greci avrebbero prima o poi sofferto di qualche carestia non appena la loro grande speranza fosse andata delusa. In altre parole, se il dio non volesse mandare la pioggia, ma far perdurare la siccità, i Greci sarebbero in preda alla fame, non avendo risorse d'acqua diverse dalla pioggia mandata da Zeus. Il ragionamento degli Egiziani sulla situazione dei Greci è corretto. Ma applichiamolo ora alla situazione egiziana. Se, come dicevo prima, la parte a nord di Menfi (quella in espansione) dovesse continuare a crescere allo stesso ritmo che in passato, i suoi abitanti non soffrirebbero forse la fame quando, privi di piogge, non avessero nemmeno più il fiume a irrigare le campagne? Attualmente fra tutti i popoli del mondo compresi i restanti Egiziani sono loro a faticare meno per trarre frutto dal suolo: non devono sudare a scavare solchi con l'aratro né a zappare né a compiere alcuno di quei lavori faticosi che gli altri uomini dedicano alla coltivazione. Dopo che il fiume spontaneamente tracima, irriga i campi e poi si ritira, spargono le semenze ciascuno nel proprio terreno e vi spingono sopra i maiali, i quali fanno penetrare i semi nella terra; poi aspettano l'epoca della mietitura, battono il grano ancora servendosi dei maiali e in tal modo il raccolto è bell'e fatto. Se volessimo adottare l'opinione degli Ioni e sostenere che soltanto il Delta è Egitto, limitandone lo sviluppo costiero fra la cosiddetta torre di Perseo e le Tarichee di Pelusio, per una estensione di quaranta scheni, e la lunghezza dal mare verso l'interno solo fino alla città di Cercasoro, dove il Nilo si divide scorrendo verso Pelusio e verso Canobo (mentre le restanti parti dell'Egitto apparterrebbero all'Arabia e alla Libia), adottando, dicevo, questa opinione arriveremmo a dimostrare che gli Egiziani anticamente non avevano un paese. Il fatto è che il Delta, come dichiarano gli Egiziani stessi e come pare anche a me, è una terra alluvionale e, se così si può dire, apparsa di recente. Ora, se davvero essi non avevano alcun paese, perché mai si affannavano tanto a credersi i primi uomini venuti alla luce? E non avrebbe avuto senso spingersi all'esperimento dei bambini per vedere in quale lingua per prima si sarebbero espressi. Io non credo affatto che gli Egiziani siano nati insieme con il Delta (come lo chiamano gli Ioni), credo che siano sempre esistiti, da quando esiste l'uomo, e che con l'avanzare della terra sul mare alcuni di loro rimasero indietro, nell'interno, mentre altri discesero a poco a poco lungo il corso del fiume. E così anticamente si chiamava Egitto la regione di Tebe, il cui perimetro misura 6120 stadi. Se dunque la nostra idea è giusta, gli Ioni non ragionano bene sull'Egitto; se invece è esatta l'opinione degli Ioni allora io posso dimostrare che i Greci in generale e gli Ioni in particolare non sanno fare di conto, quando sostengono che il mondo abitato è diviso in tre parti, Europa, Asia e Libia. Essi dovrebbero aggiungere, al quarto posto, il Delta d'Egitto, se non appartiene né all'Asia né alla Libia; perché in base a tale ragionamento non è il Nilo a segnare il confine tra l'Asia e la Libia: al vertice del Delta il Nilo si divide creando una zona intermedia fra la Libia e l'Asia. Ma noi lasciamo perdere l'opinione degli Ioni ed esponiamo al riguardo il nostro parere: è Egitto l'intero territorio abitato dagli Egiziani, così come Cilicia e Assiria sono i territori abitati dai Cilici e dagli Assiri; e non conosciamo alcuna linea di demarcazione tra Asia e Libia, a dire il vero, se non i confini dell'Egitto. Adottando la teoria dei Greci siamo obbligati a ritenere che l'intero Egitto, a partire dalle Cateratte e dalla città di Elefantina, sia diviso in due e cada sotto entrambe le denominazioni, sia cioè in parte Libia e in parte Asia. Infatti il Nilo dalle Cateratte fluisce verso il mare dividendo a metà l'Egitto: fino a Cercasoro scorre compatto, a partire da questa città si divide in tre rami. Uno si dirige verso oriente e si chiama Pelusico, un altro verso occidente e si chiama Canobico; il ramo del Nilo che procede rettilineo proviene dall'interno del paese e raggiunge il vertice del Delta da dove poi si getta in mare tagliando a metà il Delta stesso: si chiama Sebennitico e oltre a essere il più conosciuto presenta anche la maggiore portata d'acqua. Dal Sebennitico si biforcano e vanno a sfociare in mare altre due bocche, dette Saitica e Mendesia. Il Bolbitinico e il Bucolico non sono rami naturali bensì canali artificiali. Una conferma alla mia convinzione che l'Egitto sia esteso quanto vado mostrando nel mio discorso la fornisce anche un oracolo di Ammone, di cui peraltro ebbi notizia quando ormai la mia opinione me l'ero formata. Una volta gli abitanti delle città di Marea e di Api, ai confini fra l'Egitto e la Libia, ritenendo di non essere egiziani bensì libici, irritati dai rituali del culto (desideravano sottrarsi alla proibizione delle carni di mucca), mandarono una delegazione presso il santuario di Ammone, per protestare che essi non avevano nulla in comune con gli Egiziani: abitavano fuori del Delta, e non concordavano in niente con loro; reclamavano dunque il diritto di gustare qualsiasi vivanda. Ma il dio non glielo permise dichiarando che l'Egitto comprende tutti i territori irrigati dal Nilo con le sue piene, e che quanti abitano a nord di Elefantina e bevono l'acqua di questo fiume sono Egiziani. Così si pronunciò l'oracolo. Il Nilo quando è in piena non inonda solo il Delta ma anche il cosiddetto territorio libico e in qualche luogo anche quello arabico fino a una distanza, da entrambe le sponde, di due giorni di viaggio in media. Sulla natura del fiume non mi è riuscito di ottenere informazioni né dai sacerdoti né da nessun altro. Avrei molto desiderato che mi spiegassero per quale motivo il Nilo scorre in piena per cento giorni a cominciare dal solstizio d'estate, e poi, una volta vicino lo scadere di questo periodo, si ritira abbassando il livello delle proprie acque, tanto da restare in regime di magra per tutto l'inverno e fino al successivo solstizio d'estate; ma in proposito non ho potuto apprendere nulla dagli Egiziani. Io chiedevo loro in base a quale sua proprietà il Nilo abbia un regime contrario a quello degli altri fiumi. Questa era la domanda che rivolgevo a loro nel mio desiderio di imparare e chiedevo anche perché il Nilo è l'unico fiume dal quale non soffiano brezze. Alcuni Greci, desiderosi di segnalarsi per sapienza, hanno proposto a spiegazione del fenomeno dell'acqua tre diverse teorie, due delle quali non mi sembrano degne di nota al di là di una semplice menzione. La prima attribuisce le piene del Nilo all'azione dei venti etesii, che impedirebbero al fiume di sfociare nel mare; però spesso accade che il Nilo si comporti nell'identico modo senza che i venti etesii abbiano soffiato: inoltre, se la causa risalisse ai venti etesii, anche gli altri fiumi che scorrono in senso contrario alla direzione di quei venti sarebbero soggetti a un identico fenomeno, anzi maggiormente soggetti, in quanto essendo più poveri d'acqua presentano correnti più deboli. Invece esistono molti fiumi in Siria, e molti in Libia, che non si comportano affatto come il Nilo. La seconda teoria è meno scientifica della precedente ma più affascinante da esporre: essa afferma che il Nilo si comporta in maniera innaturale perché trae origine dall'Oceano, e l'Oceano è quel fiume che circonderebbe tutta la terra. La terza teoria, di gran lunga la più plausibile, è la più menzognera. In effetti non spiega nulla affermando che il Nilo è alimentato dallo scioglimento delle nevi. Ora, il Nilo proviene dalla Libia, scorre attraverso l'Etiopia e sfocia in Egitto; come dunque potrebbe originarsi dalle nevi se fluisce dalle regioni più calde del mondo in direzione di regioni in gran parte più temperate? Per chiunque sia in grado di fare uso della ragione su simili argomenti la prima e principale prova che l'origine del Nilo dallo scioglimento delle nevi non è una spiegazione logica è già nel fatto che i venti che spirano dalle regioni in questione sono venti caldi. Una seconda prova è l'assenza di precipitazioni e di ghiacci in tutto il paese e per tutto l'anno: ora, entro cinque giorni dopo una nevicata, sempre, inevitabilmente comincia a piovere, cosicché, se in queste regioni cadesse la neve, dovrebbe cadervi pure la pioggia. Terza prova, gli uomini hanno la pelle scura a causa del caldo. Nibbi e rondini, poi, vi trascorrono l'intero anno senza migrare, mentre le gru, quando fuggono l'inverno della Scizia, si trasferiscono sempre in quei paesi per trascorrervi la stagione fredda. Ora, nessuno di questi fatti si verificherebbe se nevicasse anche solo un po' lungo il corso del Nilo, sia nel paese in cui scorre sia nella zona delle sorgenti: questa è una prova inequivocabile. Chi ha parlato dell'Oceano non teme smentita perché ha tirato in ballo l'ignoto; io non ho mai saputo dell'esistenza dell'Oceano, anzi credo che quel nome sia un'invenzione poetica di Omero o di qualcuno dei primi cantori. Se però, dopo aver criticato le opinioni sin qui esposte, devo proprio fornire una mia interpretazione di fatti così oscuri, dirò perché, a mio parere, il Nilo va in piena nel periodo estivo. Nella stagione invernale il sole si allontana dal suo originario percorso a causa delle tempeste e si porta sopra le regioni più interne della Libia; e questo è già sufficiente se ci si limita ad una spiegazione minimale: è naturale che il paese più da vicino sorvolato dal dio sole sia il più povero di acqua e che si prosciughi il corso dei suoi fiumi. Volendo dare una spiegazione più ampia si deve parlare, le cose stanno così, dell'azione del sole quando attraversa le contrade interne della Libia. Dato che in queste zone l'atmosfera è sempre serena in ogni momento dell'anno e il clima è sempre torrido, privo di venti freschi, il sole attraversandole opera esattamente come da noi in estate quando passa nel mezzo del cielo: attira verso di sé l'elemento umido e quindi lo spinge verso le regioni più interne; lì poi i venti se ne impadroniscono, lo disperdono e lo fanno svaporare. Ed è perciò naturale che i venti provenienti da quella parte del mondo, il noto e il libeccio, siano in assoluto i più piovosi. Però io credo che il sole non si liberi completamente dell'acqua attirata ogni anno dal Nilo, ma che ne trattenga un po' attorno a sé. Col mitigarsi dell'inverno il sole ritorna nella parte mediana del cielo e da allora ormai attira a sé ugualmente acqua da tutti i fiumi. Fino ad allora i fiumi, se attraversano paesi bagnati dalla pioggia o solcati da torrenti, scorrono in piena grazie al consistente apporto di acqua piovana, d'estate invece per l'assenza di piogge e per l'attrazione del sole, sono in magra. Al contrario il Nilo, che non riceve mai piogge ma è attratto dal sole, è l'unico fiume ad essere, per ragioni del tutto naturali, più povero d'acqua in inverno che in estate: d'estate come tutti i fiumi risente del processo di evaporazione, d'inverno invece è l'unico a subirlo. Così io ritengo il sole all'origine dei fenomeni in questione. E secondo me, sempre il sole fa sì che l'aria sia lì asciutta, perché attraversandola la brucia: in tal modo nelle zone interne della Libia è sempre estate. Se si verificasse una rivoluzione delle stagioni e nella parte di cielo in cui ora si trovano il vento borea e l'inverno si trovassero il noto e il mezzogiorno e viceversa dov'è il noto soffiasse borea, se le cose stessero così, il sole, scacciato dalla parte mediana del cielo dall'inverno e da borea, si porterebbe sulle zone settentrionali dell'Europa, esattamente come ora sorvola la Libia; e io mi attenderei che attraversando l'Europa intera influisse sul corso dell'Istro come ora influisce su quello del Nilo. Quanto all'assenza di brezze lungo il corso del fiume, non ritengo per niente naturale che da regioni calde provengano correnti d'aria; l'aria solitamente soffia da qualche luogo freddo. Ma tutti questi fenomeni stiano pure come sono e come furono fin dall'origine. Quanto alle sorgenti del Nilo nessun Egiziano, Libico o Greco venuto a colloquio con me sostenne mai di conoscerle, tranne lo scriba del sacro tesoro di Atena, nella città di Sais, in Egitto; ma quando costui mi disse di conoscerle con certezza, ebbi l'impressione che mi stesse prendendo in giro. Parlava infatti di due monti dalle cime aguzze situati fra le città di Siene nella Tebaide e di Elefantina, detti Crofi e Mofi; le sorgenti del Nilo, che sono inesplorabili, scaturirebbero appunto in mezzo a questi due monti: metà dell'acqua si riverserebbe a nord, verso l'Egitto, l'altra metà a sud, verso l'Etiopia. A stabilire che le sorgenti del Nilo sono inesplorabili sarebbe giunto il re d'Egitto Psammetico; costui, fatta intrecciare una corda lunga molte migliaia di orgie, l'avrebbe calata lì senza riuscire a raggiungere il fondo. Questo scriba, ammesso che raccontasse cose realmente avvenute, dimostrava soltanto, per quanto posso capire, che esistevano nelle sorgenti dei gorghi violenti, un rigurgito, e che lo scandaglio non poteva raggiungere il fondo per via del cozzare dell'acqua contro le rocce. Da nessun altro ho potuto ottenere informazioni. Ma ecco altre notizie, le più complete che ho potuto mettere insieme; fino a Elefantina mi sono spinto di persona, come osservatore; da questo luogo in poi possiedo solo opinioni altrui, raccolte interrogando la gente. Ebbene oltre la città di Elefantina il paese si fa scosceso; a questo punto è indispensabile procedere assicurando l'imbarcazione con delle funi su entrambe le rive, come si fa con i buoi; e se la corda si strappa il battello viene trascinato via dalla violenza della corrente. Si procede così via fiume per quattro giorni; qui il Nilo è tortuoso come il Meandro. Sono dodici gli scheni da percorrere navigando così, do 828f54i po di che arrivi in una pianura uniforme nella quale il Nilo scorre intorno ad un'isola chiamata Tacompso. La regione a sud di Elefantina è abitata dagli Etiopi, l'isola invece è per metà abitata da Etiopi e per metà da Egiziani. Contiguo all'isola è un grande lago intorno al quale vivono popolazioni etiopiche nomadi; lo attraversi e ritorni nel corso del Nilo, immissario del lago. Poi devi scendere a terra e risalire lungo il fiume a piedi per quaranta giorni: qui nel Nilo affiorano scogli aguzzi e ci sono molte rocce che non consentono la navigazione. In quaranta giorni superi questo tratto e t'imbarchi su un altro battello; dopo altri dodici giorni di navigazione arrivi finalmente a una grande città chiamata Meroe. Meroe, si dice, è la metropoli di tutti gli altri Etiopi. I suoi abitanti venerano fra gli dei solamente Zeus e Dioniso: li onorano in sommo grado e hanno persino un oracolo di Zeus: fanno guerra solo quando questo dio glielo ordina per mezzo di vaticini, e solo contro i paesi da lui indicati. Risalendo il fiume da Meroe, in un tempo pari a quello necessario per arrivare da Elefantina alla città madre degli Etiopi, si raggiungono i "disertori". Questi "disertori" si chiamano "Asmach" termine che tradotto in greco significa "quelli che stanno alla sinistra del re": si tratta di 240.000 guerrieri egiziani rifugiatisi in questa parte dell'Etiopia per la ragione che ora vi narro. Sotto il regno di Psammetico erano state dislocate guarnigioni in varie città: a Elefantina per difendersi dagli Etiopi, a Dafne Pelusica contro Arabi e Siri, e a Marea contro i Libici. Ancora ai miei tempi sotto i Persiani i corpi di guardia sussistono dove si trovavano all'epoca di Psammetico: guarnigioni persiane sono appunto di stanza a Elefantina e a Dafne. Ebbene quegli Egiziani, visto che dopo tre anni di presidio nessuno veniva a sollevarli dall'incarico, si consigliarono fra loro e di comune accordo defezionarono in blocco da Psammetico per passare in Etiopia. Psammetico, informatone, li inseguì e quando li ebbe raggiunti li pregò a lungo, esortandoli fra l'altro a non abbandonare gli dei della loro patria, i figli e le mogli; ma uno di loro, sembra, mostrando al re i genitali rispose che dovunque ci fossero quelli avrebbero avuto e figli e mogli. Essi poi, giunti in Etiopia, si consegnarono al re degli Etiopi, il quale li ricompensò invitandoli a scacciare alcuni gruppi di Etiopi ribelli e a occuparne i territori. Da quando questi "disertori" si insediarono in Etiopia, gli Etiopi si sono fatti più civili avendo imparato alcune abitudini egiziane. Insomma il Nilo, escluso il suo tratto egiziano, si conosce fino ad una distanza di quattro mesi di navigazione e di cammino; tanti infatti risultano, a calcolarli, i mesi necessari a un viaggiatore per recarsi da Elefantina fino presso i "disertori"; il fiume proviene da ovest, dalle regioni del tramonto. Che cosa vi sia oltre nessuno è in grado di dirlo con precisione: quella regione è disabitata per via del clima torrido. Però io ho parlato con dei Cirenei che raccontavano di una loro visita all'oracolo di Ammone: mentre conversavano con Etearco, re degli Ammoni, il discorso era caduto fra l'altro sul Nilo, sul fatto che nessuno ne conosce le sorgenti; allora Etearco raccontò di aver ricevuto una volta la visita di alcuni Nasamoni (si tratta di una popolazione libica che abita la Sirte e una piccola porzione di territorio a est della Sirte). Quando arrivarono da lui, dunque, il re chiese a questi Nasamoni se potevano aggiungere qualche notizia a quanto già sapeva sui deserti della Libia; essi gli risposero che c'era stato fra i Nasamoni un gruppo di giovani temerari, figli di notabili, i quali, divenuti adulti, fra le altre straordinarie imprese escogitate, avevano tratto a sorte cinque di loro che andassero a esplorare i deserti della Libia, per tentare di vedere qualcosa di più di quelli che avevano visto i luoghi più lontani. La fascia costiera settentrionale della Libia, a partire dall'Egitto fino al promontorio Solunte, dove la Libia termina, è abitata interamente da Libici, divisi in molte e varie popolazioni, a eccezione dei territori occupati da Greci e Fenici. A sud della zona costiera e di quanti vi abitano la Libia è popolata da bestie feroci; oltre ancora si estende un deserto di sabbia terribilmente arido e completamente disabitato. I giovani inviati dai loro coetanei partirono con buone provviste di viveri e d'acqua: subito attraversarono la fascia abitata, poi, superatala, raggiunsero la zona popolata da fiere; da qui si spinsero attraverso il deserto avanzando sempre in direzione ovest. Dopo aver superato un vasto tratto sabbioso, in capo a molti giorni videro degli alberi cresciuti in una landa pianeggiante; si avvicinarono e presero a staccare i frutti prodotti da quegli alberi, ma mentre li staccavano sopraggiunsero uomini piccoli, di statura inferiore alla media umana, che li catturarono e li condussero via; i Nasamoni non conoscevano la loro lingua e quelli non conoscevano la lingua dei Nasamoni. Li condussero attraverso immense distese paludose; terminate le paludi giunsero a una città i cui abitanti erano tutti alti quanto gli uomini che li conducevano e avevano tutti la pelle scura. Lungo la città scorreva un grande fiume, proveniente da ovest e diretto a est, dentro al quale si vedevano dei coccodrilli. E per quanto ci riguarda, il racconto dell'Ammonio Etearco si fermi pure qui; si aggiunga solo che, secondo il racconto dei Cirenei, i Nasamoni fecero ritorno, e che gli uomini presso cui essi erano arrivati erano tutti degli stregoni. Quanto al fiume che scorreva nei pressi della città, anche Etearco conveniva trattarsi del Nilo, e lo esige il ragionamento: il Nilo in effetti proviene dalla Libia e la taglia a metà; e per quanto posso indovinare, congetturando le cose ignote dalle cose visibili, direi che il Nilo raggiunge la stessa lunghezza dell'Istro. Il fiume Istro ha origine nelle regioni celtiche presso la città di Pirene e col suo corso divide in due l'Europa. I Celti dimorano al di là delle colonne d'Eracle e confinano con i Cinesii, il più occidentale di tutti i popoli insediati nell'Europa. L'Istro, dopo aver attraversato l'Europa, termina sfociando nel Ponto Eusino, all'altezza di Istria, città abitata da coloni di Mileto. Insomma scorrendo attraverso territori ben popolati l'Istro è ben conosciuto da molti; nessuno invece è in grado di parlare delle sorgenti del Nilo, perché la Libia, attraverso cui fluisce, è disabitata e deserta: sul suo corso ho detto tutto ciò che mi è stato possibile apprendere con le mie ricerche. Sbocca in Egitto e