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Libro II
Alla morte di Ciro Cambise ereditò il regno:
era figlio di Ciro e Cassandane, figlia di Farnaspe; per Cassandane, morta
ancora prima del marito, Ciro aveva osservato un lutto molto stretto e lo aveva
imposto anche a tutti i suoi sudditi. Figlio di questa donna e di Ciro, Cambise
considerava gli Ioni e gli Eoli come schiavi appartenenti al patrimonio
familiare; quando mosse guerra all'Egitto prese con sé truppe dalle varie
popolazioni del suo dominio, compresi i Greci su cui comandava. Gli Egiziani,
prima del regno di Psammetico, ritenevano di essere stati i primi uomini a
venire al mondo; ma da quando Psammetico, salito al trono, volle sapere con
certezza quale popolo avesse avuto origine per primo, da allora ritengono i
Frigi più antichi di loro, e loro stessi, poi, più antichi di tutti gli altri.
Nonostante le molte ricerche Psammetico non riusciva a scoprire quali uomini
fossero nati per primi; allora escogitò il seguente espediente: prese due
neonati, figli di persone qualsiasi, e li affidò a un pastore perché li
allevasse presso le sue greggi; al pastore diede le seguenti istruzioni: che
nessuno pronunciasse una sola parola davanti a quei bambini; essi dovevano
starsene da soli in una capanna abbandonata; a ore stabilite il pastore doveva
condurre da loro delle capre, sfamarli col latte e sbrigare le altre
incombenze. Psammetico faceva e ordinava tutto questo con l'intenzione di
ascoltare poi quale parola i bambini avrebbero pronunciata per prima quando
avessero smesso di emettere vagiti senza senso. Come appunto accadde: ormai da
due anni il pastore si comportava in quel modo, quando un bel giorno, mentre
apriva la porta per entrare, i bambini gli andarono incontro tendendo le
braccia e gridando "bekos". La prima volta il pastore li udì e non lo
disse a nessuno; ma dato che si recava spesso dai bambini per provvedere alle
loro necessità ed essi varie volte gli ripeterono quella parola, segnalò la
cosa al suo padrone, che gli ordinò di portare i bambini al suo cospetto.
Quando ebbe ascoltato personalmente i bambini, Psammetico cercò di sapere quali
uomini chiamassero qualcosa "bekos" e ricercando scoprì che i Frigi
chiamano così il pane. Pertanto, sulla base di questo esperimento gli Egiziani
riconobbero che i Frigi erano più antichi di loro. Questo è quanto ho appreso
dai sacerdoti del tempio di Efesto a Menfi. I Greci dicono invece molte altre
sciocchezze, tra cui che Psammetico fece tagliare la lingua ad alcune donne e
affidò loro i bambini da allevare. Così mi raccontavano i sacerdoti di Efesto sui
due neonati e sul loro allevamento. Ma anche altre cose ho appreso a Menfi nei
miei colloqui con questi sacerdoti; e per raccogliere informazioni mi recai
anche a Tebe e a Eliopoli, desideroso di verificare se le versioni locali
concordassero con quella di Menfi; perché i sacerdoti di Eliopoli hanno fama di
essere i più dotti fra gli Egiziani. Ciò che mi dissero sugli dei, tranne
appunto i nomi dei medesimi, non sono dell'idea di riferirlo perché ritengo che
gli uomini in questo campo ne sappiano più o meno tutti lo stesso; se mi
capiterà di farne menzione è perché le necessità del racconto mi ci
costringeranno. Riguardo invece alle cose umane, sostenevano concordemente che
gli Egiziani per primi al mondo scoprirono l'anno, avendo suddiviso le stagioni
in dodici parti per formarlo, scoperta che facevano risalire alla osservazione
degli astri. A mio parere il loro sistema di computo è più oculato di quello
greco: i Greci ogni due anni inseriscono un mese intercalare nel loro
calendario a causa delle stagioni; gli Egiziani invece calcolano dodici mesi di
trenta giorni e aggiungono ogni anno cinque giorni soprannumerari, e così il
loro ciclo delle stagioni viene sempre a cadere nelle stesse date. Secondo loro
gli Egiziani furono i primi a designare i dodici dei con nomi caratteristici (e
i Greci da essi derivarono tale usanza), i primi a dedicare altari e templi
alle varie divinità e a scolpire sulla pietra figure di animali; e quasi sempre
i sacerdoti comprovavano in modo tangibile la verità delle loro asserzioni.
Sostennero tra l'altro che il primo uomo a regnare sull'Egitto fu Mina; a
quell'epoca l'intero Egitto, tranne il territorio di Tebe, era una palude,
dalla quale non emergeva alcuna delle terre ora esistenti a nord del lago
Meride; il lago dista dal mare sette giorni di navigazione contro corrente. E
mi pare che queste informazioni sul paese siano esatte. Infatti qualunque
persona dotata di intelligenza, senza avere saputo mai nulla dell'Egitto,
comprende con tutta evidenza, solo a vederlo, che il territorio egiziano a cui
arrivano le navi greche è per gli Egiziani una terra acquisita, un dono del
fiume; e lo stesso vale per le regioni situate a sud del lago Meride, fino a
tre giorni di navigazione, anche se i sacerdoti, su di esse, non mi dicevano
ancora niente del genere. La natura del paese in Egitto è tale che gettando lo
scandaglio quando la nave è ancora a un giorno di distanza da terra, si tira
già su del fango; e lì l'acqua è profonda undici orgie; e ciò dimostra che sin
là si trova terreno alluvionale. L'Egitto raggiunge lungo la costa una
estensione di sessanta scheni, se, come facciamo noi, se ne stabiliscono per
confini il golfo di Plintina e il lago Serbonide, presso il quale si erge il
monte Casio. Misurando a partire da quel lago si hanno i sessanta scheni. I
popoli che possiedono poca terra, la misurano a orgie, a stadi quelli che ne
possiedono un po' di più, a parasanghe quelli che ne hanno molta; quelli che ne
hanno in grande abbondanza la misurano a scheni. Una parasanga corrisponde a trenta
stadi, uno scheno, misura egiziana, a sessanta stadi. In questo modo le coste
dell'Egitto equivarrebbero a 3600 stadi. La regione compresa fra la costa e
Eliopoli è assai ampia, tutta pianeggiante, ricca d'acqua e di fango. Il
tragitto dal mare fino a Eliopoli risalendo il fiume è pressoché pari in
lunghezza a quello che porta da Atene, dall'altare dei dodici dei, fino al
tempio di Zeus Olimpio a Pisa; a confrontare proprio con esattezza i due
percorsi si troverebbe che una piccola differenza c'è e che le due distanze non
sono proprio identiche, ma lo scarto non supera i quindici stadi. Infatti la
strada da Atene a Pisa non raggiunge per soli quindici stadi i 1500, là dove la
distanza fra il mare ed Eliopoli completa esattamente questa cifra. Continuando
a risalire il fiume da Eliopoli l'Egitto si fa stretto; da un lato si stende la
catena dell'Arabia, che è orientata da nord a sud e si prolunga verso l'interno
e verso il mare detto Eritreo; in questi monti si trovano le cave di pietra da
dove furono estratti i blocchi adoperati per le piramidi di Menfi. Qui la
catena si arresta e piega verso la direzione su menzionata: nel suo punto più
largo questa catena, così m'hanno detto, raggiunge una estensione di due mesi
di cammino, in direzione est-ovest, e nel suo settore più orientale è assai
ricca di incenso. Ecco come sono i monti dell'Arabia; in direzione della Libia
l'Egitto è attraversato da un'altra montagna pietrosa, proprio dove si
innalzano le piramidi, tutta coperta di sabbia e protesa verso meridione alla
stessa maniera della catena d'Arabia. Insomma a partire da Eliopoli non c'è più
molto territorio a paragone del resto del paese: per una estensione di
quattordici giorni di navigazione l'Egitto vi è ridotto a una sottile striscia.
La parte pianeggiante intermedia fra le suddette montagne non mi pareva
misurare, nel suo punto più stretto, più di 200 stadi dalla catena d'Arabia
fino al massiccio denominato Libico. Più avanti l'Egitto si fa di nuovo largo.
Tale è la configurazione naturale dell'Egitto. Da Eliopoli a Tebe ci sono nove
giorni di navigazione pari a 4860 stadi ovvero 81 scheni. Riassumendo, le
dimensioni dell'Egitto sono: 3600 stadi di sviluppo costiero, come ho già
precedentemente chiarito, e, lo preciso ora, 6120 stadi dal mare verso l'interno
fino a Tebe, 1800 stadi da Tebe alla città chiamata Elefantina. La maggior
parte della terra di cui s'è parlato è parsa anche a me essere, per gli
Egiziani, una "acquisizione", come sostenevano i sacerdoti. Infatti
mi fu abbastanza chiaro che tutta la parte mediana fra le montagne prima
citate, a sud della città di Menfi, costituiva un tempo una ampia insenatura
del mare, come la zona circostante Ilio o Teutrania o Efeso o come la piana del
Meandro, sempre che sia lecito confrontare il piccolo con il grande; in effetti
nessuno dei fiumi che hanno originato coi loro sedimenti questi territori è
abbastanza grande da essere paragonato degnamente anche solo a uno dei rami del
Nilo; e di rami così il Nilo ne ha cinque. Esistono altri fiumi, non della
stessa portata del Nilo, che possono vantarsi autori di una imponente opera
naturale: potrei citarne molti, l'Acheloo per esempio, che scorre attraverso
l'Acarnania: sfociando in mare ha già trasformato in terra ferma una buona metà
delle isole Echinadi. Nel paese d'Arabia, non lontano dall'Egitto, c'è un golfo
che dal Mare Eritreo penetra nell'interno, lungo e stretto quanto mi accingo a
precisare: in lunghezza, per arrivare dal suo punto più interno al mare aperto,
occorrono quaranta giorni di navigazione a remi; in ampiezza, dove è più largo,
misura mezza giornata di viaggio. In quel braccio di mare ogni giorno si
verifica un moto di flusso e di riflusso. Io credo che anche l'Egitto fosse una
volta un golfo di questo tipo: dal mare settentrionale, penetrava in direzione
dell'Etiopia, mentre il golfo d'Arabia da sud si volge verso la Siria; i due
golfi avevano quasi comunicanti le loro parti più interne divise soltanto da
una sottile striscia di terra ferma. Ora, se il Nilo per caso volesse deviare
il proprio corso verso il golfo d'Arabia, che cosa gli impedirebbe di
interrarlo completamente nel giro di 20.000 anni? Io credo anzi che potrebbe
riempirlo in 10.000 anni soltanto. E allora in tutto il tempo passato prima che
io nascessi non avrebbe potuto interrarsi anche un golfo molto più ampio, ad
opera di un fiume così immenso e così attivo? Pertanto non solo credo a quanti
descrivono così la formazione dell'Egitto, ma io stesso sono convinto che
quella è la giusta spiegazione. Io ho visto che l'Egitto si inoltra nel mare
più delle terre circostanti, che sulle montagne si trovano conchiglie e che a
tratti il sale affiora fino al punto di corrodere le piramidi, che le uniche
montagne che hanno sabbia si trovano a sud di Menfi; e inoltre che il suolo
dell'Egitto non somiglia né a quello dell'Arabia, con cui confina, né a quello
della Libia e neppure a quello della Siria (la zona costiera dell'Arabia è
abitata da Siri): ma è terra nera e friabile, perché composta di fango e
detriti che il fiume ha trasportato dall'Etiopia. Noi sappiamo che il suolo
della Libia è più rossastro e sabbioso, mentre in Arabia e in Siria è più
argilloso e ricco di pietrisco. I sacerdoti mi hanno fornito una ulteriore
prova sulla natura di questo terreno, raccontandomi che al tempo del re Meride
ogni volta che il fiume superava una altezza di otto cubiti inondava tutta la
parte dell'Egitto a nord di Menfi; e quando io udivo questi racconti dei
sacerdoti, non erano ancora trascorsi 900 anni dalla morte di Meride. Ora
invece, se il livello del fiume non sale almeno a quindici o a sedici cubiti,
non straripa nelle campagne. Secondo me gli Egiziani residenti a nord del lago
di Meride e in particolare nel cosiddetto Delta, se l'Egitto continuerà a
sollevarsi e ad allungarsi con lo stesso ritmo, visto che il Nilo non
romperebbe più gli argini, dovranno soffrire per tutto il tempo a venire la
stessa sorte che una volta mi prospettarono per i Greci. In effetti una volta,
apprendendo che tutto il territorio dei Greci non è irrigato da fiumi come il
loro, ma è bagnato soltanto dalle piogge, mi dissero che i Greci avrebbero
prima o poi sofferto di qualche carestia non appena la loro grande speranza
fosse andata delusa. In altre parole, se il dio non volesse mandare la pioggia,
ma far perdurare la siccità, i Greci sarebbero in preda alla fame, non avendo
risorse d'acqua diverse dalla pioggia mandata da Zeus. Il ragionamento degli
Egiziani sulla situazione dei Greci è corretto. Ma applichiamolo ora alla
situazione egiziana. Se, come dicevo prima, la parte a nord di Menfi (quella in
espansione) dovesse continuare a crescere allo stesso ritmo che in passato, i
suoi abitanti non soffrirebbero forse la fame quando, privi di piogge, non
avessero nemmeno più il fiume a irrigare le campagne? Attualmente fra tutti i
popoli del mondo compresi i restanti Egiziani sono loro a faticare meno per
trarre frutto dal suolo: non devono sudare a scavare solchi con l'aratro né a
zappare né a compiere alcuno di quei lavori faticosi che gli altri uomini
dedicano alla coltivazione. Dopo che il fiume spontaneamente tracima, irriga i
campi e poi si ritira, spargono le semenze ciascuno nel proprio terreno e vi
spingono sopra i maiali, i quali fanno penetrare i semi nella terra; poi
aspettano l'epoca della mietitura, battono il grano ancora servendosi dei
maiali e in tal modo il raccolto è bell'e fatto. Se volessimo adottare
l'opinione degli Ioni e sostenere che soltanto il Delta è Egitto, limitandone
lo sviluppo costiero fra la cosiddetta torre di Perseo e le Tarichee di
Pelusio, per una estensione di quaranta scheni, e la lunghezza dal mare verso
l'interno solo fino alla città di Cercasoro, dove il Nilo si divide scorrendo
verso Pelusio e verso Canobo (mentre le restanti parti dell'Egitto
apparterrebbero all'Arabia e alla Libia), adottando, dicevo, questa opinione
arriveremmo a dimostrare che gli Egiziani anticamente non avevano un paese. Il
fatto è che il Delta, come dichiarano gli Egiziani stessi e come pare anche a
me, è una terra alluvionale e, se così si può dire, apparsa di recente. Ora, se
davvero essi non avevano alcun paese, perché mai si affannavano tanto a
credersi i primi uomini venuti alla luce? E non avrebbe avuto senso spingersi
all'esperimento dei bambini per vedere in quale lingua per prima si sarebbero
espressi. Io non credo affatto che gli Egiziani siano nati insieme con il Delta
(come lo chiamano gli Ioni), credo che siano sempre esistiti, da quando esiste
l'uomo, e che con l'avanzare della terra sul mare alcuni di loro rimasero
indietro, nell'interno, mentre altri discesero a poco a poco lungo il corso del
fiume. E così anticamente si chiamava Egitto la regione di Tebe, il cui
perimetro misura 6120 stadi. Se dunque la nostra idea è giusta, gli Ioni non
ragionano bene sull'Egitto; se invece è esatta l'opinione degli Ioni allora io
posso dimostrare che i Greci in generale e gli Ioni in particolare non sanno
fare di conto, quando sostengono che il mondo abitato è diviso in tre parti,
Europa, Asia e Libia. Essi dovrebbero aggiungere, al quarto posto, il Delta
d'Egitto, se non appartiene né all'Asia né alla Libia; perché in base a tale
ragionamento non è il Nilo a segnare il confine tra l'Asia e la Libia: al
vertice del Delta il Nilo si divide creando una zona intermedia fra la Libia e
l'Asia. Ma noi lasciamo perdere l'opinione degli Ioni ed esponiamo al riguardo
il nostro parere: è Egitto l'intero territorio abitato dagli Egiziani, così
come Cilicia e Assiria sono i territori abitati dai Cilici e dagli Assiri; e
non conosciamo alcuna linea di demarcazione tra Asia e Libia, a dire il vero,
se non i confini dell'Egitto. Adottando la teoria dei Greci siamo obbligati a
ritenere che l'intero Egitto, a partire dalle Cateratte e dalla città di
Elefantina, sia diviso in due e cada sotto entrambe le denominazioni, sia cioè
in parte Libia e in parte Asia. Infatti il Nilo dalle Cateratte fluisce verso
il mare dividendo a metà l'Egitto: fino a Cercasoro scorre compatto, a partire
da questa città si divide in tre rami. Uno si dirige verso oriente e si chiama
Pelusico, un altro verso occidente e si chiama Canobico; il ramo del Nilo che
procede rettilineo proviene dall'interno del paese e raggiunge il vertice del
Delta da dove poi si getta in mare tagliando a metà il Delta stesso: si chiama
Sebennitico e oltre a essere il più conosciuto presenta anche la maggiore
portata d'acqua. Dal Sebennitico si biforcano e vanno a sfociare in mare altre
due bocche, dette Saitica e Mendesia. Il Bolbitinico e il Bucolico non sono
rami naturali bensì canali artificiali. Una conferma alla mia convinzione che
l'Egitto sia esteso quanto vado mostrando nel mio discorso la fornisce anche un
oracolo di Ammone, di cui peraltro ebbi notizia quando ormai la mia opinione me
l'ero formata. Una volta gli abitanti delle città di Marea e di Api, ai confini
fra l'Egitto e la Libia, ritenendo di non essere egiziani bensì libici,
irritati dai rituali del culto (desideravano sottrarsi alla proibizione delle
carni di mucca), mandarono una delegazione presso il santuario di Ammone, per
protestare che essi non avevano nulla in comune con gli Egiziani: abitavano
fuori del Delta, e non concordavano in niente con loro; reclamavano dunque il
diritto di gustare qualsiasi vivanda. Ma il dio non glielo permise dichiarando
che l'Egitto comprende tutti i territori irrigati dal Nilo con le sue piene, e
che quanti abitano a nord di Elefantina e bevono l'acqua di questo fiume sono
Egiziani. Così si pronunciò l'oracolo. Il Nilo quando è in piena non inonda
solo il Delta ma anche il cosiddetto territorio libico e in qualche luogo anche
quello arabico fino a una distanza, da entrambe le sponde, di due giorni di
viaggio in media. Sulla natura del fiume non mi è riuscito di ottenere
informazioni né dai sacerdoti né da nessun altro. Avrei molto desiderato che mi
spiegassero per quale motivo il Nilo scorre in piena per cento giorni a
cominciare dal solstizio d'estate, e poi, una volta vicino lo scadere di questo
periodo, si ritira abbassando il livello delle proprie acque, tanto da restare
in regime di magra per tutto l'inverno e fino al successivo solstizio d'estate;
ma in proposito non ho potuto apprendere nulla dagli Egiziani. Io chiedevo loro
in base a quale sua proprietà il Nilo abbia un regime contrario a quello degli
altri fiumi. Questa era la domanda che rivolgevo a loro nel mio desiderio di
imparare e chiedevo anche perché il Nilo è l'unico fiume dal quale non soffiano
brezze. Alcuni Greci, desiderosi di segnalarsi per sapienza, hanno proposto a
spiegazione del fenomeno dell'acqua tre diverse teorie, due delle quali non mi
sembrano degne di nota al di là di una semplice menzione. La prima attribuisce
le piene del Nilo all'azione dei venti etesii, che impedirebbero al fiume di
sfociare nel mare; però spesso accade che il Nilo si comporti nell'identico
modo senza che i venti etesii abbiano soffiato: inoltre, se la causa risalisse
ai venti etesii, anche gli altri fiumi che scorrono in senso contrario alla
direzione di quei venti sarebbero soggetti a un identico fenomeno, anzi
maggiormente soggetti, in quanto essendo più poveri d'acqua presentano correnti
più deboli. Invece esistono molti fiumi in Siria, e molti in Libia, che non si
comportano affatto come il Nilo. La seconda teoria è meno scientifica della
precedente ma più affascinante da esporre: essa afferma che il Nilo si comporta
in maniera innaturale perché trae origine dall'Oceano, e l'Oceano è quel fiume
che circonderebbe tutta la terra. La terza teoria, di gran lunga la più
plausibile, è la più menzognera. In effetti non spiega nulla affermando che il
Nilo è alimentato dallo scioglimento delle nevi. Ora, il Nilo proviene dalla
Libia, scorre attraverso l'Etiopia e sfocia in Egitto; come dunque potrebbe
originarsi dalle nevi se fluisce dalle regioni più calde del mondo in direzione
di regioni in gran parte più temperate? Per chiunque sia in grado di fare uso
della ragione su simili argomenti la prima e principale prova che l'origine del
Nilo dallo scioglimento delle nevi non è una spiegazione logica è già nel fatto
che i venti che spirano dalle regioni in questione sono venti caldi. Una
seconda prova è l'assenza di precipitazioni e di ghiacci in tutto il paese e
per tutto l'anno: ora, entro cinque giorni dopo una nevicata, sempre,
inevitabilmente comincia a piovere, cosicché, se in queste regioni cadesse la
neve, dovrebbe cadervi pure la pioggia. Terza prova, gli uomini hanno la pelle
scura a causa del caldo. Nibbi e rondini, poi, vi trascorrono l'intero anno
senza migrare, mentre le gru, quando fuggono l'inverno della Scizia, si
trasferiscono sempre in quei paesi per trascorrervi la stagione fredda. Ora,
nessuno di questi fatti si verificherebbe se nevicasse anche solo un po' lungo
il corso del Nilo, sia nel paese in cui scorre sia nella zona delle sorgenti:
questa è una prova inequivocabile. Chi ha parlato dell'Oceano non teme smentita
perché ha tirato in ballo l'ignoto; io non ho mai saputo dell'esistenza
dell'Oceano, anzi credo che quel nome sia un'invenzione poetica di Omero o di
qualcuno dei primi cantori. Se però, dopo aver criticato le opinioni sin qui
esposte, devo proprio fornire una mia interpretazione di fatti così oscuri,
dirò perché, a mio parere, il Nilo va in piena nel periodo estivo. Nella
stagione invernale il sole si allontana dal suo originario percorso a causa
delle tempeste e si porta sopra le regioni più interne della Libia; e questo è
già sufficiente se ci si limita ad una spiegazione minimale: è naturale che il
paese più da vicino sorvolato dal dio sole sia il più povero di acqua e che si
prosciughi il corso dei suoi fiumi. Volendo dare una spiegazione più ampia si
deve parlare, le cose stanno così, dell'azione del sole quando attraversa le
contrade interne della Libia. Dato che in queste zone l'atmosfera è sempre
serena in ogni momento dell'anno e il clima è sempre torrido, privo di venti
freschi, il sole attraversandole opera esattamente come da noi in estate quando
passa nel mezzo del cielo: attira verso di sé l'elemento umido e quindi lo
spinge verso le regioni più interne; lì poi i venti se ne impadroniscono, lo
disperdono e lo fanno svaporare. Ed è perciò naturale che i venti provenienti
da quella parte del mondo, il noto e il libeccio, siano in assoluto i più
piovosi. Però io credo che il sole non si liberi completamente dell'acqua
attirata ogni anno dal Nilo, ma che ne trattenga un po' attorno a sé. Col
mitigarsi dell'inverno il sole ritorna nella parte mediana del cielo e da
allora ormai attira a sé ugualmente acqua da tutti i fiumi. Fino ad allora i
fiumi, se attraversano paesi bagnati dalla pioggia o solcati da torrenti,
scorrono in piena grazie al consistente apporto di acqua piovana, d'estate
invece per l'assenza di piogge e per l'attrazione del sole, sono in magra. Al
contrario il Nilo, che non riceve mai piogge ma è attratto dal sole, è l'unico
fiume ad essere, per ragioni del tutto naturali, più povero d'acqua in inverno
che in estate: d'estate come tutti i fiumi risente del processo di
evaporazione, d'inverno invece è l'unico a subirlo. Così io ritengo il sole
all'origine dei fenomeni in questione. E secondo me, sempre il sole fa sì che
l'aria sia lì asciutta, perché attraversandola la brucia: in tal modo nelle
zone interne della Libia è sempre estate. Se si verificasse una rivoluzione
delle stagioni e nella parte di cielo in cui ora si trovano il vento borea e
l'inverno si trovassero il noto e il mezzogiorno e viceversa dov'è il noto
soffiasse borea, se le cose stessero così, il sole, scacciato dalla parte
mediana del cielo dall'inverno e da borea, si porterebbe sulle zone
settentrionali dell'Europa, esattamente come ora sorvola la Libia; e io mi
attenderei che attraversando l'Europa intera influisse sul corso dell'Istro
come ora influisce su quello del Nilo. Quanto all'assenza di brezze lungo il
corso del fiume, non ritengo per niente naturale che da regioni calde
provengano correnti d'aria; l'aria solitamente soffia da qualche luogo freddo.
