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Platone - L'Apologia di Socrate e i primi dialoghi.

filosofia



Platone



Primo periodo: la difesa di Socrate e la polemica contro i Sofisti.



L'Apologia di Socrate e i primi dialoghi.



I due primi periodi dell'attività filosofica di Platone sono dedicati all'illustrazione e alla difesa dell'insegnamento di Socrate e alla polemica contro i Sofisti. L'Apologia e il Critone chiariscono l'atteggiamento di Socrate di fronte all'accusa, al processo e alla condanna e il suo rifiuto di sottrarsi alla condanna. L'Apologia è sostanzialmente un'esaltazione del compito che Socrate si è assunto di fronte a se stesso e di fronte agli altri, e perciò l'esaltazione della vita consacrata alla ricerca filosofica. Si può dire che l'intero significato dello scritto è nella frase: "Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta dall'uomo". Già nella presentazione che Platone fa di Socrate nell'Apologia è evidente che egli vede incarnata nella figura del maestro quella filosofia come ricerca alla quale egli stesso doveva dedicare l'intera esistenza. Il Critone ci presenta Socrate di fronte al dilemma: o accettare la morte per il rispetto che l'uomo giusto deve alle leggi del sito paese o fuggire dal carcere, secondo la proposta degli amici, e così smentire la sostanza del suo insegnamento. L'accettazione serena che Socrate fa del destino cui è condannato è l'ultima prova della serietà del suo insegnamento. Un numeroso gruppo di dialoghi illustra invece i capisaldi dell'insegnamento socratico, che per Platone sono fondamentalmente tre:


1) la virtù è una sola e si identifica con la scienza;

2) solo come scienza, la virtù è insegnabile;

3) nella virtù come scienza consiste la felicità dell'uomo.


Queste tesi sono esplicitamente presentate e difese nei dialoghi più maturi e più ricchi di questa fase dei pensiero platonico: nel Protagora e nel Gorgia. Il metodo seguito da Platone in questi dialoghi minori è quello dialettico: si ammette, cioè, in via d'ipotesi, la tesi opposta a quella di Socrate e si fa vedere che essa non conduce a nulla o conduce a conseguenze assurde, rimanendo così confutata. La tesi fondamentale di Socrate che la virtù sia scienza suppone evidentemente che la virtù sia una sola (la scienza); che non ci siano (cioè) tante virtù, l'una diversa dall'altra, ognuna delle quali sia definibile isolatamente. Alcuni dialoghi fanno appunto vedere l'impossibilità che esistano virtù diverse indipendenti l'una dall'altra, mostrando come non si riesca in realtà a definire isolatamente tali virtù. Se, per esempio, la santità, il coraggio, la saggezza, fossero virtù diverse tra loro e diverse dalla scienza, dovrebbe essere possibile definire ognuna di queste virtù per suo conto, senza rapporto con le altre. Ma tre dialoghi appartenenti al gruppo citato (Eutifrone, Lachete e Carmide) fanno vedere come né la santitá, né il coraggio, né la saggezza siano definibili in questo modo; e che, se ci si ostina a considerare ognuna di queste virtù per suo conto, isolatamente dalla scienza, nulla si può dire intorno alla loro natura. Tali dialoghi quindi suggeriscono che la virtù non è molteplice ma una, e si riduce alla scienza.

Inoltre, se la virtù è una sola, uno solo dev'essere l'ideale o, come meglio si direbbe, il valore, che essa tende a realizzare. Se invece le virtù fossero diverse, ognuna di esse tenderebbe a realizzare un ideale o valore diverso: per esempio una tenderebbe a realizzare il bene, l'altra l'utile, l'altra il santo, ecc. Un altro gruppo di dialoghi fa vedere appunto come il bello, l'utile, il conveniente, ecc., non possono essere definiti ognuno per suo conto e quindi, in ultima analisi, non esistono come valori indipendenti e diversi. Socrate suggerisce qui che l'unico valore che comprende e assomma in sé tutti gli altri è il bene: unico come è unica la virtù, cioè l'attività umana che deve realizzarlo. In altri dialoghi dello stesso periodo, si insiste sull'esigenza di riconoscere la propria ignoranza, come primo passo per intraprendere la ricerca che deve condurre alla scienza. dell'ispirazione divina. E l'Ippia minore fa vedere negativamente l'identità tra virtù e scienza, mostrando che, se così non fosse, l'uomo che fa il male volendolo sarebbe superiore all'uomo che fa il male senza volerlo. Il primo infatti, per volere il male, deve conoscerlo, e per conoscerlo deve saperlo distinguere dal bene; deve perciò conoscere il bene, e questo stabilisce la sua superiorità rispetto a chi fa il male senza volerlo, cioè senza essere capace di distinguerlo dal bene. Ora questo è assurdo: perciò il dialogo tende a suggerire che un uomo che conosca i 646b17g l bene e fa il male non c'è e non ci sarà mai: il male è sempre ignoranza, come la virtù è scienza.



Protagora, Eutidemo e Gorgia.

La tesi che il precedente gruppo di dialoghi suggerisce l'unità della virtù e la sua riduzione al sapere, è positivamente posta e dimostrata nel Protagora in polemica con l'atteggiamento dei Sofisti. A Protagora, che si dice maestro di virtù, Socrate oppone che la virtù di cui parla Protagora non è scienza, ma un semplice insieme di abilità acquisite accidentalmente per esperienza; ed è perciò un patrimonio privato, che non può essere trasmesso agli altri. Non può affermare l'insegnabilità della virtù Protagora per il quale le virtù sono molte e la scienza una sola di esse; perché la scienza soltanto si può insegnare e quindi la virtù si può trasmettere e comunicare solo in quanto è scienza. Si è visto a proposito di Socrate che qui la scienza è intesa come calcolo dei piaceri e il suo concetto rimane quindi ancorato alla lettera dell'insegnamento socratico. Ma già questo dialogo mostra che Platone non si limita ormai all'illustrazione dei concetti che Socrate ha posti a base della vita morale; ma contrapponendo l'insegnainento di Socrate a quello dei Sofisti, proietta sulla figura del maestro la luce più viva che scaturisce dalla polemica. Il Protagora ha negato all'insegnamento sofistico ogni valore educativo e formativo e alla sofistica stessa ogni contenuto umano. Di fronte al crollo della sofistica, l'insegnamento di Socrate è apparso in tutto il suo valore. Ma rimanevano altri aspetti della sofistica; e contro di essi Platone rivolge tre dialoghi che col Protagora fornirano un gruppo compatto. Questi aspetti sono l'eristica contro la quale è diretto l'Eutidemo e la retorica contro la quale è diretto il Gorgia. L'Eutidemo è innanzi tutto una rappresentazione vivacissima e caricaturale del metodo eristico dei Sofisti. L'eristica è l'arte di battagliare a parole e di "confutare tutto quello che via via si dice, falso o vero che sia". Gli interlocutori del dialogo, i due fratelli Eutidemo e Dionisodoro, si divertono a dimostrare, per esempio, che solo l'ignorante può apprendere e, subito dopo, che invece apprende solo il sapiente; che si apprende solo ciò che non si sa e poi che si apprende solo ciò che si sa, ecc. Il fondamento di simili esercizi è la dottrina (difesa oltre che dai Sofisti, dai Megarici e dai Cinici) che non è possibile l'errore e che qualsiasi cosa si dica, si dice cosa che è, quindi vera. Al che Socrate oppone che in questo caso non ci sarebbe nulla da insegnare e nulla da apprendere e la stessa eristica sarebbe inutile. Ed in realtà nulla si può insegnare se non la sapienza; e la sapienza non si può insegnarla né apprenderla, se non amandola cioè filosofando. E a questo punto il dialogo si trasforma da critica del procedimento sofistico in esortazione alla filosofia; e come discorso introduttivo o protrettico divenne famoso nell'antichità e fu numerose volte imitato. Ma questa parte è importante soprattutto perché contiene l'illustrazione del compito proprio della filosofia: compito che Platone definisce come l'uso del sapere a vantaggio dell'uomo. La filosofia è l'unica scienza in cui il fare coincide col sapersi servire di ciò che si fa: cioè l'unica scienza che non solo produce conoscenze ma insegna a utilizzare per il vantaggio e la felicità dell'uomo le conoscenze stesse. Nel Gorgia infine Platone attacca l'arte che era la principale creazione dei sofisti e la base del loro insegnamento, la retorica. La retorica voleva essere una tecnica della persuasione alla quale riuscisse completamente indifferente la tesi da difendere o l'argomento trattato. Al concetto di quest'arte Platone oppone che ogni arte o scienza riesce veramente persuasiva solo intorno all'oggetto che le è proprio. La retorica non ha un oggetto proprio: consente di parlare di tutto, ma non riesce a persuadere se non quelli che hanno una conoscenza inadeguata e sommaria delle cose di cui tratta e cioè gli ignoranti. Essa non è dunque un'arte ma soltanto unapratica adulatoria che dà l'apparenza della giustizia e sta rispetto alla politica, che è arte della giustizia, nello stesso rapporto in cui la culinaria sta alla medicina: retorica e culinaria solleticano il gusto, una dell'anima l'altra del corpo; politica e medicina curano veramente anima e corpo. La retorica può essere utile a difendere con discorsi la propria ingiustizia e ad evitare di subire la pena dell'ingiustizia commessa; ma questo non è un vantaggio. Il male per l'uomo non è il subire l'ingiustizia, ma il commetterla, perché essa macchia e corrompe l'anima; e il sottrarsi alla pena dell'ingiustizia commessa è un male ancora peggiore perché toglie all'anima la possibilità di liberarsi della colpa espiandola. In realtà la retorica, per la sua indifferenza verso la giustizia della tesi da difendere, implica la convinzione (esposta nel dialogo da Callicle) che la giustizia è solo una convenzione umana, che è da sciocchi rispettare; e che la legge di natura è la legge del più forte. Il più forte segue soltanto il proprio piacere e non si cura della giustizia; tende alla preminenza sugli altri e ha come unica regola il proprio talento. Ma contro questo crudo immoralismo, Platone osserva che l'intemperante, come non è l'uomo migliore, così non è il più felice, giacché passa da un piacere all'altro insaziabilmente ed è simile ad una botte bucata che non arriva mai a riempirsi. il piacere è la soddisfazione di un bisogno; e il bisogno è sempre mancanza, cioè dolore: piacere e dolore si condizionano l'un l'altro e non c'è l'uno senza l'altro. Ma il bene e il male invece non sono congiunti ma separati e così non possono identificarsi con piacere e dolore. Il bene non può conseguirsi se non con la virtù; e la virtù è l'ordine e la regolarità della vita umana. L'anima buona è l'anima ordinata; che è saggia, temperante e giusta ad un tempo.