l'Egitto è situato all'incirca di fronte alla montuosa Cilicia; dalla Cilicia a Sinope sul Ponto Eusino un corriere equipaggiato alla leggera impiega cinque giorni di viaggio in linea retta; e Sinope è situata proprio di fronte alle foci dell'Istro. Perciò io credo che la lunghezza del Nilo, che attraversa tutta la Libia, sia pari a quella dell'Istro. E questo concluda il discorso sul Nilo. Passo invece a parlare diffusamente dell'Egitto perché, rispetto a ogni altro paese, è quello che racchiude in sé più meraviglie e che presenta più opere di una grandiosità indescrivibile: ecco perché se ne discorrerà più a lungo. Gli Egiziani oltre a vivere in un clima diverso dal nostro e ad avere un fiume di natura differente da tutti gli altri fiumi, possiedono anche usanze e leggi quasi sempre opposte a quelle degli altri popoli: presso di loro sono le donne a frequentare i mercati e a praticare la compravendita, mentre gli uomini restano a casa a lavorare al telaio; e se in tutto il resto del mondo per tessere si spinge la trama verso l'alto, gli Egiziani la spingono verso il basso. Gli uomini portano i pesi sulla testa, le donne li reggono sulle spalle. Le donne orinano d'in piedi, gli uomini accovacciati; inoltre fanno i loro bisogni dentro casa e consumano i pasti per la strada, sostenendo che alle necessità sconvenienti bisogna provvedere in luoghi appartati, a quelle che non lo sono, invece, davanti a tutti. Nessuna donna svolge funzioni sacerdotali né per divinità maschili né per divinità femminili: per gli uni e per le altre il compito spetta agli uomini. I figli maschi non hanno alcun obbligo di mantenere i genitori se non lo desiderano, ma per le figlie l'obbligo è ineludibile anche se non vogliono. Negli altri paesi i sacerdoti degli dei portano i capelli lunghi, invece in Egitto se li radono. E se presso gli altri popoli, in caso di lutto, i più colpiti, di regola, si radono il capo, gli Egiziani, quando qualcuno muore, si lasciano crescere i capelli e la barba che prima si radevano. Gli altri uomini vivono ben separati dagli animali, in Egitto si abita insieme con loro. Gli altri si nutrono di grano e orzo, in Egitto chi si nutre di questi prodotti si attira il massimo biasimo: essi si preparano cibi a base di "olira", che alcuni chiamano "zeia". Impastano la farina con i piedi mentre lavorano il fango con le mani [e ammucchiano il letame]. Gli Egiziani si fanno circoncidere, mentre le altre genti, a eccezione di quanti hanno appreso da loro tale pratica, lasciano i propri genitali come sono. Ogni uomo possiede due vestiti; le donne ne possiedono uno solo. Gli altri legano gli anelli delle vele e le sartie all'esterno, gli Egiziani all'interno. I Greci scrivono e fanno di conto coi sassolini da sinistra a destra, gli Egiziani da destra a sinistra, e ciò facendo sostengono di procedere nel verso giusto, mentre i Greci scriverebbero a rovescio. Possiedono due sistemi di scrittura che chiamano "sacra" e "popolare". Sono straordinariamente devoti, più di tutti gli uomini e si attengono alle seguenti prescrizioni: bevono in tazze di bronzo, che sfregano ben bene ogni giorno, tutti, senza eccezioni; indossano vesti di lino sempre lavate di fresco, e nel lavarle mettono molta cura. E si circoncidono per ragioni igieniche, anteponendo l'igiene al decoro personale. Ogni due giorni i sacerdoti si radono tutto il corpo per non avere addosso pidocchi o sudiciume di qualunque genere mentre servono gli dei: i sacerdoti portano solo vesti di lino e calzano solo sandali di papiro: non possono portare indumenti o calzari di materiale diverso. Si lavano con acqua fredda due volte al giorno e due volte ogni notte e si attengono a vari altri cerimoniali: ne hanno a migliaia, si fa per dire. Ma la loro condizione comporta anche privilegi non indifferenti; per esempio non consumano e non spendono il loro patrimonio privato: gli vengono cotti pani sacri e quotidianamente ricevono ciascuno una grande quantità di carni bovine e di oca; e gli si offre anche vino d'uva; di pesci però non possono cibarsi. Gli Egiziani non seminano assolutamente fave nel loro paese, e quelle che crescono spontaneamente non le mangiano né crude né cotte: i sacerdoti non ne tollerano neppure la vista considerandole un legume impuro. Non c'è un solo sacerdote per ciascuna divinità, ma molti e uno di loro funge da sommo sacerdote; e quando ne muore uno gli succede il figlio. Considerano sacri ad Epafo i buoi e perciò li selezionano con cura: se vedono in un bue anche un solo pelo nero lo ritengono impuro. Uno dei sacerdoti è preposto a compiere questa ispezione: esamina l'animale facendolo stare in piedi e steso sul dorso e gli osserva anche la lingua accertandone la purezza sulla base di certi indizi prestabiliti di cui parlerò in un'altra occasione; esamina anche i peli della coda per vedere se sono cresciuti normalmente. Se il bue risulta completamente privo di impurità, il sacerdote lo contrassegna legandogli un foglio di papiro intorno alle corna; sul papiro applica creta da sigilli; vi appone il marchio e l'animale viene portato via. Per chiunque sacrifichi un bue privo di marchio è prevista la morte come punizione. Questo per quanto riguarda la cernita del bestiame; il sacrificio poi si svolge così: conducono la bestia marchiata presso l'altare designato per il rito e accendono il fuoco; versano quindi libagioni di vino sulla vittima e la sgozzano sull'altare invocando il dio, e dopo averla sgozzata le tagliano la testa. Il corpo lo scuoiano, la testa invece, dopo averle scagliato contro numerose maledizioni, la portano via: dove c'è un mercato e tra la popolazione si trovino commercianti greci, allora la portano al mercato e la vendono, dove non ci sono Greci la gettano nel fiume. Nel maledire le teste di bue pregano che se una sciagura sta per sopravvenire sui sacrificanti o sull'Egitto intero, si scarichi invece su quella testa. Quanto alle teste degli animali sacrificati e alla libagione di vino tutti gli Egiziani osservano lo stesso rituale, identico, per tutti i sacrifici; in conseguenza proprio di tale usanza, nessun Egiziano si ciberebbe mai della testa di alcun animale. Invece l'estrazione delle viscere della vittima e il modo di bruciarle differiscono a seconda dei sacrifici. E ora vengo a parlare della dea che essi considerano più importante, in onore della quale celebrano la festa più importante. Dopo aver scuoiato il bue, pronunciano le preghiere rituali e lo sventrano togliendo tutti gli intestini ma lasciando nella carcassa i visceri e il grasso; tagliano poi le zampe, la punta dei lombi, le spalle e il collo. Quindi riempiono ciò che resta del bue con pani di farina pura, miele, uva secca, fichi, incenso, mirra e altre sostanze aromatiche, e così riempito lo bruciano in sacrificio versandovi sopra olio in abbondanza. Prima del sacrificio osservano il digiuno; e mentre le vittime bruciano tutti si battono il petto; quando hanno smesso di battersi il petto, si preparano un banchetto con le parti rimaste della vittima. Tutti gli Egiziani sacrificano i buoi maschi e i vitelli che risultano puri, ma non possono toccare le mucche in quanto sacre a Iside. E infatti la statua di Iside rappresenta una donna con corna bovine, proprio come i Greci raffigurano Io; assolutamente non c'è animale domestico venerato dagli Egiziani più delle femmine dei bovini. Per questo motivo mai nessun Egiziano, uomo o donna, accetterebbe di baciare un Greco sulla bocca, né mai userebbe il coltello, lo spiedo o la pentola di un Greco, e neppure assaggerebbe la carne di un bue puro tagliato con un coltello greco. Quando un bovino muore, gli danno sepoltura nel modo seguente: le mucche le gettano nel fiume, i buoi li seppelliscono ciascuno nel proprio sobborgo, lasciando spuntare dal suolo a mo' di indicazione un corno della bestia o anche entrambi. Si attende che l'animale si sia decomposto e al momento stabilito in ogni città arriva una barca dall'isola chiamata Prosopitide. L'isola si trova nel Delta: nel suo perimetro, di nove scheni, si trovano varie altre città, ma quella da cui vengono le imbarcazioni a caricare le ossa dei buoi si chiama Atarbechi; qui ha sede un tempio sacro ad Afrodite. Da Atarbechi partono in molti verso differenti città: dissotterrano le ossa, le portano via e le seppelliscono in un unico luogo. E così seppelliscono anche gli altri animali che muoiono; anche per essi vige l'identica legge: non li possono uccidere. Quanti hanno eretto un tempio a Zeus Tebano, o sono del distretto di Tebe, sacrificano capre evitando di toccare le pecore. In effetti gli Egiziani non venerano tutti ugualmente gli stessi dei, tranne Iside e Osiride, che dicono corrispondere a Dioniso: queste due divinità le venerano proprio tutti. Quanti hanno un santuario di Mendes o fanno parte del distretto Mendesio si astengono dal sacrificare caprini e uccidono solo ovini. I Tebani e chi ha appreso da loro ad astenersi dalle pecore dicono che tale regola venne imposta loro per la seguente ragione. Eracle, raccontano, fu preso da un gran desiderio di vedere Zeus, ma Zeus non voleva essere visto da lui; poiché Eracle insisteva Zeus dovette ricorrere ad un artificio: scuoiò un montone e gli tagliò la testa; poi si mostrò a Eracle tenendo la testa del montone davanti alla propria e indossandone la pelle. Ecco perché gli Egiziani rappresentano Zeus nelle statue con la testa di montone; e come gli Egiziani fanno gli Ammoni, che sono coloni egiziani ed etiopici e la cui lingua è una via di mezzo tra l'egiziano e l'etiope. A mio parere gli Ammoni derivarono dal dio egizio anche il loro nome, dato che gli Egiziani chiamano Ammone Zeus. Dunque per questo motivo i Tebani non sacrificano i montoni, anzi li ritengono animali sacri. Però c'è un giorno, nell'anno, durante la festa di Zeus, in cui uccidono un montone, lo scuoiano e con la sua pelle rivestono nella stessa maniera la statua di Zeus; accanto ad essa trasportano una statua di Eracle; dopodiché tutti gli addetti al tempio si battono il petto in segno di lutto per il montone e lo seppelliscono in una fossa consacrata. A proposito di Eracle ho sentito raccontare che è una delle dodici divinità. Dell'altro Eracle, quello conosciuto dai Greci, in nessuna parte dell'Egitto ho potuto avere notizie. Che non siano stati gli Egiziani a prendere il nome di Eracle dai Greci, ma piuttosto i Greci dagli Egiziani, e precisamente quei Greci che chiamarono Eracle il figlio di Anfitrione, molti indizi me lo provano e il seguente in particolare: Anfitrione e Alcmena, i genitori dell'Eracle greco, avevano antenati originari dell'Egitto. Del resto gli Egiziani dichiarano di non conoscere i nomi né di Posidone né dei Dioscuri, e non li annoverano fra le restanti divinità. Ora, se gli Egiziani avessero adottato dai Greci un personaggio divino, si sarebbero ricordati di questi in misura non minore, ma maggiore, se è vero che anche allora erano dediti alla navigazione ed esistevano dei marinai Greci; così almeno mi aspetterei e questo il mio ragionamento richiede. Insomma non Eracle bensì queste altre figure divine gli Egiziani avrebbero dovuto derivare dai Greci. L'Eracle egiziano è certamente un dio antico; come essi stessi raccontano fra il regno di Amasi e l'epoca in cui gli originari otto dei diventarono dodici (Eracle secondo loro era uno di questi dodici) son passati 17.000 anni. Io poi, volendo conoscere le cose con chiarezza da chi era in grado di dirmele, mi recai per mare fino a Tiro, in Fenicia; avevo saputo che là si trovava un tempio sacro a Eracle, e lo vidi, riccamente adorno di molti e vari doni votivi; e fra l'altro c'erano due colonnine, una d'oro puro, l'altra di smeraldo che nella notte riluceva grandemente. Conversando con i sacerdoti del dio domandai da quanto tempo fosse stato costruito il tempio, e così constatai che neanche nel caso loro c'era concordanza con i Greci: mi risposero infatti che il tempio risaliva all'epoca della fondazione di Tiro, e che Tiro era abitata da 2300 anni. A Tiro vidi anche un altro tempio di Eracle, detto di Eracle Tasio, perciò visitai anche Taso e vi trovai un santuario di Eracle edificato dai Fenici che, andando per mare alla ricerca di Europa, fondarono Taso; e tutto ciò era accaduto almeno cinque generazioni prima che in Grecia nascesse l'Eracle figlio di Anfitrione. Le indagini dimostrano dunque, con evidenza, che Eracle è un dio molto antico. Per conto mio l'atteggiamento più corretto lo mostrano quei Greci che hanno edificato santuari dedicati a due Eracle, a uno sotto l'appellativo di Olimpio offrendo sacrifici come a un dio immortale, all'altro rendendo onori come a un eroe. Sono molte e varie le cose che i Greci raccontano con assoluta superficialità, fra le quali una sciocca storia riguardante un viaggio di Eracle in Egitto; qui gli Egiziani dopo avergli legato intorno alla testa le sacre bende lo avrebbero condotto in processione per immolarlo a Zeus; lui per un po' sarebbe rimasto tranquillo, ma poi, quando cominciarono presso l'altare i riti per il suo olocausto, fece ricorso alla forza e uccise tutti gli Egiziani. A me pare che i Greci narrando questa favoletta dimostrino di ignorare assolutamente l'indole e le usanze egiziane. Infatti, gente per cui costituisce empietà persino immolare animali, tranne ovini, buoi, vitelli, e purché siano puri, e oche, come potrebbe, gente così, compiere sacrifici umani? E come avrebbe potuto Eracle, da solo, e per di più da semplice mortale, a sentir loro, uccidere decine di migliaia di Egiziani? A noi che abbiamo speso così tante parole su tali argomenti gli dei e gli eroi concedano il loro favore. Ma ecco perché i Mendesi, Egiziani da noi già nominati, non sacrificano né i maschi né le femmine delle capre: essi annoverano Pan fra le otto divinità, e dicono che queste otto divinità esistevano prima dei dodici dei, e gli artisti nelle loro pitture e nelle loro sculture rappresentano Pan come fanno i Greci, con volto di capra e zampe di capro; non perché lo credano fatto così, anzi lo ritengono simile agli altri dei, ma per una ragione che ora non mi fa piacere riferire. I Mendesi venerano tutti i caprini, gli esemplari femmina e ancora di più i maschi, i cui guardiani ricevono onori maggiori; tra gli animali ce n'è uno particolarmente venerato alla cui morte nel nomo di Mendes si proclama un lutto generale. Tra l'altro capro e Pan, in egiziano si dicono "mendes". E ai miei tempi in questo distretto avvenne un fatto straordinario: pubblicamente una donna si accoppiava con un capro, alla luce del sole, dico, davanti a tutti. Gli Egiziani considerano il maiale un animale immondo; già uno, se fa tanto di sfiorare un maiale passandogli accanto, va subito a immergersi nel fiume, così com'è, con tutti i vestiti indosso; i guardiani di maiali, poi, anche se egiziani di nascita, sono gli unici a non poter entrare in alcun santuario egiziano; e nessuno desidera concedere per sposa sua figlia a uno di loro, o prendere in moglie la figlia di un porcaro, tanto che i porcari finiscono per celebrare matrimoni solo all'interno del gruppo. Gli Egiziani non ritengono lecito offrire suini a dei che non siano Selene e Dioniso; a tali divinità sacrificano maiali, nello stesso periodo, nello stesso plenilunio, e ne mangiano le carni. Sul motivo per cui nelle altre feste si astengono con orrore dai maiali, e in questa invece ne sacrificano, gli Egiziani narrano una leggenda: io la conosco ma non mi sembra molto decorosa da riferire. L'offerta del maiale alla dea Selene avviene nel modo seguente: una volta ucciso l'animale, si prendono insieme la punta della coda, la milza e l'omento, li si ricopre per bene col grasso ventrale della vittima e li si brucia; delle altre carni ci si ciba nel giorno di plenilunio, lo stesso in cui il rito ha luogo: in giorni diversi non le si assaggerebbe nemmeno. I poveri, non avendo altre risorse, impastano focacce in forma di maiale, le fanno cuocere e poi le "sacrificano". Invece in onore di Dioniso, la vigilia della festa, ciascuno sgozza un porcellino davanti alla propria porta e lo consegna allo stesso porcaro che glielo aveva venduto perché se lo porti via. Per il resto, a parte l'assenza di cori, la festa dedicata dagli Egiziani a Dioniso è pressoché identica a quella dei Greci. Al posto dei falli hanno inventato statuette mosse da fili, alte circa un cubito che le donne portano in giro per i villaggi; ogni marionetta è fornita di un pene oscillante, lungo quasi quanto il resto del corpo. In testa alla processione va un suonatore di flauto, le donne lo seguono inneggiando a Dioniso. Una leggenda sacra spiega per quale ragione il fallo è così sproporzionato e perché nelle statuette è l'unica parte dotata di movimento. A me pare che già Melampo figlio di Amitaone non ignorasse questo rito sacrificale, anzi ne avesse esperienza diretta. Effettivamente fu Melampo a introdurre fra i Greci la divinità di Dioniso, i sacrifici relativi, e la processione dei falli; o meglio, egli non rivelò tutto in una volta tale culto: i sapienti venuti dopo di lui ampliarono le sue rivelazioni. Fu però Melampo a introdurre la processione del fallo in onore di Dioniso, ed è dopo averlo appreso da lui che i Greci fanno quello che fanno. Io dico insomma che Melampo, certamente persona di grande sapienza, si procurò capacità divinatorie e introdusse in Grecia parecchi culti conosciuti in Egitto, tra cui in particolare quello di Dioniso, operando in essi poche modifiche. Non posso ammettere che il rito egiziano coincida fortuitamente con quello greco: in questo caso il rito greco sarebbe conforme ai costumi greci e non di recente introduzione; né posso ammettere che gli Egiziani abbiano derivato dai Greci questa o altre usanze. A me pare altamente probabile che Melampo abbia appreso il culto di Dioniso da Cadmo di Tiro e dai suoi compagni, giunti dalla Fenicia nel paese oggi chiamato Beozia. Dall'Egitto vennero in Grecia quasi tutte le divinità. Di una loro origine barbara io sono convinto perché così risulta dalle mie ricerche; e penso a una provenienza soprattutto egiziana. Infatti a eccezione di Posidone e dei Dioscuri, come ho già avuto modo di dire, nonché di Era, di Estia, di Temi, delle Cariti e delle Nereidi, le altre divinità sono tutte presenti da sempre in quel paese, fra gli Egiziani: riporto quanto essi stessi dichiarano. Quanto alle divinità che sostengono di non conoscere io credo che tutte siano espressione dei Pelasgi, tranne Posidone. Conobbero questo dio dai Libici; infatti nessun popolo conosce Posidone fin dalle origini tranne i Libici, che da sempre lo onorano. Quanto al culto degli Eroi, esso è del tutto estraneo alle consuetudini egiziane. Tutto questo dunque i Greci accolsero dagli Egiziani, e altro ancora che dirò più avanti; ma l'uso di fabbricare le statue di Ermes con il pene ritto non deriva dagli Egiziani bensì dai Pelasgi: i primi ad adottarlo fra i Greci furono gli Ateniesi, e da loro lo impararono gli altri. Infatti, quando ormai gli Ateniesi si erano del tutto ellenizzati, nel loro paese vennero ad abitare dei Pelasgi; che è anche la ragione per cui costoro cominciarono a essere considerati Greci. Chi è iniziato ai misteri dei Cabiri, misteri che i Samotraci celebrano dopo averli acquisiti dai Pelasgi, sa ciò che dico. In effetti i Pelasgi venuti a coabitare con gli Ateniesi si stanziarono poi in Samotracia e da loro i Samotraci appresero tali misteri. Insomma gli Ateniesi furono i primi Greci a raffigurare nelle statue Ermes con il membro ritto perché lo avevano imparato dai Pelasgi. In proposito i Pelasgi composero un sacro racconto divulgato durante i misteri di Samotracia. |[continua]| |[LIBRO II, 2]| Un tempo i Pelasgi, come io stesso so avendolo udito a Dodona, compivano tutti i sacrifici e invocavano gli dei senza usare un nome personale o un appellativo: ancora non conoscevano nulla del genere. Li chiamarono "dei" ($èåïß$) in quanto avevano stabilito ($èÝíôåò$) l'ordine dell'universo e quindi regolavano la ripartizione di ogni cosa. Molto tempo dopo appresero i nomi di tutti gli altri dei, originari dell'Egitto, tranne quelli di Dioniso che appresero molto più tardi; dopo un certo tempo interrogarono l'oracolo di Dodona a proposito di tali nomi; l'oracolo di Dodona è considerato il più antico della Grecia intera e a quell'epoca era anche l'unico. Dunque i Pelasgi chiesero a Dodona se dovevano accogliere le divinità provenienti da genti barbare e l'oracolo rispose di accoglierle pure. Da allora nei loro sacrifici adoperarono gli