Ma tutti questi fenomeni stiano pure come sono e come furono fin dall'origine.
Quanto alle sorgenti del Nilo nessun Egiziano, Libico o Greco venuto a
colloquio con me sostenne mai di conoscerle, tranne lo scriba del sacro tesoro
di Atena, nella città di Sais, in Egitto; ma quando costui mi disse di
conoscerle con certezza, ebbi l'impressione che mi stesse prendendo in giro.
Parlava infatti di due monti dalle cime aguzze situati fra le città di Siene
nella Tebaide e di Elefantina, detti Crofi e Mofi; le sorgenti del Nilo, che
sono inesplorabili, scaturirebbero appunto in mezzo a questi due monti: metà
dell'acqua si riverserebbe a nord, verso l'Egitto, l'altra metà a sud, verso
l'Etiopia. A stabilire che le sorgenti del Nilo sono inesplorabili sarebbe
giunto il re d'Egitto Psammetico; costui, fatta intrecciare una corda lunga
molte migliaia di orgie, l'avrebbe calata lì senza riuscire a raggiungere il
fondo. Questo scriba, ammesso che raccontasse cose realmente avvenute,
dimostrava soltanto, per quanto posso capire, che esistevano nelle sorgenti dei
gorghi violenti, un rigurgito, e che lo scandaglio non poteva raggiungere il
fondo per via del cozzare dell'acqua contro le rocce. Da nessun altro ho potuto
ottenere informazioni. Ma ecco altre notizie, le più complete che ho potuto
mettere insieme; fino a Elefantina mi sono spinto di persona, come osservatore;
da questo luogo in poi possiedo solo opinioni altrui, raccolte interrogando la
gente. Ebbene oltre la città di Elefantina il paese si fa scosceso; a questo
punto è indispensabile procedere assicurando l'imbarcazione con delle funi su
entrambe le rive, come si fa con i buoi; e se la corda si strappa il battello
viene trascinato via dalla violenza della corrente. Si procede così via fiume
per quattro giorni; qui il Nilo è tortuoso come il Meandro. Sono dodici gli
scheni da percorrere navigando così, do 828f54i po di che arrivi in una pianura uniforme
nella quale il Nilo scorre intorno ad un'isola chiamata Tacompso. La regione a
sud di Elefantina è abitata dagli Etiopi, l'isola invece è per metà abitata da
Etiopi e per metà da Egiziani. Contiguo all'isola è un grande lago intorno al
quale vivono popolazioni etiopiche nomadi; lo attraversi e ritorni nel corso
del Nilo, immissario del lago. Poi devi scendere a terra e risalire lungo il
fiume a piedi per quaranta giorni: qui nel Nilo affiorano scogli aguzzi e ci
sono molte rocce che non consentono la navigazione. In quaranta giorni superi
questo tratto e t'imbarchi su un altro battello; dopo altri dodici giorni di navigazione
arrivi finalmente a una grande città chiamata Meroe. Meroe, si dice, è la
metropoli di tutti gli altri Etiopi. I suoi abitanti venerano fra gli dei
solamente Zeus e Dioniso: li onorano in sommo grado e hanno persino un oracolo
di Zeus: fanno guerra solo quando questo dio glielo ordina per mezzo di
vaticini, e solo contro i paesi da lui indicati. Risalendo il fiume da Meroe,
in un tempo pari a quello necessario per arrivare da Elefantina alla città
madre degli Etiopi, si raggiungono i "disertori". Questi
"disertori" si chiamano "Asmach" termine che tradotto in
greco significa "quelli che stanno alla sinistra del re": si tratta
di 240.000 guerrieri egiziani rifugiatisi in questa parte dell'Etiopia per la
ragione che ora vi narro. Sotto il regno di Psammetico erano state dislocate
guarnigioni in varie città: a Elefantina per difendersi dagli Etiopi, a Dafne
Pelusica contro Arabi e Siri, e a Marea contro i Libici. Ancora ai miei tempi
sotto i Persiani i corpi di guardia sussistono dove si trovavano all'epoca di
Psammetico: guarnigioni persiane sono appunto di stanza a Elefantina e a Dafne.
Ebbene quegli Egiziani, visto che dopo tre anni di presidio nessuno veniva a
sollevarli dall'incarico, si consigliarono fra loro e di comune accordo
defezionarono in blocco da Psammetico per passare in Etiopia. Psammetico,
informatone, li inseguì e quando li ebbe raggiunti li pregò a lungo,
esortandoli fra l'altro a non abbandonare gli dei della loro patria, i figli e
le mogli; ma uno di loro, sembra, mostrando al re i genitali rispose che
dovunque ci fossero quelli avrebbero avuto e figli e mogli. Essi poi, giunti in
Etiopia, si consegnarono al re degli Etiopi, il quale li ricompensò invitandoli
a scacciare alcuni gruppi di Etiopi ribelli e a occuparne i territori. Da quando
questi "disertori" si insediarono in Etiopia, gli Etiopi si sono
fatti più civili avendo imparato alcune abitudini egiziane. Insomma il Nilo,
escluso il suo tratto egiziano, si conosce fino ad una distanza di quattro mesi
di navigazione e di cammino; tanti infatti risultano, a calcolarli, i mesi
necessari a un viaggiatore per recarsi da Elefantina fino presso i
"disertori"; il fiume proviene da ovest, dalle regioni del tramonto.
Che cosa vi sia oltre nessuno è in grado di dirlo con precisione: quella regione
è disabitata per via del clima torrido. Però io ho parlato con dei Cirenei che
raccontavano di una loro visita all'oracolo di Ammone: mentre conversavano con
Etearco, re degli Ammoni, il discorso era caduto fra l'altro sul Nilo, sul
fatto che nessuno ne conosce le sorgenti; allora Etearco raccontò di aver
ricevuto una volta la visita di alcuni Nasamoni (si tratta di una popolazione
libica che abita la Sirte e una piccola porzione di territorio a est della
Sirte). Quando arrivarono da lui, dunque, il re chiese a questi Nasamoni se
potevano aggiungere qualche notizia a quanto già sapeva sui deserti della
Libia; essi gli risposero che c'era stato fra i Nasamoni un gruppo di giovani
temerari, figli di notabili, i quali, divenuti adulti, fra le altre straordinarie
imprese escogitate, avevano tratto a sorte cinque di loro che andassero a
esplorare i deserti della Libia, per tentare di vedere qualcosa di più di
quelli che avevano visto i luoghi più lontani. La fascia costiera
settentrionale della Libia, a partire dall'Egitto fino al promontorio Solunte,
dove la Libia termina, è abitata interamente da Libici, divisi in molte e varie
popolazioni, a eccezione dei territori occupati da Greci e Fenici. A sud della
zona costiera e di quanti vi abitano la Libia è popolata da bestie feroci;
oltre ancora si estende un deserto di sabbia terribilmente arido e
completamente disabitato. I giovani inviati dai loro coetanei partirono con
buone provviste di viveri e d'acqua: subito attraversarono la fascia abitata,
poi, superatala, raggiunsero la zona popolata da fiere; da qui si spinsero
attraverso il deserto avanzando sempre in direzione ovest. Dopo aver superato
un vasto tratto sabbioso, in capo a molti giorni videro degli alberi cresciuti
in una landa pianeggiante; si avvicinarono e presero a staccare i frutti
prodotti da quegli alberi, ma mentre li staccavano sopraggiunsero uomini
piccoli, di statura inferiore alla media umana, che li catturarono e li
condussero via; i Nasamoni non conoscevano la loro lingua e quelli non conoscevano
la lingua dei Nasamoni. Li condussero attraverso immense distese paludose;
terminate le paludi giunsero a una città i cui abitanti erano tutti alti quanto
gli uomini che li conducevano e avevano tutti la pelle scura. Lungo la città
scorreva un grande fiume, proveniente da ovest e diretto a est, dentro al quale
si vedevano dei coccodrilli. E per quanto ci riguarda, il racconto dell'Ammonio
Etearco si fermi pure qui; si aggiunga solo che, secondo il racconto dei
Cirenei, i Nasamoni fecero ritorno, e che gli uomini presso cui essi erano
arrivati erano tutti degli stregoni. Quanto al fiume che scorreva nei pressi
della città, anche Etearco conveniva trattarsi del Nilo, e lo esige il
ragionamento: il Nilo in effetti proviene dalla Libia e la taglia a metà; e per
quanto posso indovinare, congetturando le cose ignote dalle cose visibili,
direi che il Nilo raggiunge la stessa lunghezza dell'Istro. Il fiume Istro ha
origine nelle regioni celtiche presso la città di Pirene e col suo corso divide
in due l'Europa. I Celti dimorano al di là delle colonne d'Eracle e confinano
con i Cinesii, il più occidentale di tutti i popoli insediati nell'Europa.
L'Istro, dopo aver attraversato l'Europa, termina sfociando nel Ponto Eusino,
all'altezza di Istria, città abitata da coloni di Mileto. Insomma scorrendo
attraverso territori ben popolati l'Istro è ben conosciuto da molti; nessuno
invece è in grado di parlare delle sorgenti del Nilo, perché la Libia,
attraverso cui fluisce, è disabitata e deserta: sul suo corso ho detto tutto
ciò che mi è stato possibile apprendere con le mie ricerche. Sbocca in Egitto e
l'Egitto è situato all'incirca di fronte alla montuosa Cilicia; dalla Cilicia a
Sinope sul Ponto Eusino un corriere equipaggiato alla leggera impiega cinque
giorni di viaggio in linea retta; e Sinope è situata proprio di fronte alle
foci dell'Istro. Perciò io credo che la lunghezza del Nilo, che attraversa
tutta la Libia, sia pari a quella dell'Istro. E questo concluda il discorso sul
Nilo. Passo invece a parlare diffusamente dell'Egitto perché, rispetto a ogni
altro paese, è quello che racchiude in sé più meraviglie e che presenta più
opere di una grandiosità indescrivibile: ecco perché se ne discorrerà più a
lungo. Gli Egiziani oltre a vivere in un clima diverso dal nostro e ad avere un
fiume di natura differente da tutti gli altri fiumi, possiedono anche usanze e
leggi quasi sempre opposte a quelle degli altri popoli: presso di loro sono le
donne a frequentare i mercati e a praticare la compravendita, mentre gli uomini
restano a casa a lavorare al telaio; e se in tutto il resto del mondo per
tessere si spinge la trama verso l'alto, gli Egiziani la spingono verso il
basso. Gli uomini portano i pesi sulla testa, le donne li reggono sulle spalle.
Le donne orinano d'in piedi, gli uomini accovacciati; inoltre fanno i loro
bisogni dentro casa e consumano i pasti per la strada, sostenendo che alle
necessità sconvenienti bisogna provvedere in luoghi appartati, a quelle che non
lo sono, invece, davanti a tutti. Nessuna donna svolge funzioni sacerdotali né
per divinità maschili né per divinità femminili: per gli uni e per le altre il
compito spetta agli uomini. I figli maschi non hanno alcun obbligo di mantenere
i genitori se non lo desiderano, ma per le figlie l'obbligo è ineludibile anche
se non vogliono. Negli altri paesi i sacerdoti degli dei portano i capelli
lunghi, invece in Egitto se li radono. E se presso gli altri popoli, in caso di
lutto, i più colpiti, di regola, si radono il capo, gli Egiziani, quando
qualcuno muore, si lasciano crescere i capelli e la barba che prima si
radevano. Gli altri uomini vivono ben separati dagli animali, in Egitto si
abita insieme con loro. Gli altri si nutrono di grano e orzo, in Egitto chi si
nutre di questi prodotti si attira il massimo biasimo: essi si preparano cibi a
base di "olira", che alcuni chiamano "zeia". Impastano la
farina con i piedi mentre lavorano il fango con le mani [e ammucchiano il
letame]. Gli Egiziani si fanno circoncidere, mentre le altre genti, a eccezione
di quanti hanno appreso da loro tale pratica, lasciano i propri genitali come
sono. Ogni uomo possiede due vestiti; le donne ne possiedono uno solo. Gli
altri legano gli anelli delle vele e le sartie all'esterno, gli Egiziani
all'interno. I Greci scrivono e fanno di conto coi sassolini da sinistra a
destra, gli Egiziani da destra a sinistra, e ciò facendo sostengono di
procedere nel verso giusto, mentre i Greci scriverebbero a rovescio. Possiedono
due sistemi di scrittura che chiamano "sacra" e "popolare".
Sono straordinariamente devoti, più di tutti gli uomini e si attengono alle
seguenti prescrizioni: bevono in tazze di bronzo, che sfregano ben bene ogni
giorno, tutti, senza eccezioni; indossano vesti di lino sempre lavate di
fresco, e nel lavarle mettono molta cura. E si circoncidono per ragioni
igieniche, anteponendo l'igiene al decoro personale. Ogni due giorni i
sacerdoti si radono tutto il corpo per non avere addosso pidocchi o sudiciume
di qualunque genere mentre servono gli dei: i sacerdoti portano solo vesti di lino
e calzano solo sandali di papiro: non possono portare indumenti o calzari di
materiale diverso. Si lavano con acqua fredda due volte al giorno e due volte
ogni notte e si attengono a vari altri cerimoniali: ne hanno a migliaia, si fa
per dire. Ma la loro condizione comporta anche privilegi non indifferenti; per
esempio non consumano e non spendono il loro patrimonio privato: gli vengono
cotti pani sacri e quotidianamente ricevono ciascuno una grande quantità di
carni bovine e di oca; e gli si offre anche vino d'uva; di pesci però non
possono cibarsi. Gli Egiziani non seminano assolutamente fave nel loro paese, e
quelle che crescono spontaneamente non le mangiano né crude né cotte: i
sacerdoti non ne tollerano neppure la vista considerandole un legume impuro.
Non c'è un solo sacerdote per ciascuna divinità, ma molti e uno di loro funge
da sommo sacerdote; e quando ne muore uno gli succede il figlio. Considerano
sacri ad Epafo i buoi e perciò li selezionano con cura: se vedono in un bue
anche un solo pelo nero lo ritengono impuro. Uno dei sacerdoti è preposto a
compiere questa ispezione: esamina l'animale facendolo stare in piedi e steso
sul dorso e gli osserva anche la lingua accertandone la purezza sulla base di
certi indizi prestabiliti di cui parlerò in un'altra occasione; esamina anche i
peli della coda per vedere se sono cresciuti normalmente. Se il bue risulta
completamente privo di impurità, il sacerdote lo contrassegna legandogli un
foglio di papiro intorno alle corna; sul papiro applica creta da sigilli; vi
appone il marchio e l'animale viene portato via. Per chiunque sacrifichi un bue
privo di marchio è prevista la morte come punizione. Questo per quanto riguarda
la cernita del bestiame; il sacrificio poi si svolge così: conducono la bestia
marchiata presso l'altare designato per il rito e accendono il fuoco; versano
quindi libagioni di vino sulla vittima e la sgozzano sull'altare invocando il
dio, e dopo averla sgozzata le tagliano la testa. Il corpo lo scuoiano, la
testa invece, dopo averle scagliato contro numerose maledizioni, la portano
via: dove c'è un mercato e tra la popolazione si trovino commercianti greci,
allora la portano al mercato e la vendono, dove non ci sono Greci la gettano
nel fiume. Nel maledire le teste di bue pregano che se una sciagura sta per
sopravvenire sui sacrificanti o sull'Egitto intero, si scarichi invece su
quella testa. Quanto alle teste degli animali sacrificati e alla libagione di
vino tutti gli Egiziani osservano lo stesso rituale, identico, per tutti i
sacrifici; in conseguenza proprio di tale usanza, nessun Egiziano si ciberebbe
mai della testa di alcun animale. Invece l'estrazione delle viscere della
vittima e il modo di bruciarle differiscono a seconda dei sacrifici. E ora
vengo a parlare della dea che essi considerano più importante, in onore della
quale celebrano la festa più importante. Dopo aver scuoiato il bue, pronunciano
le preghiere rituali e lo sventrano togliendo tutti gli intestini ma lasciando
nella carcassa i visceri e il grasso; tagliano poi le zampe, la punta dei
lombi, le spalle e il collo. Quindi riempiono ciò che resta del bue con pani di
farina pura, miele, uva secca, fichi, incenso, mirra e altre sostanze
aromatiche, e così riempito lo bruciano in sacrificio versandovi sopra olio in
abbondanza. Prima del sacrificio osservano il digiuno; e mentre le vittime
bruciano tutti si battono il petto; quando hanno smesso di battersi il petto,
si preparano un banchetto con le parti rimaste della vittima. Tutti gli
Egiziani sacrificano i buoi maschi e i vitelli che risultano puri, ma non
possono toccare le mucche in quanto sacre a Iside. E infatti la statua di Iside
rappresenta una donna con corna bovine, proprio come i Greci raffigurano Io;
assolutamente non c'è animale domestico venerato dagli Egiziani più delle
femmine dei bovini. Per questo motivo mai nessun Egiziano, uomo o donna,
accetterebbe di baciare un Greco sulla bocca, né mai userebbe il coltello, lo
spiedo o la pentola di un Greco, e neppure assaggerebbe la carne di un bue puro
tagliato con un coltello greco. Quando un bovino muore, gli danno sepoltura nel
modo seguente: le mucche le gettano nel fiume, i buoi li seppelliscono ciascuno
nel proprio sobborgo, lasciando spuntare dal suolo a mo' di indicazione un
corno della bestia o anche entrambi. Si attende che l'animale si sia decomposto
e al momento stabilito in ogni città arriva una barca dall'isola chiamata
Prosopitide. L'isola si trova nel Delta: nel suo perimetro, di nove scheni, si
trovano varie altre città, ma quella da cui vengono le imbarcazioni a caricare
le ossa dei buoi si chiama Atarbechi; qui ha sede un tempio sacro ad Afrodite.