Secondo periodo: la dottrina delle idee.



La dottrina delle idee e sua importanza.

Nei dialoghi del primo periodo, Platone ha per lo più illustrato e difeso teorie che erano proprie di Socrate, sia pure di un Socrate già platonicamente interpretato. Nell'ambito della battaglia antisofistica che coinvolge parte della cultura che aveva caratterizzato l'Atene del V secolo - Platone giunge a formulare la cosiddetta "teoria delle idee", che dà l'avvio alla seconda fase della sua speculazione, in cui il filosofo, procedendo per suo conto, va esplicitamente al di là delle dottrine che Socrate aveva insegnato, elaborando un proprio pensiero originale. Nei Dialoghi questa dottrina delle idee non è mai esposta in modo organico (essa costituiva forse l'oggetto di quelle "dottrine non scritte" di cui parla Platone stesso e alle quali accenna Aristotele in più luoghi; dottrine che dovevano costituire il patrimonio dell'Accademia). La dottrina delle idee rappresenta il cuore stesso del platonismo.



Grenesi della teoria delle idee.

La genesi immediata della teoria delle idee è da ricercarsi nell'approfondimento platonico del concetto di scienza. In antitesi ai Sofisti, ma procedendo oltre lo stesso Socrate, Platone ritiene che la scienza abbia i caratteri della stabilità e dell'immutabilità, e quindi della perfezione. Ed essendo convinto che il pensiero rifletta l'essere, ossia che la mente sia uno specchio o una riproduzione di ciò che esiste (= realismo gnoseologico), Platone si chiede quale sia l'oggetto proprio della scienza. In altre parole, se il concetto socratico fonda una scienza stabilie ed assoluta, quale sarà l'oggetto del concetto? Quale la realtà fotografata dalla scienza? Infatti, a meno di ridurre la scienza a fantasia o vaneggiamento della mente, si dovrà per forza ammettere l'esistenza di un suo contenuto specifico. Ovviamente, non possono costituire oggetto della scienza le cose del mondo, apprese dai sensi, che sono mutevoli ed imperfette, e quindi dominio di quella corrispondente forma di conoscenza mutevole ed imperfetta che Platone chiama opinione (doxa). Oggetto proprio della scienza, secondo Platone, non possono essere che le Idee. Per noi il termine idea denota una rappresentazione o un pensiero del nostro intelletto. Per Platone l'idea indica invece una entità immutabile e perfetta, che esiste per suo conto, indipendentemente da noi, e che costituisce, con altre idee, una zona d'essere diversa dalla nostra, chiamata poeticamente e metaforicamente "iperuranio" (che in greco significa "al di là del cielo").  Il fatto che le idee presentino caratteristiche strutturali diverse dalle cose non esclude un loro stretto rapporto con gli oggetti, che Platone configura nei termini di copia-modello. Per il filosofo le cose sono infatti copie o imitazioni imperfette delle idee. Ad esempio, nel nostro mondo esiste una pluralità di cose più o meno belle o giuste, ma nel mondo delle idee esiste la Bellezza e la Giustizia. L'idea platonica è dunque il modello unico e perfetto della molteplicità delle cose imperfette di questo mondo. Facendo un primo inventario di quanto abbiamo sinora appreso, possiamo dire che in Platone esistono due gradi fondamentali di conoscenza, che sono l'opinione e la scienza (= dualismo gnoseologico), cui fanno riscontro due tipi d'essere distinti, che sono le cose e le idee (= dualismo ontologico). Da quanto si è detto, emerge pure come la filosofia platonica rappresenti una sorta di sintesi fra eraclitismo ed eleatismo. Da Eraclito Platone accetta la teoria secondo cui il nostro mondo è il regno della mutevolezza, mentre da Parmenide trae il concetto secondo cui l'Essere autentico è immutabile. L'idea platonica presenta infatti taluni caratteri essenziali dell'Essere parmenideo: nel Fedro si dice ad esempio che essa è "semplice e imperitura", nel Convito che "mai incomincia, né mai passa, né aumenta né diminuisce". In altre parole, analogamente all'Essere di Parmenide, l'idea di Platone è immutabile, eterna e perfetta, anche se, diversamente da esso, l'Essere platonico risulta multiplo, in quanto formato da una pluralità di idee. Dall'eleatismo Platone deriva anche il dualismo gnoseologico fra sensibilità e ragione e il dualismo ontologico fra le cose e l'Essere. Tuttavia, mentre per Parmenide il mondo sensibile non ha connessioni con quello pensato dalla ragione, per Platone fra le due sfere di realtà esiste un indissolubile rapporto, la cui precisa definizione costituisce uno dei problemi più impegnativi e tormentosi del platonismo. Inoltre, mentre per l'eleatismo il nostro mondo è apparenza illusoria e irrazionale, per Platone esso possiede una sua specifica, anche se imperfetta, realtà e conoscibilità.




Quali sono le idee


Per adesso abbiamo spiegato che cosa sono le idee. Ora dobbiamo vedere quali sono.


Nella fase della maturità del pensiero platonico compaiono due tipi fondamentali di idee:


1) le idee-valori, corrispondenti ai supremi princìpi etici, estetici e politici. Tali sono, per esempio, il Bene, la Bellezza, la Giustizia ecc., che formano appunto ciò che denominiamo ideali o valori;


2) le idee-matematiche, corrispondenti alle entità dell'aritmetica e della geometria. Infatti, secondo Platone, vi sono idee anche dei princìpi del pensiero matematico (ad esempio l'uguaglianza, le classi dei numeri, il quadrato, il circolo ecc.), poiché nella realtà non troviamo mai l'uguaglianza perfetta o il quadrato perfetto di cui parla il matematico, ma solo copie approssimative ed imperfette di essi. Accanto a queste due famiglie di idee, Platone parla talora di idee di cose naturali (ad esempio " l'Umanità ") o di cose artificiali (ad esempio " il letto ").


Tuttavia, su questo tipo di idee il Platone della maturità appare abbastanza incerto. Solo nei grandi dialoghi della vecchiaia (Sofista, Timeo) Platone tenderà a generalizzare il concetto di idea, sostenendo esplicitamente come di ogni realtà vi sia una corrispondente idea. In tal modo, l'idea platonica finirà per configurarsi come la forma unica e perfetta di qualsiasi gruppo o classe di cose che vengono designate con un medesimo nome e che possono esserefatte oggetto di scienza.

Pur essendo molteplici, le idee non costituiscono affatto una pluralità disorganizzata. Esse formano un ordine gerarchico e piramidale, con le idee-valori in cima e l'idea del Bene al vertice. Difatti, come le cose partecipano delle idee, le idee partecipano a loro volta del Bene, che è l'idea delle idee, il supremo Valore e la Perfezione massima di cui le altre idee sono imitazione o riflesso. Nell'ambito della tradizione cristiana tale idea è stata talora assimilata a Dio. Questa lettura non trova un'esplicita verifica nei testi, dove risulta tra l'altro assente l'idea di un Dio creatore. Infatti, pur essendo "al di là dell'essere", cioè delle idee, e pur superandole tutte per "valore e potenza", il Bene non crea le idee, che sono tutte eterne, ma si limita a comunicare loro perfezione. In linea generale, possiamo dire sin d'ora che in Platone non esiste un Dio personale, ma solamente il "divino". Platone usa infatti il termine impersonale "divino" per designare una molteplicità di cose diverse: divine sono le idee, divina è l'idea del Bene, divina è l'anima, divine sono le stelle e gli astri ecc. Caratteri personali, come vedremo, possiede invece il Demiurgo, che però è un'entità inferiore alle idee, che si limita ad ordinare una materia preesistente. Tutto ciò, che rivela tra l'altro il rapporto di Platone con il politeismo tradizionale, non esclude che questa sorta di filosofo religioso senza un vero e proprio Dio-persona abbia offerto notevoli strumenti concettuali per pensare la realtà di Dio. In questo senso, ed entro questi limiti, si può continuare a vedere in Platone "il creatore della teologia occidentale".



Rapporti idee-cose.


Come si è già detto, se da un lato Platone afferma la distinzione idee-cose, dall'altro lato egli ne sostiene pure lo stretto legame.


Le idee sono infatti:


1) criteri di giudizio delle cose, in quanto noi, per giudicare circa gli oggetti non possiamo fare a meno di riferirci ad esse. Ad esempio, diciamo che due cose sono uguali sulla base dell'idea di Uguaglianza, oppure diciamo che due azioni sono giuste sulla base dell'idea di Giustizia e così via. In questo senso, possiamo dire che le idee sono la condizione della pensabilità degli oggetti;


2) le idee sono anche causa delle cose, poiché gli individui sono, esistono in quanto imitano o partecipano, sia pure imperfettamente delle idee. Ad esempio, le realtà che diciamo belle sono tali in quanto imitano o partecipano della Bellezza, che rappresenta dunque la causa per cui esse sono e vengono ritenute belle. E così pure diciamo che due individui sono uomini sulla base dell'idea di Umanità, che è la causa che li fa tali. In questo senso, possiamo dire che le idee sono la condizione dell'esistenza degli oggetti.


Tuttavia, il rapporto idee-cose non è stato ben definito dal Platone della maturità, in quanto egli, pur parlando di mimesi (=le cose imitano le idee), di metessi (= le cose partecipano delle idee), di parusìa (=presenza delle idee alle cose) ecc. è rimasto sulla questione piuttosto incerto ed oscillante. Nella sua vecchiaia Platone continuerà a cimentarsi daccapo su questo problema, tentando di risolverlo in modo più soddisfacente, senza tuttavia pervenire, neppure allora, ad un esito definitivo.




"Come" o "dove" esistono le idee.