appellativi divini. Tale uso passò più tardi dai Pelasgi ai Greci. Da chi sia nato ciascuno degli dei, oppure se siano sempre esistiti tutti e quale aspetto avessero, non era noto fino a poco tempo fa, fino a ieri, se così si può dire. Io credo che Omero ed Esiodo siano più vecchi di me di 400 anni e non oltre: e furono proprio questi poeti a fissare per i Greci la teogonia, ad assegnare i nomi agli dei, a distribuire prerogative e attività, a dare chiare indicazioni sul loro aspetto; i poeti che hanno fama di essere vissuti prima di loro io li credo invece posteriori. Di quanto qui sopra esposto, le prime informazioni provengono dalle sacerdotesse di Dodona, ciò che si riferisce a Omero e a Esiodo è opinione mia. A proposito dei due oracoli, quello greco di Dodona e quello libico di Zeus Ammone, gli Egiziani narrano una storia. I sacerdoti di Zeus Tebano mi raccontarono di due donne, due sacerdotesse, rapite da Tebe ad opera di Fenici: una di loro, come avevano appreso più tardi, era stata venduta in Libia, l'altra in Grecia; a queste donne risalirebbe la fondazione degli oracoli esistenti fra i suddetti popoli. Io domandai ai sacerdoti da dove attingessero notizie così precise sugli avvenimenti ed essi mi risposero che avevano cercato a lungo quelle donne senza riuscire a trovarle; solo più tardi, aggiunsero, avevano ottenuto su di loro le informazioni a me riferite. Questo è quanto seppi dai sacerdoti di Tebe. La versione delle indovine di Dodona è differente: secondo loro due colombe nere volarono via da Tebe d'Egitto e giunsero l'una in Libia, l'altra a Dodona. Quest'ultima, appollaiata su di una quercia, con voce umana avrebbe proclamato che si doveva fondare in quel luogo un oracolo di Zeus; la gente di Dodona, ritenendo di origine divina un simile annuncio, si comportò di conseguenza. La colomba direttasi in Libia, narrano, avrebbe ordinato ai Libici di fondare l'oracolo di Ammone, che è anch'esso di Zeus. Questo mi raccontarono le sacerdotesse di Dodona, che si chiamavano Promenia, la più anziana, Timarete, la seconda, e Nicandre, la più giovane; e con la loro versione concordano anche gli altri abitanti di Dodona addetti al santuario. La mia opinione al riguardo è la seguente: se veramente i Fenici rapirono le sacerdotesse e le vendettero, l'una in Libia e la seconda in Grecia, io credo che quest'ultima fu venduta nel paese dei Tesproti, nell'attuale Grecia, che allora si chiamava Pelasgia; lì visse come schiava, poi, sotto una quercia cresciuta spontaneamente, fondò un santuario di Zeus; era logico che lei, già sacerdotessa di Zeus a Tebe, volesse perpetuarne il ricordo anche là dov'era giunta. Più avanti, quando imparò la lingua greca, diede inizio alle attività dell'oracolo. Fu lei a raccontare di una sua sorella venduta in Libia dagli stessi Fenici che avevano venduto lei. A mio avviso i Dodonesi hanno chiamato colombe le due donne perché erano barbare e perciò a loro sembravano emettere suoni simili al canto degli uccelli, e aggiungono che la colomba prese a parlare con favella umana col passare del tempo, cioè quando la donna cominciò a esprimersi in maniera comprensibile: finché si serviva di un idioma barbaro sembrava a tutti che emettesse una specie di verso da uccello; come avrebbe potuto una colomba parlare con voce umana? Descrivendo poi la colomba come nera di colore, indicano che la donna proveniva dall'Egitto. Guarda caso l'arte mantica praticata a Tebe d'Egitto e quella praticata a Dodona sono assai simili fra loro. E anche la divinazione mediante l'esame delle vittime sacrificate proviene dall'Egitto. Gli Egiziani sono stati i primi al mondo a istituire feste collettive, processioni e cortei religiosi; i Greci hanno imparato da loro e ne abbiamo una prova: le solennità egiziane risultano celebrate da molto tempo, quelle greche hanno avuto inizio di recente. Le feste collettive gli Egiziani non le celebrano una sola volta all'anno, ma in continuazione: la principale, e seguita con maggiore partecipazione, è dedicata ad Artemide, nella città di Bubasti; la seconda ha luogo a Busiride ed è dedicata a Iside; in questa città, situata in Egitto nel bel mezzo del Delta, si trova un grandissimo santuario di Iside, la dea che in greco si chiama Demetra. La terza festa è per Atena, nella città di Sais, la quarta a Eliopoli, per il dio Elio, la quinta a Buto in onore di Leto; la sesta è dedicata ad Ares e ha luogo nella città di Papremi. Ecco che cosa fanno quando si recano a Bubasti: viaggiano sul fiume, uomini e donne insieme, una gran folla di entrambi i sessi sopra ogni imbarcazione; alcune donne hanno dei crotali e li fanno risuonare, alcuni uomini suonano il flauto per tutto il tragitto; gli altri, uomini e donne, cantano e battono le mani; quando giungono all'altezza di un'altra città, accostano a riva e si comportano così: alcune continuano a fare ciò che ho detto, altre a gran voce dileggiano le donne del posto, altre danzano, altre ancora si alzano in piedi e si tirano su la veste. Così in ogni città che incontrino lungo il fiume. Una volta arrivati a Bubasti, celebrano la festa offrendo imponenti sacrifici; in questa ricorrenza si consuma più vino d'uva che in tutto il resto dell'anno. Vi accorrono, a quanto sostengono i locali, fino a settecentomila persone fra uomini e donne, senza contare i bambini. Così a Bubasti; a Busiride quando celebrano la festa di Iside tutto si svolge come ho già ricordato prima. Dopo il sacrificio uomini e donne si battono tutti il petto, e sono svariate decine di migliaia di persone: ma dire in onore di chi si battono il petto sarebbe empio da parte mia. Tutti i Cari che vivono in Egitto si spingono molto più in là: con dei coltelli si infliggono ferite sulla fronte, e da questo si capisce che non sono Egiziani, ma stranieri. A Sais, quando si riuniscono per i riti sacrificali, una determinata notte ciascuno accende molte lampade intorno alla propria casa, all'aperto; le lampade sono delle ciotoline piene di sale e di olio, sulla cui superficie galleggia il lucignolo e brucia per tutta la notte; sicché la festa è detta "dei lumi accesi". Gli Egiziani che non si recano a questo raduno festivo aspettano la notte del sacrificio e accendono a loro volta, tutti, le lucerne; e in tal modo non solo a Sais si accendono lucerne, ma nell'intero Egitto. Si tramanda un racconto sacro che spiega per quale motivo la notte in questione ha ricevuto luce e venerazione. Quelli che si recano a Eliopoli e a Buto compiono soltanto dei sacrifici. Invece a Papremi hanno luogo sacrifici e riti sacri come altrove: al tramonto del sole, mentre pochi sacerdoti si occupano della statua del dio, i più, invece, attendono in piedi all'ingresso del tempio armati di mazze di legno; altri uomini, oltre un migliaio di persone che compiono un voto, se ne stanno tutti insieme in un gruppo a parte, anch'essi armati di mazze. La statua del dio, contenuta dentro una specie di piccolo tabernacolo di legno ornato d'oro, era stata trasportata, la vigilia della festa, in una diversa dimora sacra. I pochi sacerdoti rimasti accanto ad essa tirano un carretto a quattro ruote, che porta il tabernacolo con dentro la statua stessa, ma i sacerdoti in piedi vicino all'ingresso non la lasciano entrare: allora il gruppo delle persone impegnate a soddisfare il voto prende le difese del dio randellando i sacerdoti; questi a loro volta reagiscono. Insomma si scatena una violenta rissa a colpi di bastone: si fracassano la testa e secondo me molti ci lasciano la pelle in seguito alle ferite riportate; gli Egiziani comunque escludono categoricamente che sia mai morto qualcuno. Gli abitanti di Papremi dicono di aver introdotto tale festa per il seguente motivo. Abitava un tempo nel santuario la madre di Ares; Ares che era stato allevato altrove, divenuto adulto, venne a Papremi per congiungersi con lei; ma i servitori della madre non lo avevano mai visto prima di allora, perciò non gli consentirono l'ingresso e lo mandarono via; Ares raccolse uomini da un'altra città e usando le cattive maniere nei confronti dei servitori poté entrare da sua madre. Da tale episodio, dicono, avrebbe tratto origine l'usanza della bastonatura durante la festa in onore di Ares. Gli Egiziani sono stati anche i primi ad osservare religiosamente il divieto di accoppiarsi con le donne all'interno dei santuari e di entrarvi dopo un accoppiamento senza essersi lavati. Quasi ovunque nel mondo, tranne in Egitto e in Grecia, uomini e donne hanno rapporti sessuali dentro aree sacre, o vi entrano, dopo, senza essersi lavati, ritenendo che gli uomini sono come le altre bestie. Infatti si vedono tutti gli animali e varie specie di uccelli accoppiarsi all'interno dei templi o dei sacri recinti; se ciò non fosse gradito agli dei, dicono, gli animali non lo farebbero. Con questa giustificazione tengono un comportamento che a me non piace affatto. Invece gli Egiziani hanno uno straordinario rispetto per le norme religiose in generale e per queste in particolare. Pur confinando con la Libia, l'Egitto non è molto popolato da animali, ma quelli che vi sono, sono considerati sacri, senza eccezione, sia quelli domestici come i selvatici. Se spiegassi perché sono considerati sacri verrei a parlare di questioni divine, sulle quali io evito il più possibile di intrattenermi. Se talora ho sfiorato simili argomenti, l'ho fatto perché costretto dalla necessità. Esiste una legge sugli animali: essa prescrive che degli Egiziani, uomini o donne, vengano incaricati di provvedere al nutrimento di ciascuna specie; e tale onore si trasmette dal genitore al figlio. Gli abitanti delle città, ciascuno per conto suo, quando fanno voti al dio protettore di un dato animale compiono questi riti: radono il capo dei propri figli, per intero, per metà o per un terzo, e poi sui due piatti della bilancia pongono i capelli e dell'argento: l'argento che controbilancia il peso dei capelli lo danno alla guardiana degli animali; in cambio di tale somma essa sminuzza del pesce e lo dà in pasto alle bestie. Ecco dunque, come è prescritto che vengano nutrite. Se qualcuno uccide uno di questi animali, se lo fa volontariamente la pena prevista è la morte, se involontariamente paga la pena stabilita dai sacerdoti. Nel caso si uccida un ibis o uno sparviero, volontariamente o involontariamente, la pena di morte è inevitabile. Le bestie che vivono con l'uomo sono già molte, ma sarebbero ancora di più se ai gatti non accadesse una cosa strana: le femmine dopo aver partorito non vanno più con i maschi; questi provano ad accoppiarsi con esse, ma senza riuscirci. Ricorrono allora a una astuzia: rapiscono e sottraggono alle femmine i piccoli e li uccidono, dopo, però, non li divorano. Le gatte, private dei figli, ne desiderano altri e così ritornano ad accoppiarsi con i maschi: è un animale che ama molto la sua prole. Se scoppia un incendio i gatti assumono un comportamento prodigioso: gli Egiziani formano un cordone per tenere lontani i gatti, trascurando persino di spegnere le fiamme, ma i gatti sgusciando fra gli uomini o saltando sopra di loro si lanciano nel fuoco e quando questo avviene gli Egiziani provano una grande afflizione. Nelle case in cui un gatto muore di morte naturale tutti gli abitanti della casa si radono solo le sopracciglia; dove muore un cane si radono tutto il corpo e la testa. I gatti morti vengono trasportati in ricoveri sacri, dove vengono imbalsamati e seppelliti, nella città di Bubasti. I cani invece li seppelliscono ciascuno nella propria città, in sacri loculi, e come i cani seppelliscono anche le manguste. I topiragno e gli sparvieri li portano a Buto, gli ibis a Ermopoli. Gli orsi, che sono rari, e i lupi, che non sono molto più grossi delle volpi, li seppelliscono nello stesso punto in cui li trovano morti. Ecco le caratteristiche del coccodrillo: nei quattro mesi più freddi non mangia nulla; ha quattro zampe e vive tanto nell'acqua come sulla terra ferma, dove depone e fa schiudere le uova; trascorre la maggior parte del giorno all'asciutto, ma l'intera notte nel fiume perché l'acqua è più calda dell'aria e della rugiada. Fra tutti gli animali conosciuti è quello che dalle dimensioni più piccole raggiunge le più grandi: infatti depone uova non molto più grosse di quelle di un'oca e il piccolo appena nato è grande in proporzione; poi crescendo raggiunge i 17 cubiti e anche di più. Possiede occhi di maiale, denti e zanne smisurate in ragione del corpo; è l'unico degli animali a non possedere lingua. Non muove la mascella inferiore, ma, anche in questo unico fra gli animali, accosta la mascella superiore all'inferiore. Ha unghie robuste e sul dorso una pelle scagliosa indistruttibile; nell'acqua è cieco ma all'aria aperta possiede una vista acutissima. Poiché trascorre in acqua parte del suo tempo, ne esce con la bocca coperta di sanguisughe; e mentre tutti gli altri uccelli o fiere lo fuggono, il trochilo invece è con lui in ottimi rapporti perché gli rende un prezioso servizio: infatti quando il coccodrillo è uscito dall'acqua sulla riva e spalanca le fauci (cosa che fa abitualmente e per lo più in direzione dello zefiro) allora il trochilo gli penetra in bocca e ingoia le sanguisughe: il coccodrillo gode del sollievo procuratogli dal trochilo e non gli fa alcun male. I coccodrilli sono sacri per alcuni Egiziani e per altri no; anzi li trattano con grande ostilità. Quanti abitano intorno alla città di Tebe e al lago di Meride li ritengono assolutamente sacri: in entrambe queste regioni provvedono al mantenimento di un coccodrillo scelto fra tutti, ammaestrato e addomesticato: gli ornano le orecchie con ciondoli di smalto e d'oro, e con anelli le zampe anteriori, lo nutrono con cibi scelti e vittime di sacrifici, trattandolo insomma nel modo migliore finché è in vita. Quando muore lo imbalsamano e lo seppelliscono in loculi sacri. Al contrario coloro che abitano nei pressi di Elefantina arrivano a cibarsi dei coccodrilli, così poco li considerano sacri. Il loro nome non è "coccodrilli", bensì "champsai"; furono gli Ioni a chiamarli "coccodrilli" quando li videro simili per aspetto ai coccodrilli che nel loro paese si trovano sui muri di pietra. La cattura del coccodrillo avviene secondo molte e varie tecniche; io descriverò quella che mi sembra più meritevole di esposizione. Il cacciatore sistema su di un uncino una spalla di maiale e la lancia in mezzo al fiume; quindi stando sulla riva percuote un porcellino vivo: il coccodrillo sente le grida del maialino e avanza in direzione della voce, si imbatte nell'esca e la divora: a quel punto lo trascinano a riva; quando è sulla terra per prima cosa il cacciatore gli copre gli occhi con del fango: se fa così, dopo riesce facilmente ad averne ragione, se non fa così deve sudare parecchio. Gli ippopotami sono sacri nel nomo di Papremi ma non per gli altri Egiziani. Le caratteristiche esteriori dell'ippopotamo sono: quattro zampe, zoccolo fesso come quello dei buoi, muso rincagnato, criniera da cavallo, fauci con zanne in bella evidenza, coda e voce simili a un cavallo; è grosso quanto il più grosso dei buoi. La sua pelle è talmente spessa che quando è secca se ne possono fare aste per dardi. Nel fiume ci sono anche lontre che gli Egiziani considerano sacre. Tra i pesci ritengono sacri il cosiddetto "lepidoto" e l'anguilla; li dicono sacri al Nilo, come pure, fra gli uccelli, le chenalopeci. E c'è anche un altro uccello sacro, chiamato fenice; per altro io non ne ho mai visti se non in dipinti; pare infatti che compaia in poche circostanze, ogni 500 anni a sentire gli abitanti di Eliopoli. E dicono che apparirebbe solo quando gli muore il padre; se le raffigurazioni sono fedeli per dimensioni e per forma è come segue: le penne delle ali sono in parte dorate e in parte rosse; per sagoma e dimensioni somiglia molto a un'aquila. Gli attribuiscono, ma a me non pare troppo credibile, un'impresa straordinaria: volerebbe dall'Arabia fino al tempio del dio Elio trasportando il padre avvolto nella mirra per seppellirlo nel santuario; lo trasporta così: prima con la mirra fabbrica un uovo grande quanto è in grado di sollevare; dopo alcuni voli di prova lo svuota e vi introduce il padre; poi spalma altra mirra sul buco usato per svuotare l'uovo e per farvi entrare il padre; l'uovo con dentro il padre pesa quanto pesava prima; a questo punto lo trasporta in Egitto al tempio del dio Elio. Questo farebbe la fenice, a quanto riferiscono. Nella zona di Tebe sono sacri dei serpenti del tutto innocui per l'uomo e di dimensioni assai ridotte che portano due corni sulla sommità della testa; quando muoiono li seppelliscono nel tempio di Zeus: dicono infatti che sono sacri al dio. C'è una località in Arabia, pressappoco di fronte alla città di Buto, dove mi sono recato per ottenere informazioni a proposito dei serpenti alati. Quando vi giunsi vidi resti e scheletri di rettili in quantità indescrivibili: interi cumuli di spine dorsali, un gran numero di cumuli grandi, piccoli e di medie dimensioni. La località dove le ossa giacciono ammucchiate si presenta così: un passaggio fra anguste montagne verso un'ampia pianura, pianura che è collegata alla piana d'Egitto. Si racconta che all'inizio della primavera i serpenti alati volano dall'Arabia in direzione dell'Egitto, ma che gli ibis li affrontano all'ingresso di questa regione e impediscono loro di entrare, anzi ne fanno strage. A ciò gli Arabi fanno risalire il grande onore tributato agli ibis dagli Egiziani; e gli Egiziani stessi sono d'accordo nello spiegare così il rispetto che portano agli ibis. L'ibis, di aspetto, è un uccello del tutto nero con zampe simili alle zampe di una gru e becco assai ricurvo; la taglia è quella di una gallinella. Così si presentano gli ibis neri, quelli che combattono contro i serpenti alati; ma le specie di ibis sono due, e quella che gli uomini si trovano tra i piedi è così: ha nudi la testa e il collo, tutte bianche le piume tranne che sul capo, sulla gola e sulla punta delle ali e della coda, dove sono al contrario perfettamente nere; per zampe e sagoma è simile all'altra specie. L'aspetto dei serpenti è simile a quello delle idre; hanno ali senza penne, molto simili alle ali del pipistrello. E quanto ho detto basti sul conto degli animali sacri. Gli Egiziani residenti nella parte seminata dell'Egitto sono i più dotti fra tutti coloro con cui io abbia mai avuto a che fare, perché coltivano memoria dell'umanità intera. Essi hanno il seguente sistema di vita: si purgano per tre giorni consecutivi al mese cercando la salute con emetici e clismi intestinali, convinti che dai cibi di cui si nutrono derivino agli uomini tutte le malattie. In effetti gli Egiziani sono inoltre la popolazione più sana al mondo dopo i Libici, e ciò a mio parere a causa delle stagioni , cioè per l'assenza di mutamenti di stagione; le malattie degli uomini hanno origine per lo più nei cambiamenti, e in particolare nei cambi di stagione. Si cibano di pane preparato con farina di olira, che chiamano "killestis"; bevono vino d'orzo perché nel loro paese non hanno viti; mangiano pesci crudi e seccati al sole o conservati sotto sale. Fra gli uccelli mangiano quaglie, anatre e uccellini, crudi e sotto sale; tutti gli altri uccelli e pesci che possiedono, tranne quelli considerati sacri, li mangiano arrosto o lessi. Alle riunioni dei benestanti, appena si è finito di mangiare, un uomo porta in giro una scultura di legno raffigurante un cadavere nella sua bara, imitato alla perfezione nell'intaglio e nei colori, e lungo in tutto uno o due cubiti, e mostrandolo a ciascuno dei convitati dice: "Guardalo e bevi e divertiti: quando sarai morto anche tu sarai così". Questo fanno quando sono riuniti per bere. Conservano le loro usanze nazionali e non ne acquisiscono di nuove. Tra le varie notevoli tradizioni si segnala l'esistenza di un unico canto, il canto di Lino, lo stesso presente in Fenicia, a Cipro e altrove: il nome è diverso presso ciascuna popolazione, ma si è d'accordo nel ritenerlo lo stesso cantato dai Greci sotto il nome di Lino; cosicché tra tante altre cose d'Egitto che mi incuriosivano c'era anche l'origine di questo canto. L'impressione è che l'abbiano sempre cantato; in egiziano Lino si chiama Manero. Alcuni Egiziani mi hanno raccontato che Manero fu l'unico figlio del primo re dell'Egitto; alla sua morte prematura gli Egiziani cantarono in suo onore questi lamenti funebri, che furono il loro primo e unico tipo di canto. Un'altra usanza gli Egiziani hanno in comune con i Greci, o meglio con gli Spartani: quando