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Alla sera - A Zacinto

italiano



«Alla sera»

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).
Forse perché della fatal quiete
tu sei l'immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,  4

e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.   8

Vagar mi fai co' miei pensieri su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme 11

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirito guerrier ch'entro mi rugge. 14


«A Zacinto»

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDE, CED).

Da notare come le parole-rima delle quartine, tra l'altro di
suggestiva congruenza semantica, si ripercuotano variamente
in rime interne e assonanze nei primi undici versi.



Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque 4

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque    8

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. 11

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura. 14


«In morte del fratello Giovanni»

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).
Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de' tuoi gentil anni caduto.    4

La Madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e sol da lunge i miei tetti saluto. 8

Sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch'io nel tuo porto quiete.  11

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
allora al petto della madre mesta. 14



«Alla musa»

Metro: sonetto (ABBA, ABAB, CDE, CDE).
Pur tu copia versavi alma di canto
su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
quando de' miei fiorenti anni fuggiva
la stagion prima, e dietro erale intanto    4

questa, che meco per la via del pianto
scende di Lete ver la muta riva:
non udito or t'invoco; ohimè! soltanto
una favilla del tuo spirto è viva. 8

E tu fuggisti in compagnia dell'ore,
o Dea! tu pur mi lasci alle pensose
membranze, e del futuro al timor cieco.    11

Però mi accorgo, e mel ridice amore,
che mal ponno sfogar rade, operose
rime il dolor che deve albergar meco.  14




SONETTI

Alla sera E' diviso in due parti, che corrispondono alle due quartine e alle due terzine. La prima parte è soprattutto descrittiva, descrive lo stato d'animo dinanzi alla sera, colto in due momenti differenti, ma egualmente carichi di significato: l'imbrunire di una bella giornata estiva e lo scendere delle tenebre in una nebbiosa serata invernale.

La seconda parte è più dinamica e l'autore vi colloca il nucleo centrale del sonetto, il "nulla eterno". Secondo questo processo la sera, immagine della morte, ha un'efficacia liberatoria, perché cancella le sofferenze e i conflitti. Qui il nulla eterno e la pace della sera, si 626g64g oppongono al "reo tempo" e allo "spirto guerrier" del poeta. Con questo legame Foscolo sottolinea come il tormento e l'irrequietudine dell'autore siano connessi al particolare momento storico. Come già espresso nell'Ortis, Foscolo ripropone lo scontro dell'eroe generoso ed appassionato contro una realtà storica assai negativa, che crea irrequietudine e rivolte. Anche in questo sonetto l'unico strumento per sfuggire a tanta infelicità è la morte, intesa come annullamento totale.


In morte al fratello Giovanni è stato composto nel 1802 in onore del fratello uccisosi per debiti di gioco. Il sonetto si sviluppa su due motivi fondamentali: l'esilio e la tomba, concepita come nucleo attorno cui si riunisce la famiglia. L'esilio rappresenta la condizione di allontanamento e di precarietà su cui Foscolo costruisce la figura dell'eroe infelice e sventurato che, a causa di una precaria società non trova una patria e non possiede un nucleo familiare in cui trovare sicurezza e conforto.

In contrapposizione con questa situazione di allontanamento si colloca il motivo della tomba, che si identifica con l'immagine del nucleo familiare e soprattutto della madre. La parte finale, sembra richiamare il sonetto "Alla sera", poiché la morte è vista come unico mezzo per fuggire da un momento storico negativo. In questo sonetto la morte acquista un nuovo importante significato e non è più vista come "nulla eterno", non è annullamento totale, ma essendo "lacrimata" consente un legame con la vita. Il ritorno nella realtà, si attua nella morte, cioè nell'illusione, perché la restituzione delle ossa consente l'illusione di un ritorno al petto della madre. In questo sonetto, Foscolo ripropone l'immagine positiva della morte che era già presente nell'Ortis e che viene negata nel sonetto "Alla sera".


A Zacinto è stato composto tra il 1802 e il 1803 in onore all'isola dove il poeta nacque, Zante, qui chiamata con il nome greco antico Zacinto. Nel sonetto è presente una contrapposizione tra il poeta e l'eroe omerico, poiché Foscolo non toccherà mai più Zante, mentre Ulisse baciò la sua petrosa Itaca. Queste sono due peregrinazioni volute dal fato, ma con esito negativo. Il sonetto assume cosi' un doppio codice "classico" e "romantico":

- codice classico: l'eroe classico, positivo, conclude felicemente le proprie peregrinazioni,

- codice romantico: l'eroe romantico, negativo, non conclude felicemente le proprie peregrinazioni.