Da Atarbechi partono in molti verso differenti città: dissotterrano le ossa, le
portano via e le seppelliscono in un unico luogo. E così seppelliscono anche
gli altri animali che muoiono; anche per essi vige l'identica legge: non li
possono uccidere. Quanti hanno eretto un tempio a Zeus Tebano, o sono del
distretto di Tebe, sacrificano capre evitando di toccare le pecore. In effetti
gli Egiziani non venerano tutti ugualmente gli stessi dei, tranne Iside e
Osiride, che dicono corrispondere a Dioniso: queste due divinità le venerano
proprio tutti. Quanti hanno un santuario di Mendes o fanno parte del distretto
Mendesio si astengono dal sacrificare caprini e uccidono solo ovini. I Tebani e
chi ha appreso da loro ad astenersi dalle pecore dicono che tale regola venne
imposta loro per la seguente ragione. Eracle, raccontano, fu preso da un gran
desiderio di vedere Zeus, ma Zeus non voleva essere visto da lui; poiché Eracle
insisteva Zeus dovette ricorrere ad un artificio: scuoiò un montone e gli
tagliò la testa; poi si mostrò a Eracle tenendo la testa del montone davanti
alla propria e indossandone la pelle. Ecco perché gli Egiziani rappresentano
Zeus nelle statue con la testa di montone; e come gli Egiziani fanno gli
Ammoni, che sono coloni egiziani ed etiopici e la cui lingua è una via di mezzo
tra l'egiziano e l'etiope. A mio parere gli Ammoni derivarono dal dio egizio
anche il loro nome, dato che gli Egiziani chiamano Ammone Zeus. Dunque per
questo motivo i Tebani non sacrificano i montoni, anzi li ritengono animali
sacri. Però c'è un giorno, nell'anno, durante la festa di Zeus, in cui uccidono
un montone, lo scuoiano e con la sua pelle rivestono nella stessa maniera la statua
di Zeus; accanto ad essa trasportano una statua di Eracle; dopodiché tutti gli
addetti al tempio si battono il petto in segno di lutto per il montone e lo
seppelliscono in una fossa consacrata. A proposito di Eracle ho sentito
raccontare che è una delle dodici divinità. Dell'altro Eracle, quello
conosciuto dai Greci, in nessuna parte dell'Egitto ho potuto avere notizie. Che
non siano stati gli Egiziani a prendere il nome di Eracle dai Greci, ma
piuttosto i Greci dagli Egiziani, e precisamente quei Greci che chiamarono
Eracle il figlio di Anfitrione, molti indizi me lo provano e il seguente in
particolare: Anfitrione e Alcmena, i genitori dell'Eracle greco, avevano
antenati originari dell'Egitto. Del resto gli Egiziani dichiarano di non
conoscere i nomi né di Posidone né dei Dioscuri, e non li annoverano fra le
restanti divinità. Ora, se gli Egiziani avessero adottato dai Greci un
personaggio divino, si sarebbero ricordati di questi in misura non minore, ma
maggiore, se è vero che anche allora erano dediti alla navigazione ed
esistevano dei marinai Greci; così almeno mi aspetterei e questo il mio
ragionamento richiede. Insomma non Eracle bensì queste altre figure divine gli
Egiziani avrebbero dovuto derivare dai Greci. L'Eracle egiziano è certamente un
dio antico; come essi stessi raccontano fra il regno di Amasi e l'epoca in cui
gli originari otto dei diventarono dodici (Eracle secondo loro era uno di
questi dodici) son passati 17.000 anni. Io poi, volendo conoscere le cose con
chiarezza da chi era in grado di dirmele, mi recai per mare fino a Tiro, in
Fenicia; avevo saputo che là si trovava un tempio sacro a Eracle, e lo vidi,
riccamente adorno di molti e vari doni votivi; e fra l'altro c'erano due
colonnine, una d'oro puro, l'altra di smeraldo che nella notte riluceva
grandemente. Conversando con i sacerdoti del dio domandai da quanto tempo fosse
stato costruito il tempio, e così constatai che neanche nel caso loro c'era
concordanza con i Greci: mi risposero infatti che il tempio risaliva all'epoca
della fondazione di Tiro, e che Tiro era abitata da 2300 anni. A Tiro vidi
anche un altro tempio di Eracle, detto di Eracle Tasio, perciò visitai anche
Taso e vi trovai un santuario di Eracle edificato dai Fenici che, andando per
mare alla ricerca di Europa, fondarono Taso; e tutto ciò era accaduto almeno
cinque generazioni prima che in Grecia nascesse l'Eracle figlio di Anfitrione.
Le indagini dimostrano dunque, con evidenza, che Eracle è un dio molto antico.
Per conto mio l'atteggiamento più corretto lo mostrano quei Greci che hanno
edificato santuari dedicati a due Eracle, a uno sotto l'appellativo di Olimpio
offrendo sacrifici come a un dio immortale, all'altro rendendo onori come a un
eroe. Sono molte e varie le cose che i Greci raccontano con assoluta superficialità,
fra le quali una sciocca storia riguardante un viaggio di Eracle in Egitto; qui
gli Egiziani dopo avergli legato intorno alla testa le sacre bende lo avrebbero
condotto in processione per immolarlo a Zeus; lui per un po' sarebbe rimasto
tranquillo, ma poi, quando cominciarono presso l'altare i riti per il suo
olocausto, fece ricorso alla forza e uccise tutti gli Egiziani. A me pare che i
Greci narrando questa favoletta dimostrino di ignorare assolutamente l'indole e
le usanze egiziane. Infatti, gente per cui costituisce empietà persino immolare
animali, tranne ovini, buoi, vitelli, e purché siano puri, e oche, come
potrebbe, gente così, compiere sacrifici umani? E come avrebbe potuto Eracle,
da solo, e per di più da semplice mortale, a sentir loro, uccidere decine di
migliaia di Egiziani? A noi che abbiamo speso così tante parole su tali
argomenti gli dei e gli eroi concedano il loro favore. Ma ecco perché i
Mendesi, Egiziani da noi già nominati, non sacrificano né i maschi né le
femmine delle capre: essi annoverano Pan fra le otto divinità, e dicono che
queste otto divinità esistevano prima dei dodici dei, e gli artisti nelle loro
pitture e nelle loro sculture rappresentano Pan come fanno i Greci, con volto
di capra e zampe di capro; non perché lo credano fatto così, anzi lo ritengono
simile agli altri dei, ma per una ragione che ora non mi fa piacere riferire. I
Mendesi venerano tutti i caprini, gli esemplari femmina e ancora di più i
maschi, i cui guardiani ricevono onori maggiori; tra gli animali ce n'è uno
particolarmente venerato alla cui morte nel nomo di Mendes si proclama un lutto
generale. Tra l'altro capro e Pan, in egiziano si dicono "mendes". E
ai miei tempi in questo distretto avvenne un fatto straordinario: pubblicamente
una donna si accoppiava con un capro, alla luce del sole, dico, davanti a
tutti. Gli Egiziani considerano il maiale un animale immondo; già uno, se fa
tanto di sfiorare un maiale passandogli accanto, va subito a immergersi nel
fiume, così com'è, con tutti i vestiti indosso; i guardiani di maiali, poi,
anche se egiziani di nascita, sono gli unici a non poter entrare in alcun
santuario egiziano; e nessuno desidera concedere per sposa sua figlia a uno di
loro, o prendere in moglie la figlia di un porcaro, tanto che i porcari
finiscono per celebrare matrimoni solo all'interno del gruppo. Gli Egiziani non
ritengono lecito offrire suini a dei che non siano Selene e Dioniso; a tali
divinità sacrificano maiali, nello stesso periodo, nello stesso plenilunio, e
ne mangiano le carni. Sul motivo per cui nelle altre feste si astengono con
orrore dai maiali, e in questa invece ne sacrificano, gli Egiziani narrano una
leggenda: io la conosco ma non mi sembra molto decorosa da riferire. L'offerta
del maiale alla dea Selene avviene nel modo seguente: una volta ucciso
l'animale, si prendono insieme la punta della coda, la milza e l'omento, li si
ricopre per bene col grasso ventrale della vittima e li si brucia; delle altre
carni ci si ciba nel giorno di plenilunio, lo stesso in cui il rito ha luogo:
in giorni diversi non le si assaggerebbe nemmeno. I poveri, non avendo altre
risorse, impastano focacce in forma di maiale, le fanno cuocere e poi le
"sacrificano". Invece in onore di Dioniso, la vigilia della festa,
ciascuno sgozza un porcellino davanti alla propria porta e lo consegna allo
stesso porcaro che glielo aveva venduto perché se lo porti via. Per il resto, a
parte l'assenza di cori, la festa dedicata dagli Egiziani a Dioniso è pressoché
identica a quella dei Greci. Al posto dei falli hanno inventato statuette mosse
da fili, alte circa un cubito che le donne portano in giro per i villaggi; ogni
marionetta è fornita di un pene oscillante, lungo quasi quanto il resto del
corpo. In testa alla processione va un suonatore di flauto, le donne lo seguono
inneggiando a Dioniso. Una leggenda sacra spiega per quale ragione il fallo è
così sproporzionato e perché nelle statuette è l'unica parte dotata di
movimento. A me pare che già Melampo figlio di Amitaone non ignorasse questo
rito sacrificale, anzi ne avesse esperienza diretta. Effettivamente fu Melampo
a introdurre fra i Greci la divinità di Dioniso, i sacrifici relativi, e la
processione dei falli; o meglio, egli non rivelò tutto in una volta tale culto:
i sapienti venuti dopo di lui ampliarono le sue rivelazioni. Fu però Melampo a
introdurre la processione del fallo in onore di Dioniso, ed è dopo averlo
appreso da lui che i Greci fanno quello che fanno. Io dico insomma che Melampo,
certamente persona di grande sapienza, si procurò capacità divinatorie e
introdusse in Grecia parecchi culti conosciuti in Egitto, tra cui in
particolare quello di Dioniso, operando in essi poche modifiche. Non posso
ammettere che il rito egiziano coincida fortuitamente con quello greco: in
questo caso il rito greco sarebbe conforme ai costumi greci e non di recente
introduzione; né posso ammettere che gli Egiziani abbiano derivato dai Greci
questa o altre usanze. A me pare altamente probabile che Melampo abbia appreso
il culto di Dioniso da Cadmo di Tiro e dai suoi compagni, giunti dalla Fenicia
nel paese oggi chiamato Beozia. Dall'Egitto vennero in Grecia quasi tutte le
divinità. Di una loro origine barbara io sono convinto perché così risulta
dalle mie ricerche; e penso a una provenienza soprattutto egiziana. Infatti a
eccezione di Posidone e dei Dioscuri, come ho già avuto modo di dire, nonché di
Era, di Estia, di Temi, delle Cariti e delle Nereidi, le altre divinità sono
tutte presenti da sempre in quel paese, fra gli Egiziani: riporto quanto essi
stessi dichiarano. Quanto alle divinità che sostengono di non conoscere io
credo che tutte siano espressione dei Pelasgi, tranne Posidone. Conobbero
questo dio dai Libici; infatti nessun popolo conosce Posidone fin dalle origini
tranne i Libici, che da sempre lo onorano. Quanto al culto degli Eroi, esso è
del tutto estraneo alle consuetudini egiziane. Tutto questo dunque i Greci
accolsero dagli Egiziani, e altro ancora che dirò più avanti; ma l'uso di
fabbricare le statue di Ermes con il pene ritto non deriva dagli Egiziani bensì
dai Pelasgi: i primi ad adottarlo fra i Greci furono gli Ateniesi, e da loro lo
impararono gli altri. Infatti, quando ormai gli Ateniesi si erano del tutto
ellenizzati, nel loro paese vennero ad abitare dei Pelasgi; che è anche la
ragione per cui costoro cominciarono a essere considerati Greci. Chi è iniziato
ai misteri dei Cabiri, misteri che i Samotraci celebrano dopo averli acquisiti
dai Pelasgi, sa ciò che dico. In effetti i Pelasgi venuti a coabitare con gli
Ateniesi si stanziarono poi in Samotracia e da loro i Samotraci appresero tali
misteri. Insomma gli Ateniesi furono i primi Greci a raffigurare nelle statue
Ermes con il membro ritto perché lo avevano imparato dai Pelasgi. In proposito
i Pelasgi composero un sacro racconto divulgato durante i misteri di
Samotracia. |[continua]| |[LIBRO II, 2]| Un tempo i Pelasgi, come io stesso so
avendolo udito a Dodona, compivano tutti i sacrifici e invocavano gli dei senza
usare un nome personale o un appellativo: ancora non conoscevano nulla del
genere. Li chiamarono "dei" ($èåïß$) in quanto avevano stabilito
($èÝíôåò$) l'ordine dell'universo e quindi regolavano la ripartizione di ogni
cosa. Molto tempo dopo appresero i nomi di tutti gli altri dei, originari
dell'Egitto, tranne quelli di Dioniso che appresero molto più tardi; dopo un
certo tempo interrogarono l'oracolo di Dodona a proposito di tali nomi;
l'oracolo di Dodona è considerato il più antico della Grecia intera e a
quell'epoca era anche l'unico. Dunque i Pelasgi chiesero a Dodona se dovevano
accogliere le divinità provenienti da genti barbare e l'oracolo rispose di
accoglierle pure. Da allora nei loro sacrifici adoperarono gli appellativi
divini. Tale uso passò più tardi dai Pelasgi ai Greci. Da chi sia nato ciascuno
degli dei, oppure se siano sempre esistiti tutti e quale aspetto avessero, non
era noto fino a poco tempo fa, fino a ieri, se così si può dire. Io credo che
Omero ed Esiodo siano più vecchi di me di 400 anni e non oltre: e furono
proprio questi poeti a fissare per i Greci la teogonia, ad assegnare i nomi
agli dei, a distribuire prerogative e attività, a dare chiare indicazioni sul
loro aspetto; i poeti che hanno fama di essere vissuti prima di loro io li
credo invece posteriori. Di quanto qui sopra esposto, le prime informazioni
provengono dalle sacerdotesse di Dodona, ciò che si riferisce a Omero e a
Esiodo è opinione mia. A proposito dei due oracoli, quello greco di Dodona e
quello libico di Zeus Ammone, gli Egiziani narrano una storia. I sacerdoti di
Zeus Tebano mi raccontarono di due donne, due sacerdotesse, rapite da Tebe ad
opera di Fenici: una di loro, come avevano appreso più tardi, era stata venduta
in Libia, l'altra in Grecia; a queste donne risalirebbe la fondazione degli
oracoli esistenti fra i suddetti popoli. Io domandai ai sacerdoti da dove
attingessero notizie così precise sugli avvenimenti ed essi mi risposero che
avevano cercato a lungo quelle donne senza riuscire a trovarle; solo più tardi,
aggiunsero, avevano ottenuto su di loro le informazioni a me riferite. Questo è
quanto seppi dai sacerdoti di Tebe. La versione delle indovine di Dodona è
differente: secondo loro due colombe nere volarono via da Tebe d'Egitto e
giunsero l'una in Libia, l'altra a Dodona. Quest'ultima, appollaiata su di una
quercia, con voce umana avrebbe proclamato che si doveva fondare in quel luogo
un oracolo di Zeus; la gente di Dodona, ritenendo di origine divina un simile
annuncio, si comportò di conseguenza. La colomba direttasi in Libia, narrano,
avrebbe ordinato ai Libici di fondare l'oracolo di Ammone, che è anch'esso di
Zeus. Questo mi raccontarono le sacerdotesse di Dodona, che si chiamavano
Promenia, la più anziana, Timarete, la seconda, e Nicandre, la più giovane; e
con la loro versione concordano anche gli altri abitanti di Dodona addetti al santuario.