dei giovani incontrano per strada persone più anziane cedono il passo, si scostano e al loro arrivo si alzano se erano seduti. Diversa assolutamente dall'uso greco è l'abitudine di inchinarsi abbassando la mano fino al ginocchio, invece di scambiarsi semplicemente un saluto, per strada. Vestono tuniche di lino chiamate "calasiri", ornate di frange intorno alle gambe; sopra le tuniche indossano mantelli di lana bianca, ma non possono portarli dentro un tempio e usarli nel corredo funebre: non è infatti consentito. In questo vanno d'accordo con i precetti denominati Orfici e Bacchici, che sono in realtà egiziani, e Pitagorici: chi è iniziato a tali misteri commette empietà se si fa seppellire con vesti di lana. In proposito esiste un racconto sacro. Agli Egiziani risalgono le seguenti altre scoperte: a quale dio appartengono ciascun mese e ciascun giorno, e, sulla base del giorno di nascita, quali eventi gli capiteranno, come terminerà la vita e quale personalità avrà; di tali scoperte si valsero quanti fra i Greci si dedicarono alla poesia. Da soli hanno individuato effetti miracolosi più di tutti gli altri uomini messi assieme; perché dopo il verificarsi di un prodigio osservano con attenzione l'avvenimento che ne consegue e lo registrano, sicché, quando poi si verifica qualcosa di simile, ritengono che si ripeterà lo stesso avvenimento. L'arte della divinazione in Egitto è così fatta: non si attribuisce a nessun uomo, ma spetta ad alcune divinità. E infatti in Egitto esistono oracoli di Eracle, di Apollo, di Atena, di Artemide, di Ares e di Zeus, nonché di Latona, nella città di Buto, l'oracolo che fra tutti gode della maggiore considerazione. Le tecniche di predizione non sono ovunque le stesse, ma differiscono fra loro. L'arte medica in Egitto è così suddivisa: ogni medico cura una e una sola malattia; e ci sono medici dappertutto: alcuni curano gli occhi, altri la testa, altri i denti, altri le affezioni del ventre, altri ancora le malattie oscure. Ed ecco come si svolgono lamentazioni funebri e funerali: quando in una casa viene a mancare un uomo di una certa importanza, tutte le donne della casa si impiastricciano di fango la testa o anche il volto; poi, lasciando il morto nella casa, girano succinte e a seno scoperto per la città battendosi il petto e con loro tutte le donne del parentado. Anche gli uomini si battono il petto succinti, ma separatamente. Fatto ciò, portano il cadavere all'imbalsamazione. In Egitto esistono persone depositarie di tale tecnica funeraria che svolgono questa mansione. Costoro, quando ricevono un cadavere, mostrano a quelli che l'hanno portato un campionario di salme di legno, rese somiglianti con la pittura; e li informano che la più accurata imbalsamazione è quella di colui il cui nome non mi è lecito riferire in una simile circostanza, poi mostrano la seconda che è inferiore e meno costosa e infine la terza che è la meno cara; e parlando chiedono ai clienti con quale tipo desiderino che il loro morto sia trattato. I clienti si mettono d'accordo sul prezzo e se ne vanno, ed essi, senza muoversi dai loro laboratori, imbalsamano, nel modo più accurato, come segue: per prima cosa con ferri uncinati, attraverso le narici, estraggono il cervello; in parte usano questi ferri, ma si aiutano anche con acidi. Poi con un'affilata pietra etiopica aprono il cadavere all'altezza dell'addome e ne asportano tutto l'intestino; quindi lo puliscono, lo cospargono di vino di palma e poi ancora lo purificano con varie sostanze aromatiche in polvere. Infine riempiono il ventre con mirra pura in polvere, con cassia e con tutti gli altri aromi, a eccezione dell'incenso, e lo ricuciono. Terminata questa operazione, disseccano il cadavere tenendolo a bagno nel nitro per settanta giorni; tenervelo per un tempo maggiore non è assolutamente consigliato. Trascorsi i settanta giorni, risciacquano il cadavere e lo avvolgono interamente con bende tagliate da una tela di bisso e spalmate di gomma (in genere gli Egiziani usano tale gomma al posto della colla). A questo punto se lo riprendono i parenti, che fanno costruire una bara di legno a figura umana e dopo averla fatta vi rinchiudono il morto; così com'è poi, chiuso in questa bara, lo ripongono in una camera sepolcrale, sistemandolo in piedi contro la parete. Questo è il sistema più costoso per imbalsamare i cadaveri; preparano invece come segue chi desidera la maniera media per evitare una spesa elevata: preparano clisteri di olio di cedro con cui riempiono il ventre del morto senza operare tagli e senza asportare l'intestino; li introducono per via rettale e impediscono poi la fuoriuscita dei liquidi; quindi disseccano il cadavere per i giorni stabiliti e allo scadere fanno uscire dal ventre il cedro che vi avevano immesso. Questo ha una tale efficacia che porta via con sé l'intestino e le viscere ormai dissolte; a loro volta le carni vengono consumate dal nitro, sicché del cadavere non restano che la pelle e le ossa. Fatto ciò riconsegnano il cadavere così com'è, senza prendersene ulteriore cura. Il terzo sistema di imbalsamazione è quello che prepara le persone più povere. Purificano gli intestini con l'erba sirmea, fanno disseccare il cadavere per i settanta giorni e lo consegnano da portar via. Le mogli dei personaggi più illustri non vengono mandate all'imbalsamazione immediatamente dopo la morte, e così pure le donne di particolare bellezza o di una certa condizione: lasciano passare due o tre giorni e poi le consegnano agli imbalsamatori. Agiscono così per impedire che gli imbalsamatori abbiano rapporti fisici con queste donne; pare infatti che una volta uno di loro sia stato sorpreso mentre si univa carnalmente con il cadavere di una donna morta da poco; lo denunciò un collega di lavoro. Se un Egiziano o anche uno straniero viene ghermito dai coccodrilli o dalla corrente stessa del fiume e il suo cadavere ricompare, gli abitanti della città dove esso approda devono assolutamente provvedere a imbalsamarlo e a dargli sepoltura nel modo più onorevole possibile, in loculi sacri. Nessuno può toccare questa salma, né parente, né amico, né altro: soltanto i sacerdoti del dio Nilo possono dargli sepoltura con le loro mani, perché è considerato qualcosa di più che un semplice cadavere. Gli Egiziani rifuggono dall'adottare usi greci, o meglio per dirla intera, costumi di qualunque altro popolo. Questa in Egitto è la norma generale, ma nel territorio di Tebe vicino a Neapoli, in una grande città chiamata Chemmi sorge un tempio di forma quadrangolare e circondato da palmizi dedicato a Perseo, figlio di Danae: il santuario ha propilei costruiti con pietre di grandi dimensioni; oltre i propilei si trovano due statue in pietra, assai alte. All'interno di questa area sacra sorge il tempio vero e proprio, che a sua volta contiene una statua di Perseo. Gli abitanti di Chemmi sostengono che Perseo appare spesso nel loro paese e spesso all'interno del tempio; che vi si trova un sandalo calzato da lui, lungo due cubiti, e che, quando Perseo si mostra, tutto l'Egitto gode di prosperità. Questo è quanto dicono di Perseo; ed ecco quanto fanno in suo onore, alla maniera dei Greci: indicono giochi ginnici completi di tutte le specialità, stabilendo come premi capi di bestiame, mantelli e pelli. Quando io chiesi perché mai Perseo si mostrasse abitualmente solo a loro e per quale motivo avessero istituito gare ginniche a differenza di tutti gli altri Egiziani, mi risposero che Perseo era originario della loro città perché Danao e Linceo erano di Chemmi e poi si recarono in Grecia per mare; dai due poi le varie generazioni discesero fino a Perseo. Quando Perseo giunse in Egitto, per la stessa ragione indicata anche dai Greci, cioè per portare dalla Libia la testa della Gorgone, si sarebbe fermato presso di loro e vi avrebbe riconosciuti tutti i propri parenti; quando giunse in Egitto già gli era nota la città di Chemmi almeno di nome, avendone sentito parlare dalla madre: allora celebrarono per lui i giochi ginnici, obbedendo a un suo ordine. Tutte queste usanze appartengono alle popolazioni egiziane al di sopra delle paludi; invece quanti abitano nella regione delle paludi hanno gli stessi costumi degli altri Egiziani; fra l'altro ciascuno di loro può sposare una sola donna, come in Grecia. E per procurarsi da vivere a buon mercato hanno studiato varie soluzioni. Quando il fiume è in piena e la pianura assume l'aspetto del mare aperto, nell'acqua spuntano numerosi fiori di un giglio che gli Egiziani chiamano loto; essi li raccolgono e li fanno seccare al sole, quindi ne estraggono la parte centrale, simile a quella del papavero, la tritano e ne fanno pani cotti sul fuoco. Anche la radice del loto è commestibile, è un bulbo sferico delle dimensioni di una mela e di sapore dolciastro. Vi sono anche altri gigli, simili a rose, che spuntano essi pure nel fiume e il cui frutto si sviluppa su un altro gambo, separato dal principale ma spuntato dalla medesima radice; a vederlo è molto simile a un nido di vespe; nel frutto si trovano moltissimi semi commestibili, grandi come noccioli di oliva, che si mangiano freschi o secchi. Quando estraggono dalle paludi il papiro, che cresce in un anno, tagliano e mettono da parte per altri usi la sua parte superiore; di quella inferiore, per circa un cubito di lunghezza, si cibano e fanno commercio. Chi desidera fare il migliore uso del papiro lo abbrustolisce entro un forno rovente e se lo mangia così. Alcuni di loro si nutrono esclusivamente di pesce: lo catturano, lo sventrano, lo fanno seccare al sole e poi lo consumano così com'è, secco. I pesci che vivono in branchi non nascono nei fiumi, crescono nelle paludi e tengono il seguente comportamento: quando si manifesta in loro l'istinto di riproduzione, si dirigono a frotte verso il mare; i maschi precedono il branco spargendo il loro seme, le femmine seguendoli lo inghiottono al volo e ne rimangono fecondate; dopo aver concepito in mare, tornano tutti indietro ciascuno ai luoghi abituali. Ma non sono più i maschi a capeggiare il branco, la guida tocca ora alle femmine; ed esse nel tornare a frotte si comportano come facevano i maschi: espellono le loro uova, raggruppate in piccoli ammassi, e i maschi che vengono dietro se le divorano. Le uova sono pesci: infatti, fra le uova superstiti che non sono state divorate, quelle che si sviluppano diventano pesci. I pesci catturati mentre si trasferiscono in mare presentano come una ammaccatura sulla parte sinistra della testa, quelli catturati sulla via del ritorno la presentano invece sul lato destro; ciò si verifica perché nuotano verso il mare tenendosi vicini alla riva sulla loro sinistra, e tornano indietro facendo la stessa cosa sulla loro destra; rasentano, e arrivano a urtare la riva, più che altro per non essere trascinati fuori rotta dalla corrente. Quando il Nilo è all'inizio della piena, le concavità del terreno e le depressioni lungo il fiume sono le prime a cominciare a colmarsi dell'acqua che vi filtra dal fiume: non appena colme, subito si riempiono dappertutto di piccoli pesciolini. Io credo di indovinare da dove è probabile che essi vengano: ogni anno quando il fiume si ritira anche i pesci se ne vanno con le ultime acque, ma lasciano le loro uova nella fanghiglia; l'anno dopo, quando l'acqua ritorna, ecco che subito da quelle uova nascono i pesci. E sui pesci basti così. Gli Egiziani residenti nelle zone paludose usano un olio ricavato dal frutto del ricino; lo chiamano "kiki" e lo preparano come segue: lungo le rive dei canali e dei laghi seminano questi ricini, che in Grecia crescono spontanei allo stato selvatico; in Egitto vengono seminati e producono molti frutti maleodoranti: una volta raccolti c'è chi li batte e li spreme con il torchio, c'è invece chi li fa abbrustolire e bollire e poi ne raccoglie il succo derivato; è un olio grasso e adatto alle lampade non meno di quello di oliva, ma emana un odore assai sgradevole. Contro le zanzare, che sono numerosissime, hanno studiato vari rimedi. Quanti abitano al di là delle paludi trovano sollievo grazie a delle torri, su cui salgono per andare a dormire: le zanzare a causa del vento non sono in grado di volare oltre una certa altezza. Invece quanti vivono proprio nelle zone paludose al posto delle torri hanno studiato un altro sistema; ognuno di loro possiede una rete, che di giorno serve per la pesca e di notte invece si usa così: l'appendono tutta intorno al letto in cui si va a riposare e poi vi si infilano sotto per dormire; le zanzare, che riescono a punzecchiarti anche se dormi avvolto in un mantello o in un lenzuolo, attraverso questa reticella non ci provano neppure. Le loro navi mercantili sono costruite con legno di acacia; questo albero somiglia moltissimo al loto di Cirene, eccetto per la gomma che ne sgocciola. Dall'acacia ricavano tavole di due cubiti che uniscono come fossero mattoni costruendo la barca come segue: fissano le assi di due cubiti intorno a fitte e lunghe caviglie; fabbricato così lo scafo vi sistemano sopra i banchi. Queste imbarcazioni non hanno costole e le giunture vengono calafatate con papiro; il timone è uno solo e attraversa la carena; hanno l'albero in legno di acacia e vele di papiro. Tali battelli non sono in grado di risalire il fiume a meno che non soffi un forte vento, perciò vengono trascinati da riva; invece quando seguono la corrente procedono così: sono muniti di un graticcio, formato da rami di tamerici intrecciati con fuscelli di canne, e di una pietra forata pesante circa due talenti: si cala il graticcio, assicurato con una fune davanti all'imbarcazione perché la trascini, e la pietra, a poppa, legata ad un'altra fune. Il graticcio, spinto dalla forza della corrente avanza velocemente e tira la "baris" (tale è il nome di queste imbarcazioni); di dietro la pietra, trascinata a una certa profondità, mantiene rettilinea la navigazione. Di queste imbarcazioni ve ne sono in grande quantità e alcune trasportano molte migliaia di talenti di carico. Quando il Nilo inonda il paese, dalle acque emergono soltanto le città, molto simili alle isole nel Mare Egeo. Solo le città emergono, tutto il resto del territorio egiziano si trasforma in una distesa d'acqua. Allora non si naviga più lungo i rami del fiume, bensì attraverso la pianura; per andare da Naucrati a Menfi si passa accanto alle piramidi, mentre la rotta abituale tocca il vertice del Delta e la città di Cercasoro; navigando attraverso la pianura verso Naucrati, a partire dal mare all'altezza di Canobo, si passa accanto alla città di Antilla e a quella cosiddetta di Arcandro. Delle due, Antilla, un centro notevole, è stata scelta per la fornitura dei calzari alla moglie dei re che si succedono al trono; ciò accade da quando l'Egitto è sottomesso ai Persiani. L'altra città a mio parere prende il nome dal genero di Danao, Arcandro, figlio di Ftio e nipote di Acheo: si chiama appunto Arcandropoli; forse si tratta di un altro Arcandro, ma il nome in ogni caso non è di origine egiziana. Tutto ciò che ho riferito fino ad ora era il risultato della mia visione diretta delle cose, o di una mia indagine o era una mia opinione; d'ora in avanti verrò a riferire racconti di Egiziani così come li ho uditi: al più aggiungerò qualche particolare ricavato dalla mia osservazione dei fatti. I sacerdoti mi dissero che Mina, il primo re dell'Egitto, protesse Menfi con argini; il fiume scorreva interamente lungo le montagne di sabbia situate in direzione della Libia: Mina con degli sbarramenti deviò a gomito il fiume verso sud, un centinaio di stadi a monte di Menfi, facendo prosciugare l'antico letto e incanalando il fiume perché scorresse in mezzo alle montagne. Ancora adesso all'altezza di quest'ansa del Nilo i Persiani sorvegliano con cura che il fiume scorra lungo i nuovi argini; e li rinforzano annualmente, perché, se il fiume dovesse romperli e straripare in questo punto, l'intera Menfi rischierebbe di finire sommersa. Mina, il primo re, bonificò il terreno sottratto al fiume e vi fondò una città, proprio l'attuale Menfi (anche Menfi effettivamente sorge nella parte stretta dell'Egitto); poi intorno alla città, verso nord e verso ovest fece scavare un lago alimentato dal fiume (il lato est è già delimitato dal Nilo); in città eresse un santuario di Efesto, grande e degno di molta considerazione. I sacerdoti poi mi elencarono da un loro libro i nomi di altri 330 re; fra così tante generazioni diciotto erano di origine etiopica, gli altri erano tutti Egiziani, compresa l'unica donna. La donna che sedette sul trono d'Egitto si chiamava Nitocri, come la regina babilonese. Di lei mi raccontarono come vendicò il fratello; lui era re d'Egitto quando gli Egiziani lo uccisero e affidarono il potere nelle mani di Nitocri, ma lei per vendicarlo macchinò un inganno e compì una strage di Egiziani. Fece costruire una grande sala sotterranea, poi, ufficialmente per inaugurarla, ma in realtà meditando in animo ben altro, vi invitò a banchetto molte persone, quelle che sapeva maggiormente implicate nell'assassinio; e mentre pranzavano, attraverso una grande conduttura segreta, rovesciò su di loro le acque del fiume. Questo è quanto mi raccontarono di lei, aggiungendo solo che, compiuta la sua vendetta, si buttò giù in una stanza piena di cenere per sfuggire alle rappresaglie. Gli altri sovrani, mi dissero, non si erano distinti minimamente; in effetti non mi citarono nessuna opera dovuta a qualcuno di loro, se si fa eccezione per Meride, l'ultimo della serie, il quale innalzò a ricordo di sé i propilei del tempio di Efesto che guardano verso settentrione; e fu lui a realizzare un lago artificiale, della cui estensione parlerò più avanti; nell'invaso innalzò piramidi; quanto fossero grandi tali piramidi lo preciserò al momento di soffermarmi sulle dimensioni del lago. Queste furono le opere realizzate da Meride; degli altri non avevano nulla da menzionare. Io dunque li tralascerò per menzionare invece il re salito al potere dopo di loro, che si chiamava Sesostri. Di Sesostri i sacerdoti mi raccontarono che per primo si mosse con una flotta di lunghe navi dal Golfo d'Arabia per soggiogare le popolazioni insediate lungo le coste del Mare Eritreo; avanzò con le sue navi finché raggiunse un braccio di mare non più navigabile a causa dei bassi fondali. Se ne tornò allora di là in Egitto, dove, secondo il racconto dei sacerdoti, raccolse un numeroso esercito e marciò attraverso il continente, sottomettendo ogni popolazione che gli si parava sul cammino. Quando si imbatteva in popoli valorosi e particolarmente attaccati alla propria libertà, sul posto lasciava delle stele con iscrizioni che ricordavano il suo nome, la sua patria e come li avesse soggiogati con il suo esercito; quando si vedeva consegnare le città senza combattere e prontamente, incideva sulle stele lo stesso discorso riservato ai popoli valorosi, ma vi aggiungeva l'immagine degli organi sessuali femminili; intendeva così rendere chiaro che quelle erano genti imbelli. Così facendo attraversò l'intero continente, poi passò dall'Asia in Europa e assoggettò gli Sciti e i Traci. Queste mi sembrano le regioni estreme toccate dall'esercito egiziano: in effetti nel paese degli Sciti e dei Traci si vedono ancora erette delle stele commemorative, che spingendosi oltre non si vedono più. Di là ritirandosi tornò indietro e raggiunse il fiume Fasi dove non saprei dire con certezza se fu il re Sesostri personalmente a distaccare una parte del suo esercito e a lasciarla sul posto per colonizzare la regione, oppure se alcuni soldati decisero di stabilirsi nei dintorni del Fasi, stanchi di girovagare con il loro re. È chiaro comunque che gli abitanti della Colchide sono di origine egiziana: io lo avevo pensato prima ancora di sentirlo dire da altri. E come mi venne in testa l'idea, condussi un'indagine fra le due popolazioni; ne risultò che i Colchi conservavano memoria degli Egiziani più che gli Egiziani dei Colchi; ma gli Egiziani ritenevano, così dissero, che i Colchi discendessero da una parte dall'esercito di Sesostri. Io me ne ero già accorto per conto mio: i Colchi hanno la pelle scura e i capelli crespi (cosa che, per la verità, non permette di trarre nessuna conclusione certa, dal momento che anche altre popolazioni presentano queste caratteristiche); ma decisiva mi era parsa la constatazione che Colchi, Egiziani ed Etiopi sono gli unici popoli a praticare la circoncisione fin dalle origini. Gli stessi Fenici e i Siri della Palestina ammettono di averla derivata dagli