Sono due concezioni profondamente diverse una riferita all'età classica, l'altra tipica dell'età moderna. La sepoltura del Foscolo sarà allora illacrimata, poiché nella condizione di esule, è costretto a morire lontano dai propri cari a causa di una situazione sociale assai negativa.


Il Foscolo compose numerosi sonetti in età giovanile (per non dire adolescenziale) che successivamente ripudiò considerandoli frutto di "vanità giovanile". Pubblicò invece a Pisa, nel 1802, otto sonetti scritti tra il 1798 e il 1802, che ristampò poi in una nuova edizione a Milano con l'aggiunta di altri quattro sonetti composti tra il 1802 e il 1803, senz'altro i suoi migliori e forse i più belli della letteratura italiana.

Non è possibile stabilire una cronologia esatta di questi dodici sonetti perché le testimonianze non sono certe ed i critici appaiono discordi. Noi ci atterremo a quella che ci sembra più condivisa:


"Di se stesso" ("Perché taccia il rumor di mia catena"), delicata poesia in cui il Poeta confida a un "solitario rivo" il suo infelice amore per una bellissima donna che, secondo il Chiarini ed il Mestica dovrebbe essere Isabella Roncioni, secondo il Casini dovrebbe essere Teresa Pikler.


"All'Italia" ("Te nudrice alle Muse, ospite e Dea"), in cui il Foscolo esprime tutto il proprio sdegno contro il Gran Consiglio legislativo della Repubblica Cisalpina che aveva proposto l'abolizione dello studio del latino: l'Italia, perduto il senno ed il valor di Roma, conservava almeno "il gran dir" che avvolgeva "allori regali" alla sua "servil chioma", ma ora ha deciso di sacrificare anche questo, sicché il vincitore (Napoleone) può andar fiero anche della "barbarie" in cui ha ridotto il nostro Paese. 


"Alla sua donna lontana" ("Meritamente, però ch'io potei"), in cui confessa di non essere riuscito a liberarsi con la lontananza dell'amore che lo legava alla sua donna (forse Teresa Pikler) e di aver deciso di tornare a lei.


"A se stesso" ("Che stai? già il secol l'orma ultima lascia"): il secolo XVIII è ormai andato via portando con sé gran parte della giovinezza e degli errori del Poeta: è ora per lui di pensare alla gloria.


"Alla sua donna" ("Così gli interi giorni in  lungo incerto"): il Poeta vaga di notte senza riuscire a togliersi dalla mente e dal cuore le sembianze della sua donna  (Isabella Roncioni) e prorompe in questa petrarchesca reminescenza: «Luce degli occhi miei, chi mi t'asconde? ».


"Di se stesso" ("Non son chi fui: perì di noi gran parte"): uno dei canti più desolati del Foscolo, in cui sembra cedere sotto il peso degli affanni: solo la morte potrebbe dargli pace, ma dal pensiero del suicidio lo distolgono "furor di gloria e carità di figlio".


"Il proprio ritratto" ("Solcata ho fronte, occhi incavati inten­ti"), che abbiamo riportato integralmente a proposito dell'indole del poeta: il Foscolo descrive di sé la figura, il porta­mento, il temperamento.


"A Firenze" ("E tu ne' carmi avrai perenne vita"): il nome  di Firenze vivrà gloriosamente eterno grazie al canto dei poeti e perché ancor oggi "al pellegrino / del fero vate (Dante, secondo alcuni, Alfieri, secondo i più)  la  magion s'addita", ma al Foscolo è caro soprattutto perché in questa città gli ha sorriso la donna del cuore (Isabella Roncioni).


"In morte del fratello Giovanni" ("Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo"): è il famoso sonetto scritto in occasione del suicidio del fratello Giovanni Dionigi, tenente di artiglieria, che a soli venti anni si diede la morte per sottrarsi alla vergogna di una infamante quanto falsa accusa di furto. Se un giorno il Destino cesserà di perseguitarlo, egli potrà recarsi sulla tomba del fratello a piangere i suoi verdi anni infranti. Su quella tomba ora trascina il corpo invecchiato e l'animo prostrato la madre che parla ad un "cenere muto" di un figlio lontano e forse perduto per sempre. Anche il Poeta è stanco della vita e spera di poter finalmente riposare l'animo stanco nella quiete della morte: le sue ossa siano almeno rese al "petto della madre mesta". E' un canto dolente recitato sommessamente, a fil di voce: è un pianto senza lacrime che sgorga lentamente dal cuore, segnato di una virile rassegnazione.


"A Zacinto" ("Né più mai toccherò le sacre sponde"): il Poeta, lontano dalla terra natale, dispera ormai di potervi un giorno ritornare, come toccò all'omerico Ulisse: la sacra terra, che si specchia nelle onde di quel mare da cui nacque la vergine Venere e che per questo ebbe il dono di essere rievocata dal grande Omero, non potrà aver altro dal figlio disperso che un canto d'amore: il fato ha prescritto per lui una "illacrimata sepoltura".