Finora abbiamo sempre detto che le idee esistono in modo "superiore" alle cose. Ma come esistono o dove esistono le idee? Esse, per usare un termine di origine latina, sono senz'altro "trascendenti", in quanto esistono oltre la mente ed oltre le cose. Ma questo "oltre" allude forse ad un vero e proprio mondo dell'al di là? Così ha pensato la tradizione, che prendendo alla lettera l'espressione platonica di "iperuranio" ha considerato il mondo platonico delle idee come qualcosa di analogo all'Empireo dantesco o al Paradiso cristiano. A questa lettura si è contrapposta quella di alcuni studiosi neo-kantiani del nostro secolo, che hanno considerato le idee platoniche non come delle cose, bensì come dei modelli di classificazione delle cose, ossia come dei criteri mentali attraverso cui pensiamo gli oggetti. In genere, oggi si tende a rifiutare quest'ultimo tipo di lettura, ritenendola un'eccessiva modernizzazíone di Platone ed un manifesto travisamento del suo pensiero, per il quale, come si è visto, le idee non sono unicamente schemi della nostra mente, ma sostanze reali. Per cui, il dibattito odierno non verte tanto sul carattere mentale o reale delle idee, quanto sul modo di intendere tale realtà. Parecchi studiosi hanno considerato e considerano la prima interpretazione come troppo legata al mito oppure come risultato di una sovrapposizione dell'idea cristiana dell'al di là al genuino pensiero platonico. Di conseguenza, essi affermano che il mondo platonico delle idee, pur esistendo indipendentemente dalla nostra mente e pur possedendo una realtà oggettiva a sé stante, non deve essere interpretato come un universo di "super-cose" esistenti in qualcosa come "l'al di là", ma soltanto come un ordine eterno di forme o valori ideali, che, come tali, non esistono in alcun " luogo" o "Empireo". Secondo questa interpretazione, un esempio di come esistano le idee ci è offerto dagli enti matematici. Infatti, le idee di Triangolo, Uguaglianza, Numero ecc., pur esistendo di per sé, al di fuori dello spazio e del tempo e indipendentemente dagli intelletti umani, non per questo si trovano in un ipotetico mondo dell'al di là, cristianamente inteso. Stabilire con sicurezza quale di queste due interpretazioni - quella tradizionale o l'ultima citata - sia la vera non è forse possibile, poiché entrambe trovano appigli nel discorso platonico e nello stesso tempo presentano punti di debolezza (alla prima si può, ad esempio, rivolgere l'obiezione di concedere troppo al mito e alla seconda di non tener conto degli aspetti religiosi del platonismo e di essere, in fondo, un rimaneggiamento moderno di Platone). In conclusione, stando ai Dialoghi, ciò che si può affermare con un buon margine di sicurezza è che le idee, comunque intese, costituiscono una zona d'essere diversa dalle cose. Su "come" precisamente esistano le idee, i pareri sono invece contrastanti, sebbene, spesso, si continui per lo più a dare per scontata una interpretazione senza accennare alle altre possibili o almeno all'esistenza di un problema critico in proposito.




La conoscenza delle idee.


Sinora ci siamo soffermati sulle idee e sulle loro caratteristiche. Resta da esaminare in qual modo l'uomo possa accedere ad esse. Come si è già visto, secondo Platone le idee non possono derivare dai sensi, poiché questi ci testimoniano solo un mondo di cose materiali ed imperfette. Le idee sono esclusivamente "l'oggetto di una visione intellettuale" ossia il risultato di uno sguardo della mente. Ma da dove proviene questa visione intellettuale? Come si spiega che noi, pur vivendo in un mondo caratterizzato dal divenire e dall'imperfezione, abbiamo la nozione delle forme ideali? Per risolvere tale problema Platone ricorre alla dottrina-mito della reminiscenza (= ricordo), affermando, sulla base della credenza orfico-pitagorica della metempsicosi o trasmigrazione delle anime, che la nostra anima, prima di calarsi nel presente corpo è vissuta, disincarnata, nel mondo delle idee, dove, fra una vita e l'altra, ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose. Una volta discesa nel nostro mondo, l'anima conserva un ricordo sopito di ciò che ha veduto. Grazie all'esperienza delle cose, che fungono da occasione o pungolo per la memoria, l'anima ricorda ciò che ha visto nell'Iperuranio. In questo senso, dice Platone, "conoscere è ricordare", in quanto le idee, sia pur sfocate, le portiamo dentro di noi e basta uno sforzo per tirarle fuori, tanto più che esse, come le cose, sono legate fra loro da una sorta di "parentela", per cui basta rammentarcene una per farci tornare alla mente tutte le altre. La gnoseologi a di Platone rappresenta dunque una forma di innatismo, in quanto ritiene che la conoscenza non derivi dall'esperienza sensibile (che funge soltanto da meccanismo sollecitatore del ricordo) bensì da metri di giudizi preesistenti e connaturati con il nostro intelletto. Una prova di questa teoria risiede nel fatto che anche un ignorante, opportunamente interrogato, può rispondere con esattezza intorno a cose di cui non ha mai inteso discorrere. Celebre l'esempio del Menone, in cui troviamo il caso dello schiavo, che, pur essendo a digiuno di geometria, viene aiutato da Socrate a "ricordare" gli elementi di fondo di essa, riuscendo così a dimostrare il teorema di Pitagora. In tal modo, la maieutica, che in Socrate alludeva soltanto al fatto che la verità è una conquista nostra, che il filosofo non ci offre già confezionata dall'esterno, ma stimola dialogicamente dall'interno, in Platone subisce una evidente radicalizzazionemetafisica, venendo a coincidere con la teoria stessa della reminiscenza, cioè con la tesi secondo cui portiamo dentro di noi una verità prenatale, che è il frutto di una precedente contemplazione delle idee.


L'immortalità dell'anima.

La reminiscenza postula di per sé l'immortalità dell'anima, che infatti diviene oggetto di uno dei dialoghi più ricchi di pathos umano e religioso: il Fedone. A parte l'argomento appena esaminato della reminiscenza, in quest'opera Platone elenca altre prove dell'immortalità dell'anima.


1. Una prima, detta dei contrari, afferma che come in natura ogni cosa si genera dal suo contrario (il freddo dal caldo, il sonno dalla veglia, ecc.), così la morte si genera dalla vita e la vita si genera dalla morte, nel senso che l'anima rivive dopo la morte del corpo.


2. Una seconda, detta della somiglianza, sostiene che l'anima, essendo simile alle idee, che sono eterne, sarà anch'essa tale. Infatti, solo ciò che è composto può distruggersi, risolvendosi nei suoi elementi semplici, mentre ciò che è semplice, come le idee e le anime, non può venire né creato né distrutto.


3. Una terza, detta della vitalità, argomenta che l'anima, in quanto soffio vitale, è vita e partecipa dell'idea di vita, onde non può accogliere in sé l'opposta idea, l'idea della morte.


Nell'ambito di questi discorsi, nel Fedone troviamo la nota dottrina platonica della filosofia come "preparazione alla morte". Infatti, se filosofare significa morire ai sensi e al corpo, per poter cogliere meglio le idee, la vita del filosofo risulta tutta una preparazione alla morte, cioè al momento in cui l'anima, finalmente libera dai ceppi del corpo, potrà unirsi direttamente alle idee, beandosi della loro totale contemplazione. Il Fedone mostra in modo inequivocabile come nella complessa anima del platonismo vi sia un momento fortemente religioso, che tuttavia non esclude, ma si integra, con il momento mondano-politico, delineando non già un Platone "bifronte", ma un'unica ricca personalità, in cui coesistono interessi e spinte diverse e per la quale l'attaccamento alle cose immanenti non esclude l'apertura a quelle trascendenti e viceversa.




La dottrina delle idee come " salvezza " dal relativismo sofistico.


Se la teoria delle idee costituisce il cuore della filosofia platonica, l'opposizione al relativismo sofistico costituisce il cuore della dottrina delle idee. Come si è già accennato, Platone non può venir filosoficamente compreso in modo adeguato se non in antitesi ai sofisti. Noi sappiamo come il relativismo sofistico costituisca qualcosa di complesso ed articolato. Ad esempio, fra Protagora, che pur mettendo in crisi le certezze assolute, vuol insegnare agli uomini a saper vivere senza di esse, fornendoli nel contempo di un criterio esistenziale sulla cui base intendersi (= la comune utilità), e Gorgia, che nega qualsiasi principio conoscitivo e pratico, vi è una notevole differenza. Nella schematizzazione platonica il relativismo sofistico tende invece, difatto, a divenire un tutto indistinto e ad identificarsi con una filosofia negatrice di ogni stabile punto di vista sulle cose e di ogni certezza teorica e pratica. In altre parole, dire Sofistica, per Platone, equivale a dire filosofia che negando ogni verità oggettiva sospende tutto all'arbitrio individuale. Di fronte ad un relativismo del genere, per Platone non vi è altra via di scampo se non la restaurazione dell'assolutismo. Platone appare infatti lontanissimo, per interessi e costituzione mentale, da quella sorta dì "terza via" fra assolutismo tradizionale e relativismo estremo, che era stata imboccata da pensatori come Protagora e Socrate, i quali, dopo la "crisi di certezze" dell'antica religione e della precedente filosofia cosmologica, erano giunti in fondo, sia pure da angoli visuali diversi, a porsi implicitamente il medesimo problema: quello di riuscire a trovare dei criteri o dei punti di accordo che, pur avendo la capacità di unire gli uomini (per esempio "l'utilità comune" di Protagora o la "virtù come scienza" di Socrate) non pretendessero però di fondarsi su qualche realtà extra-umana o su qualche verità eterna già data. Ma poiché per Platone l'unica via percorribile dopo il relativismo è l'assolutismo (che si accompagna, in parte, ad un recupero della religione) la dottrina delle idee diviene, dal suo punto di vista, lo strumento più prezioso e decisivo della filosofia. Infatti, grazie ad essa, Platone può asserire la presenza di strutture o perfezioni ideali che, esistendo per proprio conto e indipendentemente dall'arbìtrio degli individui, hanno una validità oggettiva ed universale. In tal modo, l'umanismo sofistico e socratico, che poneva nell'uomo e non fuori dell'uomo la fonte dei giudizi e il criterio del conoscere e dell'agire, risulta messo da parte e sostituito da una concezione per cui è di nuovo qualcosa di extraumano - in questo caso le "idee" e non più gli dèi - a "regolare" l'uomo. Infatti, nel platonismo non è più l'uomo a misurare la verità, come voleva Protagora, ma è la verità (= le Idee) a " misurare " l'uomo e a fornirgli le regole del pensare e del vivere. Analogamente, posta l'idea come superiore punto di accordo fra le menti, il retativismo conoscitivo e morale dei sofisti crolla totalmente. Per cui la conoscenza torna ad avere un valore assoluto e cessa di essere relativa all'uomo e al soggetto giudicante. Esempio tipico di ciò è, per Platone, la matematica, che in virtù delle idee-matematiche parla un linguaggio che vale per tutti e tutte le circostanze, imponendosi perentoriamente alla mente di qualsiasi individuo, sia esso greco, caldeo o egiziano. Anche la morale torna ad avere una validità assoluta, in quanto Platone, come già sappiamo, ritiene che esistano idee-valori, quali il Bene, la Giustizia, ecc., che essendo indipendenti dalle opinioni personali e dai costumi dei vari popoli permettono al filosofo di delineare un discorso etico-politico universale. Lo stesso linguaggio, che i Sofisti ritenevano convenzionale e incapace di riprodurre le strutture ultime del reale (vedi Gorgia), torna a caricarsi, se ben usato, di un valore assoluto, in quanto esso, fondandosi sulle idee, che ne formano il perno extra-linguistico, risulta capace di rivelarci l'essere e la verità.