La mia opinione al riguardo è la seguente: se veramente i Fenici rapirono le
sacerdotesse e le vendettero, l'una in Libia e la seconda in Grecia, io credo
che quest'ultima fu venduta nel paese dei Tesproti, nell'attuale Grecia, che
allora si chiamava Pelasgia; lì visse come schiava, poi, sotto una quercia
cresciuta spontaneamente, fondò un santuario di Zeus; era logico che lei, già
sacerdotessa di Zeus a Tebe, volesse perpetuarne il ricordo anche là dov'era
giunta. Più avanti, quando imparò la lingua greca, diede inizio alle attività
dell'oracolo. Fu lei a raccontare di una sua sorella venduta in Libia dagli
stessi Fenici che avevano venduto lei. A mio avviso i Dodonesi hanno chiamato
colombe le due donne perché erano barbare e perciò a loro sembravano emettere
suoni simili al canto degli uccelli, e aggiungono che la colomba prese a
parlare con favella umana col passare del tempo, cioè quando la donna cominciò
a esprimersi in maniera comprensibile: finché si serviva di un idioma barbaro
sembrava a tutti che emettesse una specie di verso da uccello; come avrebbe
potuto una colomba parlare con voce umana? Descrivendo poi la colomba come nera
di colore, indicano che la donna proveniva dall'Egitto. Guarda caso l'arte
mantica praticata a Tebe d'Egitto e quella praticata a Dodona sono assai simili
fra loro. E anche la divinazione mediante l'esame delle vittime sacrificate
proviene dall'Egitto. Gli Egiziani sono stati i primi al mondo a istituire
feste collettive, processioni e cortei religiosi; i Greci hanno imparato da
loro e ne abbiamo una prova: le solennità egiziane risultano celebrate da molto
tempo, quelle greche hanno avuto inizio di recente. Le feste collettive gli
Egiziani non le celebrano una sola volta all'anno, ma in continuazione: la
principale, e seguita con maggiore partecipazione, è dedicata ad Artemide,
nella città di Bubasti; la seconda ha luogo a Busiride ed è dedicata a Iside;
in questa città, situata in Egitto nel bel mezzo del Delta, si trova un
grandissimo santuario di Iside, la dea che in greco si chiama Demetra. La terza
festa è per Atena, nella città di Sais, la quarta a Eliopoli, per il dio Elio,
la quinta a Buto in onore di Leto; la sesta è dedicata ad Ares e ha luogo nella
città di Papremi. Ecco che cosa fanno quando si recano a Bubasti: viaggiano sul
fiume, uomini e donne insieme, una gran folla di entrambi i sessi sopra ogni
imbarcazione; alcune donne hanno dei crotali e li fanno risuonare, alcuni
uomini suonano il flauto per tutto il tragitto; gli altri, uomini e donne,
cantano e battono le mani; quando giungono all'altezza di un'altra città,
accostano a riva e si comportano così: alcune continuano a fare ciò che ho
detto, altre a gran voce dileggiano le donne del posto, altre danzano, altre
ancora si alzano in piedi e si tirano su la veste. Così in ogni città che
incontrino lungo il fiume. Una volta arrivati a Bubasti, celebrano la festa
offrendo imponenti sacrifici; in questa ricorrenza si consuma più vino d'uva
che in tutto il resto dell'anno. Vi accorrono, a quanto sostengono i locali,
fino a settecentomila persone fra uomini e donne, senza contare i bambini. Così
a Bubasti; a Busiride quando celebrano la festa di Iside tutto si svolge come
ho già ricordato prima. Dopo il sacrificio uomini e donne si battono tutti il
petto, e sono svariate decine di migliaia di persone: ma dire in onore di chi
si battono il petto sarebbe empio da parte mia. Tutti i Cari che vivono in
Egitto si spingono molto più in là: con dei coltelli si infliggono ferite sulla
fronte, e da questo si capisce che non sono Egiziani, ma stranieri. A Sais,
quando si riuniscono per i riti sacrificali, una determinata notte ciascuno
accende molte lampade intorno alla propria casa, all'aperto; le lampade sono
delle ciotoline piene di sale e di olio, sulla cui superficie galleggia il
lucignolo e brucia per tutta la notte; sicché la festa è detta "dei lumi
accesi". Gli Egiziani che non si recano a questo raduno festivo aspettano
la notte del sacrificio e accendono a loro volta, tutti, le lucerne; e in tal
modo non solo a Sais si accendono lucerne, ma nell'intero Egitto. Si tramanda
un racconto sacro che spiega per quale motivo la notte in questione ha ricevuto
luce e venerazione. Quelli che si recano a Eliopoli e a Buto compiono soltanto
dei sacrifici. Invece a Papremi hanno luogo sacrifici e riti sacri come
altrove: al tramonto del sole, mentre pochi sacerdoti si occupano della statua
del dio, i più, invece, attendono in piedi all'ingresso del tempio armati di
mazze di legno; altri uomini, oltre un migliaio di persone che compiono un
voto, se ne stanno tutti insieme in un gruppo a parte, anch'essi armati di
mazze. La statua del dio, contenuta dentro una specie di piccolo tabernacolo di
legno ornato d'oro, era stata trasportata, la vigilia della festa, in una
diversa dimora sacra. I pochi sacerdoti rimasti accanto ad essa tirano un
carretto a quattro ruote, che porta il tabernacolo con dentro la statua stessa,
ma i sacerdoti in piedi vicino all'ingresso non la lasciano entrare: allora il
gruppo delle persone impegnate a soddisfare il voto prende le difese del dio
randellando i sacerdoti; questi a loro volta reagiscono. Insomma si scatena una
violenta rissa a colpi di bastone: si fracassano la testa e secondo me molti ci
lasciano la pelle in seguito alle ferite riportate; gli Egiziani comunque
escludono categoricamente che sia mai morto qualcuno. Gli abitanti di Papremi
dicono di aver introdotto tale festa per il seguente motivo. Abitava un tempo
nel santuario la madre di Ares; Ares che era stato allevato altrove, divenuto
adulto, venne a Papremi per congiungersi con lei; ma i servitori della madre
non lo avevano mai visto prima di allora, perciò non gli consentirono
l'ingresso e lo mandarono via; Ares raccolse uomini da un'altra città e usando
le cattive maniere nei confronti dei servitori poté entrare da sua madre. Da
tale episodio, dicono, avrebbe tratto origine l'usanza della bastonatura
durante la festa in onore di Ares. Gli Egiziani sono stati anche i primi ad
osservare religiosamente il divieto di accoppiarsi con le donne all'interno dei
santuari e di entrarvi dopo un accoppiamento senza essersi lavati. Quasi
ovunque nel mondo, tranne in Egitto e in Grecia, uomini e donne hanno rapporti
sessuali dentro aree sacre, o vi entrano, dopo, senza essersi lavati, ritenendo
che gli uomini sono come le altre bestie. Infatti si vedono tutti gli animali e
varie specie di uccelli accoppiarsi all'interno dei templi o dei sacri recinti;
se ciò non fosse gradito agli dei, dicono, gli animali non lo farebbero. Con
questa giustificazione tengono un comportamento che a me non piace affatto.
Invece gli Egiziani hanno uno straordinario rispetto per le norme religiose in
generale e per queste in particolare. Pur confinando con la Libia, l'Egitto non
è molto popolato da animali, ma quelli che vi sono, sono considerati sacri,
senza eccezione, sia quelli domestici come i selvatici. Se spiegassi perché
sono considerati sacri verrei a parlare di questioni divine, sulle quali io
evito il più possibile di intrattenermi. Se talora ho sfiorato simili argomenti,
l'ho fatto perché costretto dalla necessità. Esiste una legge sugli animali:
essa prescrive che degli Egiziani, uomini o donne, vengano incaricati di
provvedere al nutrimento di ciascuna specie; e tale onore si trasmette dal
genitore al figlio. Gli abitanti delle città, ciascuno per conto suo, quando
fanno voti al dio protettore di un dato animale compiono questi riti: radono il
capo dei propri figli, per intero, per metà o per un terzo, e poi sui due
piatti della bilancia pongono i capelli e dell'argento: l'argento che
controbilancia il peso dei capelli lo danno alla guardiana degli animali; in
cambio di tale somma essa sminuzza del pesce e lo dà in pasto alle bestie. Ecco
dunque, come è prescritto che vengano nutrite. Se qualcuno uccide uno di questi
animali, se lo fa volontariamente la pena prevista è la morte, se
involontariamente paga la pena stabilita dai sacerdoti. Nel caso si uccida un
ibis o uno sparviero, volontariamente o involontariamente, la pena di morte è
inevitabile. Le bestie che vivono con l'uomo sono già molte, ma sarebbero
ancora di più se ai gatti non accadesse una cosa strana: le femmine dopo aver
partorito non vanno più con i maschi; questi provano ad accoppiarsi con esse,
ma senza riuscirci. Ricorrono allora a una astuzia: rapiscono e sottraggono
alle femmine i piccoli e li uccidono, dopo, però, non li divorano. Le gatte,
private dei figli, ne desiderano altri e così ritornano ad accoppiarsi con i
maschi: è un animale che ama molto la sua prole. Se scoppia un incendio i gatti
assumono un comportamento prodigioso: gli Egiziani formano un cordone per
tenere lontani i gatti, trascurando persino di spegnere le fiamme, ma i gatti
sgusciando fra gli uomini o saltando sopra di loro si lanciano nel fuoco e
quando questo avviene gli Egiziani provano una grande afflizione. Nelle case in
cui un gatto muore di morte naturale tutti gli abitanti della casa si radono
solo le sopracciglia; dove muore un cane si radono tutto il corpo e la testa. I
gatti morti vengono trasportati in ricoveri sacri, dove vengono imbalsamati e
seppelliti, nella città di Bubasti. I cani invece li seppelliscono ciascuno
nella propria città, in sacri loculi, e come i cani seppelliscono anche le
manguste. I topiragno e gli sparvieri li portano a Buto, gli ibis a Ermopoli.
Gli orsi, che sono rari, e i lupi, che non sono molto più grossi delle volpi,
li seppelliscono nello stesso punto in cui li trovano morti. Ecco le
caratteristiche del coccodrillo: nei quattro mesi più freddi non mangia nulla;
ha quattro zampe e vive tanto nell'acqua come sulla terra ferma, dove depone e
fa schiudere le uova; trascorre la maggior parte del giorno all'asciutto, ma
l'intera notte nel fiume perché l'acqua è più calda dell'aria e della rugiada.
Fra tutti gli animali conosciuti è quello che dalle dimensioni più piccole
raggiunge le più grandi: infatti depone uova non molto più grosse di quelle di
un'oca e il piccolo appena nato è grande in proporzione; poi crescendo
raggiunge i 17 cubiti e anche di più. Possiede occhi di maiale, denti e zanne
smisurate in ragione del corpo; è l'unico degli animali a non possedere lingua.
Non muove la mascella inferiore, ma, anche in questo unico fra gli animali,
accosta la mascella superiore all'inferiore. Ha unghie robuste e sul dorso una
pelle scagliosa indistruttibile; nell'acqua è cieco ma all'aria aperta possiede
una vista acutissima. Poiché trascorre in acqua parte del suo tempo, ne esce
con la bocca coperta di sanguisughe; e mentre tutti gli altri uccelli o fiere
lo fuggono, il trochilo invece è con lui in ottimi rapporti perché gli rende un
prezioso servizio: infatti quando il coccodrillo è uscito dall'acqua sulla riva
e spalanca le fauci (cosa che fa abitualmente e per lo più in direzione dello
zefiro) allora il trochilo gli penetra in bocca e ingoia le sanguisughe: il
coccodrillo gode del sollievo procuratogli dal trochilo e non gli fa alcun
male. I coccodrilli sono sacri per alcuni Egiziani e per altri no; anzi li
trattano con grande ostilità. Quanti abitano intorno alla città di Tebe e al
lago di Meride li ritengono assolutamente sacri: in entrambe queste regioni
provvedono al mantenimento di un coccodrillo scelto fra tutti, ammaestrato e
addomesticato: gli ornano le orecchie con ciondoli di smalto e d'oro, e con
anelli le zampe anteriori, lo nutrono con cibi scelti e vittime di sacrifici,
trattandolo insomma nel modo migliore finché è in vita. Quando muore lo
imbalsamano e lo seppelliscono in loculi sacri. Al contrario coloro che abitano
nei pressi di Elefantina arrivano a cibarsi dei coccodrilli, così poco li considerano
sacri. Il loro nome non è "coccodrilli", bensì "champsai";
furono gli Ioni a chiamarli "coccodrilli" quando li videro simili per
aspetto ai coccodrilli che nel loro paese si trovano sui muri di pietra. La
cattura del coccodrillo avviene secondo molte e varie tecniche; io descriverò
quella che mi sembra più meritevole di esposizione. Il cacciatore sistema su di
un uncino una spalla di maiale e la lancia in mezzo al fiume; quindi stando
sulla riva percuote un porcellino vivo: il coccodrillo sente le grida del
maialino e avanza in direzione della voce, si imbatte nell'esca e la divora: a
quel punto lo trascinano a riva; quando è sulla terra per prima cosa il
cacciatore gli copre gli occhi con del fango: se fa così, dopo riesce
facilmente ad averne ragione, se non fa così deve sudare parecchio. Gli
ippopotami sono sacri nel nomo di Papremi ma non per gli altri Egiziani. Le
caratteristiche esteriori dell'ippopotamo sono: quattro zampe, zoccolo fesso
come quello dei buoi, muso rincagnato, criniera da cavallo, fauci con zanne in
bella evidenza, coda e voce simili a un cavallo; è grosso quanto il più grosso
dei buoi. La sua pelle è talmente spessa che quando è secca se ne possono fare
aste per dardi. Nel fiume ci sono anche lontre che gli Egiziani considerano
sacre. Tra i pesci ritengono sacri il cosiddetto "lepidoto" e
l'anguilla; li dicono sacri al Nilo, come pure, fra gli uccelli, le
chenalopeci. E c'è anche un altro uccello sacro, chiamato fenice; per altro io
non ne ho mai visti se non in dipinti; pare infatti che compaia in poche
circostanze, ogni 500 anni a sentire gli abitanti di Eliopoli. E dicono che
apparirebbe solo quando gli muore il padre; se le raffigurazioni sono fedeli
per dimensioni e per forma è come segue: le penne delle ali sono in parte dorate
e in parte rosse; per sagoma e dimensioni somiglia molto a un'aquila. Gli
attribuiscono, ma a me non pare troppo credibile, un'impresa straordinaria:
volerebbe dall'Arabia fino al tempio del dio Elio trasportando il padre avvolto
nella mirra per seppellirlo nel santuario; lo trasporta così: prima con la
mirra fabbrica un uovo grande quanto è in grado di sollevare; dopo alcuni voli
di prova lo svuota e vi introduce il padre; poi spalma altra mirra sul buco
usato per svuotare l'uovo e per farvi entrare il padre; l'uovo con dentro il
padre pesa quanto pesava prima; a questo punto lo trasporta in Egitto al tempio
del dio Elio. Questo farebbe la fenice, a quanto riferiscono. Nella zona di
Tebe sono sacri dei serpenti del tutto innocui per l'uomo e di dimensioni assai
ridotte che portano due corni sulla sommità della testa; quando muoiono li
seppelliscono nel tempio di Zeus: dicono infatti che sono sacri al dio. C'è una
località in Arabia, pressappoco di fronte alla città di Buto, dove mi sono
recato per ottenere informazioni a proposito dei serpenti alati. Quando vi
giunsi vidi resti e scheletri di rettili in quantità indescrivibili: interi
cumuli di spine dorsali, un gran numero di cumuli grandi, piccoli e di medie
dimensioni. La località dove le ossa giacciono ammucchiate si presenta così: un
passaggio fra anguste montagne verso un'ampia pianura, pianura che è collegata
alla piana d'Egitto. Si racconta che all'inizio della primavera i serpenti
alati volano dall'Arabia in direzione dell'Egitto, ma che gli ibis li
affrontano all'ingresso di questa regione e impediscono loro di entrare, anzi
ne fanno strage. A ciò gli Arabi fanno risalire il grande onore tributato agli
ibis dagli Egiziani; e gli Egiziani stessi sono d'accordo nello spiegare così
il rispetto che portano agli ibis. L'ibis, di aspetto, è un uccello del tutto
nero con zampe simili alle zampe di una gru e becco assai ricurvo; la taglia è
quella di una gallinella. Così si presentano gli ibis neri, quelli che
combattono contro i serpenti alati; ma le specie di ibis sono due, e quella che
gli uomini si trovano tra i piedi è così: ha nudi la testa e il collo, tutte
bianche le piume tranne che sul capo, sulla gola e sulla punta delle ali e
della coda, dove sono al contrario perfettamente nere; per zampe e sagoma è
simile all'altra specie. L'aspetto dei serpenti è simile a quello delle idre;
hanno ali senza penne, molto simili alle ali del pipistrello. E quanto ho detto
basti sul conto degli animali sacri. Gli Egiziani residenti nella parte
seminata dell'Egitto sono i più dotti fra tutti coloro con cui io abbia mai
avuto a che fare, perché coltivano memoria dell'umanità intera. Essi hanno il
seguente sistema di vita: si purgano per tre giorni consecutivi al mese
cercando la salute con emetici e clismi intestinali, convinti che dai cibi di
cui si nutrono derivino agli uomini tutte le malattie. In effetti gli Egiziani
sono inoltre la popolazione più sana al mondo dopo i Libici, e ciò a mio parere
a causa delle stagioni , cioè per l'assenza di mutamenti di stagione; le
malattie degli uomini hanno origine per lo più nei cambiamenti, e in
particolare nei cambi di stagione. Si cibano di pane preparato con farina di
olira, che chiamano "killestis"; bevono vino d'orzo perché nel loro
paese non hanno viti; mangiano pesci crudi e seccati al sole o conservati sotto
sale. Fra gli uccelli mangiano quaglie, anatre e uccellini, crudi e sotto sale;
tutti gli altri uccelli e pesci che possiedono, tranne quelli considerati
sacri, li mangiano arrosto o lessi. Alle riunioni dei benestanti, appena si è
finito di mangiare, un uomo porta in giro una scultura di legno raffigurante un
cadavere nella sua bara, imitato alla perfezione nell'intaglio e nei colori, e
lungo in tutto uno o due cubiti, e mostrandolo a ciascuno dei convitati dice: "Guardalo
e bevi e divertiti: quando sarai morto anche tu sarai così". Questo fanno
quando sono riuniti per bere. Conservano le loro usanze nazionali e non ne
acquisiscono di nuove. Tra le varie notevoli tradizioni si segnala l'esistenza
di un unico canto, il canto di Lino, lo stesso presente in Fenicia, a Cipro e
altrove: il nome è diverso presso ciascuna popolazione, ma si è d'accordo nel
ritenerlo lo stesso cantato dai Greci sotto il nome di Lino; cosicché tra tante
altre cose d'Egitto che mi incuriosivano c'era anche l'origine di questo canto.
L'impressione è che l'abbiano sempre cantato; in egiziano Lino si chiama
Manero. Alcuni Egiziani mi hanno raccontato che Manero fu l'unico figlio del
primo re dell'Egitto; alla sua morte prematura gli Egiziani cantarono in suo
onore questi lamenti funebri, che furono il loro primo e unico tipo di canto.
Un'altra usanza gli Egiziani hanno in comune con i Greci, o meglio con gli
Spartani: quando dei giovani incontrano per strada persone più anziane cedono
il passo, si scostano e al loro arrivo si alzano se erano seduti. Diversa
assolutamente dall'uso greco è l'abitudine di inchinarsi abbassando la mano
fino al ginocchio, invece di scambiarsi semplicemente un saluto, per strada.
Vestono tuniche di lino chiamate "calasiri", ornate di frange intorno
alle gambe; sopra le tuniche indossano mantelli di lana bianca, ma non possono
portarli dentro un tempio e usarli nel corredo funebre: non è infatti
consentito. In questo vanno d'accordo con i precetti denominati Orfici e Bacchici,
che sono in realtà egiziani, e Pitagorici: chi è iniziato a tali misteri
commette empietà se si fa seppellire con vesti di lana. In proposito esiste un
racconto sacro. Agli Egiziani risalgono le seguenti altre scoperte: a quale dio
appartengono ciascun mese e ciascun giorno, e, sulla base del giorno di
nascita, quali eventi gli capiteranno, come terminerà la vita e quale
personalità avrà; di tali scoperte si valsero quanti fra i Greci si dedicarono
alla poesia. Da soli hanno individuato effetti miracolosi più di tutti gli
altri uomini messi assieme; perché dopo il verificarsi di un prodigio osservano
con attenzione l'avvenimento che ne consegue e lo registrano, sicché, quando
poi si verifica qualcosa di simile, ritengono che si ripeterà lo stesso avvenimento.
L'arte della divinazione in Egitto è così fatta: non si attribuisce a nessun
uomo, ma spetta ad alcune divinità. E infatti in Egitto esistono oracoli di
Eracle, di Apollo, di Atena, di Artemide, di Ares e di Zeus, nonché di Latona,
nella città di Buto, l'oracolo che fra tutti gode della maggiore
considerazione. Le tecniche di predizione non sono ovunque le stesse, ma
differiscono fra loro. L'arte medica in Egitto è così suddivisa: ogni medico
cura una e una sola malattia; e ci sono medici dappertutto: alcuni curano gli
occhi, altri la testa, altri i denti, altri le affezioni del ventre, altri
ancora le malattie oscure. Ed ecco come si svolgono lamentazioni funebri e
funerali: quando in una casa viene a mancare un uomo di una certa importanza,
tutte le donne della casa si impiastricciano di fango la testa o anche il
volto; poi, lasciando il morto nella casa, girano succinte e a seno scoperto
per la città battendosi il petto e con loro tutte le donne del parentado. Anche
gli uomini si battono il petto succinti, ma separatamente. Fatto ciò, portano
il cadavere all'imbalsamazione. In Egitto esistono persone depositarie di tale
tecnica funeraria che svolgono questa mansione. Costoro, quando ricevono un
cadavere, mostrano a quelli che l'hanno portato un campionario di salme di
legno, rese somiglianti con la pittura; e li informano che la più accurata
imbalsamazione è quella di colui il cui nome non mi è lecito riferire in una
simile circostanza, poi mostrano la seconda che è inferiore e meno costosa e
infine la terza che è la meno cara; e parlando chiedono ai clienti con quale
tipo desiderino che il loro morto sia trattato. I clienti si mettono d'accordo
sul prezzo e se ne vanno, ed essi, senza muoversi dai loro laboratori,
imbalsamano, nel modo più accurato, come segue: per prima cosa con ferri
uncinati, attraverso le narici, estraggono il cervello; in parte usano questi
ferri, ma si aiutano anche con acidi. Poi con un'affilata pietra etiopica
aprono il cadavere all'altezza dell'addome e ne asportano tutto l'intestino;
quindi lo puliscono, lo cospargono di vino di palma e poi ancora lo purificano
con varie sostanze aromatiche in polvere. Infine riempiono il ventre con mirra
pura in polvere, con cassia e con tutti gli altri aromi, a eccezione
dell'incenso, e lo ricuciono. Terminata questa operazione, disseccano il
cadavere tenendolo a bagno nel nitro per settanta giorni; tenervelo per un
tempo maggiore non è assolutamente consigliato. Trascorsi i settanta giorni,
risciacquano il cadavere e lo avvolgono interamente con bende tagliate da una
tela di bisso e spalmate di gomma (in genere gli Egiziani usano tale gomma al
posto della colla). A questo punto se lo riprendono i parenti, che fanno
costruire una bara di legno a figura umana e dopo averla fatta vi rinchiudono il
morto; così com'è poi, chiuso in questa bara, lo ripongono in una camera
sepolcrale, sistemandolo in piedi contro la parete. Questo è il sistema più
costoso per imbalsamare i cadaveri; preparano invece come segue chi desidera la
maniera media per evitare una spesa elevata: preparano clisteri di olio di
cedro con cui riempiono il ventre del morto senza operare tagli e senza
asportare l'intestino; li introducono per via rettale e impediscono poi la
fuoriuscita dei liquidi; quindi disseccano il cadavere per i giorni stabiliti e
allo scadere fanno uscire dal ventre il cedro che vi avevano immesso. Questo ha
una tale efficacia che porta via con sé l'intestino e le viscere ormai
dissolte; a loro volta le carni vengono consumate dal nitro, sicché del
cadavere non restano che la pelle e le ossa. Fatto ciò riconsegnano il cadavere
così com'è, senza prendersene ulteriore cura. Il terzo sistema di
imbalsamazione è quello che prepara le persone più povere. Purificano gli
intestini con l'erba sirmea, fanno disseccare il cadavere per i settanta giorni
e lo consegnano da portar via. Le mogli dei personaggi più illustri non vengono
mandate all'imbalsamazione immediatamente dopo la morte, e così pure le donne
di particolare bellezza o di una certa condizione: lasciano passare due o tre
giorni e poi le consegnano agli imbalsamatori. Agiscono così per impedire che
gli imbalsamatori abbiano rapporti fisici con queste donne; pare infatti che
una volta uno di loro sia stato sorpreso mentre si univa carnalmente con il
cadavere di una donna morta da poco; lo denunciò un collega di lavoro. Se un
Egiziano o anche uno straniero viene ghermito dai coccodrilli o dalla corrente
stessa del fiume e il suo cadavere ricompare, gli abitanti della città dove
esso approda devono assolutamente provvedere a imbalsamarlo e a dargli
sepoltura nel modo più onorevole possibile, in loculi sacri. Nessuno può
toccare questa salma, né parente, né amico, né altro: soltanto i sacerdoti del
dio Nilo possono dargli sepoltura con le loro mani, perché è considerato
qualcosa di più che un semplice cadavere. Gli Egiziani rifuggono dall'adottare
usi greci, o meglio per dirla intera, costumi di qualunque altro popolo. Questa
in Egitto è la norma generale, ma nel territorio di Tebe vicino a Neapoli, in
una grande città chiamata Chemmi sorge un tempio di forma quadrangolare e
circondato da palmizi dedicato a Perseo, figlio di Danae: il santuario ha
propilei costruiti con pietre di grandi dimensioni; oltre i propilei si trovano
due statue in pietra, assai alte. All'interno di questa area sacra sorge il
tempio vero e proprio, che a sua volta contiene una statua di Perseo. Gli
abitanti di Chemmi sostengono che Perseo appare spesso nel loro paese e spesso
all'interno del tempio; che vi si trova un sandalo calzato da lui, lungo due
cubiti, e che, quando Perseo si mostra, tutto l'Egitto gode di prosperità.