Egiziani; i Siri del fiume Termodonte e del Partenio e i Macroni loro confinanti dichiarano di avere appreso tale uso dai Colchi e di recente. Questi sono i soli popoli a praticare la circoncisione e tutti chiaramente rifacendosi agli Egiziani. Fra Egiziani ed Etiopi non saprei dire chi abbia imparato da chi, perché in entrambi i casi si tratta evidentemente di una istituzione antica. Ma del fatto che tutti gli altri l'abbiano appresa per aver avuto frequenti relazioni con l'Egitto, io possiedo una prova decisiva: tutti i Fenici che hanno contatti con la Grecia non seguono più le usanze egiziane e non circoncidono più i loro figli. E già che ci siamo citerò un ulteriore particolare che avvicina i Colchi agli Egiziani: sono i soli due popoli a lavorare il lino nella stessa maniera. E nell'insieme il loro sistema di vita, come le loro lingue, si assomigliano. Il lino dei Colchi dai Greci è chiamato "sardonico", mentre quello proveniente dall'Egitto è detto "egiziano". La maggior parte delle stele fatte erigere dal re dell'Egitto Sesostri non sopravvive più ai nostri occhi, ma nella Siria Palestina io stesso ne ho viste di superstiti, con le iscrizioni suddette, e i genitali femminili. Nella Ionia restano anche due bassorilievi raffiguranti Sesostri, scolpiti nella roccia, uno sulla strada che porta da Efeso a Focea l'altro sulla strada da Sardi a Smirne; in entrambi è raffigurato un uomo alto quattro cubiti e mezzo che stringe nella mano destra una lancia e nella sinistra un arco e che porta così ripartito anche il resto dell'abbigliamento, metà egiziano e metà etiopico: una iscrizione in geroglifici egiziani è incisa sul suo petto, da una spalla all'altra, e dice: "Io con queste mie spalle mi sono conquistato questo paese"; chi sia e da dove venga il personaggio in questione l'iscrizione qui non lo spiega, l'ha indicato altrove. Alcuni di quelli che l'hanno vista avanzano l'ipotesi che l'immagine raffiguri Memnone, ma sono molto lontani dalla verità. Come raccontavano i sacerdoti, l'egiziano Sesostri, mentre ritornava in Egitto conducendo con sé molti prigionieri appartenenti alle popolazioni da lui sottomesse, si trovò a un certo punto del cammino a Dafne Pelusica, dove suo fratello (era il fratello a cui Sesostri aveva affidato il governo temporaneo dell'Egitto) invitò lui e i figli a un banchetto e poi fece ammassare cataste di legna intorno alla casa e vi appiccò il fuoco. Come se ne accorse, Sesostri si consigliò con la moglie (l'aveva infatti con sé) ed essa gli suggerì di gettare due dei loro figli (che erano sei in tutto) sulle cataste incendiate e di mettersi in salvo camminando sui loro corpi come su di un ponte; così fece Sesostri: due figli dunque morirono tra le fiamme, mentre gli altri si salvarono con il padre. Tornato in Egitto e vendicatosi del fratello, ecco poi come utilizzò la massa di individui che aveva condotta con sé dai paesi sottomessi: li adibì al traino di quelle pietre di dimensioni spropositate che furono trasportate fino al tempio di Efesto sotto il suo regno; e li obbligò a scavare tutti i canali oggi esistenti in Egitto; contro il loro volere trasformarono così l'Egitto, prima interamente percorribile a cavallo o con carri, in un paese tutto diverso. Da allora infatti l'Egitto, pur essendo del tutto pianeggiante, è diventato intransitabile per chi proceda a cavallo o con un carro, e ciò proprio per via dei canali, numerosi e rivolti in ogni direzione. Ma ecco la ragione per cui il re fece tagliare con canali il territorio: tutti gli Egiziani residenti in città lontane dal fiume, nell'interno, ogni volta che cessava la piena del Nilo, rimanevano privi di acqua e si servivano perciò di acque salmastre che attingevano dai pozzi; ecco perché l'Egitto fu solcato da canali. I sacerdoti mi dissero che Sesostri ripartì il territorio fra tutti gli Egiziani, assegnando a ciascuno un lotto di forma quadrangolare di uguali dimensioni: poi si garantì le entrate fissando un tributo da pagarsi con cadenza annuale. Se a qualcuno il fiume sottraeva una parte del lotto, c'era la possibilità di segnalare l'accaduto presentandosi al re in persona: questi inviava dei tecnici a verificare e a misurare con esattezza la diminuzione di terreno, affinché il proprietario potesse per il futuro pagare il tributo in giusta proporzione. Scoperta, mi pare, per questa ragione, la geometria passò poi dall'Egitto in Grecia. La meridiana, lo gnomone e la suddivisione della giornata in dodici parti i Greci li hanno appresi invece dai Babilonesi. Sesostri fu l'unico re egiziano a regnare anche sull'Etiopia; in ricordo di sé lasciò davanti al tempio di Efesto due grandi statue di pietra di trenta cubiti, raffiguranti lui e la moglie, e altre quattro dei figli, di venti cubiti ciascuna. Molto tempo più tardi il sacerdote di Efesto non permise a Dario il Persiano di erigere accanto a esse una sua statua; negava che Dario avesse compiuto imprese pari a quelle di Sesostri, l'Egiziano: Sesostri aveva sottomesso non meno popolazioni di Dario, ma in più anche gli Sciti che Dario invece non era stato capace di assoggettare, pertanto non sarebbe stato giusto collocare di fronte ai monumenti dedicati a Sesostri la statua di uno che non aveva superato le sue imprese. E pare che Dario, di fronte a questa argomentazione, lo abbia perdonato. I sacerdoti mi raccontavano che, morto Sesostri, ricevette il regno suo figlio Ferone; e che questi non compì alcuna impresa militare: gli capitò anzi di diventare cieco per la ragione che ora esporrò. Una volta il fiume si ingrossò fino a raggiungere una altezza di 18 cubiti, tanto da sommergere le coltivazioni e, levatosi un forte vento improvviso, il fiume divenne agitato; pare allora che il re con un gesto avventato ed esecrando, impugnata una lancia, l'abbia scagliata fra i gorghi del fiume; subito dopo cadde ammalato e diventò cieco. Tale rimase per dieci anni; all'undicesimo gli pervenne un oracolo dalla città di Buto: il tempo della punizione era terminato e avrebbe riavuto la vista lavandosi gli occhi con l'orina di una donna che avesse avuto rapporti soltanto col proprio marito e non avesse mai conosciuto altri uomini. Il re provò prima con sua moglie, poi, dato che restava cieco, con molte altre donne, una dietro l'altra. Quando riebbe la vista, radunò in una sola città, ora chiamata Eritrebolo, le donne con cui aveva fatto la prova, fuorché quella con la cui orina s'era lavato quando aveva recuperato la vista; dopo averle radunate le fece bruciare tutte, insieme con la città. La donna poi con la cui orina s'era lavato riacquistando la vista, se la tenne come moglie. Una volta guarito dalla malattia agli occhi, consacrò vari ex-voto in tutti i principali santuari: il più considerevole è quello dedicato nel santuario di Elio, davvero degno di ammirazione: due obelischi di pietra, monolitici entrambi, alti ciascuno cento cubiti e larghi otto. A Ferone succedette nel regno, raccontavano, un uomo di Menfi, il cui nome greco è Proteo; a Menfi esiste un suo santuario molto bello e ottimamente arredato, situato a sud del tempio di Efesto. Intorno al santuario abitano dei Fenici di Tiro; e tutta insieme questa località è denominata Campo dei Tiri. Nel santuario di Proteo sorge un tempio detto di Afrodite Straniera: io credo che sia un tempio di Elena figlia di Tindaro, sia perché ho udito raccontare che Elena soggiornò presso Proteo, sia perché lo chiamano di Afrodite Straniera; e in nessuno dei templi a lei dedicati, per tanti che siano, Afrodite viene detta "Straniera". Interrogati da me in proposito, i sacerdoti mi raccontarono, su Elena, che le cose erano andate così: dopo aver rapito Elena da Sparta, Alessandro fece rotta verso il proprio paese, ma, giunto nel Mare Egeo, i venti contrari lo spinsero fino al Mare d'Egitto; di qui (i venti non cessavano) arrivò in Egitto e precisamente alla foce di quel ramo del Nilo oggi chiamato Canobico e alle Tarichee. C'era sulla spiaggia, e c'è ancora, un tempio di Eracle: chi vi si rifugia, di chiunque sia servo, se si fa imprimere il santo marchio consacrando se stesso al dio, non può più essere toccato; tale regola si è conservata identica dalle origini fino ai giorni nostri. Insomma alcuni servi infidi di Alessandro, venuti a sapere della norma in vigore nel tempio, sedutisi come supplici del dio denunciarono Alessandro: con l'intenzione di rovinarlo raccontarono tutta la storia di Elena e il torto commesso ai danni di Menelao. Pronunciarono le loro accuse di fronte ai sacerdoti e di fronte al guardiano del ramo Canobico, che si chiamava Toni. Toni udì le accuse e subito, con la massima sollecitudine, inviò a Menfi un messaggio indirizzato a Proteo, che diceva così: "È giunto uno straniero di stirpe Teucra, autore in Grecia di una azione nefanda: ha sedotto la moglie del suo ospite e ora è qui, con lei, e con ingenti ricchezze, trascinato nel tuo paese dalla forza dei venti. Dobbiamo lasciarlo andare impunito oppure requisirgli quanto si è portato dietro fino a qui?". Proteo inviò una risposta di questo tenore: "Quell'uomo, chiunque sia, che ha agito da empio nei confronti del suo ospite, prendetelo e portatelo davanti a me. Voglio proprio vedere che cosa mai potrà dire". Appresa la risposta, Toni cattura Alessandro e gli sequestra le navi, quindi lo conduce a Menfi insieme con Elena e con i tesori, e assieme anche ai supplici. Quando ebbe tutti di fronte a sé, Proteo chiese ad Alessandro chi fosse e da quali mari venisse; quello gli elencò i suoi antenati, disse il nome della sua patria e spiegò la rotta seguita dalle sue navi. Poi il re gli chiese dove avesse preso Elena e, poiché Alessandro divagava nel discorso e non diceva la verità, i servi che si erano fatti supplici lo accusarono denunciando per filo e per segno il suo misfatto. Per ultimo parlò Proteo: "Quanto a me, - disse - se non considerassi fondamentale non uccidere nessuno degli stranieri che arrivano nel mio paese trascinati dai venti, io prenderei vendetta su di te per il Greco; tu sei un miserabile: dopo aver ricevuto i doni di ospitalità hai compiuto una azione così empia! Accostarsi alla moglie dell'ospite! E questo ancora non ti è bastato: l'hai istigata alla fuga e te la sei portata via, l'hai rapita. Ma neppure questo ti è bastato: hai saccheggiato la casa del tuo ospite prima di partire. Ora dunque, anche se mi guardo bene dall'uccidere uno straniero, non per questo ti lascerò condurre via la donna e le ricchezze: le terrò in custodia per l'ospite greco, fino a quando lui stesso vorrà venirsele a riprendere. Quanto a te e ai tuoi compagni di viaggio vi concedo tre giorni per lasciare il mio paese e trasferirvi altrove, altrimenti vi tratteremo come nemici". |[continua]| |[LIBRO II, 3]| Così dunque i sacerdoti raccontano l'arrivo di Elena presso Proteo; a mio parere questa versione era nota anche a Omero, ma per la composizione del suo poema epico non si prestava altrettanto di quella da lui accolta; ecco perché la trascurò pur palesando di esserne a conoscenza: lo si capisce da come nell'Iliade Omero racconta del girovagare di Alessandro (e in nessun altro punto si smentisce): di come fu portato dai venti, avendo con sé Elena, vagando di qua e di là e di come giunse a Sidone, in Fenicia; ne parla nelle gesta di Diomede, ecco i versi: dov'erano i mantelli ricamati, opera di quelle donne di Sidone che Alessandro stesso, simile a un dio, da Sidone aveva portato con sé navigando sull'ampia distesa del mare, proprio nel viaggio in cui condusse la nobile Elena. [E ne parla anche nell'Odissea, come segue: La figlia di Zeus possedeva queste pozioni sapienti ottimi farmaci che le aveva fornito Polidamna, la moglie di Toni, in Egitto, là dove una fertile terra produce erbe medicinali, in gran numero, le buone mescolate alle velenose. E ancora ecco le parole rivolte da Menelao a Telemaco: In Egitto gli dei mi trattennero, benché fossi impaziente di navigare fin qui, perché non gli avevo offerto perfette ecatombi.] In questi versi Omero fa capire di essere a conoscenza del viaggio in Egitto di Alessandro: infatti la Siria confina con l'Egitto e i Fenici, a cui appartiene Sidone, vivono nella Siria. E sulla base di questi versi e di questa indicazione di luogo si capisce altresì, con evidenza ancora maggiore, che i Canti Cipri non sono di Omero, bensì di un altro poeta; infatti in essi si dice che Alessandro giunse a Ilio con Elena, proveniente da Sparta, nello spazio di tre giorni, avendo trovato venti favorevoli e mare calmo; invece nell'Iliade si parla di un lungo girovagare insieme con lei. E qui si chiuda il discorso su Omero e sui Canti Cipri. Domandai ai sacerdoti se ciò che i Greci raccontano delle vicende di Ilio è falso o no, ed essi mi risposero citando quanto, a sentir loro, avevano appreso da Menelao in persona: dopo il ratto di Elena, dissero, un grande esercito greco aveva raggiunto la terra dei Teucri, in aiuto di Menelao; una volta sbarcato e accampato l'esercito, furono mandati a Ilio dei messaggeri, tra i quali lo stesso Menelao; essi entrarono nelle mura della città, reclamarono la restituzione di Elena e delle ricchezze che Alessandro aveva sottratto e si era portato via, e chiesero soddisfazione per i torti subiti. Ma i Troiani risposero allora come avrebbero sempre risposto anche in seguito, giurando e non giurando che Elena e i tesori non si trovavano lì bensì in Egitto; e non era giusto, dicevano, che dovessero rendere conto loro di quanto era in mano di Proteo, il re egiziano. I Greci, convinti di essere presi in giro, strinsero d'assedio la città, finché non la conquistarono; quando poi, espugnate le mura, non trovarono traccia di Elena e continuarono a sentirsi ripetere lo stesso discorso, allora ci credettero, e i Greci inviarono presso Proteo Menelao in persona. Menelao giunse in Egitto, risalì il fiume fino a Menfi, dove spiegò esattamente quanto era accaduto: allora ricevette grandi doni ospitali e poté riprendersi Elena, sana e salva, nonché tutte le sue ricchezze. Però Menelao, pur avendo ottenuto ciò si comportò da uomo ingiusto nei confronti degli Egiziani: le avverse condizioni del tempo gli impedivano di partire, mentre era già pronto a salpare; dato che il ritardo si protraeva, tramò una azione esecranda: prese due bambini, figli di gente del luogo, e li usò come vittime per un sacrificio; in seguito, quando si scoprì che aveva commesso tale delitto, fuggì con le sue navi in direzione della Libia, odiato e inseguito. Dove poi si sia diretto gli Egiziani non erano in grado di dirlo; di una parte dei fatti ammettevano di avere informazioni indirette, ma di quanto era successo nel loro paese vantavano una sicura conoscenza. Questo mi narrarono i sacerdoti egiziani; quanto a me sono d'accordo sulle notizie relative a Elena, sulla base di alcune considerazioni: se Elena si fosse trovata a Ilio l'avrebbero certamente riconsegnata ai Greci con o senza il consenso di Alessandro. Senza dubbio Priamo e gli altri suoi parenti non sarebbero stati così dementi da voler rischiare la propria esistenza e quella dei loro figli nonché la sopravvivenza dell'intera città, solo perché Alessandro potesse starsene con Elena. E anche ammesso che nei primi tempi la pensassero così, dopo che negli scontri con i Greci erano caduti molti Troiani e non c'era battaglia in cui non morissero almeno due o tre figli dello stesso Priamo, o magari anche di più, a basarsi sul racconto dei poemi epici, io voglio credere che, in circostanze del genere, anche se fosse stato lui in persona a vivere con Elena, Priamo l'avrebbe restituita pur di liberarsi di tutte le sventure che lo affliggevano. Né il regno era destinato a passare nelle mani di Alessandro; se Priamo era vecchio non toccava lo stesso a lui governare il paese: dopo la morte di Priamo il successore designato era Ettore, più anziano e più valoroso di Paride: e a lui non si addiceva certo rimettersi alle decisioni del fratello, che era nel torto; e tanto più quando, a causa sua, grandissime disgrazie stavano cadendo su di lui personalmente e su tutti gli altri Troiani. In realtà essi non erano in condizione di restituire Elena e i Greci non credevano ai Troiani benché dicessero la verità; anche perché, e questa è una mia interpretazione, così il dio aveva disposto le cose: che perendo tutti miseramente dimostrassero al mondo come a colpe grandi rispondano grandi castighi da parte degli dei. Questa almeno è la mia opinione. I sacerdoti mi dissero che a Proteo succedette nel regno Rampsinito, il quale lasciò a ricordo di sé i propilei occidentali del tempio di Efesto; davanti ai propilei eresse due statue, alte 25 cubiti: gli Egiziani chiamano "estate" quella posta più a nord e "inverno" quella più a sud; adorano e colmano di onori la statua "estate" , mentre fanno tutto il contrario nei confronti della statua "inverno". Rampsinito dispose di una enorme quantità di denaro, quale nessuno dei re venuto dopo di lui riuscì mai a superare e anzi neppure a uguagliare. Volendo conservare in un luogo sicuro tanta ricchezza, fece costruire una stanza di pietra che aveva una delle pareti confinante con l'esterno della reggia; ma il costruttore tramando insidie escogitò un suo piano: sistemò una delle pietre in modo che fosse facilmente estraibile dal muro, sia da due che da una sola persona. Quando la camera fu pronta, il re vi depositò le sue ricchezze. Tempo dopo il costruttore, ormai in punto di morte, chiamò i suoi figli (erano due) e raccontò come, pensando al loro futuro, a procurar loro un'esistenza agiata, fosse ricorso a un'astuzia nel costruire la stanza del tesoro reale. Spiegò con chiarezza il sistema per rimuovere la pietra e ne diede le esatte misure, aggiungendo che se avessero seguito esattamente le sue istruzioni sarebbero diventati custodi dei beni del re. Quindi morì e i suoi figli non rimandarono a lungo l'impresa: una notte si avvicinarono alla reggia, individuarono la pietra nell'edificio, la spostarono facilmente e fecero man bassa delle ricchezze. Il re, quando gli capitò di aprire il tesoro, si stupì di vedere gli orci non più colmi di tesori; né sapeva chi incolpare dato che i sigilli erano intatti e la stanza ben chiusa. Ma quando due o tre volte ancora a entrare nella stanza le ricchezze apparivano sempre di meno (infatti i ladri non smettevano di venire a rubare), ecco come agì: ordinò di preparare delle trappole e di disporle fra gli orci contenenti i suoi averi. Vennero di nuovo i ladri, come le altre volte, e uno di loro si introdusse nel tesoro; ma non appena si accostò ad un orcio subito rimase preso nella trappola; si rese conto del guaio in cui si trovava, chiamò il fratello, gli spiegò la situazione e lo esortò a entrare al più presto e a tagliargli la testa: non voleva, una volta visto e riconosciuto, coinvolgere nella rovina anche il fratello. Questi comprese la bontà della proposta, si convinse e la mise in opera. Poi ricollocò al suo posto la pietra e tornò a casa, portando con sé la testa del fratello. Quando fu giorno, il re entrò nella stanza e rimase sbalordito a vedere il cadavere decapitato del ladro bloccato nella trappola e la camera intatta, senza alcuna via di entrata o di uscita. Incapace di trovare una spiegazione, agì come segue: fece appendere al muro del palazzo il corpo del ladro e vi mise a guardia degli uomini con l'ordine di arrestare e condurre di fronte al re chiunque vedessero piangere o disperarsi. La madre non riuscì a tollerare che il corpo restasse appeso e parlò con il figlio superstite, ordinandogli di studiare la maniera, in qualche modo, di slegare il corpo del fratello e di portarlo via; se non l'avesse fatto minacciava di andare dal re a denunciarlo quale possessore delle ricchezze. Il figlio superstite vistosi così minacciato e incapace, nonostante i molti tentativi, di far cambiare parere a sua madre, ricorse a uno stratagemma. Tenne pronti degli asini, e avendo riempito di vino degli otri li caricò sugli asini che poi spinse davanti a sé; quando fu vicino ai guardiani del cadavere appeso, tirando due o tre cinghie degli otri ne sciolse la legatura; il vino si versava e lui allora si batteva la testa, lamentandosi a gran voce, fingendo di non sapere verso quale asino volgersi per primo; le sentinelle, visto scorrere tutto quel vino, si precipitarono in strada portando recipienti e raccoglievano il vino versato, considerandola una gran fortuna. Quello cominciò a litigare aspramente con tutti loro, simulando rabbia; ma poi, poco per volta, calmato dalle sentinelle, finse di mettersi il