La finalità politica della teoria delle idee.


Il superamento platonico del relativismo conoscitivo e morale e la connessa battaglia antisofistica rivela il suo pieno significato in sede politica. Come si è già accennato all'inizio, Platone ritiene infatti che il relativismo, dando libero corso alla disparità e all'urto delle opinioni, non possa che produrre disordine e violenza, o, al limite, la teorizzazione della legge del più forte. Di conseguenza, con la dottrina delle idee - e questo è certamente il suo significato esistenziale più profondo Platone volle offrire agli uomini uno strumento che consentisse loro di uscire dal caos delle opinioni e dei costumi e che li traesse fuori dalle lotte e dalle violenze in cui la molteplicità dei punti di vista li avevafatti inevitabilmente cadere. L'assolutismo della teoria delle idee rappresenta, dunque, in Platone, il principale strumento di battaglia contro il relativismo politico e l'anarchia sociale. Da ciò i termini essenziali della sua equazione risolutiva della crisi: conoscenza delle idee = fondazione di una scienza politica universale = pace e giustizialfra gli uomini. Ma tutto ciò implica, come ultimo risultato, quell'idea dellafilosofia al potere che rappresenta il punto di arrivo di tutta la meditazione platonica. Su tale concetto insiste soprattutto la Repubblica.


"Se i filosofi son quelli capaci di attingere ciò che è sempre uguale a se stesso e se invece quelli che non sono capaci di questo e vanno vagando nel molteplice e nel mutevole non sono filosofi, quali bisogna che siano i governanti dello stato? Cosa bisognerà dire, domandò, per rispondere giustamente? Quelli che si rivelano capaci di custodire le leggi e conservare lo stato dovranno essere posti come custodi. Giusto, disse. Non è forse chiaro, ripresi, chi bisogna scegliere tra un cieco ed uno dalla vista acuta per farne il custode di una cosa qualsiasi? È certamente chiaro, rispose. Ma pare che differiscano in qualche cosa i ciechi e quelli che sono realmente privi della conoscenza dell'essere, che non hanno nell'anima alcun modello evidente e non sono capaci di guardare, come pittori, alla verità suprema né di rapportarsi continuamente ad essa né di vederla il più chiaramente possibile in modo da poter stabilire quaggiù, se ancora sono da stabilire, i criteri del bello, del giusto e del buono e di conservarli custodendoli? No, per Zeus, disse, non c'è grande differenza. Noi porremo dunque come guardiani questi ciechi o piuttosto quelli che conoscono l'essere di ciascuna cosa e che inoltre non la cedono loro in esperienza, né sono loro inferiori in alcuna altra parte della virtù? Sarebbe certo assurdo, disse, scegliere altri, se non sono inferiori ad alcuno neppure nelle altre cose: giacché hanno sugli altri il vantaggio di questa conoscenza che è ciò che più conta".







Secondo periodo: la dottrina dell'amore e dell'anima.



Il Convito.


Il sapere stabilisce tra l'uomo e le idee, e tra gli uomini associati nella comune ricerca, un rapporto che non è puramente intellettuale, perché impegna la totalità dell'uomo e quindi anche la volontà. Questo rapporto è definito da Platone come amore (eros). Alla teoria dell'amore sono dedicati due dei dialoghi più artisticamente perfetti, il Convito ed il Fedro. Di questi, il secondo è certamente posteriore al primo. Il Convito considera prevalentemente l'oggetto dell'amore, cioè la bellezza, e mira a determinare di essa i gradi gerarchici. Il Fedro considera invece prevalentemente l'amore nella sua soggettività, come aspirazione verso la bellezza ed elevazione progressiva dell'anima al mondo delle idee, al quale la bellezza appartiene. Socrate: l'amore desidera qualche cosa che non ha, ma di cui ha bisogno, ed è quindi mancanza. Il mito infatti lo dice figlio di Povertà (Penìa) e di Acquisto (Poros); come tale esso non è un dio, ma un dèmone; perciò non ha la bellezza ma la desidera, non ha la sapienza, ma aspira a possederla ed è quindifilosofo, mentre gli dèi sono sapienti. L'amore è dunque desiderio di bellezza; e la bellezza si desidera perché è il bene che rende felice. L'uomo che è mortale tende a generare nella bellezza e quindi a perpetuarsi attraverso la generazione, lasciando dopo di sé un essere che gli somiglia. La bellezza è il fine, l'oggetto dell'amore. Ma la bellezza ha gradi diversi ai quali l'uomo può sollevarsi solo successivamente attraverso un lento cammino. In primo luogo, è la bellezza di un bel corpo quella che attrae ed avvince l'uomo. Poi egli si accorge che la bellezza è uguale in tutti i corpi e così passa a desiderare e ad amare tutta la bellezza corporea. Ma al disopra di essa c'è la bellezza dell'anima; al disopra ancora, la bellezza delle istituzioni e delle leggi e poi la bellezza delle scienze e infine, al disopra di tutto, la bellezza in sé, che è eterna, superiore al divenire e alla morte, perfetta, sempre uguale a se stessa, fonte di ogni altra bellezza e oggetto della filosofia.




Il Fedro.


Come l'anima umana può percorrere i gradi di questa gerarchia, fino a giungere alla bellezza suprema? È questo il problema del Fedro; il quale parte perciò dalla considerazione dell'anima. La natura di essa si può esprimere "per via umana e più breve" con un mito. È simile ad una coppia di cavalli alati, guidati da un auriga: l'uno dei cavalli è eccellente, l'altro è pessimo, sicché l'opera dell'auriga è difficile e penosa. L'auriga cerca di indirizzare nel cielo i cavalli al sèguito degli dèi, verso la regione sopraceleste (iperuranio) che è la sede dell'essere. In questa regione sta la "vera sostanza", priva di colore e di forma, impalpabile, che può essere contemplata solo da quella guida dell'anima che è la ragione, la sostanza che è l'oggetto della vera scienza. Questa sostanza è la totalità delle idee (giustizia in sé, temperanza in sé, ecc.). Ma essa può essere contemplata solo per poco dall'anima che è tirata in basso dal cavallo balzano. Ogni anima perciò contempla la sostanza dell'essere più o meno; e quando per oblio o per colpa s'appesantisce, perde le ali e s'incarna, va a vivificare il corpo di un uomo che sarà tale quale essa lo rende. L'anima che ha visto di più va nel corpo di un uomo che si consacra al culto della sapienza o dell'amore; quelle che hanno visto di meno s'incarnano in uomini che sono via via più alieni dalla ricerca della verità e della bellezza. Ora nell'anima che è caduta e si è incarnata, il ricordo delle sostanze ideali è risvegliato proprio dalla bellezza. L'uomo difatti riconosce subito, appena la vede, la bellezza per la sua luminosità. La vista, il più acuto dei sensi corporei, non vede nessuna delle altre sostanze; può vedere però la bellezza. "Alla sola bellezza toccò il privilegio d'essere la più evidente e la più amabile". Essa fa da mediatrice fra l'uomo caduto e il mondo delle idee; e all'appello di essa l'uomo risponde con l'amore. È vero che l'amore può anche rimanere attaccato alla bellezza corporea e pretendere di godere solo di questa; ma quando l'amore venga sentito e realizzato nella sua vera natura, allora si fa guida dell'anima verso il mondo dell'essere. In questo caso non è più soltanto desiderio, impulso, delirio; i suoi caratteri passionali non vengono meno, ma sono subordinati e fusi nella ricerca rigorosa e lucida dell'essere in sé, dell'idea. L'eros diventa allora procedimento razionale, dialettica. La dialettica è nello stesso tempo ricerca dell'essere in sé e unione amorosa delle anime nell'apprendere e nell'insegnare. È quindi psicagogia, guida dell'amma, con la mediazione della bellezza, verso il suo vero destino. Ed è anche la vera arte della persitasione, la vera retorica; che non è, come sostengono i Sofisti, una tecnica alla quale sia indifferente la verità del suo oggetto e la natura dell'anima che si vuole persuadere; ma scienza dell'idea e, nello stesso tempo, scienza dell'anima. Questo concetto della dialettica, che è il punto culminante del Fedro e lo sbocco della teoria platonica dell'amore, doveva essere il centro della speculazione platonica negli ultimi dialoghi.




Secondo periodo: lo Stato e il compito del filosofo.


Lo Stato ideale.

Tutti i temi speculativi e i risultati fondamentali dei dialoghi precedenti si trovano riassunti nella massima opera di Platone, la Repubblica, che li ordina e li connette intorno al motivo centrale di una comunità perfetta, nella quale il singolo trovi la sua perfetta formazione. Il progetto di una tale comunità è fondato sul principio che costituisce la direttiva di tutta la filosofia platonica. "Se i filosofi non governano le città o se quelli che ora chiamiamo re o governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia, se il potere politico e la filosofia non coincideranno nelle stesse persone e se la moltitudine di quelli che ora si applicano esclusivamente all'una o all'altra non sarà col massimo rigore impedita dal farlo, è impossibile che cessino i mali delle città e anche quelli del genere umano" (Repubblica, V, 473 d). Ma a questo punto dello sviluppo dell'indagine, la costituzione di una comunità politica governata da filosofi presenta a Platone due problemi fondamentali: qual è lo scopo e il fondamento di tale comunità? chi sono propriamente i filosofi?



La giustizia.