"Alla sera" ("Forse perché della fatal quiete"): è unanimemente considerato il più bello dei sonetti foscoliani. Il Poeta esprime tutta la suggestione dell'animo suo quando contempla la pace della Sera e riesce a far tacere lo "spirito guerriero" che l'incalza durante il giorno. La Sera, con la sua immagine della Morte, induce l'animo a inseguire le orme che portano al Nulla ed è perciò sempre invocata dal Poeta.


"Alla Musa" ("Pur tu copia versavi  alma di canto"): il Poeta, che sempre e soltanto dalla Poesia ha tratto conforto alle pene e forza di vivere e speranza di gloria, ora avverte che la Musa lo abbandona, perché sente che le poche "rime" faticosamente costruite non valgono a fargli sfogare tutto il pianto del cuore, deluso per l'amore contrastato e per la patria vilipesa.

Nei sonetti l'animo esagitato dell'Ortis ha trovato una maggiore compostezza, il sentimento è più maturo e sa frenare gli impulsi delle passioni; ma il disinganno della patria tradita, la nostalgia della terra natale e della famiglia lontane, gli stenti d'una vita tra genti straniere, il desiderio di gloria da difendere con tanta fatica in tempi così tristi: sono tuttora presenti e vivi nella stanca ma non avvilita e sempre tetragona coscienza del Foscolo. Naturale, quindi, che nei sonetti si ritrovino gli stessi motivi presenti nel romanzo.

Ma è naturale anche che sentimenti ed immagini si distendano in un canto più pacato, fatto di accenti più lievi, sgombro da passioni troppo accese, vibrante sulle corde di un afflato via via più universale: un canto insomma sempre più cordiale e persuasivo che annunzia la grande poesia dei "Sepolcri" e troverà la sua sublimazione ne "Le Grazie".

Nell' "Ortis" erano chiari i segni della presenza morale del Parini e dell'Alfieri. Nei sonetti non poteva mancare anche l'eco della malinconia del Petrarca.

SEPOLCRI

E' un carme didascalico di 295 endecasillabi sciolti.

In una lettera a Sigismondo Trechi, datata 3 febbraio 1816, l'Autore comunica che il carme fu scritto dopo il suo ritorno dalla Francia, e cioè dopo il marzo del 1806. E poiché in un'altra lettera datata 6 settembre 1806 egli annuncia a Isabella Teotochi Albrizzi che "aveva già una epistola sui Sepolcri da stamparsi lindamente", bisogna dedurre che l'opera fu composta tra il marzo ed i primi di settembre del 1806.

Il Foscolo dedicò all'amico Ippolito Pindemonte questo carme (che vide la luce per la prima volta a Brescia nel 1807) e il poeta veronese interruppe il poemetto "I cimiteri", cui lavorava da qualche tempo, lasciandolo incompiuto: preferì invece scrivere immediatamente una risposta in versi al Foscolo e nello stesso anno 1807  l'editore Gamberetti di Verona pubblicò entrambe le "epistole" col titolo: "I Sepolcri - versi di Ugo Foscolo e d'Ippolito Pindemonte".

Il motivo occasionale

L'occasione del carme fu l'editto di Saint-Cloud[1] ,  emanato da Napoleone Bonaparte in Francia il 12 giugno 1804  ed esteso in  Italia il 5 settembre 1806, cioè quando certamente il Foscolo aveva già ultimata la stesura dell'opera: segno questo che il Poeta dava per certa ed imminente l'estensione in Italia di quell'editto e  che a indurlo a scrivere sui  Sepolcri  dovettero molto influire le discussioni che si accesero - ed alle quali non fu estraneo egli stesso - tra gli intellet­tuali già dopo il 1804. D'altra parte l'editto napoleonico non faceva altro che riprendere e ripristinare un'analoga disposizione del governo austriaco, che aveva avuto in Lombardia breve applicazione a causa dell'energica opposizione popolare, ma era riuscita tuttavia a valere sulla sepoltura del Parini, morto il 15 agosto 1799, le cui ossa erano andate disperse.