Questo è quanto dicono di Perseo; ed ecco quanto fanno in suo onore, alla
maniera dei Greci: indicono giochi ginnici completi di tutte le specialità,
stabilendo come premi capi di bestiame, mantelli e pelli. Quando io chiesi
perché mai Perseo si mostrasse abitualmente solo a loro e per quale motivo
avessero istituito gare ginniche a differenza di tutti gli altri Egiziani, mi
risposero che Perseo era originario della loro città perché Danao e Linceo
erano di Chemmi e poi si recarono in Grecia per mare; dai due poi le varie
generazioni discesero fino a Perseo. Quando Perseo giunse in Egitto, per la
stessa ragione indicata anche dai Greci, cioè per portare dalla Libia la testa
della Gorgone, si sarebbe fermato presso di loro e vi avrebbe riconosciuti
tutti i propri parenti; quando giunse in Egitto già gli era nota la città di
Chemmi almeno di nome, avendone sentito parlare dalla madre: allora celebrarono
per lui i giochi ginnici, obbedendo a un suo ordine. Tutte queste usanze
appartengono alle popolazioni egiziane al di sopra delle paludi; invece quanti
abitano nella regione delle paludi hanno gli stessi costumi degli altri
Egiziani; fra l'altro ciascuno di loro può sposare una sola donna, come in
Grecia. E per procurarsi da vivere a buon mercato hanno studiato varie
soluzioni. Quando il fiume è in piena e la pianura assume l'aspetto del mare
aperto, nell'acqua spuntano numerosi fiori di un giglio che gli Egiziani
chiamano loto; essi li raccolgono e li fanno seccare al sole, quindi ne
estraggono la parte centrale, simile a quella del papavero, la tritano e ne
fanno pani cotti sul fuoco. Anche la radice del loto è commestibile, è un bulbo
sferico delle dimensioni di una mela e di sapore dolciastro. Vi sono anche
altri gigli, simili a rose, che spuntano essi pure nel fiume e il cui frutto si
sviluppa su un altro gambo, separato dal principale ma spuntato dalla medesima
radice; a vederlo è molto simile a un nido di vespe; nel frutto si trovano
moltissimi semi commestibili, grandi come noccioli di oliva, che si mangiano
freschi o secchi. Quando estraggono dalle paludi il papiro, che cresce in un
anno, tagliano e mettono da parte per altri usi la sua parte superiore; di
quella inferiore, per circa un cubito di lunghezza, si cibano e fanno
commercio. Chi desidera fare il migliore uso del papiro lo abbrustolisce entro
un forno rovente e se lo mangia così. Alcuni di loro si nutrono esclusivamente
di pesce: lo catturano, lo sventrano, lo fanno seccare al sole e poi lo
consumano così com'è, secco. I pesci che vivono in branchi non nascono nei
fiumi, crescono nelle paludi e tengono il seguente comportamento: quando si
manifesta in loro l'istinto di riproduzione, si dirigono a frotte verso il
mare; i maschi precedono il branco spargendo il loro seme, le femmine
seguendoli lo inghiottono al volo e ne rimangono fecondate; dopo aver concepito
in mare, tornano tutti indietro ciascuno ai luoghi abituali. Ma non sono più i
maschi a capeggiare il branco, la guida tocca ora alle femmine; ed esse nel
tornare a frotte si comportano come facevano i maschi: espellono le loro uova,
raggruppate in piccoli ammassi, e i maschi che vengono dietro se le divorano.
Le uova sono pesci: infatti, fra le uova superstiti che non sono state
divorate, quelle che si sviluppano diventano pesci. I pesci catturati mentre si
trasferiscono in mare presentano come una ammaccatura sulla parte sinistra
della testa, quelli catturati sulla via del ritorno la presentano invece sul
lato destro; ciò si verifica perché nuotano verso il mare tenendosi vicini alla
riva sulla loro sinistra, e tornano indietro facendo la stessa cosa sulla loro
destra; rasentano, e arrivano a urtare la riva, più che altro per non essere
trascinati fuori rotta dalla corrente. Quando il Nilo è all'inizio della piena,
le concavità del terreno e le depressioni lungo il fiume sono le prime a
cominciare a colmarsi dell'acqua che vi filtra dal fiume: non appena colme,
subito si riempiono dappertutto di piccoli pesciolini. Io credo di indovinare
da dove è probabile che essi vengano: ogni anno quando il fiume si ritira anche
i pesci se ne vanno con le ultime acque, ma lasciano le loro uova nella
fanghiglia; l'anno dopo, quando l'acqua ritorna, ecco che subito da quelle uova
nascono i pesci. E sui pesci basti così. Gli Egiziani residenti nelle zone
paludose usano un olio ricavato dal frutto del ricino; lo chiamano
"kiki" e lo preparano come segue: lungo le rive dei canali e dei
laghi seminano questi ricini, che in Grecia crescono spontanei allo stato
selvatico; in Egitto vengono seminati e producono molti frutti maleodoranti:
una volta raccolti c'è chi li batte e li spreme con il torchio, c'è invece chi
li fa abbrustolire e bollire e poi ne raccoglie il succo derivato; è un olio grasso
e adatto alle lampade non meno di quello di oliva, ma emana un odore assai
sgradevole. Contro le zanzare, che sono numerosissime, hanno studiato vari
rimedi. Quanti abitano al di là delle paludi trovano sollievo grazie a delle
torri, su cui salgono per andare a dormire: le zanzare a causa del vento non
sono in grado di volare oltre una certa altezza. Invece quanti vivono proprio
nelle zone paludose al posto delle torri hanno studiato un altro sistema;
ognuno di loro possiede una rete, che di giorno serve per la pesca e di notte
invece si usa così: l'appendono tutta intorno al letto in cui si va a riposare
e poi vi si infilano sotto per dormire; le zanzare, che riescono a
punzecchiarti anche se dormi avvolto in un mantello o in un lenzuolo,
attraverso questa reticella non ci provano neppure. Le loro navi mercantili
sono costruite con legno di acacia; questo albero somiglia moltissimo al loto
di Cirene, eccetto per la gomma che ne sgocciola. Dall'acacia ricavano tavole
di due cubiti che uniscono come fossero mattoni costruendo la barca come segue:
fissano le assi di due cubiti intorno a fitte e lunghe caviglie; fabbricato
così lo scafo vi sistemano sopra i banchi. Queste imbarcazioni non hanno
costole e le giunture vengono calafatate con papiro; il timone è uno solo e
attraversa la carena; hanno l'albero in legno di acacia e vele di papiro. Tali
battelli non sono in grado di risalire il fiume a meno che non soffi un forte
vento, perciò vengono trascinati da riva; invece quando seguono la corrente
procedono così: sono muniti di un graticcio, formato da rami di tamerici
intrecciati con fuscelli di canne, e di una pietra forata pesante circa due
talenti: si cala il graticcio, assicurato con una fune davanti all'imbarcazione
perché la trascini, e la pietra, a poppa, legata ad un'altra fune. Il
graticcio, spinto dalla forza della corrente avanza velocemente e tira la
"baris" (tale è il nome di queste imbarcazioni); di dietro la pietra,
trascinata a una certa profondità, mantiene rettilinea la navigazione. Di queste
imbarcazioni ve ne sono in grande quantità e alcune trasportano molte migliaia
di talenti di carico. Quando il Nilo inonda il paese, dalle acque emergono
soltanto le città, molto simili alle isole nel Mare Egeo. Solo le città
emergono, tutto il resto del territorio egiziano si trasforma in una distesa
d'acqua. Allora non si naviga più lungo i rami del fiume, bensì attraverso la
pianura; per andare da Naucrati a Menfi si passa accanto alle piramidi, mentre
la rotta abituale tocca il vertice del Delta e la città di Cercasoro; navigando
attraverso la pianura verso Naucrati, a partire dal mare all'altezza di Canobo,
si passa accanto alla città di Antilla e a quella cosiddetta di Arcandro. Delle
due, Antilla, un centro notevole, è stata scelta per la fornitura dei calzari
alla moglie dei re che si succedono al trono; ciò accade da quando l'Egitto è
sottomesso ai Persiani. L'altra città a mio parere prende il nome dal genero di
Danao, Arcandro, figlio di Ftio e nipote di Acheo: si chiama appunto
Arcandropoli; forse si tratta di un altro Arcandro, ma il nome in ogni caso non
è di origine egiziana. Tutto ciò che ho riferito fino ad ora era il risultato
della mia visione diretta delle cose, o di una mia indagine o era una mia
opinione; d'ora in avanti verrò a riferire racconti di Egiziani così come li ho
uditi: al più aggiungerò qualche particolare ricavato dalla mia osservazione
dei fatti. I sacerdoti mi dissero che Mina, il primo re dell'Egitto, protesse
Menfi con argini; il fiume scorreva interamente lungo le montagne di sabbia
situate in direzione della Libia: Mina con degli sbarramenti deviò a gomito il
fiume verso sud, un centinaio di stadi a monte di Menfi, facendo prosciugare
l'antico letto e incanalando il fiume perché scorresse in mezzo alle montagne.
Ancora adesso all'altezza di quest'ansa del Nilo i Persiani sorvegliano con
cura che il fiume scorra lungo i nuovi argini; e li rinforzano annualmente,
perché, se il fiume dovesse romperli e straripare in questo punto, l'intera
Menfi rischierebbe di finire sommersa. Mina, il primo re, bonificò il terreno
sottratto al fiume e vi fondò una città, proprio l'attuale Menfi (anche Menfi
effettivamente sorge nella parte stretta dell'Egitto); poi intorno alla città,
verso nord e verso ovest fece scavare un lago alimentato dal fiume (il lato est
è già delimitato dal Nilo); in città eresse un santuario di Efesto, grande e
degno di molta considerazione. I sacerdoti poi mi elencarono da un loro libro i
nomi di altri 330 re; fra così tante generazioni diciotto erano di origine etiopica,
gli altri erano tutti Egiziani, compresa l'unica donna. La donna che sedette
sul trono d'Egitto si chiamava Nitocri, come la regina babilonese. Di lei mi
raccontarono come vendicò il fratello; lui era re d'Egitto quando gli Egiziani
lo uccisero e affidarono il potere nelle mani di Nitocri, ma lei per vendicarlo
macchinò un inganno e compì una strage di Egiziani. Fece costruire una grande
sala sotterranea, poi, ufficialmente per inaugurarla, ma in realtà meditando in
animo ben altro, vi invitò a banchetto molte persone, quelle che sapeva
maggiormente implicate nell'assassinio; e mentre pranzavano, attraverso una
grande conduttura segreta, rovesciò su di loro le acque del fiume. Questo è
quanto mi raccontarono di lei, aggiungendo solo che, compiuta la sua vendetta,
si buttò giù in una stanza piena di cenere per sfuggire alle rappresaglie. Gli
altri sovrani, mi dissero, non si erano distinti minimamente; in effetti non mi
citarono nessuna opera dovuta a qualcuno di loro, se si fa eccezione per Meride,
l'ultimo della serie, il quale innalzò a ricordo di sé i propilei del tempio di
Efesto che guardano verso settentrione; e fu lui a realizzare un lago
artificiale, della cui estensione parlerò più avanti; nell'invaso innalzò
piramidi; quanto fossero grandi tali piramidi lo preciserò al momento di
soffermarmi sulle dimensioni del lago. Queste furono le opere realizzate da
Meride; degli altri non avevano nulla da menzionare. Io dunque li tralascerò
per menzionare invece il re salito al potere dopo di loro, che si chiamava
Sesostri. Di Sesostri i sacerdoti mi raccontarono che per primo si mosse con
una flotta di lunghe navi dal Golfo d'Arabia per soggiogare le popolazioni
insediate lungo le coste del Mare Eritreo; avanzò con le sue navi finché
raggiunse un braccio di mare non più navigabile a causa dei bassi fondali. Se
ne tornò allora di là in Egitto, dove, secondo il racconto dei sacerdoti,
raccolse un numeroso esercito e marciò attraverso il continente, sottomettendo
ogni popolazione che gli si parava sul cammino. Quando si imbatteva in popoli
valorosi e particolarmente attaccati alla propria libertà, sul posto lasciava
delle stele con iscrizioni che ricordavano il suo nome, la sua patria e come li
avesse soggiogati con il suo esercito; quando si vedeva consegnare le città
senza combattere e prontamente, incideva sulle stele lo stesso discorso
riservato ai popoli valorosi, ma vi aggiungeva l'immagine degli organi sessuali
femminili; intendeva così rendere chiaro che quelle erano genti imbelli. Così
facendo attraversò l'intero continente, poi passò dall'Asia in Europa e
assoggettò gli Sciti e i Traci. Queste mi sembrano le regioni estreme toccate
dall'esercito egiziano: in effetti nel paese degli Sciti e dei Traci si vedono
ancora erette delle stele commemorative, che spingendosi oltre non si vedono
più. Di là ritirandosi tornò indietro e raggiunse il fiume Fasi dove non saprei
dire con certezza se fu il re Sesostri personalmente a distaccare una parte del
suo esercito e a lasciarla sul posto per colonizzare la regione, oppure se
alcuni soldati decisero di stabilirsi nei dintorni del Fasi, stanchi di
girovagare con il loro re. È chiaro comunque che gli abitanti della Colchide
sono di origine egiziana: io lo avevo pensato prima ancora di sentirlo dire da
altri. E come mi venne in testa l'idea, condussi un'indagine fra le due
popolazioni; ne risultò che i Colchi conservavano memoria degli Egiziani più
che gli Egiziani dei Colchi; ma gli Egiziani ritenevano, così dissero, che i
Colchi discendessero da una parte dall'esercito di Sesostri. Io me ne ero già
accorto per conto mio: i Colchi hanno la pelle scura e i capelli crespi (cosa
che, per la verità, non permette di trarre nessuna conclusione certa, dal
momento che anche altre popolazioni presentano queste caratteristiche); ma
decisiva mi era parsa la constatazione che Colchi, Egiziani ed Etiopi sono gli
unici popoli a praticare la circoncisione fin dalle origini. Gli stessi Fenici
e i Siri della Palestina ammettono di averla derivata dagli Egiziani; i Siri
del fiume Termodonte e del Partenio e i Macroni loro confinanti dichiarano di
avere appreso tale uso dai Colchi e di recente. Questi sono i soli popoli a
praticare la circoncisione e tutti chiaramente rifacendosi agli Egiziani. Fra
Egiziani ed Etiopi non saprei dire chi abbia imparato da chi, perché in
entrambi i casi si tratta evidentemente di una istituzione antica. Ma del fatto
che tutti gli altri l'abbiano appresa per aver avuto frequenti relazioni con
l'Egitto, io possiedo una prova decisiva: tutti i Fenici che hanno contatti con
la Grecia non seguono più le usanze egiziane e non circoncidono più i loro
figli. E già che ci siamo citerò un ulteriore particolare che avvicina i Colchi
agli Egiziani: sono i soli due popoli a lavorare il lino nella stessa maniera.
E nell'insieme il loro sistema di vita, come le loro lingue, si assomigliano.