Alla prima domanda Platone risponde: la giustizia. E difatti la Repubblica è esplicitamente diretta alla determinazione della natura della giustizia. Nessuna comunità umana può sussistere senza la giustizia. All'istanza sofistica che vorrebbe ridurla al diritto del più forte, Platone oppone che neppure una banda di briganti o di ladri potrebbe venire a capo di nulla, se i suoi componenti violassero le norme della giustizia l'uno a danno degli altri. La giustizia è condizione fondamentale della nascita e della vita dello stato. Lo stato deve essere costituito da tre classi: quella dei governanti, quella dei custodi o guerrieri e quella dei cittadini, che esercitano un'altra qualsiasi attività (agricoltori, artigiani, commercianti, ecc.). La saggezza appartiene alla prima di queste classi, perché basta che i governanti siano saggi perché tutto lo stato sia saggio. Il coraggio appartiene alla classe dei guerrieri. La temperanza, come accordo tra governanti e governati su chi deve comandare lo stato, è virtù comune a tutte le classi. Ma la giustizia comprende tutt'e tre queste virtù: essa si realizza quando ciascun cittadino attende al suo còmpito proprio ed ha ciò che gli spetta. Difatti, i còmpiti in uno stato sono tanti e tutti necessari alla vita della comunità: ognuno deve scegliere quello per cui è adatto e dedicarsi ad esso. Solo così ogni uomo sarà uno e non già molteplice; e lo stato stesso sarà uno. La giustizia garantisce l'unità e con essa la forza dello stato. Ma essa garantisce altresì l'unità e l'efficienza dell'individuo. Nell'anima individuale Platone distingue, come nello stato, tre parti: la parte razionale, che è quella per cui l'anima ragiona e domina gli impulsi; la parte concupiscibile, che è il principio di tutti gli impulsi corporei; e la parte irascibile, che è l'ausiliario del principio razionale e si sdegna e lotta per ciò che la ragione ritiene giusto. Del principio razionale sarà propria la saggezza, del principio irascibile, il coraggio; mentre l'accordo di tutt'e tre le parti nel lasciare il comando all'anima razionale sarà la temperanza. Anche nell'uomo singolo la giustizia si avrà quando ogni parte dell'anima farà soltanto la propria funzione. Evidentemente la realizzazione della giustizia nell'individuo e nello stato non può procedere parallelamente. Lo stato è giusto quando ogni individuo attende solo al còmpito che gli è proprio; ma l'individuo che attende solo al còmpito proprio è esso stesso giusto. La giustizia non è solo l'unità dello stato in se stesso e dell'individuo in se stesso; è, nello stesso tempo, l'unità dell'individuo e dello stato e quindi l'accordo dell'individuo con la comunità.




Caratteri e motivazioni delle classi sociali in Platone.

Appurato che la giustizia è l'adempimento del proprio compito da parte di ogni individuo e di ogni classe sociale, la sensibilità odierna ci porta immediatamente a chiederci: 1) da dove deriva, per Platone, la distinzione degli uomini in classi? e 2) che cosa fa sì che un individuo appartenga ad una certa classe anziché ad un'altra? Per quanto riguarda la prima questione, il filosofo risponde che lo Stato deve per forza essere diviso in classi poiché in uno Stato vi sono compiti diversi che devono essere esercitati da individui diversi. Anzi, a voler essere precisi, per Platone "Lo Stato non è costituito di classi, esso è uno in un articolarsi di funzioni diverse, in vista dell'unico fine che è il bene comune". Per quanto riguarda il secondo punto, Platone, rifacendosi alla tripartizione psicologica dell'anima, afferma che la diversità fra gli individui e la loro differente destinazione sociale dipende dalla preponderanza di una parte dell'anima sulle altre. Abbiamo così gli individui prevalentemente razionali (portati quindi alla sapienza e al governo), gli individui prevalentemente impulsivi (portati ad essere guerrieri) e gli individui prevalentemente soggetti al corpo ed ai suoi desideri (portati al lavoro manuale). Per Platone la divisione degli individui in classi-funzioni non dipende quindi da un fatto ereditario, cioè dall'essere nati in una certa classe, ma da un fatto antropologico, ossia da come si è come uomini. Tutto ciò viene espresso anche dal celebre "mito delle stirpi", secondo cui alcuni nascono con una natura "aurea", altri con una natura "argentea", altri con una natura "ferrea o bronzea ". In sintesi, nell'ideale città di Platone (non si dimentichi, per non cadere in equivoci interpretativi, che il filosofo sta parlando di una comunità ipotetica e non di uno Stato reale), gli uomini si distinguono fra di loro non per diritti di nascita ma per differenti attitudini naturali. Tutto ciò esclude che si possa interpretare la comunità platonica, come pure è avvenuto, alla stregua di un sistema di "caste" chiuse, alla maniera orientale. Infatti, mentre nel sistema indiano delle caste o negli Stati aristocratici non si ammette la mobilità sociale, ossia il passaggio dal basso verso l'alto (anche se risulta talora prevista la degradazione dall'alto verso il basso), nell'immaginaria società platonica si dice esplicitamente che un bimbo "ferreo" nato tra gli uomini "aurei" dovrà essere retrocesso di classe e viceversa che un bimbo

"aureo" nato da uomini "ferrei" dovrà essere innalzato fra gli uomini "aurei". Tant'è vero che "Platone sa con questo di avanzare una proposta paradossale relativamente al modo in cui sono costituiti gli Stati del suo tempo... Egli in realtà sottolinea che tutti gli uomini sono uguali, sono tutti fratelli e che le distinzioni non sono dovute né a privilegi di nascita né al fatto d'essere figli di governanti o di operai". Sostenere che nella Repubblica platonica l'appartenenza ad una certa classe non sia dovuta alla nascita o ai propri genitori, ma soltanto ai propri talenti naturali, non equivale certo a dire che lo Stato di Platone sia "democratico", in quanto, in esso, la maggioranza delle persone "ferree" resta inequivocabilmente esclusa dal potere e ridotta ad una condizione di passiva obbedienza agli "aurei". Contro l'Atene periclea e contro Protagora, il quale, come si è visto, si era fatto sostenitore di un ordinamento politico democratico, basato sulla tesi di una universale assegnazione della virtù politica a tutti gli uomini, Platone sostiene il carattere elitario del potere. Lo schema anti-democratico dello Stato platonico esclude però, secondo quanto abbiamo detto, che esso possa venir confuso con quello aristocratico-tradizionale. Infatti, lo Stato platonico è sì "aristocratico", in quanto in esso governano i "migliori", ma questi ultimi sono tali non per casato, forza o ricchezza, ma per il possesso del sapere. La ragione al potere e i filosofi al governo: ecco la vera novità dell'aristocraticismo platonico, che ha spinto qualcuno a parlare, con più esattezza, di "Stato sofocratico" (= comunità basata sul governo dei sapienti). Il carattere innovatore del pensiero politico platonico risulta evidente, al di là delle pur rilevabili suggestioni spartane, anche dal discorso platonico sulla proprietà, la famiglia e la donna, che ha sempre costituito, attraverso i secoli, la parte un po' "scandalistica" della Repubblica, attenuata solo dal suo carattere "utopistico".





Il "comunismo" platonico.


Affinché lo Stato funzioni bene e la giustizia sia realizzata, Platone suggerisce l'eliminazione della proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori, affinché essi, al di là dei propri interessi, attendano più efficacemente alla gestione della cosa pubblica. I custodi dovranno avere case piccole e cibo semplice, vivendo come in un accampamento e mangiando insieme; non avranno alcun compenso, se non i mezzi per vivere. L'oro e l'argento saranno proibiti, in quanto lo scopo della città è il bene di tutti, non la felicità di una classe: "Il nostro scopo nel fondare lo Stato, scrive Platone, non è di rendere felice un unico tipo di cittadini, ma che sia felice quanto più è possibile lo Stato nella sua totalità... Non dobbiamo distinguere nello Stato una parte di pochi cittadini da rendere felici, ma vogliamo la felicità di tutti". Sia la ricchezza sia la povertà sono nocive, per cui nella città ideale non dovrà esistere nessuna delle due. Tutto questo discorso non implica tuttavia un'organízzazione comunistica dell'intera società, in quanto la terza classe non viene esclusa dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Analogamente, la classe al potere non avrà famiglia. Estendendo il comunismo economico a quello sessuale, Platone ritiene che i governanti debbano avere in comune donne e bambini. "Le donne saranno, senza eccezione, mogli comuni degli uomini e nessuno avrà una moglie propria". Ciò non implica certo la prostituzione della donna o la sua subordinazione e riduzione- a oggetto-del-maschio. Al contrario, le donne dovranno godere di una completa uguaglianza con gli uomini e parteciperanno alla vita dello Stato su di un piano di totale parità: "La stessa educazione che rende un uomo un buon custode, renderà una donna una buona custode; perché la loro natura originaria è la stessa". Le unioni tra uomo e donna verranno stabilite dallo Stato in vista dei criteri eugenetici della procreazione di figli sani. Tutti i bambini saranno tolti fin dalla nascita ai loro genitori, e si avrà cura che i genitori non sappiano quali sono i loro figli, e i bambini ignorino quali siano i loro parenti. In tal modo si vivrà come in una grande e solidale famiglia.




Le degenerazioni dello Stato.


Platone è ben consapevole che uno Stato del genere non esiste "in alcun luogo sulla terra". Tuttavia è anche persuaso che esso rappresenti il modello ideale sulla cui base migliorare gli Stati esistenti e giudicarne le alterazioni possibili. Tre sono le degenerazioni dello Stato e tre le corrispondenti degenerazioni del singolo. La prima è la timocrazia, governo fondato sull'onore, che nasce quando i governanti si appropriano di terre e di case; ad esso corrisponde l'uomo timocratico, ambizioso e amante del comando e degli onori, ma diffidente verso i sapienti. La seconda forma è l'oligarchia, governo fondato sul censo, in cui comandano i ricchi; ad esso corrisponde l'uomo avido di ricchezze, parsimonioso e laborioso. La terza forma è la democrazia, nella quale i cittadini sono liberi e ad ognuno è lecito di fare quello che vuole; ad essa corrisponde l'uomo democratico che non è parsimonioso come l'oligarchico, ma tende ad abbandonarsi a desideri smodati. Infine la più bassa di tutte le forme di governo è la tirannide, che spesso nasce dall'eccessiva libertà della democrazia. È la forma più spregevole perché il tiranno, per guardarsi dall'odio dei cittadini, deve circondarsi degli individui peggiori. L'uomo tirannico è schiavo delle sue passioni alle quali si abbandona disordinatamente ed è il più infelice degli uomini.