I motivi ispiratori

Nel carme confluiscono, in prodigiosa sintesi, tutte le esperienze esistenziali del Foscolo, intellettuali, morali e politiche: la concezione materialistica della vita (la forza operosa della Natura affatica tutte le cose di moto in moto, finché l'oblio le inghiotte nella sua notte), la necessità delle "illusioni" per superare l'angoscia esistenziale e soprattutto per dare un senso alla vita dell'uomo ed una dignità alla sua opera (perché il mortale deve privarsi di quell'illusione che, dopo la morte, lo trattiene sulla soglia dell'aldilà e gli consente di continuare il suo dialogo con i vivi?), il desiderio di gloria e la tristezza dell'esilio ("E me che i tempi ed il desio d'onore / fan per diversa gente ir fuggitivo"), il disprezzo per la classe dirigente italiana ("Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo, / decoro e mente al bello italo regno, / nelle adulate reggie ha sepoltura / già vivo, e i stemmi unica laude"), il senso della dignità del poeta che non deve asservire la sua Musa ai potenti (gli amici raccolgano da lui non una eredità di tesori, "ma caldi sensi e di liberal carme l'esempio") e della potenza della poesia che è l'unica forza umana capace di sfidare il tempo, vincendo con l'armonia il silenzio di mille secoli e perpetuando la fama degli eroi "finché il sole risplenderà sulle sciagure umane".    

Sintesi di classicismo e romanticismo

Ma nel carme confluiscono pure e  si armonizzano in mirabile sintesi le sue esperienze artistiche: classicismo e romanticismo non solo convivono insieme ma si realizzano in unità di sentimento e di espres­sione: il culto della storia si sposa al fascino della mitologia, passato presente e futuro si fondono in un'unica dimensione che, come sa librarsi fuori del tempo e dello spazio, così sa calarsi nelle tormentose vicende della realtà attuale: Omero, Parini, Alfieri non sono distanti tra loro. 

Influenze preromantiche

Né manca il  segno dell'influenza che esercitarono sulla fantasia del giovane Foscolo i cosiddetti poeti "cimiteriali" del Settecento che oggi diciamo preromantici ("Senti raspar fra le macerie e i bronchi / la derelitta cagna ramingando / su le fosse, e famelica ululando; / e uscir del teschio, ove fuggia la luna, / l'upupa, e svolazzar su per le croci / sparse per la funerea campagna, / e l'immonda accusar col luttuoso / singulto i rai di che son pie le stelle / alle obliate sepolture"), anche se il Poeta stesso ci tenne giustamente a precisare che la sua ispirazione, di natura "politica", era ben cosa diversa. A tal proposito affermò: «Young ed Hervey meditarono sui sepolcri da cristiani: i loro libri hanno per iscopo la rassegnazione alla morte e il conforto d'un'altra vita, e ai predicatori protestanti bastavano le tombe dei protestanti; Gray scrisse da filosofo: la sua elegia ha per iscopo di persuadere l'inutilità della vita e la tranquillità della morte; quindi gli basta un cimitero campestre. L'autore considera i sepolcri positivamente; ed ha per iscopo di animare l'emulazione politica degli Italiani con gli esempi delle nazioni che onorano la memoria e i sepolcri degli uomini grandi: però dovea viaggiare più di Young, d'Hervey e di Gray, e predicare non la resurrezione dei corpi, ma delle virtù».

Il culto della tomba

Resta però che il culto della tomba è il tema centrale del carme attorno al quale gravitano tutti gli altri. Ma la tomba non è qui simbolo di Morte, non è il ricettacolo dei "miserandi avanzi che Natura con veci eterne a sensi altri destina". E' invece simbolo di Vita, è il sacrario delle memorie domestiche e patrie da cui i posteri attingono messaggi di civiltà.

E la Morte non è più il deludente passaggio dalla vita al "nulla", né un semplice porto di "quiete" in cui riposare l'animo afflitto: segna il momento in cui lo spirito umano, svincolandosi dai legami con il contingente, si affida alla storia universale, cessa di appartenere al mondo dell'effimero per entrare nell'eternità.

L'argomento

Le tombe non servono ai morti che  si  sono dispersi nella notte dell'oblio ed hanno perduto definitivamente ogni rapporto concreto con la vita. Sono utili invece ai vivi perché questi hanno il "dono celeste" di continuare il dialogo con i cari estinti, illudendosi che un giorno, se lasceranno un'eredità di affetti, potranno anch'essi sopravvivere nel ricordo dei vivi. E' però fondamentale, perché possa verificarsi questa ideale "corrispondenza d'amorosi sensi", che la terra natale offra ai suoi figli l'ultimo asilo, proteggendone le ceneri, e che una lapide conservi i nomi dei morti. E' perciò disumana la nuova legge che sottrae i morti al culto dei vivi e consente che le ossa di un uomo onorato come il Parini possano giacere probabilmente accanto a quelle di un infame. Eppure il rispetto per i morti è stata una delle prime manifestazioni di pietà degli uomini, quando dallo stato ferino tentarono i primi passi sul lungo cammino della civiltà, e questa pietà è stata tramandata di generazione in generazione dalle virtù patrie e dagli affetti familiari.