Il lino dei Colchi dai Greci è chiamato "sardonico", mentre quello
proveniente dall'Egitto è detto "egiziano". La maggior parte delle
stele fatte erigere dal re dell'Egitto Sesostri non sopravvive più ai nostri
occhi, ma nella Siria Palestina io stesso ne ho viste di superstiti, con le
iscrizioni suddette, e i genitali femminili. Nella Ionia restano anche due
bassorilievi raffiguranti Sesostri, scolpiti nella roccia, uno sulla strada che
porta da Efeso a Focea l'altro sulla strada da Sardi a Smirne; in entrambi è
raffigurato un uomo alto quattro cubiti e mezzo che stringe nella mano destra
una lancia e nella sinistra un arco e che porta così ripartito anche il resto
dell'abbigliamento, metà egiziano e metà etiopico: una iscrizione in
geroglifici egiziani è incisa sul suo petto, da una spalla all'altra, e dice:
"Io con queste mie spalle mi sono conquistato questo paese"; chi sia
e da dove venga il personaggio in questione l'iscrizione qui non lo spiega,
l'ha indicato altrove. Alcuni di quelli che l'hanno vista avanzano l'ipotesi
che l'immagine raffiguri Memnone, ma sono molto lontani dalla verità. Come
raccontavano i sacerdoti, l'egiziano Sesostri, mentre ritornava in Egitto
conducendo con sé molti prigionieri appartenenti alle popolazioni da lui
sottomesse, si trovò a un certo punto del cammino a Dafne Pelusica, dove suo
fratello (era il fratello a cui Sesostri aveva affidato il governo temporaneo
dell'Egitto) invitò lui e i figli a un banchetto e poi fece ammassare cataste
di legna intorno alla casa e vi appiccò il fuoco. Come se ne accorse, Sesostri
si consigliò con la moglie (l'aveva infatti con sé) ed essa gli suggerì di
gettare due dei loro figli (che erano sei in tutto) sulle cataste incendiate e
di mettersi in salvo camminando sui loro corpi come su di un ponte; così fece
Sesostri: due figli dunque morirono tra le fiamme, mentre gli altri si
salvarono con il padre. Tornato in Egitto e vendicatosi del fratello, ecco poi
come utilizzò la massa di individui che aveva condotta con sé dai paesi
sottomessi: li adibì al traino di quelle pietre di dimensioni spropositate che
furono trasportate fino al tempio di Efesto sotto il suo regno; e li obbligò a
scavare tutti i canali oggi esistenti in Egitto; contro il loro volere
trasformarono così l'Egitto, prima interamente percorribile a cavallo o con
carri, in un paese tutto diverso. Da allora infatti l'Egitto, pur essendo del
tutto pianeggiante, è diventato intransitabile per chi proceda a cavallo o con
un carro, e ciò proprio per via dei canali, numerosi e rivolti in ogni
direzione. Ma ecco la ragione per cui il re fece tagliare con canali il
territorio: tutti gli Egiziani residenti in città lontane dal fiume,
nell'interno, ogni volta che cessava la piena del Nilo, rimanevano privi di
acqua e si servivano perciò di acque salmastre che attingevano dai pozzi; ecco
perché l'Egitto fu solcato da canali. I sacerdoti mi dissero che Sesostri
ripartì il territorio fra tutti gli Egiziani, assegnando a ciascuno un lotto di
forma quadrangolare di uguali dimensioni: poi si garantì le entrate fissando un
tributo da pagarsi con cadenza annuale. Se a qualcuno il fiume sottraeva una
parte del lotto, c'era la possibilità di segnalare l'accaduto presentandosi al
re in persona: questi inviava dei tecnici a verificare e a misurare con
esattezza la diminuzione di terreno, affinché il proprietario potesse per il
futuro pagare il tributo in giusta proporzione. Scoperta, mi pare, per questa
ragione, la geometria passò poi dall'Egitto in Grecia. La meridiana, lo gnomone
e la suddivisione della giornata in dodici parti i Greci li hanno appresi
invece dai Babilonesi. Sesostri fu l'unico re egiziano a regnare anche
sull'Etiopia; in ricordo di sé lasciò davanti al tempio di Efesto due grandi
statue di pietra di trenta cubiti, raffiguranti lui e la moglie, e altre
quattro dei figli, di venti cubiti ciascuna. Molto tempo più tardi il sacerdote
di Efesto non permise a Dario il Persiano di erigere accanto a esse una sua
statua; negava che Dario avesse compiuto imprese pari a quelle di Sesostri,
l'Egiziano: Sesostri aveva sottomesso non meno popolazioni di Dario, ma in più
anche gli Sciti che Dario invece non era stato capace di assoggettare, pertanto
non sarebbe stato giusto collocare di fronte ai monumenti dedicati a Sesostri
la statua di uno che non aveva superato le sue imprese. E pare che Dario, di
fronte a questa argomentazione, lo abbia perdonato. I sacerdoti mi raccontavano
che, morto Sesostri, ricevette il regno suo figlio Ferone; e che questi non
compì alcuna impresa militare: gli capitò anzi di diventare cieco per la
ragione che ora esporrò. Una volta il fiume si ingrossò fino a raggiungere una
altezza di 18 cubiti, tanto da sommergere le coltivazioni e, levatosi un forte
vento improvviso, il fiume divenne agitato; pare allora che il re con un gesto
avventato ed esecrando, impugnata una lancia, l'abbia scagliata fra i gorghi
del fiume; subito dopo cadde ammalato e diventò cieco. Tale rimase per dieci
anni; all'undicesimo gli pervenne un oracolo dalla città di Buto: il tempo
della punizione era terminato e avrebbe riavuto la vista lavandosi gli occhi
con l'orina di una donna che avesse avuto rapporti soltanto col proprio marito
e non avesse mai conosciuto altri uomini. Il re provò prima con sua moglie,
poi, dato che restava cieco, con molte altre donne, una dietro l'altra. Quando
riebbe la vista, radunò in una sola città, ora chiamata Eritrebolo, le donne
con cui aveva fatto la prova, fuorché quella con la cui orina s'era lavato quando
aveva recuperato la vista; dopo averle radunate le fece bruciare tutte, insieme
con la città. La donna poi con la cui orina s'era lavato riacquistando la
vista, se la tenne come moglie. Una volta guarito dalla malattia agli occhi,
consacrò vari ex-voto in tutti i principali santuari: il più considerevole è
quello dedicato nel santuario di Elio, davvero degno di ammirazione: due
obelischi di pietra, monolitici entrambi, alti ciascuno cento cubiti e larghi
otto. A Ferone succedette nel regno, raccontavano, un uomo di Menfi, il cui
nome greco è Proteo; a Menfi esiste un suo santuario molto bello e ottimamente
arredato, situato a sud del tempio di Efesto. Intorno al santuario abitano dei
Fenici di Tiro; e tutta insieme questa località è denominata Campo dei Tiri.
Nel santuario di Proteo sorge un tempio detto di Afrodite Straniera: io credo
che sia un tempio di Elena figlia di Tindaro, sia perché ho udito raccontare
che Elena soggiornò presso Proteo, sia perché lo chiamano di Afrodite
Straniera; e in nessuno dei templi a lei dedicati, per tanti che siano,
Afrodite viene detta "Straniera". Interrogati da me in proposito, i
sacerdoti mi raccontarono, su Elena, che le cose erano andate così: dopo aver
rapito Elena da Sparta, Alessandro fece rotta verso il proprio paese, ma,
giunto nel Mare Egeo, i venti contrari lo spinsero fino al Mare d'Egitto; di
qui (i venti non cessavano) arrivò in Egitto e precisamente alla foce di quel
ramo del Nilo oggi chiamato Canobico e alle Tarichee. C'era sulla spiaggia, e
c'è ancora, un tempio di Eracle: chi vi si rifugia, di chiunque sia servo, se
si fa imprimere il santo marchio consacrando se stesso al dio, non può più
essere toccato; tale regola si è conservata identica dalle origini fino ai
giorni nostri. Insomma alcuni servi infidi di Alessandro, venuti a sapere della
norma in vigore nel tempio, sedutisi come supplici del dio denunciarono
Alessandro: con l'intenzione di rovinarlo raccontarono tutta la storia di Elena
e il torto commesso ai danni di Menelao. Pronunciarono le loro accuse di fronte
ai sacerdoti e di fronte al guardiano del ramo Canobico, che si chiamava Toni.
Toni udì le accuse e subito, con la massima sollecitudine, inviò a Menfi un
messaggio indirizzato a Proteo, che diceva così: "È giunto uno straniero
di stirpe Teucra, autore in Grecia di una azione nefanda: ha sedotto la moglie
del suo ospite e ora è qui, con lei, e con ingenti ricchezze, trascinato nel
tuo paese dalla forza dei venti. Dobbiamo lasciarlo andare impunito oppure
requisirgli quanto si è portato dietro fino a qui?". Proteo inviò una
risposta di questo tenore: "Quell'uomo, chiunque sia, che ha agito da
empio nei confronti del suo ospite, prendetelo e portatelo davanti a me. Voglio
proprio vedere che cosa mai potrà dire". Appresa la risposta, Toni cattura
Alessandro e gli sequestra le navi, quindi lo conduce a Menfi insieme con Elena
e con i tesori, e assieme anche ai supplici. Quando ebbe tutti di fronte a sé,
Proteo chiese ad Alessandro chi fosse e da quali mari venisse; quello gli
elencò i suoi antenati, disse il nome della sua patria e spiegò la rotta
seguita dalle sue navi. Poi il re gli chiese dove avesse preso Elena e, poiché
Alessandro divagava nel discorso e non diceva la verità, i servi che si erano
fatti supplici lo accusarono denunciando per filo e per segno il suo misfatto.
Per ultimo parlò Proteo: "Quanto a me, - disse - se non considerassi
fondamentale non uccidere nessuno degli stranieri che arrivano nel mio paese
trascinati dai venti, io prenderei vendetta su di te per il Greco; tu sei un miserabile:
dopo aver ricevuto i doni di ospitalità hai compiuto una azione così empia!
Accostarsi alla moglie dell'ospite! E questo ancora non ti è bastato: l'hai
istigata alla fuga e te la sei portata via, l'hai rapita. Ma neppure questo ti
è bastato: hai saccheggiato la casa del tuo ospite prima di partire. Ora
dunque, anche se mi guardo bene dall'uccidere uno straniero, non per questo ti
lascerò condurre via la donna e le ricchezze: le terrò in custodia per l'ospite
greco, fino a quando lui stesso vorrà venirsele a riprendere. Quanto a te e ai
tuoi compagni di viaggio vi concedo tre giorni per lasciare il mio paese e
trasferirvi altrove, altrimenti vi tratteremo come nemici". |[continua]|
|[LIBRO II, 3]| Così dunque i sacerdoti raccontano l'arrivo di Elena presso
Proteo; a mio parere questa versione era nota anche a Omero, ma per la
composizione del suo poema epico non si prestava altrettanto di quella da lui
accolta; ecco perché la trascurò pur palesando di esserne a conoscenza: lo si
capisce da come nell'Iliade Omero racconta del girovagare di Alessandro (e in
nessun altro punto si smentisce): di come fu portato dai venti, avendo con sé
Elena, vagando di qua e di là e di come giunse a Sidone, in Fenicia; ne parla
nelle gesta di Diomede, ecco i versi: dov'erano i mantelli ricamati, opera di
quelle donne di Sidone che Alessandro stesso, simile a un dio, da Sidone aveva
portato con sé navigando sull'ampia distesa del mare, proprio nel viaggio in
cui condusse la nobile Elena. [E ne parla anche nell'Odissea, come segue: La
figlia di Zeus possedeva queste pozioni sapienti ottimi farmaci che le aveva
fornito Polidamna, la moglie di Toni, in Egitto, là dove una fertile terra
produce erbe medicinali, in gran numero, le buone mescolate alle velenose. E
ancora ecco le parole rivolte da Menelao a Telemaco: In Egitto gli dei mi
trattennero, benché fossi impaziente di navigare fin qui, perché non gli avevo
offerto perfette ecatombi.] In questi versi Omero fa capire di essere a
conoscenza del viaggio in Egitto di Alessandro: infatti la Siria confina con
l'Egitto e i Fenici, a cui appartiene Sidone, vivono nella Siria. E sulla base
di questi versi e di questa indicazione di luogo si capisce altresì, con
evidenza ancora maggiore, che i Canti Cipri non sono di Omero, bensì di un
altro poeta; infatti in essi si dice che Alessandro giunse a Ilio con Elena,
proveniente da Sparta, nello spazio di tre giorni, avendo trovato venti
favorevoli e mare calmo; invece nell'Iliade si parla di un lungo girovagare
insieme con lei. E qui si chiuda il discorso su Omero e sui Canti Cipri.
Domandai ai sacerdoti se ciò che i Greci raccontano delle vicende di Ilio è
falso o no, ed essi mi risposero citando quanto, a sentir loro, avevano appreso
da Menelao in persona: dopo il ratto di Elena, dissero, un grande esercito
greco aveva raggiunto la terra dei Teucri, in aiuto di Menelao; una volta
sbarcato e accampato l'esercito, furono mandati a Ilio dei messaggeri, tra i
quali lo stesso Menelao; essi entrarono nelle mura della città, reclamarono la
restituzione di Elena e delle ricchezze che Alessandro aveva sottratto e si era
portato via, e chiesero soddisfazione per i torti subiti. Ma i Troiani
risposero allora come avrebbero sempre risposto anche in seguito, giurando e
non giurando che Elena e i tesori non si trovavano lì bensì in Egitto; e non
era giusto, dicevano, che dovessero rendere conto loro di quanto era in mano di
Proteo, il re egiziano. I Greci, convinti di essere presi in giro, strinsero
d'assedio la città, finché non la conquistarono; quando poi, espugnate le mura,
non trovarono traccia di Elena e continuarono a sentirsi ripetere lo stesso
discorso, allora ci credettero, e i Greci inviarono presso Proteo Menelao in
persona. Menelao giunse in Egitto, risalì il fiume fino a Menfi, dove spiegò esattamente
quanto era accaduto: allora ricevette grandi doni ospitali e poté riprendersi
Elena, sana e salva, nonché tutte le sue ricchezze. Però Menelao, pur avendo
ottenuto ciò si comportò da uomo ingiusto nei confronti degli Egiziani: le
avverse condizioni del tempo gli impedivano di partire, mentre era già pronto a
salpare; dato che il ritardo si protraeva, tramò una azione esecranda: prese
due bambini, figli di gente del luogo, e li usò come vittime per un sacrificio;
in seguito, quando si scoprì che aveva commesso tale delitto, fuggì con le sue
navi in direzione della Libia, odiato e inseguito. Dove poi si sia diretto gli
Egiziani non erano in grado di dirlo; di una parte dei fatti ammettevano di
avere informazioni indirette, ma di quanto era successo nel loro paese
vantavano una sicura conoscenza. Questo mi narrarono i sacerdoti egiziani;
quanto a me sono d'accordo sulle notizie relative a Elena, sulla base di alcune
considerazioni: se Elena si fosse trovata a Ilio l'avrebbero certamente
riconsegnata ai Greci con o senza il consenso di Alessandro. Senza dubbio
Priamo e gli altri suoi parenti non sarebbero stati così dementi da voler
rischiare la propria esistenza e quella dei loro figli nonché la sopravvivenza
dell'intera città, solo perché Alessandro potesse starsene con Elena. E anche
ammesso che nei primi tempi la pensassero così, dopo che negli scontri con i
Greci erano caduti molti Troiani e non c'era battaglia in cui non morissero
almeno due o tre figli dello stesso Priamo, o magari anche di più, a basarsi
sul racconto dei poemi epici, io voglio credere che, in circostanze del genere,
anche se fosse stato lui in persona a vivere con Elena, Priamo l'avrebbe
restituita pur di liberarsi di tutte le sventure che lo affliggevano. Né il
regno era destinato a passare nelle mani di Alessandro; se Priamo era vecchio
non toccava lo stesso a lui governare il paese: dopo la morte di Priamo il
successore designato era Ettore, più anziano e più valoroso di Paride: e a lui
non si addiceva certo rimettersi alle decisioni del fratello, che era nel
torto; e tanto più quando, a causa sua, grandissime disgrazie stavano cadendo
su di lui personalmente e su tutti gli altri Troiani. In realtà essi non erano
in condizione di restituire Elena e i Greci non credevano ai Troiani benché
dicessero la verità; anche perché, e questa è una mia interpretazione, così il
dio aveva disposto le cose: che perendo tutti miseramente dimostrassero al
mondo come a colpe grandi rispondano grandi castighi da parte degli dei. Questa
almeno è la mia opinione. I sacerdoti mi dissero che a Proteo succedette nel
regno Rampsinito, il quale lasciò a ricordo di sé i propilei occidentali del
tempio di Efesto; davanti ai propilei eresse due statue, alte 25 cubiti: gli
Egiziani chiamano "estate" quella posta più a nord e
"inverno" quella più a sud; adorano e colmano di onori la statua
"estate" , mentre fanno tutto il contrario nei confronti della statua
"inverno". Rampsinito dispose di una enorme quantità di denaro, quale
nessuno dei re venuto dopo di lui riuscì mai a superare e anzi neppure a
uguagliare. Volendo conservare in un luogo sicuro tanta ricchezza, fece
costruire una stanza di pietra che aveva una delle pareti confinante con
l'esterno della reggia; ma il costruttore tramando insidie escogitò un suo piano:
sistemò una delle pietre in modo che fosse facilmente estraibile dal muro, sia
da due che da una sola persona. Quando la camera fu pronta, il re vi depositò
le sue ricchezze. Tempo dopo il costruttore, ormai in punto di morte, chiamò i
suoi figli (erano due) e raccontò come, pensando al loro futuro, a procurar
loro un'esistenza agiata, fosse ricorso a un'astuzia nel costruire la stanza
del tesoro reale. Spiegò con chiarezza il sistema per rimuovere la pietra e ne
diede le esatte misure, aggiungendo che se avessero seguito esattamente le sue
istruzioni sarebbero diventati custodi dei beni del re. Quindi morì e i suoi
figli non rimandarono a lungo l'impresa: una notte si avvicinarono alla reggia,
individuarono la pietra nell'edificio, la spostarono facilmente e fecero man
bassa delle ricchezze. Il re, quando gli capitò di aprire il tesoro, si stupì
di vedere gli orci non più colmi di tesori; né sapeva chi incolpare dato che i
sigilli erano intatti e la stanza ben chiusa. Ma quando due o tre volte ancora
a entrare nella stanza le ricchezze apparivano sempre di meno (infatti i ladri
non smettevano di venire a rubare), ecco come agì: ordinò di preparare delle
trappole e di disporle fra gli orci contenenti i suoi averi. Vennero di nuovo i
ladri, come le altre volte, e uno di loro si introdusse nel tesoro; ma non
appena si accostò ad un orcio subito rimase preso nella trappola; si rese conto
del guaio in cui si trovava, chiamò il fratello, gli spiegò la situazione e lo
esortò a entrare al più presto e a tagliargli la testa: non voleva, una volta
visto e riconosciuto, coinvolgere nella rovina anche il fratello. Questi
comprese la bontà della proposta, si convinse e la mise in opera. Poi ricollocò
al suo posto la pietra e tornò a casa, portando con sé la testa del fratello.
Quando fu giorno, il re entrò nella stanza e rimase sbalordito a vedere il
cadavere decapitato del ladro bloccato nella trappola e la camera intatta,
senza alcuna via di entrata o di uscita. Incapace di trovare una spiegazione,
agì come segue: fece appendere al muro del palazzo il corpo del ladro e vi mise
a guardia degli uomini con l'ordine di arrestare e condurre di fronte al re
chiunque vedessero piangere o disperarsi. La madre non riuscì a tollerare che
il corpo restasse appeso e parlò con il figlio superstite, ordinandogli di
studiare la maniera, in qualche modo, di slegare il corpo del fratello e di
portarlo via; se non l'avesse fatto minacciava di andare dal re a denunciarlo
quale possessore delle ricchezze. Il figlio superstite vistosi così minacciato
e incapace, nonostante i molti tentativi, di far cambiare parere a sua madre,
ricorse a uno stratagemma. Tenne pronti degli asini, e avendo riempito di vino
degli otri li caricò sugli asini che poi spinse davanti a sé; quando fu vicino
ai guardiani del cadavere appeso, tirando due o tre cinghie degli otri ne
sciolse la legatura; il vino si versava e lui allora si batteva la testa,
lamentandosi a gran voce, fingendo di non sapere verso quale asino volgersi per
primo; le sentinelle, visto scorrere tutto quel vino, si precipitarono in
strada portando recipienti e raccoglievano il vino versato, considerandola una
gran fortuna. Quello cominciò a litigare aspramente con tutti loro, simulando
rabbia; ma poi, poco per volta, calmato dalle sentinelle, finse di mettersi il
cuore in pace e di deporre la sua ira; infine spinse lui stesso gli asini fuori
di strada per risistemare il carico; cominciarono a chiacchierare, a scherzare,
a ridere finché il ladro regalò ai guardiani uno degli otri; ed essi, così come
erano, si sdraiarono pensando solo a bere, invitarono con loro il ladro e lo
esortarono a fermarsi per bere tutti in compagnia; il giovane obbedì e rimase
con loro; visto poi che tra una bevuta e l'altra lo trattavano con grande
familiarità, offrì loro anche un altro otre: a forza di generose libagioni le
sentinelle si ubriacarono completamente e, vinte dal sonno, si addormentarono
proprio là dove bevevano. Il ladro, non appena fu notte inoltrata, slegò il
corpo del fratello e a maggior scorno delle guardie rase loro la guancia
destra; caricò il cadavere sugli asini e li spinse verso casa: aveva
perfettamente eseguito gli ordini della madre. Il re, quando gli comunicarono
che il cadavere del ladro era stato trafugato, si adirò moltissimo e volendo a
ogni costo scoprire l'autore di tutte quelle astuzie fece una cosa che a me
sembra incredibile: mise sua figlia in un postribolo ordinandole di accettare
qualunque uomo senza eccezioni, ma di costringerli tutti, prima di concedersi,
a raccontarle l'azione più astuta e scellerata che mai avessero commesso in
vita loro; doveva trattenere e non lasciare uscire più dalla casa la persona
che le avesse narrato i fatti relativi a quel furto. La ragazza seguì i comandi
del padre, ma il ladro, venuto a sapere lo scopo della cosa e volendo superare
il re in astuzia, fece così: recise un braccio all'altezza della spalla al
cadavere di un individuo morto da poco e tenendolo nascosto sotto il mantello
si recò dalla figlia del re; interrogato come gli altri, narrò di aver compiuto
l'impresa più empia quando aveva decapitato il fratello impigliato in una
trappola nella stanza del tesoro reale, e la più astuta quando aveva ubriacato
le sentinelle e slegato il cadavere appeso del fratello. Come lo udì la ragazza
gli si accostò, ma il ladro nel buio le porse il braccio del morto: lei lo
ghermì e lo tenne stretto credendo di aver afferrato la mano del ladro, il
quale invece lasciandole il braccio fuggì tranquillamente attraverso la porta.