cuore in pace e di deporre la sua ira; infine spinse lui stesso gli asini fuori di strada per risistemare il carico; cominciarono a chiacchierare, a scherzare, a ridere finché il ladro regalò ai guardiani uno degli otri; ed essi, così come erano, si sdraiarono pensando solo a bere, invitarono con loro il ladro e lo esortarono a fermarsi per bere tutti in compagnia; il giovane obbedì e rimase con loro; visto poi che tra una bevuta e l'altra lo trattavano con grande familiarità, offrì loro anche un altro otre: a forza di generose libagioni le sentinelle si ubriacarono completamente e, vinte dal sonno, si addormentarono proprio là dove bevevano. Il ladro, non appena fu notte inoltrata, slegò il corpo del fratello e a maggior scorno delle guardie rase loro la guancia destra; caricò il cadavere sugli asini e li spinse verso casa: aveva perfettamente eseguito gli ordini della madre. Il re, quando gli comunicarono che il cadavere del ladro era stato trafugato, si adirò moltissimo e volendo a ogni costo scoprire l'autore di tutte quelle astuzie fece una cosa che a me sembra incredibile: mise sua figlia in un postribolo ordinandole di accettare qualunque uomo senza eccezioni, ma di costringerli tutti, prima di concedersi, a raccontarle l'azione più astuta e scellerata che mai avessero commesso in vita loro; doveva trattenere e non lasciare uscire più dalla casa la persona che le avesse narrato i fatti relativi a quel furto. La ragazza seguì i comandi del padre, ma il ladro, venuto a sapere lo scopo della cosa e volendo superare il re in astuzia, fece così: recise un braccio all'altezza della spalla al cadavere di un individuo morto da poco e tenendolo nascosto sotto il mantello si recò dalla figlia del re; interrogato come gli altri, narrò di aver compiuto l'impresa più empia quando aveva decapitato il fratello impigliato in una trappola nella stanza del tesoro reale, e la più astuta quando aveva ubriacato le sentinelle e slegato il cadavere appeso del fratello. Come lo udì la ragazza gli si accostò, ma il ladro nel buio le porse il braccio del morto: lei lo ghermì e lo tenne stretto credendo di aver afferrato la mano del ladro, il quale invece lasciandole il braccio fuggì tranquillamente attraverso la porta. Quando tutto ciò gli fu riferito, il re rimase impressionato dalla scaltrezza e dal coraggio dimostrati dallo sconosciuto; infine inviò messaggi in ogni città promettendo l'impunità e anche ricchi doni se si fosse presentato al suo cospetto: il ladro credette alla parola del re e venne da lui. Rampsinito, pieno di ammirazione, gli diede sua figlia in moglie giudicandolo l'uomo più intelligente della terra: perché gli Egiziani a suo parere erano superiori a tutti gli altri uomini, e lui era il primo degli Egiziani. Narrato questo episodio, i sacerdoti mi dissero che Rampsinito era disceso vivo nel luogo detto Ade dai Greci, dove avrebbe giocato a dadi con Demetra, ora vincendo ora perdendo; poi sarebbe ricomparso sulla terra portando con sé come dono della dea un asciugamano d'oro. Dopo la discesa agli inferi di Rampsinito o meglio dopo il suo ritorno, sempre secondo i sacerdoti, gli Egiziani indissero una grande festa, che so celebrata ancora ai giorni nostri, anche se non sono in grado di confermarne l'origine. Il giorno stesso della festa i sacerdoti intessono un mantello, poi con una benda coprono gli occhi di uno di loro e quindi lo conducono, vestito di quel mantello, sulla strada che porta al tempio di Demetra; poi se ne tornano via; il sacerdote, con gli occhi bendati, viene guidato da due lupi, dicono, fino al tempio di Demetra, lontano dalla città venti stadi; gli stessi lupi lo riaccompagnerebbero indietro dal tempio fino al punto di prima. Accetti pure questi racconti egiziani chi li giudica credibili; quanto a me il mio unico scopo in tutta la mia opera è di registrare, come l'ho udito, quello che ciascuno racconta. A sentire gli Egiziani i re dell'oltretomba sono Demetra e Dioniso. E gli Egiziani furono i primi a sostenere che l'anima è immortale e che trasmigra, perito il corpo, in un altro essere vivente, che sta nascendo a sua volta; dopo essere passata attraverso tutti gli animali terrestri e acquatici, e alati, l'anima trasmigrerebbe nuovamente nel corpo di un uomo: il ciclo si compierebbe nell'arco di tremila anni. Questa teoria fu poi ripresa da alcuni Greci, in varie epoche, come se si fosse trattato di una loro scoperta: io ne conosco i nomi, ma non li scrivo. Fino al regno di Rampsinito, mi dicevano i sacerdoti, l'Egitto godette di una ottima amministrazione e di una grande prosperità; ma Cheope, che regnò dopo di lui, gettò il paese in una gravissima situazione; per prima cosa Cheope chiuse tutti i templi e vietò i sacrifici, poi costrinse tutti gli Egiziani a lavorare per lui. Ad alcuni impose di trascinare pietre dalle cave situate nelle montagne d'Arabia fino al Nilo; ad altri assegnò di ricevere le pietre, trasportate su navi attraverso il fiume, e di trainarle a loro volta fino al monte chiamato Libico. Ai lavori partecipavano sempre 100.000 uomini per volta in turni di tre mesi. In termini di tempo ci vollero dieci anni di duro lavoro collettivo per la costruzione della strada su cui trainare le pietre, opera a mio parere che ha poco da invidiare alla piramide stessa (è lunga cinque stadi, larga dieci orgie, l'altezza nel punto più elevato raggiunge le otto orgie, è realizzata con pietre levigate e vi sono incise figure animali). Dieci anni occorsero per la strada e per l'allestimento delle camere sotterranee nell'altura su cui sorgono le piramidi: Cheope si fece costruire queste camere come sepoltura per sé in un'isola ricavata con un canale derivato dal Nilo. Per edificare la piramide occorsero venti anni: ognuna delle sue quattro facce ha la base di otto pletri, e altrettanto misura in altezza; essa è completamente fatta di blocchi di pietra levigati e perfettamente connessi fra loro: nessuna delle pietre misura meno di trenta piedi. La piramide fu realizzata a gradini, detti crossai da alcuni e bomides da altri. Quando la ebbero costruita così, con macchine di corti legni sollevarono le pietre rimanenti dal livello del suolo al primo ripiano. Dopo che era stata alzata sul primo la pietra veniva affidata a una seconda macchina posta sul primo ripiano, e questa la sollevava fino al secondo gradino su una terza macchina: le macchine erano in numero pari ai gradini, ma poteva anche esserci un unico macchinario, sempre lo stesso, facilmente trasportabile da un ripiano all'altro, ogni volta che la pietra fosse stata levata. Devo riferire entrambe le versioni perché entrambe vengono narrate. Dapprima fu ultimata la parte più alta della piramide, poi le altre in successione, per ultimi il piano sopra il livello del suolo e il gradino più basso. Una iscrizione in caratteri egizi sulla piramide dichiara quanto fu speso in rafani, cipolle e aglio per i lavoratori e, se ben ricordo le parole dell'interprete che mi lesse l'iscrizione, la cifra ammontava a 1600 talenti di argento. Se questa cifra è esatta, quanto altro denaro deve essere stato speso per i ferri di lavoro, per il mantenimento e per le vesti degli operai? Tanto più che se impiegarono il tempo suddetto per la realizzazione delle opere, altro ne occorse, io credo, per tagliare le pietre, per il loro trasporto e per lo scavo sotterraneo. Cheope in difficoltà economiche sarebbe giunto a tanta infamia da mandare la figlia in un postribolo con l'ordine di incassare una determinata cifra di denaro; non ne conosco l'entità perché i sacerdoti non me lo riferirono; la ragazza ricavò la somma richiesta dal padre e per conto suo pensò di lasciare memoria di sé, chiedendo a ciascuno dei suoi clienti di donarle una pietra: con queste pietre, a quanto mi dissero, si fece costruire la piramide posta in mezzo alle altre tre e di fronte alla più grande; ogni lato di essa misura un pletro e mezzo. Gli Egiziani mi dissero che Cheope regnò sull'Egitto per cinquanta anni; alla sua morte il potere passò nelle mani del fratello Chefren. Chefren si comportò esattamente come il suo predecessore: fra l'altro si fece costruire anche lui una piramide, ma non delle dimensioni di quella di Cheope (noi l'abbiamo personalmente misurata): non possiede vani sotterranei e non c'è un canale che porti fino ad essa le acque del Nilo come accade per l'altra piramide; il Nilo infatti attraverso un condotto artificiale circonda un isolotto dove pare che Cheope sia seppellito. Dopo aver costruito il primo ripiano in granito etiopico di vari colori, eresse la propria piramide accanto all'altra, la grande, ma restando quaranta piedi di meno in altezza. Sorgono entrambe sullo stesso colle, alto all'incirca un centinaio di piedi. Mi dissero che Chefren regnò per 56 anni. E calcolano così a 106 gli anni di totale miseria per gli Egiziani: inoltre per tutto questo periodo i templi che erano stati chiusi non vennero mai riaperti. Gli Egiziani non amano ricordare il nome di questi due re, tanto è l'odio che nutrono verso di loro; persino le piramidi le chiamano dal nome del pastore Filiti, che all'epoca faceva pascolare le sue greggi da quelle parti. Dopo Chefren regnò sull'Egitto Micerino, figlio di Cheope; a Micerino non piaceva l'operato del padre: allora riaprì i templi e consentì al popolo, ormai ridotto alla estrema miseria, di tornare ai propri lavori e alle proprie pratiche religiose; inoltre dirimeva le cause con senso di giustizia più forte di tutti i re precedenti. Per questa sua attività gli Egiziani lodano Micerino più di tutti i re succedutisi sul trono fino ad oggi; in effetti, oltre a emettere sempre eccellenti sentenze, donava denaro proprio a chi risultasse insoddisfatto della sua decisione, per placarne il risentimento. A Micerino, re mite nei confronti dei sudditi e che si comportava come ho detto, capitarono una serie di sventure: la prima fu la morte dell'unica sua figlia. Profondamente addolorato dalla sciagura che gli era piombata addosso, volle seppellire la figlia in una maniera assolutamente eccezionale: fece costruire una vacca di legno, cava, la fece rivestire interamente d'oro e vi introdusse la salma della figlia. Questa vacca non fu poi calata nella terra, ma lasciata a Sais dentro la reggia in una stanza decorata, dove era visibile ancora ai miei tempi; tutti i giorni vi bruciano aromi di ogni genere, e ogni notte, vi arde una lampada costantemente accesa. In un'altra stanza, a poca distanza dalla vacca, si trovano le statue delle concubine di Micerino, così perlomeno dicevano i sacerdoti della città di Sais. Ci sono infatti alcune enormi statue di legno, una ventina circa, raffiguranti dei nudi femminili; nulla posso dire circa la loro identità, oltre a ciò che si racconta. Alcuni narrano a proposito della vacca e delle statue la seguente leggenda: Micerino si innamorò della figlia e la costrinse a unirsi con lui; dicono inoltre che subito dopo, per il dolore, la ragazza si impiccò; mentre il padre provvedeva a seppellirla nella vacca, la madre fece tagliare le mani alle ancelle che avevano consegnato sua figlia nelle mani del padre; e ora appunto le statue di queste ancelle avrebbero patito la punizione subita da loro vive. Ma a mio parere dicono delle sciocchezze, sia nel resto sia nel dettaglio delle mani delle statue; ho potuto constatare personalmente che si sono staccate a causa dell'azione del tempo: erano ancora visibili all'epoca della mia visita, per terra, ai piedi delle statue. Il corpo della vacca è coperto da un tessuto di porpora da cui spuntano il collo e la testa, chiaramente rivestiti di uno spesso strato d'oro: in mezzo alle corna è effigiato in oro il disco del sole. La vacca non è dritta in piedi ma giace sulle ginocchia: le sue dimensioni sono quelle di un grosso esemplare vivo. Una volta all'anno viene portata fuori dalla stanza, nei giorni in cui gli Egiziani si battono il petto in onore del dio che preferisco non nominare in questo momento; allora portano alla luce del sole anche la vacca: sembra sia stata la ragazza stessa, in punto di morte, a chiedere al padre di vedere il sole una volta all'anno. Dopo la scomparsa della figlia, un'altra sventura colpì il re: un oracolo proveniente dalla città di Buto gli predisse solo sei anni di vita: sarebbe morto nel settimo. Molto contrariato il re inviò all'oracolo un messaggio di biasimo per il dio: suo padre e suo zio, - così rinfacciava Micerino all'oracolo - erano vissuti molto a lungo benché avessero chiuso i templi, si fossero scordati degli dei e avessero fatto morire la gente, mentre lui, che si era comportato devotamente, presto avrebbe dovuto morire. E dall'oracolo gli venne un secondo responso; proprio per questo gli era stata accorciata l'esistenza: non aveva agito come doveva, perché bisognava che l'Egitto patisse sciagure per 150 anni. I suoi due predecessori lo avevano capito, lui invece no. Udito ciò Micerino, a cui il destino pareva ormai segnato, si fece fabbricare molte lampade: ogni volta che scendeva la notte le accendeva e si abbandonava al bere e alle baldorie, senza smettere né di giorno né di notte, vagando tra i boschi o le paludi e ovunque accertasse l'esistenza di luoghi di divertimento. Voleva così dimostrare che l'oracolo mentiva e aumentarsi da sei a dodici gli anni di vita, trasformando le notti in giorni. Anche questo re lasciò una piramide, molto più piccola di quella del padre: misura su ciascun lato tre pletri meno venti piedi, ha base di forma quadrangolare ed è per metà in pietra etiopica. Alcuni Greci attribuiscono questa piramide a Rodopi, la cortigiana, ma non è vero: costoro secondo me parlano senza neppure sapere chi era Rodopi, altrimenti non potrebbero attribuirle la costruzione di una piramide come quella che costa migliaia di talenti, una cifra per così dire incalcolabile; inoltre Rodopi godette il massimo splendore all'epoca del re Amasi e non sotto il regno di Micerino, vale a dire parecchi anni dopo i re che lasciarono queste piramidi; Rodopi era di stirpe tracia, schiava di Iadmone di Samo, figlio di Efestopoli, e compagna di schiavitù di Esopo, il favolista. Anche Esopo infatti fu schiavo di Iadmone; lo dimostra senz'altro il fatto seguente: quando già varie volte i cittadini di Delfi in seguito a un oracolo avevano diffuso un bando, cercando chi volesse riscuotere il compenso dovuto per la vita di Esopo, fu un Iadmone, nipote appunto di quel Iadmone, a farsi avanti, non altri; ciò dimostra che Esopo era appartenuto a Iadmone. Rodopi giunse in Egitto al seguito di Xanto di Samo, vi giunse per esercitarvi l'antica professione, e vi fu riscattata per una somma enorme da un uomo di Mitilene, Carasso, figlio di Scamandronimo e fratello della poetessa Saffo. Divenuta in tal modo libera, Rodopi rimase in Egitto e siccome era molto attraente riuscì ad arricchirsi, ma quanto basta per essere una Rodopi, non certo per permettersi una piramide come quella. Ancora oggi chiunque lo voglia può valutare coi propri occhi la decima dei suoi averi, e non è proprio il caso di attribuirle spropositate ricchezze. Infatti Rodopi volle lasciare in Grecia memoria di sé ordinando che le venissero allestiti oggetti mai escogitati per una offerta a un tempio; e volle dedicarli a Delfi a ricordo di sé. Con la decima parte dei suoi averi fece fondere numerosi spiedi di ferro, da bue, quanti ne consentiva quella somma, e li mandò a Delfi. Ancora oggi essi si trovano accatastati dietro l'altare donato dagli abitanti di Chio, di fronte alla cella del tempio. Generalmente le grandi prostitute di Naucrati sono molto attraenti: già Rodopi, la pro tagonista del nostro discorso, divenne tanto famosa che tutti i Greci ne conobbero il nome; più tardi, dopo di lei divenne celebre in tutta la Grecia una certa Archidice, anche se costituì meno argomento di conversazione. Quanto a Carasso, dopo aver riscattato Rodopi, tornò a Mitilene, e Saffo lo rimproverò duramente in un carme. Ma su Rodopi ormai ho terminato. I sacerdoti raccontavano ancora che dopo Micerino divenne re Asichi; Asichi eresse i propilei orientali del tempio di Efesto, che sono di gran lunga i più belli e imponenti. Tutti i propilei presentano bassorilievi e infinite meraviglie architettoniche, ma quelli li superano largamente. Sotto il regno di Asichi, narravano, essendo scarsa la circolazione di denaro, fu promulgata per gli Egiziani una legge in base alla quale era consentito ricevere un prestito a chi desse in pegno il cadavere del padre. A tale legge se ne aggiunse poi un'altra: il creditore poteva diventare proprietario dell'intera tomba del debitore, il quale appunto, se aveva concesso quel tipo di garanzia e rifiutava poi di restituire il prestito, come sanzione perdeva il diritto di essere seppellito, dopo morto, nella tomba di famiglia o in un'altra qualunque; né poteva dar sepoltura ad alcuno dei suoi. Asichi, volendo superare tutti i re suoi predecessori sul trono dell'Egitto, lasciò in ricordo di sé una piramide di mattoni, sulla quale campeggiava una lapide con incise queste parole: "Non disprezzarmi a confronto con le piramidi di pietra: io sono superiore ad esse quanto Zeus è superiore agli altri dei, perché hanno immerso una pertica nel lago e con il fango ad essa rimasto attaccato hanno fatto dei mattoni e così mi hanno costruito". Queste furono tutte le imprese di Asichi. Dopo di lui salì al trono un cieco della città di Anisi, che si chiamava a sua volta Anisi. Sotto questo sovrano mosse contro l'Egitto un forte contingente di Etiopi guidati dal re Sabacos. Allora il cieco Anisi fuggì in direzione delle paludi; l'Etiope regnò sull'Egitto per cinquanta anni durante i quali si regolò come segue: quando un Egiziano commetteva qualche crimine, non voleva mandarlo a morte, ma gli assegnava una pena proporzionata alla gravità del reato, imponendo a ciascun colpevole di compiere lavori di terrazzamento nella sua città natale. E in tal modo le città divennero ancora più alte; i primi lavori di questo tipo si erano avuti all'epoca del re Sesostri, in seguito allo scavo dei canali, per la seconda volta si fecero durante il regno dell'Etiope; e le città furono elevate di molto. Fra le tante città egiziane che vennero rialzate quella a mio parere dove i terrazzamenti furono più cospicui fu Bubasti, dove sorge anche il notevolissimo tempio della dea Bubasti: esistono certamente altri santuari più grandi di questo, ma nessuno è altrettanto bello da visitare. La dea Bubasti è l'equivalente della dea greca Artemide. Il suo santuario si presenta così: all'infuori della strada di accesso tutto il resto è un'isola: in effetti dal Nilo due canali si spingono paralleli fino all'ingresso del tempio dove divergono per scorrere intorno al santuario uno da una parte, uno dall'altra; ciascuno dei canali è largo 100 piedi ed è ombreggiato da file di alberi. I propilei raggiungono le dieci orgie in altezza e sono ornati di figure scolpite alte sei piedi, degne di essere ricordate. Il tempio, trovandosi nel centro della città, è visibile in basso da qualunque punto circostante, perché mentre la città è stata rialzata con terrapieni, il tempio invece non è mai stato toccato da quando fu costruito; e quindi risulta in bella vista. Lo circonda un muro di cinta ornato di bassorilievi al cui interno si trova un boschetto di altissimi alberi intorno alla grande cella dove è racchiusa la statua della dea; in lunghezza e in larghezza il santuario misura uno stadio. Davanti all'ingresso c'è una strada lastricata di pietra, lunga circa tre stadi e larga circa quattro pletri: attraversa la piazza della città e procede verso oriente. Su entrambi i lati della strada, che porta al tempio di Ermes, crescono alberi che si levano fino al cielo. Così è il tempio di Bubasti. Ecco come i sacerdoti raccontavano la definitiva partenza dell'Etiope; fu una vera e propria fuga dovuta a una visione apparsagli in sogno: aveva sognato che un uomo, accanto a lui, gli consigliava di radunare tutti insieme i sacerdoti egiziani e di farli tagliare a metà. Avuta questa visione dichiarò che a suo parere gli dei gli offrivano un pretesto perché si macchiasse di empietà e venisse a patire sventure da parte degli dei e degli uomini; perciò non avrebbe obbedito; tanto più che era arrivato il tempo, predettogli da un oracolo, di ritirarsi dopo aver regnato sull'Egitto. Infatti quando ancora stava in Etiopia gli oracoli consultati abitualmente dagli Etiopi gli avevano profetizzato cinquanta anni di regno sull'Egitto. Siccome dunque questo tempo era trascorso e dato che