Vero è che la pratica usata dai cristiani dell'era moderna di seppellire i cadaveri tra le mura della città e nelle chiese, ammorba l'aria e turba il sonno delle giovani madri; ma non è stato sempre così: il culto dei morti ha avuto ben altri riti  nel passato: i Greci e i Romani seppellivano i loro morti sotto viali odorosi e coltivavano sulle tombe amaranti e viole, sicché chi andava a "raccontar sue pene ai cari estinti, una fragranza intorno sentia qual d'aura de' beati Elisi". Naturalmente le tombe, se confortano l'animo pio, sono però mute presso gli uomini dominati solo dal "tremore" e dalla sete di ricchezza materiale.

Le tombe dei Grandi sono poi un sacrario di glorie patrie e spingono gli animi dei generosi a magnanime imprese, come quelle dei Martiri di Maratona che nutrirono la virtù dei Greci contro l'ira dei Persiani, come quelle raccolte in Santa Croce, a Firenze, che hanno confortato ed ispirato l'Alfieri, il fiero vate, e un giorno offriranno gli "auspici" agl'Italiani, se finalmente rifulgerà loro nuova "speme di gloria".

Ed anche se le tombe saranno divorate  dalla furia impietosa del tempo, la memoria dei Grandi sarà affidata al canto dei poeti, che vince di mille secoli il silenzio: la fama degli eroi greci che distrussero Troia fu eternata dalla poesia di Omero, grazie al quale anche Ettore, che morì per la difesa della sua città, sarà onorato di pianto, presso coloro che considerano santo il sangue versato per la patria, "finché il sole risplenderà sulle sciagure umane".  

La poesia

Così espresso l'argomento  del  carme appare niente altro che un ragionamento, sia pure animato dai segni di una calda e sincera passione.

Ma nei versi - com'era naturale che fosse - l'argomento perde ogni connotazione di ragionamento e vive in tante immagini di pura fantasia che sono l'espressione immediata di una lunga serie di emozioni, apparentemente anche non conseguenziali l'una all'altra, ma che hanno la forza vitale di comporsi in un organismo unitario che non consente di decifrare le singole parti se non nella comprensione del tutto. Leggendo i versi non è difficile cogliere il senso tutto senti­mentale delle immagini proposte, la cui successione sfugge ad ogni prepotenza della pura logica, non si lascia asservire al pensiero, ma si affida all'onda dei ricordi, dei sogni, delle speranze. Un solo esempio per dare ai giovani una chiave di lettura: nei primi versi del carme il Foscolo vuol dire che, quando sarà morto e la vita della terra non pulserà più per lui, che avrà perduto i giorni futuri e non potrà più né amare né poetare, non gli sarà certo di ristoro una lapide che distingua le sue ossa da quelle degli altri estinti. Ed ecco come questo "concetto" si trasfigura nella fantasia del Poeta:

.....................Ove più il sole
per me alla terra non fecondi questa bella d'erbe famiglia e d'animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l'ore future,
né da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né più nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell'Amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a' dì perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?

Tutti i versi sono animati da una vaga malinconia: la vita che si è costretti ad abbandonare è colta nell'incessante lavorio del Sole che quotidianamente sorge per "fecondare" pianure, colline, monti popolati da fiori, da piante, da animali, da uomini: senti nei versi il dolce fragorio della vita e nell'aggettivo "bella" puoi avvertire tutto l'attaccamento del Poeta alla vita, nonostante le pene che gli ha inflitto: avverti il senso di una nostalgia anticipata per la vita che non si è ancora lasciata, ma che si deve pur lasciare. Lo spettro del nulla eterno si trasforma in una interminabile fila di "ore" ammaliatrici e danzanti come sono le speranze degli animi generosi e... sognanti: senti palpitare tutta la tristezza dell'animo perplesso di fronte ad una elementare ma inspiegabile verità. E non meno perplesso lo rende quel fatale addio che pur dovrà dare alle Muse ed all'Amore nei quali sente consistere tutto il significato della sua passata e presente stagione terrena.

E' chiaro che nei versi non c'è l' "idea" della Vita, ma il "sentimento" della Vita; non c'è l'idea della Morte e del Nulla, ma il sentimento della Morte e del Nulla.  