Quando tutto ciò gli fu riferito, il re rimase impressionato dalla scaltrezza e
dal coraggio dimostrati dallo sconosciuto; infine inviò messaggi in ogni città
promettendo l'impunità e anche ricchi doni se si fosse presentato al suo
cospetto: il ladro credette alla parola del re e venne da lui. Rampsinito,
pieno di ammirazione, gli diede sua figlia in moglie giudicandolo l'uomo più
intelligente della terra: perché gli Egiziani a suo parere erano superiori a
tutti gli altri uomini, e lui era il primo degli Egiziani. Narrato questo
episodio, i sacerdoti mi dissero che Rampsinito era disceso vivo nel luogo
detto Ade dai Greci, dove avrebbe giocato a dadi con Demetra, ora vincendo ora
perdendo; poi sarebbe ricomparso sulla terra portando con sé come dono della
dea un asciugamano d'oro. Dopo la discesa agli inferi di Rampsinito o meglio
dopo il suo ritorno, sempre secondo i sacerdoti, gli Egiziani indissero una
grande festa, che so celebrata ancora ai giorni nostri, anche se non sono in
grado di confermarne l'origine. Il giorno stesso della festa i sacerdoti intessono
un mantello, poi con una benda coprono gli occhi di uno di loro e quindi lo
conducono, vestito di quel mantello, sulla strada che porta al tempio di
Demetra; poi se ne tornano via; il sacerdote, con gli occhi bendati, viene
guidato da due lupi, dicono, fino al tempio di Demetra, lontano dalla città
venti stadi; gli stessi lupi lo riaccompagnerebbero indietro dal tempio fino al
punto di prima. Accetti pure questi racconti egiziani chi li giudica credibili;
quanto a me il mio unico scopo in tutta la mia opera è di registrare, come l'ho
udito, quello che ciascuno racconta. A sentire gli Egiziani i re
dell'oltretomba sono Demetra e Dioniso. E gli Egiziani furono i primi a
sostenere che l'anima è immortale e che trasmigra, perito il corpo, in un altro
essere vivente, che sta nascendo a sua volta; dopo essere passata attraverso
tutti gli animali terrestri e acquatici, e alati, l'anima trasmigrerebbe
nuovamente nel corpo di un uomo: il ciclo si compierebbe nell'arco di tremila
anni. Questa teoria fu poi ripresa da alcuni Greci, in varie epoche, come se si
fosse trattato di una loro scoperta: io ne conosco i nomi, ma non li scrivo.
Fino al regno di Rampsinito, mi dicevano i sacerdoti, l'Egitto godette di una
ottima amministrazione e di una grande prosperità; ma Cheope, che regnò dopo di
lui, gettò il paese in una gravissima situazione; per prima cosa Cheope chiuse
tutti i templi e vietò i sacrifici, poi costrinse tutti gli Egiziani a lavorare
per lui. Ad alcuni impose di trascinare pietre dalle cave situate nelle
montagne d'Arabia fino al Nilo; ad altri assegnò di ricevere le pietre,
trasportate su navi attraverso il fiume, e di trainarle a loro volta fino al
monte chiamato Libico. Ai lavori partecipavano sempre 100.000 uomini per volta
in turni di tre mesi. In termini di tempo ci vollero dieci anni di duro lavoro
collettivo per la costruzione della strada su cui trainare le pietre, opera a
mio parere che ha poco da invidiare alla piramide stessa (è lunga cinque stadi,
larga dieci orgie, l'altezza nel punto più elevato raggiunge le otto orgie, è
realizzata con pietre levigate e vi sono incise figure animali). Dieci anni
occorsero per la strada e per l'allestimento delle camere sotterranee
nell'altura su cui sorgono le piramidi: Cheope si fece costruire queste camere
come sepoltura per sé in un'isola ricavata con un canale derivato dal Nilo. Per
edificare la piramide occorsero venti anni: ognuna delle sue quattro facce ha
la base di otto pletri, e altrettanto misura in altezza; essa è completamente
fatta di blocchi di pietra levigati e perfettamente connessi fra loro: nessuna
delle pietre misura meno di trenta piedi. La piramide fu realizzata a gradini,
detti crossai da alcuni e bomides da altri. Quando la ebbero costruita così,
con macchine di corti legni sollevarono le pietre rimanenti dal livello del
suolo al primo ripiano. Dopo che era stata alzata sul primo la pietra veniva
affidata a una seconda macchina posta sul primo ripiano, e questa la sollevava
fino al secondo gradino su una terza macchina: le macchine erano in numero pari
ai gradini, ma poteva anche esserci un unico macchinario, sempre lo stesso,
facilmente trasportabile da un ripiano all'altro, ogni volta che la pietra
fosse stata levata. Devo riferire entrambe le versioni perché entrambe vengono
narrate. Dapprima fu ultimata la parte più alta della piramide, poi le altre in
successione, per ultimi il piano sopra il livello del suolo e il gradino più
basso. Una iscrizione in caratteri egizi sulla piramide dichiara quanto fu
speso in rafani, cipolle e aglio per i lavoratori e, se ben ricordo le parole
dell'interprete che mi lesse l'iscrizione, la cifra ammontava a 1600 talenti di
argento. Se questa cifra è esatta, quanto altro denaro deve essere stato speso
per i ferri di lavoro, per il mantenimento e per le vesti degli operai? Tanto
più che se impiegarono il tempo suddetto per la realizzazione delle opere,
altro ne occorse, io credo, per tagliare le pietre, per il loro trasporto e per
lo scavo sotterraneo. Cheope in difficoltà economiche sarebbe giunto a tanta
infamia da mandare la figlia in un postribolo con l'ordine di incassare una
determinata cifra di denaro; non ne conosco l'entità perché i sacerdoti non me
lo riferirono; la ragazza ricavò la somma richiesta dal padre e per conto suo
pensò di lasciare memoria di sé, chiedendo a ciascuno dei suoi clienti di
donarle una pietra: con queste pietre, a quanto mi dissero, si fece costruire
la piramide posta in mezzo alle altre tre e di fronte alla più grande; ogni
lato di essa misura un pletro e mezzo. Gli Egiziani mi dissero che Cheope regnò
sull'Egitto per cinquanta anni; alla sua morte il potere passò nelle mani del
fratello Chefren. Chefren si comportò esattamente come il suo predecessore: fra
l'altro si fece costruire anche lui una piramide, ma non delle dimensioni di
quella di Cheope (noi l'abbiamo personalmente misurata): non possiede vani
sotterranei e non c'è un canale che porti fino ad essa le acque del Nilo come
accade per l'altra piramide; il Nilo infatti attraverso un condotto artificiale
circonda un isolotto dove pare che Cheope sia seppellito. Dopo aver costruito
il primo ripiano in granito etiopico di vari colori, eresse la propria piramide
accanto all'altra, la grande, ma restando quaranta piedi di meno in altezza.
Sorgono entrambe sullo stesso colle, alto all'incirca un centinaio di piedi. Mi
dissero che Chefren regnò per 56 anni. E calcolano così a 106 gli anni di
totale miseria per gli Egiziani: inoltre per tutto questo periodo i templi che
erano stati chiusi non vennero mai riaperti. Gli Egiziani non amano ricordare
il nome di questi due re, tanto è l'odio che nutrono verso di loro; persino le
piramidi le chiamano dal nome del pastore Filiti, che all'epoca faceva
pascolare le sue greggi da quelle parti. Dopo Chefren regnò sull'Egitto
Micerino, figlio di Cheope; a Micerino non piaceva l'operato del padre: allora
riaprì i templi e consentì al popolo, ormai ridotto alla estrema miseria, di
tornare ai propri lavori e alle proprie pratiche religiose; inoltre dirimeva le
cause con senso di giustizia più forte di tutti i re precedenti. Per questa sua
attività gli Egiziani lodano Micerino più di tutti i re succedutisi sul trono
fino ad oggi; in effetti, oltre a emettere sempre eccellenti sentenze, donava
denaro proprio a chi risultasse insoddisfatto della sua decisione, per placarne
il risentimento. A Micerino, re mite nei confronti dei sudditi e che si
comportava come ho detto, capitarono una serie di sventure: la prima fu la
morte dell'unica sua figlia. Profondamente addolorato dalla sciagura che gli era
piombata addosso, volle seppellire la figlia in una maniera assolutamente
eccezionale: fece costruire una vacca di legno, cava, la fece rivestire
interamente d'oro e vi introdusse la salma della figlia. Questa vacca non fu
poi calata nella terra, ma lasciata a Sais dentro la reggia in una stanza
decorata, dove era visibile ancora ai miei tempi; tutti i giorni vi bruciano
aromi di ogni genere, e ogni notte, vi arde una lampada costantemente accesa.
In un'altra stanza, a poca distanza dalla vacca, si trovano le statue delle
concubine di Micerino, così perlomeno dicevano i sacerdoti della città di Sais.
Ci sono infatti alcune enormi statue di legno, una ventina circa, raffiguranti
dei nudi femminili; nulla posso dire circa la loro identità, oltre a ciò che si
racconta. Alcuni narrano a proposito della vacca e delle statue la seguente
leggenda: Micerino si innamorò della figlia e la costrinse a unirsi con lui;
dicono inoltre che subito dopo, per il dolore, la ragazza si impiccò; mentre il
padre provvedeva a seppellirla nella vacca, la madre fece tagliare le mani alle
ancelle che avevano consegnato sua figlia nelle mani del padre; e ora appunto
le statue di queste ancelle avrebbero patito la punizione subita da loro vive.
Ma a mio parere dicono delle sciocchezze, sia nel resto sia nel dettaglio delle
mani delle statue; ho potuto constatare personalmente che si sono staccate a
causa dell'azione del tempo: erano ancora visibili all'epoca della mia visita,
per terra, ai piedi delle statue. Il corpo della vacca è coperto da un tessuto
di porpora da cui spuntano il collo e la testa, chiaramente rivestiti di uno
spesso strato d'oro: in mezzo alle corna è effigiato in oro il disco del sole.
La vacca non è dritta in piedi ma giace sulle ginocchia: le sue dimensioni sono
quelle di un grosso esemplare vivo. Una volta all'anno viene portata fuori
dalla stanza, nei giorni in cui gli Egiziani si battono il petto in onore del
dio che preferisco non nominare in questo momento; allora portano alla luce del
sole anche la vacca: sembra sia stata la ragazza stessa, in punto di morte, a
chiedere al padre di vedere il sole una volta all'anno. Dopo la scomparsa della
figlia, un'altra sventura colpì il re: un oracolo proveniente dalla città di
Buto gli predisse solo sei anni di vita: sarebbe morto nel settimo. Molto
contrariato il re inviò all'oracolo un messaggio di biasimo per il dio: suo
padre e suo zio, - così rinfacciava Micerino all'oracolo - erano vissuti molto
a lungo benché avessero chiuso i templi, si fossero scordati degli dei e avessero
fatto morire la gente, mentre lui, che si era comportato devotamente, presto
avrebbe dovuto morire. E dall'oracolo gli venne un secondo responso; proprio
per questo gli era stata accorciata l'esistenza: non aveva agito come doveva,
perché bisognava che l'Egitto patisse sciagure per 150 anni. I suoi due
predecessori lo avevano capito, lui invece no. Udito ciò Micerino, a cui il
destino pareva ormai segnato, si fece fabbricare molte lampade: ogni volta che
scendeva la notte le accendeva e si abbandonava al bere e alle baldorie, senza
smettere né di giorno né di notte, vagando tra i boschi o le paludi e ovunque
accertasse l'esistenza di luoghi di divertimento. Voleva così dimostrare che
l'oracolo mentiva e aumentarsi da sei a dodici gli anni di vita, trasformando
le notti in giorni. Anche questo re lasciò una piramide, molto più piccola di
quella del padre: misura su ciascun lato tre pletri meno venti piedi, ha base
di forma quadrangolare ed è per metà in pietra etiopica. Alcuni Greci
attribuiscono questa piramide a Rodopi, la cortigiana, ma non è vero: costoro
secondo me parlano senza neppure sapere chi era Rodopi, altrimenti non
potrebbero attribuirle la costruzione di una piramide come quella che costa
migliaia di talenti, una cifra per così dire incalcolabile; inoltre Rodopi
godette il massimo splendore all'epoca del re Amasi e non sotto il regno di
Micerino, vale a dire parecchi anni dopo i re che lasciarono queste piramidi;
Rodopi era di stirpe tracia, schiava di Iadmone di Samo, figlio di Efestopoli,
e compagna di schiavitù di Esopo, il favolista. Anche Esopo infatti fu schiavo
di Iadmone; lo dimostra senz'altro il fatto seguente: quando già varie volte i
cittadini di Delfi in seguito a un oracolo avevano diffuso un bando, cercando
chi volesse riscuotere il compenso dovuto per la vita di Esopo, fu un Iadmone,
nipote appunto di quel Iadmone, a farsi avanti, non altri; ciò dimostra che
Esopo era appartenuto a Iadmone. Rodopi giunse in Egitto al seguito di Xanto di
Samo, vi giunse per esercitarvi l'antica professione, e vi fu riscattata per
una somma enorme da un uomo di Mitilene, Carasso, figlio di Scamandronimo e
fratello della poetessa Saffo. Divenuta in tal modo libera, Rodopi rimase in
Egitto e siccome era molto attraente riuscì ad arricchirsi, ma quanto basta per
essere una Rodopi, non certo per permettersi una piramide come quella. Ancora
oggi chiunque lo voglia può valutare coi propri occhi la decima dei suoi averi,
e non è proprio il caso di attribuirle spropositate ricchezze. Infatti Rodopi
volle lasciare in Grecia memoria di sé ordinando che le venissero allestiti
oggetti mai escogitati per una offerta a un tempio; e volle dedicarli a Delfi a
ricordo di sé. Con la decima parte dei suoi averi fece fondere numerosi spiedi
di ferro, da bue, quanti ne consentiva quella somma, e li mandò a Delfi. Ancora
oggi essi si trovano accatastati dietro l'altare donato dagli abitanti di Chio,
di fronte alla cella del tempio. Generalmente le grandi prostitute di Naucrati
sono molto attraenti: già Rodopi, la pro tagonista del nostro discorso, divenne
tanto famosa che tutti i Greci ne conobbero il nome; più tardi, dopo di lei
divenne celebre in tutta la Grecia una certa Archidice, anche se costituì meno
argomento di conversazione. Quanto a Carasso, dopo aver riscattato Rodopi,
tornò a Mitilene, e Saffo lo rimproverò duramente in un carme. Ma su Rodopi
ormai ho terminato. I sacerdoti raccontavano ancora che dopo Micerino divenne
re Asichi; Asichi eresse i propilei orientali del tempio di Efesto, che sono di
gran lunga i più belli e imponenti. Tutti i propilei presentano bassorilievi e
infinite meraviglie architettoniche, ma quelli li superano largamente. Sotto il
regno di Asichi, narravano, essendo scarsa la circolazione di denaro, fu
promulgata per gli Egiziani una legge in base alla quale era consentito
ricevere un prestito a chi desse in pegno il cadavere del padre. A tale legge
se ne aggiunse poi un'altra: il creditore poteva diventare proprietario
dell'intera tomba del debitore, il quale appunto, se aveva concesso quel tipo
di garanzia e rifiutava poi di restituire il prestito, come sanzione perdeva il
diritto di essere seppellito, dopo morto, nella tomba di famiglia o in un'altra
qualunque; né poteva dar sepoltura ad alcuno dei suoi. Asichi, volendo superare
tutti i re suoi predecessori sul trono dell'Egitto, lasciò in ricordo di sé una
piramide di mattoni, sulla quale campeggiava una lapide con incise queste
parole: "Non disprezzarmi a confronto con le piramidi di pietra: io sono
superiore ad esse quanto Zeus è superiore agli altri dei, perché hanno immerso
una pertica nel lago e con il fango ad essa rimasto attaccato hanno fatto dei
mattoni e così mi hanno costruito". Queste furono tutte le imprese di
Asichi. Dopo di lui salì al trono un cieco della città di Anisi, che si
chiamava a sua volta Anisi. Sotto questo sovrano mosse contro l'Egitto un forte
contingente di Etiopi guidati dal re Sabacos. Allora il cieco Anisi fuggì in
direzione delle paludi; l'Etiope regnò sull'Egitto per cinquanta anni durante i
quali si regolò come segue: quando un Egiziano commetteva qualche crimine, non
voleva mandarlo a morte, ma gli assegnava una pena proporzionata alla gravità
del reato, imponendo a ciascun colpevole di compiere lavori di terrazzamento
nella sua città natale. E in tal modo le città divennero ancora più alte; i
primi lavori di questo tipo si erano avuti all'epoca del re Sesostri, in
seguito allo scavo dei canali, per la seconda volta si fecero durante il regno
dell'Etiope; e le città furono elevate di molto. Fra le tante città egiziane
che vennero rialzate quella a mio parere dove i terrazzamenti furono più
cospicui fu Bubasti, dove sorge anche il notevolissimo tempio della dea
Bubasti: esistono certamente altri santuari più grandi di questo, ma nessuno è
altrettanto bello da visitare. La dea Bubasti è l'equivalente della dea greca
Artemide. Il suo santuario si presenta così: all'infuori della strada di
accesso tutto il resto è un'isola: in effetti dal Nilo due canali si spingono
paralleli fino all'ingresso del tempio dove divergono per scorrere intorno al
santuario uno da una parte, uno dall'altra; ciascuno dei canali è largo 100
piedi ed è ombreggiato da file di alberi. I propilei raggiungono le dieci orgie
in altezza e sono ornati di figure scolpite alte sei piedi, degne di essere
ricordate. Il tempio, trovandosi nel centro della città, è visibile in basso da
qualunque punto circostante, perché mentre la città è stata rialzata con
terrapieni, il tempio invece non è mai stato toccato da quando fu costruito; e
quindi risulta in bella vista. Lo circonda un muro di cinta ornato di
bassorilievi al cui interno si trova un boschetto di altissimi alberi intorno
alla grande cella dove è racchiusa la statua della dea; in lunghezza e in
larghezza il santuario misura uno stadio. Davanti all'ingresso c'è una strada
lastricata di pietra, lunga circa tre stadi e larga circa quattro pletri:
attraversa la piazza della città e procede verso oriente. Su entrambi i lati
della strada, che porta al tempio di Ermes, crescono alberi che si levano fino
al cielo. Così è il tempio di Bubasti. Ecco come i sacerdoti raccontavano la
definitiva partenza dell'Etiope; fu una vera e propria fuga dovuta a una
visione apparsagli in sogno: aveva sognato che un uomo, accanto a lui, gli
consigliava di radunare tutti insieme i sacerdoti egiziani e di farli tagliare
a metà. Avuta questa visione dichiarò che a suo parere gli dei gli offrivano un
pretesto perché si macchiasse di empietà e venisse a patire sventure da parte
degli dei e degli uomini; perciò non avrebbe obbedito; tanto più che era
arrivato il tempo, predettogli da un oracolo, di ritirarsi dopo aver regnato
sull'Egitto. Infatti quando ancora stava in Etiopia gli oracoli consultati
abitualmente dagli Etiopi gli avevano profetizzato cinquanta anni di regno sull'Egitto.