I gradi della conoscenza e l'educazione del filosofo.


La parte centrale della Repubblica è dedicata alla delineazione del compito proprio del filosofo. Filosofo è colui che ama la conoscenza nella sua totalità. Ma che cos'è la conoscenza? Platone, esplicitando il proprio concetto della scienza come fotografia dell'oggetto, afferma che "ciò che assolutamente è, è assolutamente conoscibile, ciò che in nessun modo è, in nessun modo è conoscibile". Perciò all'essere, e quindi alle idee, corrisponde la scienza, che è la conoscenza vera; al non-essere, l'ignoranza; e al divenire, che sta in mezzo tra l'essere ed il non essere, corrisponde l'opinione, che è a metà strada tra la conoscenza e l'ignoranza. In particolare, Platone paragona la conoscenza ad una linea che viene divisa in due segmenti (conoscenza sensibile e conoscenza razionale), i quali vengono a loro volta divisi in altri due segmenti (immaginazione e credenza da un lato, ragione scientifica ed intelligenza filosofica dall'altro). Abbiamo così quattro gradi del sapere cui corrispondono quattro gradi della realtà. La conoscenza sensibile rispecchia il nostro mondo e consta, da una parte, di immaginazione, che ha per oggetto i dati immediati della sensazione e le immagini superficiali ed isolate delle cose, e, dall'altra parte, della credenza, che ha per oggetto le cose sensibili percepite nei loro rapporti scambievoli. La conoscenza razionale rispecchia il mondo delle idee e consta, da un lato, della ragione scientifica, che ha per oggetto le idee matematiche, e dall'altro lato dell'intelligenza filosofica che ha per oggetto l'intuizione delle idee-valori. Platone ritiene la filosofia superiore alla ragione scientifica. Nonostante esalti la matematica al punto da far scrivere sulla porta dell'Accademia "non entri chi non è matematico", egli pensa che le discipline scientifico- matematiche da un lato trovino ancora consistenti appigli nel mondo sensibile, in quanto le loro nozioni primitive sono attinte od intravviste proprio attraverso le cose sensibili (punto, linea ecc.), e, dall'altro, partano da ipotesi indimostrate: "Quelli che si occupano di geometria, di aritmetica e di altre discipline dello stesso genere, scrive Platone, suppongono il dispari e il pari, le varie figure, le tre specie di angoli e altre cose simili secondo l'oggetto della loro ricerca; le trattano da cose ben note, le pongono come ipotesi e credono di non essere obbligati a darne ragione, quasi fossero evidenti a tutti. Essi muovono da tali presupposti per procedere, nei loro ragionamenti, da una proposizione all'altra e così giungono alla dimostrazione a cui miravano". La filosofia, invece, in quanto scienza suprema, pur muovendo da ipotesi le considera realmente come tali, cioè come semplici punti di partenza, per risalire ai princìpi supremi (le idee) e da queste al principio di tutto (il Bene). La superiorità della filosofia non consiste solo nel suo rifiuto di fermarsi ad ipotesi indimostrate, volendo essere, come diciamo ancor oggi, problematica dei fondamenti, ma anche nel suo occuparsi dei problemi dell'uomo e della città. Infatti, mentre il matematico e lo scienziato si astraggono dalle questioni etico-politiche, il filosofo sente costantemente il dovere di cimentarsi in esse. Ciò non esclude che nel sistema di Platone la matematica investa una grande importanza. Infatti l'educazione scientifica dell'uomo (di cui Platone parla distesamente nella Repubblica) ha il suo punto critico nel passaggio dalla conoscenza sensibile alla conoscenza razionale matematica. Questo passaggio si fa, secondo Platone, mediante l'uso dei metodi di misura. Se l'uomo non vuole rimanere ingannato dalle apparenze sensibili, che sono varie, mutevoli e spesso contraddittorie fra di loro, non può far altro che ricorrere alla misura che introduce in tali apparenze ordine e oggettività. Per esempio: la cosa x che ci sta davanti, è grande o piccola? vicina o lontana? pesante o leggera? Le impressioni possono essere diverse per i vari uomini e anche per lo stesso uomo in momenti diversi. Ma se misuriamo la distanza, il volume della cosa, il suo peso, raggiungiamo conoscenze che non sono più mutevoli e soggettive, ma oggettive e stabili. Quando ci affidiamo alla misura per saggiare la validità del mondo sensibile, l'oggetto della nostra ricerca muta: ciò che noi troviamo, come effetto della misura, non è più una cosa ma un numero, una figura geometrica, una determinazione o un ente matematico. Siamo cioè passati dal dominio della credenza, che ha per oggetto il sensibile, al dominio della scienza matematica. Platone enumera nella Repubblica cinque discipline matematiche fondamentali: l'aritmetica cioè l'arte del calcolo; la geometria come scienza degli enti immutabili; l'astronomia come scienza del movimento più ordinato e perfetto, quello dei cieli; la musica come scienza dell'armonia. Queste discipline matematiche costituiscono la propedeutica della filosofia: esse preparano il filosofo alla scienza suprema, che è la dialettica, la scienza delle idee. Platone descrive in modo molto minuzioso l'educazione dei giovani tant'è vero che Rousseau, il celebre pedagogista moderno, ha visto nella Repubblica il più grande trattato di educazione dell'antichità. Dapprima i futuri filosofi-reggitori studieranno musica e ginnastica, poi le discipline propedeutiche. Tra i trenta e trentacinque anni i migliori si cimenteranno con la filosofia o dialettica. Fra i trentacinque ed i cinquanta coloro che saranno stati in grado di seguire bene il corso di filosofia dovranno fare il tirocinio pratico nelle cariche militari e civili. Solo a cinquant'anni, superato con esito favorevole tutte queste prove, "gli ottimi" potranno assurgere al governo dello Stato.





Il mito della caverna.


La teoria della conoscenza che abbiamo esposto trova un'esemplificazione allegorica nel racconto della caverna, che rappresenta uno dei miti più noti della Repubblica e del platonismo in generale.

Immaginiamo vi siano schiavi incatenati in una caverna sotterranea e costretti a guardare solo davanti a sé. Sul fondo della caverna si riflettono immagini di statuette, che sporgono al di sopra di un muricciolo alle spalle dei prigionieri e raffigurano tutti i generi di cose. Dietro il muro si muovono, senza essere visti, i portatori delle statuette, e più in là brilla un fuoco che rende possibile il proiettarsi delle immagini sul fondo. I prigionieri scambiano quelle ombre per la sola realtà esistente. Ma se uno di essi riuscisse a liberarsi dalle catene, voltandosi si accorgerebbe delle statuette e capirebbe che esse, e non le ombre, sono la realtà. Se egli riuscisse in seguito a risalire all'apertura della caverna scoprirebbe, con ulteriore stupore, che la vera realtà non sono nemmeno le statuette, poiché queste ultime sono a loro volta imitazione di cose reali, nutrite e rese visibili dall'astro solare. Dapprima, abbagliato da tanta luce, non riuscirà a distinguere bene gli oggetti e cercherà di guardarli riflessi nelle acque. Solo in un secondo tempo li scruterà direttamente. Ma ancora incapace di volgere gli occhi verso il sole, guarderà le costellazioni e il firmamento durante la notte. Dopo un po' sarà finalmente in grado di fissare il sole di giorno e di ammirare lo spettacolo scintillante delle cose reali. Ovviamente, lo schiavo vorrebbe rimanersene sempre là, a godere, rapito, di quel mondo di superiore bellezza, tanto che "preferirebbe soffrire tutto piuttosto che tornare alla vita precedente". Ma se egli, per far partecipi i suoi antichi compagni di schiavitù di ciò che ha visto, tornasse nella caverna, i suoi occhi sarebbero offuscati dall'oscurità e non saprebbero più discernere le ombre: perciò sarebbe deriso e spregiato dai compagni, che accusandolo di avere gli occhi "guasti", continuerebbero ad attribuire i massimi onori a coloro che sanno più acutamente vedere le ombre della caverna. E alla fine, infastiditi dal suo tentativo di scioglierli e di portarli fuori della caverna, lo ucciderebbero.



Il significato del mito.


La simbologia filosofica di questo mito è ricchissima. Senza pretendere di esaurirla tutta (del resto la versione razionale completa di ogni mito è un controsenso) cerchiamo di tradurne gli elementi essenziali mediante una catena sintetica di identificazioni possibili: la caverna oscura = il nostro mondo; gli schiavi incatenati = gli uomini; le catene = l'ignoranza e le passioni che ci inchiodano a questa vita; le ombre delle statuette = l'immagine superficiale delle cose, corrispondente al grado gnoscologico dell'immaginazione; le statuette = le cose del mondo sensibile corrispondenti al grado della credenza; il fuoco = il principio fisico con cui i primi filosofi spiegarono le cose; la liberazione dello schiavo = l'azione della conoscenza e della filosofia; il mondo fuori della caverna = le idee; le immagini delle cose riflesse nell'acqua = le idee matematiche che preparano alla filosofia; il sole = l'idea del Bene che tutto rende possibile e conoscibile; la contemplazione assorta delle cose e del sole = la filosofia ai suoi massimi livelli; lo schiavo che vorrebbe starsene "sempre là" = la tentazione del filosofo di chiudersi in una torre d'avorio; lo schiavo che ritorna nella caverna = il dovere del filosofo di far partecipi gli altri delle proprie conoscenze; l'ex schiavo che non riesce più a vedere le ombre = il filosofo che per essersi troppo concentrato sulle idee si è disabituato alle cose; lo schiavo deriso = la sorte dell'uomo di pensiero di venir scambiato per "pazzo" da coloro che sono attaccati ai pregiudizi e ai modi di vita volgari; i grandi onori attribuiti a coloro che sanno vedere le ombre = il premio offerto dalla società ai falsi sapienti; l'uccisione del filosofo = la sorte toccata a Socrate. Come si è accennato all'inizio e si può verificare adesso, in questo mito si trova gran parte di Platone e del senso umano e filosofico del platonismo. In esso c'è innanzitutto il dualismo gnoseologico od ontologico sotteso alla teoria delle idee; c'è poi l'affiato religioso che spinge Platone a riguardare il nostro mondo come ad un regno delle tenebre contrapposto al regno della luce rappresentato dalle idee. Ma soprattutto c'è il concetto della finafità politica della filosofia, ossia l'idea di un'utilizzazione di tutte le conoscenze che il filosofo ha potuto acquistare per la fondazione di una comunità giusta e felice. Secondo Platone, infatti, fa parte dell'educazione del filosofo il ritorno alla caverna, che consiste nella riconsiderazione e nella rivalutazione del mondo umano alla luce di ciò che si è visto al di fuori di questo mondo. Ritornare nella caverna significa, per l'uomo, porre ciò che ha visto a disposizione della comunità, rendersi conto egli stesso di quel mondo, che, per quanto inferiore, è il mondo umano, quindi il suo mondo, e obbedire al vincolo di giustizia che lo lega all'umanità nella propria persona e in quella degli altri. Dovrà dunque riabituarsi all'oscurità della caverna; e allora vedrà meglio dei compagni che vi sono rimasti e riconoscerà la natura e i caratteri di ciascuna immagine per averne visto il vero esemplare: la bellezza, la giustizia ed il bene. Così lo stato potrà essere costituito e governato da gente sveglia e non già, come accade ora, da gente che sogna e che si combatte tra loro per delle ombre e si contende il potere come se fosse un gran bene. Soltanto col ritorno nella caverna, soltanto cimentandosi nel mondo umano, l'uomo avrà compiuto la sua educazione e sarà veramente filosofo.