La critica

La prima recensione  al carme è forse quella comparsa lo stesso anno della sua pubblicazione sul "Giornale Italiano" (n. 173 del 22 giugno 1807) ad opera dell'abate francese Amato Guillon. La critica del Guillon fu aspra e malevola ed ebbe toni anche sarcastici che mandarono il Foscolo su tutte le furie. Più marcatamente il Guillon giudicava negativa la seconda parte del carme e soprattutto il finale:

«Sembraci che sia questo un fine ben brusco in un'opera di sentimento. Si direbbe che un simil soggetto avesse troppo  stancato la lira del poeta, per poter avanzare di più. L'andamento del suo poema era già diventato penoso quando la sensibilità non animava più la sua musa; e dessa aveva già cessato di spargere la sua bellezza nei di lui versi, allorché egli dai sepolcri presenti si era trasportato a quelli dei tempi eroici della Grecia. Questa transizione l'ha condotto a dei dettagli d'erudizione; ora l'erudizione inaridisce il sentimento: e quindi ne viene che questa seconda parte della sua elegia, che ha una certa disparità colla prima, interessa molto meno la nostra anima, e conviene molto meno a quella dolce voluttà che essa trova ad intenerirsi sulle ceneri dei nostri simili».

Bastarono quattro giorni al Foscolo per redigere una lunga "Lettera a Monsieur Guillon su la sua incompetenza a giudicare i poeti italiani". L'autore dei "Sepolcri" annota punto per punto le osservazioni del Guillon ai suoi versi, coprendo di ridicolo il prete francese: tra l'altro gli rinfaccia di non aver nemmeno saputo trascrivere due versi delle "Georgiche" (regalando così a Virgilio due grossolani errori) e di definire elegiaco un carme che è invece lirico. A proposito poi della critica alla seconda parte ed alla chiusa dell'opera, così scrive:

«Recito intero quest'ultimo squarcio dannato da lei come "arido di sentimento", perché a me anzi pare, non "che il soggetto abbia stancato la lira" del poeta, ma che egli abbia fin da principio temperate le forze per valersene pienamente in questo luogo. Per per­suaderci delle sue sentenze su la santità e la gloria dei  sepolcri, ei ci presenta  un monumento che superò le ingiurie di tanti secoli. Le Troiane  che pregano scapigliate sul mausoleo de' primi prìncipi d'Ilo, onde allontanare dalla lor patria e da' loro congiunti le imminenti calamità - la vergine Cassandra che guida i nipoti giova­netti a piangere su le ceneri de' loro antenati - che li consola dell'esilio e della povertà decretata dai fati, profetando che la gloria dei Dardanidi risplenderà sempre in quelle tombe - la preghiera alle palme e a' cipressi piantati su quel sepolcro dalle nuore di Priamo, e cresciuti per le lacrime di tante vedove - la benedizione a chi non troncherà quelle piante sotto l'ombra delle quali Omero, cieco e mendìco, andrà un giorno vagando per penetrar negli avelli ed interrogare gli spettri de' re troiani su la caduta d'Ilo onde celebrar le vittorie de' suoi concittadini - gli spettri che con pietoso furore si dolgono che la lor patria sia due volte risorta dalle  prime rovine per far più splendida la vendetta de' Greci, e la gloria della schiatta di Peleo alla quale era riservato l'ultimo eccidio di Troia - Omero che, mentre tramanda i fasti de' vincitori, placa pietosamente col suo canto anche l'ombre infelici de' vinti - tanti personaggi, tante passioni, tanti atteggiamenti, e tutti raccolti intorno a un solo sepolcro, sembrano a lei senz'anima e senza invenzione? E la fine, la fine sopra tutto, sente di languore? Questo squarcio è un vaticinio di una principessa di sangue troiano, sorella d'Ettore, e sciagurata per le sventure che prevedeva. Non può dissimulare  la gloria de' distruttori della sua famiglia, ma ella cerca alcuna consolazione vaticinando  per l'infelice valore d'Ettore una gloria più modesta e più santa; non d'un principe conquistatore, ma d'un guerriero caduto difendendo la patria. Nelle ultime parole di Cassandra: "e finché il sole risplenderà sulle sciagure umane", l'autore s'è studiato di ricorre tutti i sentimenti di una vergine profetessa, che si rassegna alla fatale e inevitabile infelicità de' mortali, che la compiange negli altri perché sente tutto il dolore della sua propria, e che, prevedendola perpetua su la terra, la assegna per termine alla fama del più nobile e del men fortunato di tutti gli eroi.  Ove l'autore avesse mirato al "patetico", avrebbe amplificati questi effetti; mirava  invece al "sublime", e li ha concentrati».

Il Foscolo così concludeva la risposta: «Ma così va il mondo, Monsieur Guillon! la colpa è d'altri, pur troppo, e noi n'abbiam l'onta e la pena: ella parlando di ciò che non intende; io rispondendo a chi non può intendermi».