Siccome dunque questo tempo era trascorso e dato che il sogno notturno lo aveva
sconvolto, Sabacos di sua spontanea volontà si ritirò dall'Egitto. |[continua]|
|[LIBRO II, 4]| Dopo la partenza dell'Etiope prese di nuovo a regnare
sull'Egitto il sovrano cieco, tornato dalle paludi dove per cinquanta anni
aveva vissuto in un isolotto da lui stesso formato con terra e cenere; infatti
ogni volta che gli Egiziani venivano a portargli del cibo, secondo gli ordini e
all'insaputa del re etiope, chiedeva loro di portargli in dono anche un po' di
cenere. Nessuno riuscì a scoprire quest'isola prima di Amirteo: per più di
settecento anni i predecessori del re Amirteo non furono capaci di trovarla;
l'isola si chiama Elbo e misura dieci stadi in ogni direzione. Dopo Anisi salì
al trono un sacerdote del tempio di Efesto, di nome Setone; costui non aveva
nessuna considerazione per la classe dei guerrieri egiziani anzi li
disprezzava, pensando forse di non dover mai avere bisogno di loro; fra le
altre angherie che impose loro li privò dei terreni: sotto i re precedenti a
ciascun guerriero era stato assegnato un lotto di dodici "arure". Più
tardi, quando il re d'Arabia e d'Assiria Sennacherib mosse con un grande
esercito contro l'Egitto, i guerrieri egiziani non vollero accorrere a difesa
del paese. Allora il re sacerdote, ormai in una grave situazione, entrò nella
sala del tempio a lamentarsi, di fronte alla statua del dio, delle sciagure che
rischiava di subire; mentre si lamentava si addormentò e sognò che il dio, standogli
accanto, lo rincuorasse: non gli sarebbe successo nulla di spiacevole se avesse
affrontato l'esercito arabo, perché il dio in persona gli avrebbe mandato dei
soccorsi. Fiducioso in quanto aveva sognato prese con sé tutti gli Egiziani
disposti a seguirlo e si accampò presso Pelusio (dove appunto si trovano le vie
di accesso all'Egitto). Nessun guerriero lo aveva seguito, soltanto bottegai,
artigiani e mercanti. Quando sopraggiunsero, i nemici subirono, di notte,
un'invasione di topi di campagna che rosicchiarono le loro faretre e gli archi
e le cinghie degli scudi, sicché il giorno dopo, inermi ormai, si diedero alla
fuga e caddero in gran numero. E oggi nel tempio di Efesto si trova una statua
in pietra raffigurante questo sacerdote con in mano un topo, e con
un'iscrizione che dice: "Guardate me e siate devoti agli dei". Fino a
questo punto della storia le fonti sono state gli Egiziani e i loro sacerdoti;
essi mi hanno spiegato che dall'epoca del primo re fino a questo sacerdote di
Efesto, ultimo regnante, si erano avvicendate 341 generazioni umane e che in
tale lungo arco di tempo altrettanti erano stati i sommi sacerdoti e i re. Ora,
siccome tre generazioni compongono un secolo, 300 corrispondono a 10.000 anni;
le 41 restanti (oltre le 300), corrispondono a 1340 anni; ebbene in 11.340
anni, - affermavano - mai nessun dio si mostrò in figura di uomo; e nulla di
simile era mai accaduto prima né accadde dopo, fra gli altri che divennero re
dell'Egitto. Inoltre dicevano che in questo lungo periodo il sole si era per
quattro volte allontanato dal suo corso abituale: due volte sorse là dove di
solito tramonta e due volte tramontò là dove di solito sorge. In questo periodo
l'Egitto non ebbe a patire alterazioni di sorta, né per i prodotti agricoli né
per i fenomeni connessi al fiume, né per quanto riguarda malattie o decessi. In
precedenza, nei confronti dello storico Ecateo, che lì a Tebe aveva esposto la
propria genealogia famigliare risalendo nel tempo per sedici generazioni fino a
una origine divina, i sacerdoti di Zeus si erano comportati esattamente come
nei miei confronti, ma io non avevo elencato le mie ascendenze: mi introdussero
nella sala interna del tempio, vastissima, e mi enumerarono, mostrandole una
per una, le colossali statue di legno colà presenti, tante quante ho già detto:
ogni sommo sacerdote, infatti, erige in quella sala una propria statua.
Contandole e esibendole mi spiegarono che erano tutti discendenti diretti l'uno
dell'altro: cominciarono dal sacerdote morto più di recente procedendo a
ritroso, di personaggio in personaggio, finché me li ebbero indicati tutti. A
Ecateo, che aveva fatto risalire la propria famiglia a un dio attraverso sedici
generazioni, essi opposero quella genealogia, così calcolata, e non
accettarono, del discorso di Ecateo, l'origine divina di un uomo; la
contrapposero sostenendo che ogni statua rappresentava un "piromi"
nato da un altro "piromi"; le mostrarono tutte quante, 345,
escludendo ogni relazione con gli dei o con gli eroi. "Piromi"
corrisponde in lingua greca a "uomo bello e valoroso". Insomma tali
erano i personaggi raffigurati in quelle immagini, mi precisarono, e ben
diversi dagli dei. Invece prima di essi tutti i sovrani dell'Egitto erano dei,
vissuti fra gli uomini: di volta in volta un dio si avvicendava al potere.
L'ultimo a regnare sull'Egitto sarebbe stato Horo, figlio di Osiride, e
corrispondente egiziano del greco Apollo; Horo aveva messo fine al regno di
Tifone, dominando per ultimo. Osiride in lingua greca si chiamerebbe Dioniso.
Fra i Greci gli dei più recenti sono ritenuti Eracle, Dioniso e Pan, invece fra
gli Egiziani Pan è il più antico e appartiene al novero degli otto indicati
come primi dei; Eracle invece è fra i secondi dei, detti i dodici, e Dioniso in
quella terza serie originata dai dodici. Già ho precisato quanti anni, secondo
gli Egiziani, siano trascorsi dall'epoca di Eracle a quella del re Amasi; da
Pan dicono siano stati di più, da Dioniso meno, e calcolano 15.000 anni da lui
fino al regno di Amasi. Gli Egiziani si dichiarano sicuri di queste
informazioni, perché tengono costantemente il conto degli anni e lo registrano
per iscritto. E dunque, dall'epoca del Dioniso che si dice sia nato da Semele,
figlia di Cadmo, fino ai nostri giorni sarebbero trascorsi non più di 1000 [e
600] anni, da quella dell'Eracle figlio di Alcmena, circa 900, e dal Pan figlio
di Penelope (nato appunto da Ermes e da Penelope, come asseriscono i Greci)
fino a oggi meno anni di quelli che ci separano dalla guerra di Troia, ossia
circa 800 anni. Ciascuno accolga pure delle due la versione che gli pare più
convincente, io per me la mia opinione al riguardo l'ho già espressa. Se questi
due individui, il Dioniso figlio di Semele e il Pan figlio di Penelope, fossero
nati e invecchiati in Grecia come accadde per Eracle figlio di Anfitrione,
allora li si potrebbe ugualmente ritenere degli esseri umani omonimi di
divinità sorte ben prima di loro: ma i Greci narrano che questo Dioniso, appena
concepito, fu cucito da Zeus in una sua coscia e portato a Nisa, cioè oltre l'Egitto,
in Etiopia; quanto a Pan, poi, i Greci non sanno proprio dire dove sia andato a
finire dopo essere venuto al mondo. A me perciò sembra chiaro che i Greci
conobbero Dioniso e Pan più tardi degli altri dei e poi attribuirono la loro
nascita all'epoca in cui ne avevano sentito parlare per la prima volta. Tutto
ciò che precede è di fonte egiziana. Ora invece passo a esporre i racconti
egiziani che concordano con notizie di altra provenienza sempre a proposito di
questo paese; e vi aggiungerò anche qualche cosa constatata da me
personalmente. Gli Egiziani, dopo il regno del sacerdote di Efesto,
acquistarono la libertà; ma non erano assolutamente in grado di vivere neppure
per breve tempo senza un sovrano, sicché insediarono dodici re, uno per
ciascuna delle parti in cui avevano diviso l'intero territorio egiziano. Essi
si legarono fra loro per mezzo di matrimoni e regnarono, attenendosi a queste
norme: non si sarebbero sopraffatti a vicenda, non avrebbero aspirato a
possedere ciascuno qualcosa più dell'altro, e insomma sarebbero rimasti amici
in tutto e per tutto. Stabilirono le regole suddette e ad esse si attennero
strettamente, perché appena insediati al potere gli era pervenuto un vaticinio:
chi fra loro avesse libato con una coppa di bronzo dentro il tempio di Efesto
sarebbe diventato re di tutto quanto il paese; bisogna sapere che essi si
riunivano in tutti i santuari. A ricordo di sé decisero di lasciare un unico
monumento in comune e fecero costruire il labirinto che si trova a sud del lago
di Meride, all'altezza della cosiddetta città di "Coccodrilli". Io
l'ho visto con i miei occhi ed è al di sopra di ogni possibilità di
descrizione: anche a pensare di descrivere una per una tutte le mura e le
costruzioni dei Greci, queste apparirebbero pur sempre inferiori, per lavoro e
denaro occorsi, a questo labirinto. Certamente è notevole anche il tempio di
Efeso, o quello di Samo; già le piramidi andavano oltre ogni descrizione e
ciascuna di loro era capace di reggere il paragone con molte e anche imponenti opere
greche; ma il labirinto davvero supera le piramidi. Esso si compone di dodici
cortili coperti, contigui, con le porte opposte tra loro, sei rivolte verso
nord e sei verso sud; un unico muro di cinta li separa dall'esterno.
All'interno, su due piani, uno sotterraneo, l'altro superiore, si stendono 3000
stanze, 1500 per piano; le stanze del piano superiore le ho visitate e percorse
personalmente, quindi posso parlarne per conoscenza diretta; su quelle
sotterranee ho avuto solamente informazioni: gli addetti egiziani si
rifiutarono di mostrarmele sostenendo che vi si trovano le sepolture dei re che
furono i primi costruttori del labirinto e dei coccodrilli sacri. Pertanto
posso parlare del piano inferiore solo basandomi su quanto mi hanno riferito;
ma al piano superiore ho visto opere che travalicano i limiti dell'umano: le
porte che collegano le varie stanze e le svariatissime tortuosità attraverso i
cortili mi lasciarono a bocca aperta: passavo dal cortile alle stanze e dalle
stanze ai porticati e dai porticati ad altre stanze e da esse ad altri cortili:
il soffitto di tutte queste costruzioni è di pietra come pure le pareti, ma le
pareti sono ricche di bassorilievi; ogni cortile è circondato da colonne di
pietra bianca che si armonizzano alla perfezione. Vicino all'angolo dove
termina il labirinto si innalza una piramide, quaranta orgie di base, che reca
scolpite figure di grandi proporzioni; la via di accesso alla piramide è
sotterranea. Benché il labirinto sia già straordinario ancora più meravigliati
lascia il lago cosiddetto di Meride, presso il quale il labirinto è stato
costruito; il perimetro del lago misura 3600 stadi, vale a dire sessanta
scheni, una lunghezza pari all'intero sviluppo costiero egiziano; il lago si
estende nel senso della lunghezza in direzione nord-sud e nel punto di massima
profondità raggiunge le cinquanta orgie. Che si tratti di un bacino
artificiale, opera di scavo, lo rivela il lago stesso: nel bel mezzo infatti vi
sorgono due piramidi alte ciascuna cinquanta orgie sul livello dell'acqua; e
altrettanto misura la parte sommersa. Sopra entrambe le piramidi c'è un colosso
di pietra seduto sul trono. In questo modo l'altezza delle piramidi raggiunge
le cento orgie; cento orgie corrispondono esattamente a uno stadio di sei
pletri, visto che ogni orgia è pari a quattro cubiti o a sei piedi; piede e
cubito corrispondono rispettivamente a quattro e sei palmi. L'acqua del lago
non è di sorgente (quella zona del paese è terribilmente arida) ma vi è stata
portata dal Nilo mediante un canale: per sei mesi all'anno l'acqua scorre verso
il lago, per gli altri sei rifluisce nel letto del Nilo. Quando le acque
defluiscono dal lago allora, in quei sei mesi, la pesca frutta alla reggia un
talento d'argento al giorno; quando invece vi affluisce frutta soltanto venti
mine. Gli abitanti del luogo dicevano anche che il lago è collegato con il
golfo della Sirte in Libia per mezzo di un canale sotterraneo; il lato
occidentale del lago si protende verso ovest nell'interno lungo la catena
montuosa che sta sopra Menfi. Poiché non riuscivo a vedere dove mai fosse stata
accumulata la terra dello scavo, e la cosa mi aveva incuriosito, chiesi a
quelli che abitavano nei dintorni del lago dove si trovasse la terra scavata.
Essi mi spiegarono dove era stata trasportata e mi convinsero facilmente;
sapevo infatti, perché l'avevo sentito raccontare, che anche a Ninive, città
degli Assiri, era avvenuto qualcosa di simile. Infatti dei ladri avevano
concepito il progetto di rubare l'immenso tesoro, custodito in camere sotterranee,
del re di Ninive Sardanapalo: essi, cominciando dalla loro casa e calcolando
con precisione le distanze fino alla reggia, scavarono sottoterra una galleria
e ogni notte andavano a scaricare la terra rimossa nel Tigri, che scorre a poca
distanza da Ninive, finché non ebbero eseguito il loro piano. Un lavoro del
genere, a quanto mi dissero, fu compiuto anche per lo scavo del lago egiziano,
con la sola differenza che non fu realizzato di notte bensì alla luce del sole:
gli Egiziani trasportarono il materiale estratto dallo scavo fino al Nilo che,
ricevendolo, avrebbe pensato a disperderlo. Così fu realizzato, pare, l'invaso
del lago. I dodici re esercitarono il potere comportandosi con giustizia;
passato un certo tempo, una volta si riunirono per un sacrificio nel tempio di
Efesto; nell'ultimo giorno della festa quando stavano per libare il sommo
sacerdote, nel dare loro le coppe d'oro usate di solito per le libagioni, ne
sbagliò il numero, distribuendone undici invece di dodici. Psammetico era
l'ultimo della fila: rimasto senza coppa, si sfilò l'elmo di bronzo, lo porse e
con esso libò. Anche gli altri re, tutti, portavano un elmo, e lo avevano
allora in testa; Psammetico non porse il suo con l'intenzione di ingannare gli
altri. Ed essi, quando ebbero collegato mentalmente il gesto di Psammetico con
l'oracolo che era stato loro vaticinato (chi di loro avesse libato con una
coppa di bronzo sarebbe diventato sovrano unico dell'intero Egitto), benché
memori della profezia, non ritennero giusto uccidere Psammetico: si resero
conto, interrogandolo a fondo, che non aveva agito con premeditazione, perciò
decisero di privarlo della maggior parte del suo potere e di esiliarlo nelle
paludi, col divieto di allontanarsi da lì e di avere contatti con il restante
territorio egiziano. Questo Psammetico, in precedenza, era stato già una volta
cacciato in esilio dal re Etiope Sabacos, che gli aveva ucciso il padre Necos;
allora era riparato in Siria; poi, quando l'Etiope, dopo il sogno, si ritirò,
gli Egiziani del nomo di Sais lo ricondussero in patria; più tardi, mentre era
re, per la seconda volta e per colpa dell'elmo gli altri undici sovrani lo
costrinsero in esilio, nelle paludi. Si ritenne vittima di un sopruso da parte
dei suoi colleghi e pensò di vendicarsi di quanti lo avevano bandito. Mandò una
delegazione a Buto all'oracolo di Latona, che per gli Egiziani è l'oracolo più
veritiero, e ottenne un responso in base al quale la sua vendetta sarebbe
venuta dal mare, quando fossero apparsi degli uomini di bronzo. Davvero lui non
poteva credere che mai sarebbero accorsi in suo aiuto degli uomini di bronzo,
ma, non molto tempo dopo, il destino volle che degli Ioni e dei Cari, salpati
per fare della pirateria, fossero gettati sulle coste dell'Egitto; costoro
sbarcarono a terra indossando armature di bronzo e qualcuno corse nelle paludi
ad avvisare Psammetico: poiché non aveva mai visto prima degli uomini con
armature di bronzo, il messaggero riferì che dal mare erano venuti uomini di
bronzo a depredare la campagna. Psammetico comprese che l'oracolo si stava
avverando: trattò da amici gli Ioni e i Cari e con grandi promesse li convinse
a schierarsi con lui; poi, un po' col favore degli Egiziani disposti ad
aiutarlo, un po' col soccorso di questi alleati, detronizzò i re avversari.
Divenuto padrone di tutto quanto l'Egitto, Psammetico fece costruire in onore
di Efesto i propilei meridionali a Menfi e di fronte ai propilei edificò per
Api il cortile in cui Api viene nutrito quando si manifesti; il cortile è
contornato da colonne e ricco di bassorilievi; non sono però propriamente
colonne quelle che reggono il tetto, ma piuttosto colossali statue di dodici
cubiti. Api corrisponde in lingua greca a Epafo. Agli Ioni e ai Cari che lo
avevano aiutato Psammetico concesse di abitare due territori situati uno di
fronte all'altro, separati dal Nilo, che presero il nome di
"Accampamenti". Assegnò i territori e mantenne anche tutte le altre
promesse. Inoltre affidò loro dei ragazzi egiziani perché imparassero la lingua
greca; da questi ragazzi che appresero allora il greco discendono tutti gli
attuali interpreti in Egitto. Ioni e Cari abitarono assai a lungo in questi
territori situati lungo la costa un po' al disotto di Bubasti, presso la foce
del Nilo detta Pelusio. Più tardi il re Amasi li tolse da quei territori e li
trasferì a Menfi facendosene un corpo di guardia personale in luogo degli
Egiziani. Costoro si stabilirono in Egitto e proprio grazie ai contatti
intervenuti con essi noi Greci possiamo avere una esatta conoscenza delle cose
d'Egitto, a partire dal regno di Psammetico in poi; Ioni e Cari furono i primi
alloglotti a stabilirsi in Egitto. Nei luoghi da cui poi furono trasferiti a
Menfi, ancora all'epoca della mia visita erano rimasti gli scivoli per calare
in acqua le imbarcazioni e i ruderi delle abitazioni. E così Psammetico divenne
padrone dell'Egitto. Varie volte ho fatto menzione dell'oracolo egiziano e ora
bisogna che ne parli: è davvero un argomento degno di essere toccato. Questo
oracolo [egiziano] è sacro a Latona: sorge in una grande città che si incontra
risalendo il Nilo dal mare sul ramo detto Sebennitico. Il nome della città sede
dell'oracolo è Buto, come già precedentemente ho ricordato; a Buto si trova
anche un santuario di Apollo e di Artemide. Il tempio di Latona, sede
dell'oracolo, è veramente imponente: i suoi propilei raggiungono un'altezza di
dieci orgie; ma dirò quella che fra tutte le cose visibili mi procurò il
maggior stupore: nell'area sacra a Latona c'è un tempio costituito da pareti
monolitiche, identiche in lunghezza e in altezza; ogni spigolo misura quaranta
cubiti; il tetto è formato da un'unica lastra di pietra con un aggetto di
quattro cubiti. Questo tempio è per me fra tutte le cose visibili nell'area del
santuario la più stupefacente. La seconda meraviglia è l'isola detta di Chemmi:
essa è situata in un lago vasto e profondo, non lontano dal santuario di Buto,
e a sentire gli Egiziani sarebbe un'isola galleggiante. Personalmente io non
l'ho mai vista navigare né mai spostarsi minimamente e nel ricevere
l'informazione mi ha lasciato molto perplesso la possibilità che esistano isole
natanti. Comunque nell'isola sorge un grande tempio di Apollo con tre altari;
su di essa crescono numerose palme e anche molte altre specie di alberi, da
frutta e non da frutta. Gli Egiziani quando dicono che questa isola galleggia
aggiungono anche un racconto: narrano che Latona, una delle prime otto
divinità, abitava nella città di Buto, dove ora si trova il suo santuario: su
quest'isola che prima era fissa ricevette in custodia Apollo dalle mani di
Iside e ve lo tenne in salvo; lo nascondeva insomma nell'isola che ora ha fama
di essere galleggiante, quando giunse Tifone che cercava ovunque pur di trovare
il figlio di Osiride. Essi sostengono che Apollo e Artemide sono figli di Iside
e di Dioniso e che Latona fu la loro nutrice e salvatrice. In egiziano Apollo
corrisponde a Horo, Demetra a Iside e Artemide a Bubasti. Da questa leggenda e
non da altre Eschilo figlio di Euforione trasse quanto vengo a dire,
distinguendosi dai poeti suoi predecessori: fece che Artemide fosse figlia di
Demetra. Ecco perché l'isola sarebbe divenuta galleggiante. Così almeno
raccontano gli Egiziani. Psammetico regnò sull'Egitto per 54 anni, 29 dei quali
li trascorse accampato in assedio della grande città di Azoto in Siria, finché
non l'ebbe espugnata; Azoto, fra tutte le città a nostra conoscenza fu quella
che resistette più a lungo a un assedio. Psammetico ebbe un figlio, Necos, che
regnò sull'Egitto: costui per primo iniziò lo scavo del canale che si immette
nel Mare Eritreo; il canale fu poi scavato in un secondo tempo dal Persiano
Dario. È lungo quattro giorni di navigazione e fu realizzato talmente largo da
consentire il passaggio contemporaneo a due triremi procedenti a remi. Il
canale riceve l'acqua del Nilo; la riceve esattamente poco a sud di Bubasti non
lontano dalla città araba di Patumo, e poi va a sfociare nel Mare Eritreo. Lo
scavo cominciò nella piana d'Egitto dalla parte dell'Arabia; appena un po' al
di sopra di essa inizia la catena montuosa che si sviluppa di fronte a Menfi,
dove si trovano le cave di pietra. Il canale passa per lungo tratto alle falde
di questa catena montuosa e si allunga da ovest a est, quindi si spinge verso
le gole; dalle montagne piega poi verso il vento Noto, andando a sfociare nel
Golfo d'Arabia. Dove la distanza è minore e la via è più breve per passare dal
mare settentrionale a quello meridionale, detto anche Eritreo, vale a dire dal
monte Casio che segna il confine fra l'Egitto e la Siria, fino al Golfo di Arabia,
ci sono
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