La condanna dell'arte imitativa.


Fra le molte branche della filosofia, fra le più vitali oggigiorno, vi è l'estetica, che studia i problemi della bellezza e dell'arte. La Repubblica è importante anche per la storia di questa disciplina, poiché in essa si trova la celebre digressione platonica sull'arte, che si conclude con la sua messa al bando dall'educazione dei filosofi. I motivi per cui Platone condanna l'arte, e la esclude dal curriculum dei futuri reggitori dello Stato, sono fondamentalmente due: uno di tipo metafisico-gnoseologico e l'altro di tipo pedagogico-politico. Per quanto riguarda il primo punto, Platone ritiene che l'arte sia sosta nzialmente "imitazione di una imitazione", "di tre gradi lontana dalla Verità", in quanto essa si limita a riprodurre l'immagine di cose e di eventi naturali, che sono a loro volta, come sappiamo, riproduzione delle idee. Anziché pungolare l'anima verso le idee, l'arte tende quindi a rinserrarla in questo mondo, che dal punto di vista della visione platonica dell'essere si configura, secondo quanto si è visto, alla stregua di una buia caverna, cioè come una realtà inferiore da cui l'uomo deve cercare di uscire. Dal punto di vista gnoseologico, l'arte, nutrendosi di immagini, possiede il valore conoscitivo più basso e risulta totalmente aliena dalla misurazione matematica, che rappresenta il primo gradino attraverso cui l'uomo può uscire dal "dedalo" delle percezioni soggettive e accedere ad una verità comune (questo discorso non vale per certa musica, soprattutto quella dorica, che in virtù dei suoi aspetti matematici e moralmente severi, viene prevista nel programma di studio dei governanti). Per quanto riguarda il secondo punto, Platone ritiene che l'arte in generale, e la commedia in particolare, sia psicologicamente e pedagogicamente negativa per il suo potere corruttore sugli animi. Infatti i futuri re-filosofi dovrebbero essere distaccati dalle emozioni e dovrebbero avere sempre presente un tipo superiore di uomo. Invece l'arte incatena l'animo alle passioni rappresentate e raffigura persone che si abbandonano senza ritegno a bassi istinti, vili lamentele e indecorose buffonerie. Inoltre, nella tragedia, l'arte raffigura un mondo dominato dal Fato, riducendo l'individuo a passivo esecutore-spettatore di una realtà immodificabile, escludente ogni umana iniziativa e ogni libero agire (secondo una prospettiva opposta a tutto il discorso etico-politico della Repubblica che affida all'uomo importanti compiti e gravose responsabilità). Oltre a questi due motivi, per meglio comprendere la polemica platonica, può essere utile tener presente un terzo fattore, di tipo storico-culturale. Infatti dietro la battaglia platonica contro l'arte vi è anche il desiderio di sbarazzarsi di una forma di cultura che in Grecia, prima della nascita della filosofia, e in alternativa alla stessa filosofia, aveva fatto e continuava a fare la parte del leone nell'educazione giovanile, risultando in aperto contrasto con la dottrina platonica dei filosofi-reggitori, che al tradizionale primato dei poeti sostituiva, di fatto, un nuovo primato dei filosofi. Ovviamente questa condanna dell'arte - che in Platone, come si tramanda, fu così rigida da spingerlo persino a bruciare poesie che aveva scritto da giovane - non riguarda l'uso dei miti. Questi ultimi, infatti, anziché essere riproduzione imitativa del mondo sensibile, si configurano come "nobili" tentativi di rappresentare alla mente cose che vanno al di là di ciò che è materiale e terreno: i destini dell'anima e le idee. Ciò dimostra che per Platone l'arte può esistere solo se assoggettata alla filosofia, ossia come momento ausiliario di espressione della verità. Abbandonata a sé è invece falsa. Tale dottrina, pur risultando ben comprensibile all'interno del pensiero platonico, appare completamente chiusa e prevenuta nei confronti del fatto artistico (e la cosa può risultare paradossale, se si pensa che Platone, oltre che un eccelso filosofo, è un grande poeta). In particolare, ad essa risulta estraneo un concetto che, soprattutto per noi moderni, risulta essenziale: l'autonornia e la libertà dell'arte. Ciò spiega perché gli studiosi antichi e moderni, pur sforzandosi di comprenderla nelle sue intime motivazioni, si siano unanimemente trovati d'accordo nel condannare la condanna platonica dell'arte.




Il mito di Er.


La giustizia, fondamento della vita singola e della vita associata, esige che ciascuno adempia al compito che gli è proprio. Ma chi sceglie e assegna a ciascuno il compito che gli è proprio? È questo il problema del destino che Platone affronta nel mito di Er, col quale si chiude degnamente la Repubblica, il grande dialogo sulla giustizia. Er, morto in battaglia e risuscitato dopo dodici giorni, ha potuto raccontare agli uomini la sorte che li attende dopo la morte. La parte centrale del suo racconto è quella che riguarda la scelta del destino alla quale le anime sono invitate nel momento della loro reincarnazione. La parca Làchesi, che bandisce la scelta, ne afferma la libertà: "La virtù è libera a tutti; ognuno ne parteciperà più o meno a seconda che la stima o la spregia. Ognuno è responsabile del proprio destino, la divinità non ne è responsabile". Ogni anima quindi sceglie il modello di vita che incarnerà prossimamente: tutto sta a compiere una scelta giudiziosa e a non lasciarsi abbagliare dall'apparenza brillante di certe vite che celano il peccato e l'infelicità. Ma la scelta è guidata il più delle volte dalle esperienze che l'anima ha raccolto nella sua vita anteriore. Ulisse, che i lunghi travagli hanno spogliato di ogni ambizione, sceglie la vita più modesta ed oscura, che era stata trascurata da tutte le altre anime. Così, in quel momento decisivo, l'uomo sceglie il suo destino sulla base di quello che ha voluto essere ed è stato in vita. La scelta dunque è libera perché si riporta alla condotta tenuta in vita dall'uomo. E proprio da questa vita, ammonisce Platone, bisogna prepararsi a quella scelta. "Ciascuno di noi, trascurando tutte le altre occupazioni, deve cercare di attendere soltanto a questo: scoprire e riconoscere l'uomo che lo metterà in grado di discernere il genere di vita migliore e di saperlo scegliere". Così la vita dell'uomo è la preparazione alla scelta del suo destino ed in realtà è già questa scelta. A misura che l'uomo avanza nella vita e si decide per la virtù o per il peccato, per il bene o per il male, per la verità o per l'apparenza, il suo destino si determina e si definisce. Il racconto di Er esprime miticamente la libertà del destino umano: vivere sionifica per l'uomo decidere e scegliere il proprio destino.




Il dibattito interpretativo sulla Repubblica.


L'utopia e la tesi dei filosofi al potere.


La Repubblica costituisce uno dei testi-chiave della filosofia politica occidentale ed uno dei dialoghi platonici più letti. Ciò rende comprensibile la molteplicità delle interpretazioni e la disparità dei giudizi critici sul suo conto, che testimoniano il secolare interesse per questo libro. Vediamo alcune prese di posizione-tipo, che essendo diametralmente opposte fra di loro servono a stimolare meglio la discussione. Taluni, vedendo nella Repubblica un celebre esempio di quelle teorie politiche che in seguito (a partire dal titolo dell'opera di Tommaso Moro, del 1516) saranno chiamate utopie, cioè disegni o progetti di città ideali inesistenti, hanno considerato l'opera platonica come il prodotto di un filosofo "sognatore" e l'hanno quindi fortemente svalutata ("molti - scriverà ad esempio Machiavelli in tono dispregiativo - si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero ... "). Altri, soprattutto ai giorni nostri, hanno esaltato Platone proprio per il suo utopismo, vedendo nell'utopia la vera filosofia e l'autentica politica, in quanto mettendo continuamente di fronte agli occhi degli uomini un modello ideale, li pungola a correggere le imperfezioni e gli svantaggi delle società storiche reali, e li stimola a edificarne di nuove e migliori. Certuni hanno considerato la tesi platonica dei filosofi al potere come una innocua, e un po' ridicola, affermazione di un intellettuale astratto dalla realtà effettiva. Altri l'hanno invece presa molto sul serio. Tra questi ultimi vi è tuttavia chi l'ha rifiutata ("non c'è da attendersi che i re filosofeggino o i filosofi diventino re - scrive ad esempio Kant - e neppure da desiderarlo, perché il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione") oppure c'è chi l'ha esaltata ("essa s'impone - scrive ad esempio lo storico della filosofia Guido De Ruggiero - a chi consideri che ogni organizzazione pratica è, nel suo motivo creatore, un'organizzazione mentale, e che coloro che posseggono ed esercitano questa virtù e disciplina organizzatrice, cioè i filosofi, sono i più atti a reggere la cosa pubblica. Soltanto, bisogna liberare il concetto del filosofo dalle ristrettezze dottrinali ed accademiche a cui l'hanno condannato, nell'opinione comune, le innumerevoli pleiadi dei filosofanti antichi e moderni, e guardare in lui, non la figura tradizionale del professore di filosofia, ma quella del possessore o del ricercatore di un sapere appropriato al compito pratico da adempiere"). Da parte di qualcun altro si è aggiunto che l'ideale platonico risulta valido soprattutto per gli uomini d'oggi, i quali, vivendo nell'era scientifica e tecnologica, hanno un'enorme quantità di strumenti a disposizione, che se intelligentemente usati possono migliorare radicalmente l'esistenza collettiva e se male adoperati possono peggiorarla o, al limite, distruggerla.