Qualcuno dovette rimproverare al Foscolo il tono troppo aspro della risposta, perché egli, in una lettera del 6 maggio 1808, così scriveva a Giuseppe Grassi: «Quello che fu scritto da me non mi fu dettato, credetelo, dall'albagìa di Autore, ma dal sentimento del nome Italiano. Il Guillon, prete - non - prete francese, compilatore della parte letteraria del Giornale Italiano, mordeva spietatamente tutti gli italiani, e s'avventava a occhi ciechi. E' viltà calare la spada su que' cani, ma è pazienza fratesca il lasciarli abbaiare; quel mio libricciuolo fe' uscire donne, ragazzi e chierici dalle case, da' collegi e da' seminari, e lo cacciarono a sassate; da quel giorno in poi lascia in pace gli autori italiani morti e vivi».

Ben diversi, ovviamente, furono i giudizi di quelli che hanno dignità di critici. De Sanctis e Carducci, i due maggiori critici lette­rari dell'Ottocento, pur appartenendo ad indirizzi diversi, espressero giudizi esaltanti. Il De Sanctis affermò che «...questo carme è la prima voce lirica della nuova letteratura, l'affermazione della coscienza rifatta, dell'uomo nuovo... Il carme è una storia dell'umanità da un punto di vista nuovo, una storia de' vivi costruita da' morti. Senti una ispirazione vichiana in questo mondo, che dagli oscuri formidabili inizi naturali e ferini la religione de' sepolcri alza a stato umano e civile, educatrice di Grecia e d'Italia; il doppio mondo caro al Foscolo, che unisce in una sola contemplazione Ilio e Santa Croce»; ed il Carducci: «[I Sepolcri sono] la sola poesia lirica nel significato pindarico che abbia l'Italia».

Dei critici a  noi più vicini citiamo solo alcuni giudizi che ci sembrano utili perché i giovani studenti possano meglio imprimersi nella memoria alcuni concetti fondamentali:

Momigliano:

«I Sepolcri sono la prima data della nostra letteratura patriottica di fondo storico, sono il ritratto ideale del Foscolo, sono - sopra tutto - la consacrazione poetica d'una nobile e triste religione della civiltà e della vita;...sono una breve  e  immensa sinfonia della vita e della morte»; 


Citanna:

«La religione dei Sepolcri... era in fondo la religione della poesia, l'esaltazione della sua stessa opera ideale di poeta»;



Ramat:

«I Sepolcri sono la divina Commedia del Romanticismo, perché vi si canta il dramma dell'anima che dall'inferno del materialismo meccanicistico, attraverso il purgatorio della nobile illusione, giunge al paradiso della certezza storica; certezza che lo spirito vince la materia, la vita trionfa della morte, anzi la morte si trasfigura in vita».


L'editto imponeva di seppellire i morti in cimiteri extraurbani (per motivi igienici) ed in fosse comuni ed anonime (per rispetto del principio dell'egualitarismo)

l tema è la sera, vista come immagine della morte, la «fatal quiete», cioè una dimensione cosmica atemporale, ma anche la pace dell'anima. Per questo motivo è molto cara al poeta. Ma affine a questo, emerge dalla poesia anche un altro tema fondamentale: il sofferto rapporto tra il desiderio di pace del poeta e il senso angoscioso della vita che lo travaglia. La sera è descritta quindi dal Foscolo sia portatrice di bei tramonti estivi, accompagnata da venti leggeri, sia foriera di atmosfere invernali, tenebrose e nevose, ma in entrambi i casi la sera è sempre desiderata, perché essa ispira i più intimi pensieri, le più segrete aspirazioni.Rivolgendosi direttamente ad essa, l'autore confida che l'apparizione della sera lo induce a meditare sulla vita e sulla morte, sul «nulla eterno», condizione dell'uomo che si configura come un annullamento totale e definitivo. Ma a questa dimensione indefinita ed infinita si contrappone il tempo, elemento immediato e fuggente che passa rapido recando con sé avversità indicibili, nel suo processo di autoconsunzione. E mentre il poeta contempla il silenzio e la pace della notte la sua anima attanagliata dalla rivolta interiore, per un attimo si placa e gli dona attimi di godimento, di dolcezza e di riposo.

Il messaggio è certamente il binomio costituito dal desiderio di pace e dalla negatività del presente storico. Il poeta esprime il dolore e la tristezza della sua condizione, in attesa della sera come momento di pace e di riflessione, anche sui temi della morte. L'attende con ansia per placare angoscie e incertezze, come momento di liberazione e di pace. La sera ha il potere di placare l'anima ribelle e guerriera che lo agita e di donargli un momento di riposo, liberandolo dalla tristezza della giornata.L'obiettivo della poesia è anche quello di sintetizzare la concezione di vita del poeta. Secondo il Foscolo, che si ispira alla filosofia sensistica ( ) e materialistica dell'illuminismo, la morte annulla ogni cosa; egli concepisce la vita dell'universo come un ciclo perenne di nascita, di morte e di trasformazione della materia, che costituisce l'unica realtà. Ma da questa Weltanschauung ( ) di sottofondo la poesia lascia trasparire anche una Sehnsucht ( ), un'aspirazione struggente e inappagata all'infinito, un atteggiamento di inquietudine e di nostalgia, un desiderio di conoscere ciò che sta fuori dei limiti del finito, che si concretizza nella sofferenza per l'impossibilità di appagare questo desiderio.