il sogno notturno lo aveva sconvolto, Sabacos di sua spontanea volontà si ritirò dall'Egitto. |[continua]| |[LIBRO II, 4]| Dopo la partenza dell'Etiope prese di nuovo a regnare sull'Egitto il sovrano cieco, tornato dalle paludi dove per cinquanta anni aveva vissuto in un isolotto da lui stesso formato con terra e cenere; infatti ogni volta che gli Egiziani venivano a portargli del cibo, secondo gli ordini e all'insaputa del re etiope, chiedeva loro di portargli in dono anche un po' di cenere. Nessuno riuscì a scoprire quest'isola prima di Amirteo: per più di settecento anni i predecessori del re Amirteo non furono capaci di trovarla; l'isola si chiama Elbo e misura dieci stadi in ogni direzione. Dopo Anisi salì al trono un sacerdote del tempio di Efesto, di nome Setone; costui non aveva nessuna considerazione per la classe dei guerrieri egiziani anzi li disprezzava, pensando forse di non dover mai avere bisogno di loro; fra le altre angherie che impose loro li privò dei terreni: sotto i re precedenti a ciascun guerriero era stato assegnato un lotto di dodici "arure". Più tardi, quando il re d'Arabia e d'Assiria Sennacherib mosse con un grande esercito contro l'Egitto, i guerrieri egiziani non vollero accorrere a difesa del paese. Allora il re sacerdote, ormai in una grave situazione, entrò nella sala del tempio a lamentarsi, di fronte alla statua del dio, delle sciagure che rischiava di subire; mentre si lamentava si addormentò e sognò che il dio, standogli accanto, lo rincuorasse: non gli sarebbe successo nulla di spiacevole se avesse affrontato l'esercito arabo, perché il dio in persona gli avrebbe mandato dei soccorsi. Fiducioso in quanto aveva sognato prese con sé tutti gli Egiziani disposti a seguirlo e si accampò presso Pelusio (dove appunto si trovano le vie di accesso all'Egitto). Nessun guerriero lo aveva seguito, soltanto bottegai, artigiani e mercanti. Quando sopraggiunsero, i nemici subirono, di notte, un'invasione di topi di campagna che rosicchiarono le loro faretre e gli archi e le cinghie degli scudi, sicché il giorno dopo, inermi ormai, si diedero alla fuga e caddero in gran numero. E oggi nel tempio di Efesto si trova una statua in pietra raffigurante questo sacerdote con in mano un topo, e con un'iscrizione che dice: "Guardate me e siate devoti agli dei". Fino a questo punto della storia le fonti sono state gli Egiziani e i loro sacerdoti; essi mi hanno spiegato che dall'epoca del primo re fino a questo sacerdote di Efesto, ultimo regnante, si erano avvicendate 341 generazioni umane e che in tale lungo arco di tempo altrettanti erano stati i sommi sacerdoti e i re. Ora, siccome tre generazioni compongono un secolo, 300 corrispondono a 10.000 anni; le 41 restanti (oltre le 300), corrispondono a 1340 anni; ebbene in 11.340 anni, - affermavano - mai nessun dio si mostrò in figura di uomo; e nulla di simile era mai accaduto prima né accadde dopo, fra gli altri che divennero re dell'Egitto. Inoltre dicevano che in questo lungo periodo il sole si era per quattro volte allontanato dal suo corso abituale: due volte sorse là dove di solito tramonta e due volte tramontò là dove di solito sorge. In questo periodo l'Egitto non ebbe a patire alterazioni di sorta, né per i prodotti agricoli né per i fenomeni connessi al fiume, né per quanto riguarda malattie o decessi. In precedenza, nei confronti dello storico Ecateo, che lì a Tebe aveva esposto la propria genealogia famigliare risalendo nel tempo per sedici generazioni fino a una origine divina, i sacerdoti di Zeus si erano comportati esattamente come nei miei confronti, ma io non avevo elencato le mie ascendenze: mi introdussero nella sala interna del tempio, vastissima, e mi enumerarono, mostrandole una per una, le colossali statue di legno colà presenti, tante quante ho già detto: ogni sommo sacerdote, infatti, erige in quella sala una propria statua. Contandole e esibendole mi spiegarono che erano tutti discendenti diretti l'uno dell'altro: cominciarono dal sacerdote morto più di recente procedendo a ritroso, di personaggio in personaggio, finché me li ebbero indicati tutti. A Ecateo, che aveva fatto risalire la propria famiglia a un dio attraverso sedici generazioni, essi opposero quella genealogia, così calcolata, e non accettarono, del discorso di Ecateo, l'origine divina di un uomo; la contrapposero sostenendo che ogni statua rappresentava un "piromi" nato da un altro "piromi"; le mostrarono tutte quante, 345, escludendo ogni relazione con gli dei o con gli eroi. "Piromi" corrisponde in lingua greca a "uomo bello e valoroso". Insomma tali erano i personaggi raffigurati in quelle immagini, mi precisarono, e ben diversi dagli dei. Invece prima di essi tutti i sovrani dell'Egitto erano dei, vissuti fra gli uomini: di volta in volta un dio si avvicendava al potere. L'ultimo a regnare sull'Egitto sarebbe stato Horo, figlio di Osiride, e corrispondente egiziano del greco Apollo; Horo aveva messo fine al regno di Tifone, dominando per ultimo. Osiride in lingua greca si chiamerebbe Dioniso. Fra i Greci gli dei più recenti sono ritenuti Eracle, Dioniso e Pan, invece fra gli Egiziani Pan è il più antico e appartiene al novero degli otto indicati come primi dei; Eracle invece è fra i secondi dei, detti i dodici, e Dioniso in quella terza serie originata dai dodici. Già ho precisato quanti anni, secondo gli Egiziani, siano trascorsi dall'epoca di Eracle a quella del re Amasi; da Pan dicono siano stati di più, da Dioniso meno, e calcolano 15.000 anni da lui fino al regno di Amasi. Gli Egiziani si dichiarano sicuri di queste informazioni, perché tengono costantemente il conto degli anni e lo registrano per iscritto. E dunque, dall'epoca del Dioniso che si dice sia nato da Semele, figlia di Cadmo, fino ai nostri giorni sarebbero trascorsi non più di 1000 [e 600] anni, da quella dell'Eracle figlio di Alcmena, circa 900, e dal Pan figlio di Penelope (nato appunto da Ermes e da Penelope, come asseriscono i Greci) fino a oggi meno anni di quelli che ci separano dalla guerra di Troia, ossia circa 800 anni. Ciascuno accolga pure delle due la versione che gli pare più convincente, io per me la mia opinione al riguardo l'ho già espressa. Se questi due individui, il Dioniso figlio di Semele e il Pan figlio di Penelope, fossero nati e invecchiati in Grecia come accadde per Eracle figlio di Anfitrione, allora li si potrebbe ugualmente ritenere degli esseri umani omonimi di divinità sorte ben prima di loro: ma i Greci narrano che questo Dioniso, appena concepito, fu cucito da Zeus in una sua coscia e portato a Nisa, cioè oltre l'Egitto, in Etiopia; quanto a Pan, poi, i Greci non sanno proprio dire dove sia andato a finire dopo essere venuto al mondo. A me perciò sembra chiaro che i Greci conobbero Dioniso e Pan più tardi degli altri dei e poi attribuirono la loro nascita all'epoca in cui ne avevano sentito parlare per la prima volta. Tutto ciò che precede è di fonte egiziana. Ora invece passo a esporre i racconti egiziani che concordano con notizie di altra provenienza sempre a proposito di questo paese; e vi aggiungerò anche qualche cosa constatata da me personalmente. Gli Egiziani, dopo il regno del sacerdote di Efesto, acquistarono la libertà; ma non erano assolutamente in grado di vivere neppure per breve tempo senza un sovrano, sicché insediarono dodici re, uno per ciascuna delle parti in cui avevano diviso l'intero territorio egiziano. Essi si legarono fra loro per mezzo di matrimoni e regnarono, attenendosi a queste norme: non si sarebbero sopraffatti a vicenda, non avrebbero aspirato a possedere ciascuno qualcosa più dell'altro, e insomma sarebbero rimasti amici in tutto e per tutto. Stabilirono le regole suddette e ad esse si attennero strettamente, perché appena insediati al potere gli era pervenuto un vaticinio: chi fra loro avesse libato con una coppa di bronzo dentro il tempio di Efesto sarebbe diventato re di tutto quanto il paese; bisogna sapere che essi si riunivano in tutti i santuari. A ricordo di sé decisero di lasciare un unico monumento in comune e fecero costruire il labirinto che si trova a sud del lago di Meride, all'altezza della cosiddetta città di "Coccodrilli". Io l'ho visto con i miei occhi ed è al di sopra di ogni possibilità di descrizione: anche a pensare di descrivere una per una tutte le mura e le costruzioni dei Greci, queste apparirebbero pur sempre inferiori, per lavoro e denaro occorsi, a questo labirinto. Certamente è notevole anche il tempio di Efeso, o quello di Samo; già le piramidi andavano oltre ogni descrizione e ciascuna di loro era capace di reggere il paragone con molte e anche imponenti opere greche; ma il labirinto davvero supera le piramidi. Esso si compone di dodici cortili coperti, contigui, con le porte opposte tra loro, sei rivolte verso nord e sei verso sud; un unico muro di cinta li separa dall'esterno. All'interno, su due piani, uno sotterraneo, l'altro superiore, si stendono 3000 stanze, 1500 per piano; le stanze del piano superiore le ho visitate e percorse personalmente, quindi posso parlarne per conoscenza diretta; su quelle sotterranee ho avuto solamente informazioni: gli addetti egiziani si rifiutarono di mostrarmele sostenendo che vi si trovano le sepolture dei re che furono i primi costruttori del labirinto e dei coccodrilli sacri. Pertanto posso parlare del piano inferiore solo basandomi su quanto mi hanno riferito; ma al piano superiore ho visto opere che travalicano i limiti dell'umano: le porte che collegano le varie stanze e le svariatissime tortuosità attraverso i cortili mi lasciarono a bocca aperta: passavo dal cortile alle stanze e dalle stanze ai porticati e dai porticati ad altre stanze e da esse ad altri cortili: il soffitto di tutte queste costruzioni è di pietra come pure le pareti, ma le pareti sono ricche di bassorilievi; ogni cortile è circondato da colonne di pietra bianca che si armonizzano alla perfezione. Vicino all'angolo dove termina il labirinto si innalza una piramide, quaranta orgie di base, che reca scolpite figure di grandi proporzioni; la via di accesso alla piramide è sotterranea. Benché il labirinto sia già straordinario ancora più meravigliati lascia il lago cosiddetto di Meride, presso il quale il labirinto è stato costruito; il perimetro del lago misura 3600 stadi, vale a dire sessanta scheni, una lunghezza pari all'intero sviluppo costiero egiziano; il lago si estende nel senso della lunghezza in direzione nord-sud e nel punto di massima profondità raggiunge le cinquanta orgie. Che si tratti di un bacino artificiale, opera di scavo, lo rivela il lago stesso: nel bel mezzo infatti vi sorgono due piramidi alte ciascuna cinquanta orgie sul livello dell'acqua; e altrettanto misura la parte sommersa. Sopra entrambe le piramidi c'è un colosso di pietra seduto sul trono. In questo modo l'altezza delle piramidi raggiunge le cento orgie; cento orgie corrispondono esattamente a uno stadio di sei pletri, visto che ogni orgia è pari a quattro cubiti o a sei piedi; piede e cubito corrispondono rispettivamente a quattro e sei palmi. L'acqua del lago non è di sorgente (quella zona del paese è terribilmente arida) ma vi è stata portata dal Nilo mediante un canale: per sei mesi all'anno l'acqua scorre verso il lago, per gli altri sei rifluisce nel letto del Nilo. Quando le acque defluiscono dal lago allora, in quei sei mesi, la pesca frutta alla reggia un talento d'argento al giorno; quando invece vi affluisce frutta soltanto venti mine. Gli abitanti del luogo dicevano anche che il lago è collegato con il golfo della Sirte in Libia per mezzo di un canale sotterraneo; il lato occidentale del lago si protende verso ovest nell'interno lungo la catena montuosa che sta sopra Menfi. Poiché non riuscivo a vedere dove mai fosse stata accumulata la terra dello scavo, e la cosa mi aveva incuriosito, chiesi a quelli che abitavano nei dintorni del lago dove si trovasse la terra scavata. Essi mi spiegarono dove era stata trasportata e mi convinsero facilmente; sapevo infatti, perché l'avevo sentito raccontare, che anche a Ninive, città degli Assiri, era avvenuto qualcosa di simile. Infatti dei ladri avevano concepito il progetto di rubare l'immenso tesoro, custodito in camere sotterranee, del re di Ninive Sardanapalo: essi, cominciando dalla loro casa e calcolando con precisione le distanze fino alla reggia, scavarono sottoterra una galleria e ogni notte andavano a scaricare la terra rimossa nel Tigri, che scorre a poca distanza da Ninive, finché non ebbero eseguito il loro piano. Un lavoro del genere, a quanto mi dissero, fu compiuto anche per lo scavo del lago egiziano, con la sola differenza che non fu realizzato di notte bensì alla luce del sole: gli Egiziani trasportarono il materiale estratto dallo scavo fino al Nilo che, ricevendolo, avrebbe pensato a disperderlo. Così fu realizzato, pare, l'invaso del lago. I dodici re esercitarono il potere comportandosi con giustizia; passato un certo tempo, una volta si riunirono per un sacrificio nel tempio di Efesto; nell'ultimo giorno della festa quando stavano per libare il sommo sacerdote, nel dare loro le coppe d'oro usate di solito per le libagioni, ne sbagliò il numero, distribuendone undici invece di dodici. Psammetico era l'ultimo della fila: rimasto senza coppa, si sfilò l'elmo di bronzo, lo porse e con esso libò. Anche gli altri re, tutti, portavano un elmo, e lo avevano allora in testa; Psammetico non porse il suo con l'intenzione di ingannare gli altri. Ed essi, quando ebbero collegato mentalmente il gesto di Psammetico con l'oracolo che era stato loro vaticinato (chi di loro avesse libato con una coppa di bronzo sarebbe diventato sovrano unico dell'intero Egitto), benché memori della profezia, non ritennero giusto uccidere Psammetico: si resero conto, interrogandolo a fondo, che non aveva agito con premeditazione, perciò decisero di privarlo della maggior parte del suo potere e di esiliarlo nelle paludi, col divieto di allontanarsi da lì e di avere contatti con il restante territorio egiziano. Questo Psammetico, in precedenza, era stato già una volta cacciato in esilio dal re Etiope Sabacos, che gli aveva ucciso il padre Necos; allora era riparato in Siria; poi, quando l'Etiope, dopo il sogno, si ritirò, gli Egiziani del nomo di Sais lo ricondussero in patria; più tardi, mentre era re, per la seconda volta e per colpa dell'elmo gli altri undici sovrani lo costrinsero in esilio, nelle paludi. Si ritenne vittima di un sopruso da parte dei suoi colleghi e pensò di vendicarsi di quanti lo avevano bandito. Mandò una delegazione a Buto all'oracolo di Latona, che per gli Egiziani è l'oracolo più veritiero, e ottenne un responso in base al quale la sua vendetta sarebbe venuta dal mare, quando fossero apparsi degli uomini di bronzo. Davvero lui non poteva credere che mai sarebbero accorsi in suo aiuto degli uomini di bronzo, ma, non molto tempo dopo, il destino volle che degli Ioni e dei Cari, salpati per fare della pirateria, fossero gettati sulle coste dell'Egitto; costoro sbarcarono a terra indossando armature di bronzo e qualcuno corse nelle paludi ad avvisare Psammetico: poiché non aveva mai visto prima degli uomini con armature di bronzo, il messaggero riferì che dal mare erano venuti uomini di bronzo a depredare la campagna. Psammetico comprese che l'oracolo si stava avverando: trattò da amici gli Ioni e i Cari e con grandi promesse li convinse a schierarsi con lui; poi, un po' col favore degli Egiziani disposti ad aiutarlo, un po' col soccorso di questi alleati, detronizzò i re avversari. Divenuto padrone di tutto quanto l'Egitto, Psammetico fece costruire in onore di Efesto i propilei meridionali a Menfi e di fronte ai propilei edificò per Api il cortile in cui Api viene nutrito quando si manifesti; il cortile è contornato da colonne e ricco di bassorilievi; non sono però propriamente colonne quelle che reggono il tetto, ma piuttosto colossali statue di dodici cubiti. Api corrisponde in lingua greca a Epafo. Agli Ioni e ai Cari che lo avevano aiutato Psammetico concesse di abitare due territori situati uno di fronte all'altro, separati dal Nilo, che presero il nome di "Accampamenti". Assegnò i territori e mantenne anche tutte le altre promesse. Inoltre affidò loro dei ragazzi egiziani perché imparassero la lingua greca; da questi ragazzi che appresero allora il greco discendono tutti gli attuali interpreti in Egitto. Ioni e Cari abitarono assai a lungo in questi territori situati lungo la costa un po' al disotto di Bubasti, presso la foce del Nilo detta Pelusio. Più tardi il re Amasi li tolse da quei territori e li trasferì a Menfi facendosene un corpo di guardia personale in luogo degli Egiziani. Costoro si stabilirono in Egitto e proprio grazie ai contatti intervenuti con essi noi Greci possiamo avere una esatta conoscenza delle cose d'Egitto, a partire dal regno di Psammetico in poi; Ioni e Cari furono i primi alloglotti a stabilirsi in Egitto. Nei luoghi da cui poi furono trasferiti a Menfi, ancora all'epoca della mia visita erano rimasti gli scivoli per calare in acqua le imbarcazioni e i ruderi delle abitazioni. E così Psammetico divenne padrone dell'Egitto. Varie volte ho fatto menzione dell'oracolo egiziano e ora bisogna che ne parli: è davvero un argomento degno di essere toccato. Questo oracolo [egiziano] è sacro a Latona: sorge in una grande città che si incontra risalendo il Nilo dal mare sul ramo detto Sebennitico. Il nome della città sede dell'oracolo è Buto, come già precedentemente ho ricordato; a Buto si trova anche un santuario di Apollo e di Artemide. Il tempio di Latona, sede dell'oracolo, è veramente imponente: i suoi propilei raggiungono un'altezza di dieci orgie; ma dirò quella che fra tutte le cose visibili mi procurò il maggior stupore: nell'area sacra a Latona c'è un tempio costituito da pareti monolitiche, identiche in lunghezza e in altezza; ogni spigolo misura quaranta cubiti; il tetto è formato da un'unica lastra di pietra con un aggetto di quattro cubiti. Questo tempio è per me fra tutte le cose visibili nell'area del santuario la più stupefacente. La seconda meraviglia è l'isola detta di Chemmi: essa è situata in un lago vasto e profondo, non lontano dal santuario di Buto, e a sentire gli Egiziani sarebbe un'isola galleggiante. Personalmente io non l'ho mai vista navigare né mai spostarsi minimamente e nel ricevere l'informazione mi ha lasciato molto perplesso la possibilità che esistano isole natanti. Comunque nell'isola sorge un grande tempio di Apollo con tre altari; su di essa crescono numerose palme e anche molte altre specie di alberi, da frutta e non da frutta. Gli Egiziani quando dicono che questa isola galleggia aggiungono anche un racconto: narrano che Latona, una delle prime otto divinità, abitava nella città di Buto, dove ora si trova il suo santuario: su quest'isola che prima era fissa ricevette in custodia Apollo dalle mani di Iside e ve lo tenne in salvo; lo nascondeva insomma nell'isola che ora ha fama di essere galleggiante, quando giunse Tifone che cercava ovunque pur di trovare il figlio di Osiride. Essi sostengono che Apollo e Artemide sono figli di Iside e di Dioniso e che Latona fu la loro nutrice e salvatrice. In egiziano Apollo corrisponde a Horo, Demetra a Iside e Artemide a Bubasti. Da questa leggenda e non da altre Eschilo figlio di Euforione trasse quanto vengo a dire, distinguendosi dai poeti suoi predecessori: fece che Artemide fosse figlia di Demetra. Ecco perché l'isola sarebbe divenuta galleggiante. Così almeno raccontano gli Egiziani. Psammetico regnò sull'Egitto per 54 anni, 29 dei quali li trascorse accampato in assedio della grande città di Azoto in Siria, finché non l'ebbe espugnata; Azoto, fra tutte le città a nostra conoscenza fu quella che resistette più a lungo a un assedio. Psammetico ebbe un figlio, Necos, che regnò sull'Egitto: costui per primo iniziò lo scavo del canale che si immette nel Mare Eritreo; il canale fu poi scavato in un secondo tempo dal Persiano Dario. È lungo quattro giorni di navigazione e fu realizzato talmente largo da consentire il passaggio contemporaneo a due triremi procedenti a remi. Il canale riceve l'acqua del Nilo; la riceve esattamente poco a sud di Bubasti non lontano dalla città araba di Patumo, e poi va a sfociare nel Mare Eritreo. Lo scavo cominciò nella piana d'Egitto dalla parte dell'Arabia; appena un po' al di sopra di essa inizia la catena montuosa che si sviluppa di fronte a Menfi, dove si trovano le cave di pietra. Il canale passa per lungo tratto alle falde di questa catena montuosa e si allunga da ovest a est, quindi si spinge verso le gole; dalle montagne piega poi verso il vento Noto, andando a sfociare nel Golfo d'Arabia. Dove la distanza è minore e la via è più breve per passare dal mare settentrionale a quello meridionale, detto anche Eritreo, vale a dire dal monte Casio che segna il confine fra l'Egitto e la Siria, fino al Golfo di Arabia, ci sono mille stadi. Mille stadi in linea d'aria, ma in realtà il canale è alquanto tortuoso e quindi molto più lungo. Nei lavori di scavo, avvenuti sotto il regno di Necos, perirono 120.000 Egiziani. Necos poi interruppe a metà i lavori: un oracolo gli impedì di continuare avvisandolo che stava lavorando a vantaggio del barbaro. Gli Egiziani chiamano barbari tutti quelli che non parlano la loro lingua. Abbandonato il taglio del canale, Necos si volse ad alcune spedizioni militari: triremi furono costruite sul mare settentrionale e altre sul Mare Eritreo nel Golfo di Arabia: ancora ne sono visibili gli scivoli di varo. Le navi venivano utilizzate in caso di necessità; con i Siri Necos combatté sulla terra ferma a Magdolo, dove risultò vincitore; dopo questo scontro conquistò Caditi, grande città della Siria. Allora dedicò ad Apollo la veste da lui indossata mentre compiva quelle imprese, inviandola al tempio dei Branchidi di Mileto. Dopo sedici anni in tutto di regno Necos morì lasciando il potere al figlio Psammi. Mentre Psammi regnava sull'Egitto vennero messaggeri da Elea che esaltavano i Giochi di Olimpia come i più belli e i meglio regolati del mondo, convinti che neppure gli Egiziani, cioè gli uomini più sapienti della terra, avrebbero mai saputo escogitare qualcosa di simile. Quando gli Elei giunti in Egitto ebbero esposta la ragione del loro arrivo, allora il re convocò gli Egiziani che passavano per i più sapienti; essi si riunirono e si informarono dagli Elei, minutamente, sul regolamento dei Giochi e delle gare; gli Elei esposero ogni dettaglio e dichiararono di essere venuti in Egitto per sapere se lì erano capaci di studiare un sistema più equo. Gli Egiziani si consultarono fra loro e infine domandarono agli Elei se i loro concittadini prendevano parte alle competizioni; ed essi risposero che era consentito di gareggiare a chiunque lo desiderasse, fosse Eleo o di un'altra regione della Grecia, senza discriminazioni. Allora gli Egiziani ribatterono che così facendo gli Elei avevano commesso una assoluta ingiustizia: non c'era infatti modo di evitare che favorissero un loro concittadino a danno dei forestieri. Se davvero volevano fissare delle regole eque e per questo motivo erano venuti in Egitto, li esortavano a indire Giochi riservati ai soli stranieri e a non permettere ad alcun cittadino di Elea di gareggiare. Questi furono i suggerimenti dati dagli Egiziani agli Elei. Psammi regnò solamente per sei anni; fece in tempo a combattere contro l'Etiopia e subito dopo morì; gli succedette suo figlio Aprieo il quale, dopo il bisnonno Psammetico, fu il più fortunato in confronto ai sovrani suoi predecessori: regnò per 25 anni durante i quali mosse con le sue truppe contro Sidone e combatté per mare contro il re di Tiro. Ma era destino che facesse una brutta fine; nei Racconti libici ne esporrò diffusamente la ragione, qui la riassumerò per sommi capi. Aprieo inviò un grande esercito contro i Cirenei e subì una grave sconfitta; gravissima: gli Egiziani gliela rimproverarono al punto da ribellarsi contro di lui; erano convinti che Aprieo li avesse consapevolmente inviati verso una prevedibile sciagura perché avvenisse una strage di Egiziani e lui potesse regnare con maggiore sicurezza sui sudditi restanti. Furiosi i sopravvissuti e gli amici degli scomparsi gli si ribellarono apertamente. Informato della cosa Aprieo inviò presso di loro Amasi perché con le sue parole li placasse. Amasi giunse presso i ribelli e cercava di dissuaderli dai loro propositi, ma poi, mentre parlava, un Egiziano, che era in piedi dietro di lui, gli pose sul capo un elmo e asserì che con questo gesto lo designava re. Il gesto non dovette andare troppo contro la volontà di Amasi a giudicare dal suo successivo comportamento: quando gli Egiziani lo ebbero eletto loro sovrano, si preparò alla guerra contro Aprieo. Informato di ciò, Aprieo inviò ad Amasi un uomo del suo seguito che godeva di un certo prestigio fra gli Egiziani: a Patarbemi, così si chiamava, ordinò di condurgli Amasi vivo. Patarbemi raggiunse Amasi e lo invitò a seguirlo, ma Amasi, per tutta risposta, si sollevò leggermente sulla sella (per caso era a cavallo), tirò un peto e invitò Patarbemi a riportare quello a Aprieo. Ciononostante Patarbemi insisteva nell'invitarlo a presentarsi al re che lo chiamava. Amasi gli rispose che era esattamente quanto già da tempo si preparava a fare: e Aprieo, aggiunse, non sarebbe stato scontento di lui, perché con sé avrebbe condotto molti altri. Patarbemi comprese il senso dell'affermazione e, vedendolo ormai pronto alla spedizione, decise di tornare dal re in gran fretta per comunicargli al più presto quanto stava accadendo. Ma quando tornò dal re senza Amasi, Aprieo senza concedergli di fornire spiegazioni e in preda all'ira, ordinò che gli fossero tagliate le orecchie e il naso. Gli altri Egiziani rimasti fedeli ad Aprieo, vedendo il più ragguardevole di loro trattato così sconciamente, senza por tempo in mezzo passarono dall'altra parte e si consegnarono ad Amasi. Appreso anche questo, Aprieo armò i mercenari e mosse contro gli Egiziani. Aveva con sé, come mercenari, 30.000 uomini fra Cari e Ioni. La sua reggia si trovava a Sais, era molto grande e degna di essere vista. Così Aprieo e i suoi marciarono contro gli Egiziani e Amasi e i suoi contro i mercenari; entrambi raggiunsero la città di Momenfi e si prepararono allo scontro. In Egitto la popolazione è divisa in sette classi: sacerdoti, guerrieri, bovari, porcari, commercianti, interpreti, piloti. Tante sono le classi egiziane, che prendono nome dai mestieri. Comunque i guerrieri sono anche detti Calasiri e Ermotibi e appartengono ai seguenti nomoi; tutto l'Egitto infatti è diviso in nómoi. Ecco i distretti degli Ermotibi: Busirite, Saite, Chemmite, Papremite, Isola di Prosopitide e a metà del distretto di Nato; provenienti da queste località gli Ermotibi nel momento di massima crescita raggiunsero il numero di 160.000. Nessuno di loro ha mai imparato altra professione: si dedicano solo alla guerra. Ed ecco i distretti dei Calasiri: Tebano, Bubastite, Aftite, Tanite, Mendesio, Sebennite, Atribite, Farbetite, Tmuite, Onufite, Anisio, Miecforite: quest'ultimo occupa un'isola di fronte alla città di Bubasti; provenienti dunque da queste località i Calasiri nel momento di massima crescita raggiunsero il numero di 250.000; neppure costoro possono praticare altre professioni, ma coltivano solo l'arte della guerra e se la trasmettono di padre in figlio. Non sono in grado di giudicare con certezza se anche questo uso i Greci lo hanno imparato dagli Egiziani; vedo che pure Traci, Sciti, Persiani, Lidi e quasi tutte le popolazioni barbare hanno minor considerazione per i cittadini che apprendano un mestiere e per i loro figli, mentre ritengono nobili le persone libere da lavori manuali e in modo particolare quanti attendono alle attività militari. Comunque è un modo di pensare ben appreso dai Greci tutti: più degli altri dagli Spartani e meno degli altri dai Corinzi, che non disprezzano affatto gli artigiani. I soli guerrieri fruivano, con i sacerdoti, di determinati vantaggi: dodici arure di terreno scelto, esenti da tasse. L'arura è una estensione quadrata di cento cubiti egiziani su ogni lato; il cubito egiziano per l'appunto coincide con quello di Samo. Accanto a tale privilegio generale esistevano prerogative particolari concesse a turno e mai alle stesse persone: ogni anno 10.000 Calasiri e altrettanti Ermotibi prestavano servizio come guardie del re; oltre alle arure, ricevevano giornalmente cinque mine di grano abbrustolito a testa, due mine di carne bovina e quattro aristeri di vino; tanto elargivano alle guardie in servizio. Quando dunque, nella loro marcia di avvicinamento, Aprieo con i mercenari e Amasi alla testa di tutti gli Egiziani, raggiunsero la città di Momenfi, si accese lo scontro: si batterono bene gli stranieri, ma erano molto inferiori per numero e perciò rimasero sconfitti. Aprieo, si racconta, credeva che nessuno, neppure un dio, potesse porre fine al suo potere, tanto gli sembrava saldamente radicato. E invece, venuto a battaglia, fu sconfitto, fatto prigioniero e condotto nella città di Sais, nella sua dimora di un tempo, divenuta ormai la reggia di Amasi. Per un certo periodo Amasi lo ospitò nella reggia, trattandolo con onore; ma infine, biasimato dagli Egiziani, tacciato di ingiustizia perché ospitava il loro e suo massimo nemico, decise di consegnare Aprieo agli Egiziani. Essi lo impiccarono e quindi lo seppellirono nella tomba di famiglia, che si trova nel tempio di Atena, proprio accanto al sacrario, a sinistra per chi entra. I cittadini di Sais seppellivano nel tempio di Atena tutti i re originari del loro distretto: così vi si trova pure la tomba di Amasi, ma più discosta dal sacrario rispetto alle tombe di Aprieo e dei suoi antenati, e precisamente nel cortile del santuario; consiste di un lungo porticato di pietra, ornato di colonne a forma di palmizi e di ogni altra decorazione di lusso; all'interno del porticato vi sono due grandi portali, in mezzo ad essi è collocato il monumento funebre. Sempre lì a Sais nel santuario di Atena si trova anche la tomba di colui che ora sarebbe empietà nominare; giace nella parte posteriore del santuario lungo il muro di cinta. Sempre nell'area del tempio si ergono grandi obelischi di pietra; accanto vi è un laghetto, ornato da un parapetto di pietra e perfettamente circolare, vasto, come mi parve, quanto il cosiddetto lago "rotondo" di Delo. In questo laghetto si svolgono di notte le sacre rappresentazioni delle vicende di lui; gli Egiziani le chiamano "misteri": io so come si svolgono in ogni particolare, ma conserverò un religioso silenzio. E mi guarderò anche dal parlare dei misteri di Demetra, che i Greci chiamano Tesmoforie, se non per quanto mi sia lecito dire: furono le figlie di Danao a introdurre in Grecia questa cerimonia originaria dell'Egitto, insegnandola alle donne pelasgiche; poi, quando l'intero Peloponneso fu sconvolto dai Dori, il rito scomparve; solo gli Arcadi, unici superstiti delle popolazioni del Peloponneso, unici non dispersi, lo tennero in vita. Detronizzato Aprieo, governò Amasi, originario del nomo di Sais e più precisamente della città di Siuf. In un primo momento gli Egiziani disprezzavano Amasi e non lo stimavano affatto, in quanto era del popolo e non di una casata illustre; ma poi Amasi, con accortezza e prudenza, riuscì a guadagnarsi il loro favore. Possedeva una enorme quantità di oggetti preziosi: fra gli altri un bacile d'oro nel quale lui e tutti i suoi invitati erano soliti lavarsi i piedi in ogni circostanza; egli lo ridusse a pezzi per ricavarne la statua di un dio, collocata poi nel punto più adatto della città; e gli Egiziani vi si affollavano attorno con grande venerazione; Amasi, informato del comportamento dei suoi sudditi, li convocò e rivelò loro che l'immagine era stata fabbricata con un bacile e che ora gli Egiziani veneravano con profonda devozione un oggetto in cui si erano lavati i piedi e avevano vomitato e orinato. Seguitò dicendo che lui si era trovato in una situazione paragonabile a quella del catino: se prima era uno del popolo ora invece era il loro sovrano e perciò li esortava a rispettarlo e a onorarlo. In questo modo si guadagnò la stima degli Egiziani, che accettarono di essere suoi sudditi. Amasi sbrigava i suoi affari come segue: dall'alba fino a quando la piazza del mercato è affollata, si occupava delle questioni che gli venivano sottoposte, dopo di che beveva, beffava i suoi convitati, era frivolo e allegro. Rammaricandosi per questo, gli amici lo ammonivano: "Sovrano, - gli dicevano - tu non agisci bene, ti comporti con troppa leggerezza. Dovresti startene seduto dignitosamente su un venerabile trono per tutto il giorno e affrontare questioni serie; in questo modo gli Egiziani saprebbero di essere governati da un uomo importante e tu avresti una fama maggiore. La tua attuale condotta, invece, non è affatto regale". Ma lui una volta rispose: "Chi possiede un arco lo tende quando deve usarlo e dopo lo lascia allentato; questo perché se restasse continuamente in tensione l'arco si spezzerebbe, e quindi gli arcieri, al momento buono, non potrebbero più servirsene. Identica è la condizione dell'uomo: uno che vuole essere sempre serio e non si lascia andare ogni tanto allo scherzo senza nemmeno accorgersene diventerebbe pazzo o stupido. Io ne sono convinto e perciò divido il mio tempo fra serietà e scherzo". Così Amasi rispose ai suoi amici. Si dice che Amasi, anche da privato cittadino, abbia sempre amato bere e divertirsi; e che non fosse mai stato un individuo severo. Se bevendo e divertendosi gli veniva a mancare il necessario, andava in giro a rubacchiare. Quanti lo accusavano di possedere qualche loro bene, se lui si ostinava a negare, lo conducevano spesso di fronte all'oracolo del luogo dove si trovavano. Spesso fu dichiarato colpevole dai responsi, ma spesso veniva assolto. Una volta salito al trono si comportò come segue: non si dette cura alcuna dei templi degli dei che lo avevano assolto dall'accusa di essere un ladro; non concesse denaro per restaurarli né li frequentava per compiere sacrifici; riteneva quegli dei indegni di considerazione, perché possedevano oracoli menzogneri; aveva invece molto riguardo per quelli che lo avevano condannato come ladro, stimando che fossero autentici dei e possedessero oracoli non menzogneri. In onore di Atena a Sais costruì dei propilei stupendi, superiori a tutti gli altri per altezza e grandezza nonché per le dimensioni e la qualità delle pietre impiegate; inoltre offrì come dono votivo statue colossali e sfingi maschili, di grandi proporzioni e si procurò altri blocchi di pietra enormi per opere di restauro. Alcune di queste pietre le fece venire dalle cave esistenti all'altezza di Menfi, altre, le più smisurate, dalla città di Elefantina, che dista da Sais una ventina di giorni di navigazione. E ancora, e ciò suscita in me la maggiore meraviglia, fece venire da Elefantina una costruzione monolitica, impiegando per il trasporto tre anni e duemila operai, tutti appartenenti alla casta dei "piloti". La larghezza di questa costruzione esternamente è di circa venti cubiti: quattordici ne misura in larghezza e otto in altezza. Tali sono le sue dimensioni esterne; all'interno la lunghezza è di diciotto cubiti e un pigone, "la larghezza di dodici cubiti" e l'altezza di cinque cubiti. Questa costruzione sorge presso l'ingresso del santuario. Non lo portarono dentro l'area sacra, si dice, per questa ragione: stavano trainando l'edificio quando il direttore dei lavori emise un sospiro a causa della fatica e del tempo occorsi per un simile lavoro; allora Amasi, facendosi scrupolo, non consentì che lo si trasportasse più oltre. Altri invece raccontano che uno degli operai che manovravano le leve morì schiacciato: per questo motivo quindi non lo avrebbero più portato dentro. Amasi dedicò in tutti gli altri celebri santuari opere sempre degne di essere viste per la loro imponenza; e fra le altre un colosso che giace supino a Menfi di fronte al tempio di Efesto, lungo ben 75 piedi. Sul medesimo piedistallo, ai lati del colosso maggiore, si ergono altre due statue in pietra etiopica, ciascuna delle quali è alta venti piedi. Anche a Sais esiste un colosso simile, cioè giacente alla maniera di quello di Menfi. Fu poi ancora Amasi a far costruire a Menfi il tempio di Iside, un tempio assai grande e che assolutamente merita una visita. Sotto il regno di Amasi, si racconta, l'Egitto godette di una grandissima prosperità: le piene del fiume gratificarono sempre la terra e i raccolti gli uomini: le città abitate in Egitto erano allora circa 20.000. Fu Amasi a stabilire per gli Egiziani la legge per cui ognuno doveva ogni anno dimostrare di cosa vivesse; e per quanti eludevano quest'obbligo o non dimostravano di vivere onestamente era prevista la pena di morte. L'Ateniese Solone prese in Egitto questa norma e la introdusse ad Atene; e vi è tuttora in vigore, trattandosi di una legge ineccepibile. Divenuto molto amico dei Greci, Amasi fece varie concessioni ad alcune popolazioni greche: in particolare permise a chi si recava in Egitto di risiedere a Naucrati; a chi non intendeva abitarvi, ma vi giungeva in viaggio, offrì delle aree per la edificazione di altari e templi per gli dei; fra queste l'area sacra più grande, più rinomata e più frequentata si chiama Ellenio; la allestirono insieme varie città: le ioniche Chio, Teo, Focea, Clazomene, le doriche Rodi, Cnido, Alicarnasso, e Faselide, e la sola Mitilene per gli Eoli. Le città alle quali appartiene il santuario sono le stesse che forniscono i sopraintendenti al mercato. Tutte le altre città che rivendicano una partecipazione lo fanno senza averne diritto. Gli abitanti di Egina per conto loro si costruirono un tempio di Zeus, e i Sami uno dedicato a Era, un altro ancora i Milesii ad Apollo. L'unico grande antico emporio, e non ve n'erano altri in Egitto, era Naucrati. Se qualcuno approdava a una foce del Nilo diversa, doveva giurare di esservi arrivato per sbaglio, e dopo aver giurato doveva subito dirigersi verso il Nilo di Canobo; se i venti contrari impedivano di prendere il mare, allora bisognava trasportare le mercanzie attraverso l'intero Delta a bordo di barche egiziane, finché non si giungeva a Naucrati; di tale privilegio godeva Naucrati. Quando gli Anfizioni appaltarono per trecento talenti la costruzione dell'attuale tempio di Delfi (il precedente era stato distrutto da un incendio scoppiato per cause naturali), i cittadini di Delfi dovettero pagare la quarta parte del prezzo di appalto. Allora si recarono in varie città per raccogliere fondi e così facendo non fu certo dall'Egitto che ricavarono la somma minore. Amasi infatti regalò loro mille talenti di allume e i Greci residenti in Egitto versarono venti mine. Amasi firmò un trattato di amicizia e di alleanza militare con gli abitanti di Cirene. Anzi decise persino di prendere moglie in quella città, vuoi per il desiderio di avere una donna greca vuoi come segno di amicizia nei confronti dei Cirenei: secondo alcuni sposò la figlia di Batto figlio di Arcesilao, secondo altri una certa Ladice figlia di Critobulo, un cittadino ragguardevole. Ora, accadeva che quando Amasi andava a letto con lei non era capace di fare l'amore, cosa che gli riusciva invece con le altre donne: il fatto si ripeté varie volte sicché Amasi disse a Ladice: "Moglie mia, tu mi hai stregato e perciò non hai nessuna possibilità di sfuggire alla sorte peggiore mai toccata a una donna". Ladice negava, ma senza arrivare a calmare il marito; perciò pregò fra sé Afrodite, promettendole di inviarle una statua a Cirene se la notte seguente Amasi fosse riuscito a fare l'amore con lei; che era, poi, l'unico rimedio al male. Dopo tale preghiera immediatamente Amasi riuscì a possederla e da allora tutte le volte che l'andava a trovare si univa con lei; e dopo la amò molto. Ladice sciolse poi il voto alla dea facendo fabbricare una statua e inviandola a Cirene; la statua esiste ancora oggi e si trova all'esterno delle mura di Cirene. Quanto a Ladice, quando Cambise divenne il padrone dell'Egitto e seppe di lei chi fosse, la rimandò a Cirene sana e salva. Amasi consacrò offerte anche in Grecia: a Cirene una statua d'oro, raffigurante Atena, e un proprio ritratto; a Lindo due statue di pietra dedicate ad Atena e una corazza di lino che merita di essere vista; ad Era in Samo due sue statue in legno che ancora ai miei tempi erano collocate nel tempio grande, subito dietro le porte. A Samo consacrò le sue offerte a causa dei vincoli di ospitalità esistenti fra lui e Policrate figlio di Eace; a Lindo non per legami di ospitalità (non ne aveva), ma perché secondo la leggenda il tempio era stato costruito dalle figlie di Danao, colà approdate durante la loro fuga dai figli di Egitto. Questi furono i suoi doni votivi. Amasi fu il primo al mondo a conquistare l'isola di Cipro e a costringerla al pagamento di un tributo.







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