Le figure foniche del sonetto, con rima secondo lo schema ABAB ABABA CDC DCD, sono le allitterazioni dei suoni chiari delle vocali e ed i nelle quartine, e quelle dei suoni cupi delle vocali o ed u delle terzine.La poesia esprime pessimismo e preoccupazione nel poeta, intristito dalle avversità del «reo tempo» e volontà di allontanarsi dal presente per immergersi in una dimensione cosmica e fuori del tempo, nella morte, che è totale annullamento ma anche pace, in cui si placa il tumulto interiore.

La sera è anche la confidente del poeta; è il momento in cui il poeta riflette sulla propria vita e sulla morte chiarendo a se stesso la sua visone di vita.Il lessico è altamente letterario, costruito con parole auliche e poetiche; molte di queste latinismi (reo, aere, secrete, torme, cure) che danno al sonetto una forma neoclassica, mentre i sentimenti espressi sono decisamente romantici. Il sonetto è dunque la sintesi della cultura del tempo: dominio delle passioni, secondo le indicazioni del Winckelmann, ma concetti nuovi come la Sehnsucht ( ) propria dei romantici.La poesia è composta da periodi paratattici e ipotattici. Nelle quartine i periodi son più ampi e complessi, mentre nelle terzine i periodi sono più corti e concitati. Il movimento ampio delle quartine è affidato al parallelismo delle due frasi coordinate («E quando. e quando.»). La lexis ( ) della poesia è affascinate e suggestiva, ricca di richiami vocali e di una ricercatezza lessicale che danno alla poesia grazia e levità. Ma il più importante procedimento formale consiste nell'accostare immagini contrastanti, in modo da ottenere quel chiaroscuro che è considerato dalla critica come una delle conquiste più importanti della poesia foscoliana (La Realtà e la Parola pag.143). Le più importanti figure retoriche della poesia sono: l'ossimoro, l'enjambements e l'antitesi. L'ossimoro del primo verso «fatal quiete» e il «Nulla eterno» del 10 verso. L'embejement dei versi 5-6 (inquiete/ tenebre e lunghe). L'antitesi si trova negli ultimi due versi «e mentre io guardo la tua pace, dorme / quello spirto guerriero ch'entro mi rugge».

La lirica trae la sua bellezza innanzitutto dalla perfetta sintesi tra linguaggio poetico e sentimenti sottesi, dal tono emotivo languido e dalle riflessioni filosofiche ed esistenziali che il poeta sviluppa nel breve componimento, raggiungendo elevate altezze poetiche ed estetiche. Questo sonetto trasmette un messaggio filosofico ed esistenziale chiaro. La vita termina nel «Nulla eterno», nell'annullamento totale e definitivo nella natura, e di questa nell'universo. Al di là di questa concezione, che alcuni possono trovare non condivisibile, il sonetto cattura per il suo linguaggio e per il suo contenuto. La sua bellezza è intrisa di una malinconia universale, lontana dalla fede per cui la morte e solo l'inizio della vera luce e della vita vissuta accanto a Dio.

NOTE
LEXIS. dal greco "parola". lessico, cioè l'insieme delle parole che compongono l'opera.
SEHNSUCHT. Una parola che significa allo stesso tempo desiderio e languore, aspirazione e nostalgia. Mette a nudo "una forza selvaggia che svela un individuo e porta in sé un pizzico dolce e amaro di separazione, di rassegnazione" (Valeska Grisebach, autore del film omonimo).
SENSISMO. Elemento ideologico settecentesco. Posizione estrema in campo religioso delle dottrine sensiste, che riducono tutte le attività dello spirito alle sensazioni fisiche.
WELTANSCHAUUNG. Una bellissima parola che gli autori di lingua tedesca dichiarano pressoché intraducibile e i non tedeschi lasciano volentieri non tradotta, concedendosi di interrompere il flusso del loro dettato perché consapevoli che un equivalente di fatto non esiste. Un corrispettivo italiano potrebbe essere "visione del mondo", dal momento che, nel composto tedesco, è presente, insieme al sostantivo Welt che significa "mondo", un "vedere a" o, anche, un "vedere su" (anschauen). Preferibile, forse, è la traduzione "concezione del mondo", non perché s'approssimi di più al termine tedesco, ma perché in grado di veicolare significati ulteriori (Giorgio Antonelli).




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