"Comunismo" e "Statalismo".


Qualcuno ha cercato di leggere la Repubblica da "sinistra", sottolineando particolarmente la proposta platonica della comunanza dei beni e delle donne, vedendo in essa il primo abbozzo, sia pure in chiave utopistica e limitato alle classi superiori, di quell'ideale socialistico che il marxismo estenderà a tutta la società. Viceversa, altri studiosi di sinistra hanno visto nel pensiero platonico nient'altro che un'ideologia tesa a giustificare un tipo di società aristocratica e classista, fondata su di una rigida divisione del lavoro. In genere, i critici marxisti odierni tendono a guardare con simpatia la Repubblica per i suoi aspetti comunitari ed anti-individualistici, ossia per il concetto di una preminenza del bene collettivo su quello personale. Altri hanno letto la Repubblica da "destra", vedendo in essa il modello di un totalitarismo politico fondato su dottrine analoghe a quelle del nazismo: ad esempio lo statalismo, la struttura gerarchica della società, il culto dei capi, la purezza del sangue e della razza ecc. Il fatto che molti ufficiali nazisti portassero la Repubblica nello zaino, risulta, a questo proposito, estremamente significativo e manifesta il successo del tentativo nazista di "recuperare" propagandisticamente Platone alle proprie idee. Gli stessi motivi che hanno portato i nazisti a esaltare la Repubblica ha condotto taluni filosofi inglesi ed americani a vedere in essa lo schema di ogni società totalitaria ed assolutistica. Il noto filosofo della scienza Karl Popper, nell'opera La società aperta e i suoi nemici (1945), ha considerato Platone come il primo e maggiore teorico di una società "chiusa" opposta ad una società "aperta" di tipo liberal-democratico, scorgendo nella Repubblica (e poi nelle Leggi) il paradigma di un regime autoritario e dispotico, fondato sulla premessa di una verità assoluta che viene imposta con la forza anche a coloro che non intendono riconoscerla: ossia una forma di assolutismo politico che discende logicamente dall'assolutismo dottrinale del filosofo delle "idee". Muovendosi in prospettiva analoga, Bertrand Russell, in uno dei Saggi impopolari (1950), è giunto a considerare come un autentico "scandalo" l'ammirazione intellettuale che l'opera di Platone ha sempre riscosso. A questo filone interpretativo - giudicato interessante per la denuncía dei pericoli insiti nell'assolutismo e nello statalismo platonico, ma troppo estremistico e prevenuto - la critica più recente ha contrapposto l'esigenza di una considerazione più obbiettiva e più attenta ai possibili aspetti positivi del capolavoro platonico. Questo intrecciarsi di interpretazioni e la presenza di un dibattito tuttora "aperto" mostra chiaramente come la Repubblica, pur essendo storicamente "datata" - e ciò non bisognerebbe mai dimenticarlo, per evitare arbitrarie esaltazioni o denigrazioni di parte - contenga in sé spunti di riflessione e di dialogo per la filosofia politica di tutti i tempi e per ogni individuo che torni ad interrogarsi sui massimi problemi dello Stato e di

una "giusta" comunità





Terzo periodo: revisione e approfondimento del sistema.


Il rapporto fra le idee e la ridefinizione dell'essere.


I problemi dell'ultimo Platone.



Nei grandi dialoghi della vecchiaia, che nel loro insieme costituiscono la terza fase del pensiero platonico, abbiamo un ulteriore approfondimento delle teorie del filosofo, che rivedendo le proprie dottrine perviene ad esiti in parte nuovi (questa capacità di mettersi continuamente in discussione e di ritornare sempre sui propri passi - che in quest'ultimo periodo appare ancor più accentuato rispetto ai precedenti - rappresenta, come già sappiamo, la più tipica eredità socratica del platonismo).

I problemi cruciali che si impongono al vecchio Platone, e che nascono in parte dall'esigenza di mitigare il rigido dualismo fra il mondo immutabile delle idee ed il mondo mutevole delle cose, sono fondamentalmente due:


1) come dev'essere adeguatamente pensato il mondo delle idee?


2) Come va convenientemente concepito il rapporto fra le idee e le realtà naturali? Alla prima questione risponde soprattutto il Sofista, alla seconda, come vedremo, soprattutto il Timeo.





Il confronto con Parmenide.


La tematica del Sofista è, sotto certi aspetti, preparata dal Parmenide e dal Teeteto. Nel Parmenide (che è forse il dialogo più difficile di Platone) il filosofo si interroga autocriticamente sulla consistenza della teoria delle idee, rivolgendo ad essa, per bocca di Parmenide, alcune difficoltà. Posto che l'uno è l'idea e i molti gli oggetti di cui l'idea è l'unità, non si capisce ad esempio come l'idea possa essere partecipata da più oggetti o diffusa in essi senza che risulti con ciò moltiplicata e quindi distrutta nella sua unità. Inoltre, dalla stessa nozione di idea sembra scaturire la moltiplicazione all'infinito delle idee stesse: giacché se si ha un'idea ogni qual volta si considera nella sua unità una molteplicità di oggetti, si avrà un'idea anche quando si considererà la totalità di questi oggetti più la loro idea. Questa sarà una terza idea che, se considerata a sua volta assieme agli oggetti e alla precedente idea, darà luogo ad una quarta idea; e così via all'infinito. È questo l'argomento cosiddetto del "terzo uomo", di cui si attribuiva l'invenzione al megarico Polisseno e a cui accenna varie volte Aristotele. Ma il problemajondamentale che comincia ad emergere dal Parmenide e che nel Sofista trova il suo schema di soluzione è il confronto-scontro con la logica parmenidea. Come già sappiamo, la tesi fondamentale dell'eleatismo, che costituiva pure il suo punto di forza concettuale, è il principio per cui "solo l'essere è, mentre il non-essere non è". Pur riconoscendo in Parmenide un "maestro terribile e venerando", Platone si rende conto che questa affermazione, presa alla lettera, rappresenterebbe un vero suicidio della teoria delle idee. Infatti, l'inesistenza assoluta di ogni forma di non-essere pregiudicherebbe inevitabilmente la molteplicità delle idee e i loro rapporti reciproci, poiché ogni idea, non essendo l'altra implicherebbe, dal punto di vista parmenideo, l'illogica ammissione del non-essere. Tant'è vero che Parmenide, com'è noto, aveva concluso che l'Essere è unico. Nonostante tutti questi ostacoli, Platone, nel Parmenide, manifesta di non voler rinunciare alla teoria delle "forme ideali", in quanto ribadisce che senza le idee, ossia senza un punto fermo nella molteplicità delle cose, non si potrebbe neppure pensare e filosofare. Difatti nel Teeteto, in cui Platone si sposta sul terreno della conoscenza, soffermandosi criticamente sul relativismo gnoseologico dei Sofisti, si dimostra indirettamente come sia impossibile raggiungere una definizione adeguata della scienza rimanendo nel dominio della soggettività umana e delle mutevoli opinioni dell'individuo, senza rifarsi quindi alle idee. Ma se non è possibile rinunciare alle idee non rimane che rinunciare al principio eleatico. Ed è quanto Platone fa nel Sofista, in cui avviene appunto quello scontro decisivo con l'antico maestro, che si conclude con un vero e proprio "parmenicidio".





I "generi" dell'essere. 


Per spiegare come possano esistere più idee e come esse possano comunicare fra di loro, Platone elabora la cosiddetta teoria dei "generi sommi", cioè degli attributi fondamentali delle idee, che per il filosofo sono cinque: l'essere, l'identico, il diverso, la quiete e il movimento. Innanzitutto ogni idea è o esiste, e quindi rientra nel genere dell'essere. In secondo luogo, ogni idea è identica a se stessa e quindi rientra nel genere dell'identico. Essere ed essere identico sono dunque due generi differenti e non coincidenti fra loro. Infatti tutte le idee, pur esistendo, non per questo sono identiche, altrimenti si avrebbe la fusione di tutte quante le idee in un'unica idea. Se ogni idea è identica a sé, ma distinta dalle altre, significa che essa è diversa da loro, per cui ogni idea rientra anche nel genere del diverso. Qui siamo al momento culminante della critica a Parmenide. L'errore di fondo del filosofo di Elea, secondo Platone, è stato quello di confondere il diverso con il nulla. Infatti, quando discorriamo della molteplicità delle cose ed usiamo la paroletta "non", sostenendo ad esempio che A non è B, non intendiamo alludere al niente assoluto, che per l'appunto non esiste, ma soltanto a ciò che è diverso dall'essere ossia al niente relativo. In altre parole, l'unico modo in cui può esistere il non-essere è il diverso, che però, in quanto tale, non è il nulla assoluto, "partecipando" anch'esso dell'essere. In tal modo, attribuendo una qualche forma di essere al non-essere, Platone si è definitivamente sbarazzato del "fantasma" del nulla, infrangendo il divieto parmenideo di parlare del non-essere e quindi della molteplicità. Con questa sottile dottrina (che trova consenzienti anche logici e filosofi della scienza odierni) il filosofo può anche superare il problema dell'errore. Gli eristi, cercando di "sofisticare" anche tale questione, avevano affermato che l'errore non può esistere, in quanto esso implicherebbe un dire "il nulla", che per l'appunto, come insegna Parmenide, non è. Platone ribatte che l'errore non consiste nel pronunciare il nulla, ma semplicemente nel dire le cose in modo diverso da come esse effettivamente stanno (lo sbaglio di chi sostiene ad esempio che un libro di filosofia è un libro di matematica risiede appunto nel fatto che il primo testo è diverso dall'altro). Giustificata in tal modo la pluralità delle idee, ai tre generi sommi già considerati - l'essere, l'identico e il diverso - Platone aggiunge i due generi della quiete del moto. Infatti ogni idea può starsene in sé (= quiete) oppure entrare in. un rapporto di comunicazione con le altre (= movimento).




La nozione generale di "essere".


Questa determinazione delle cinque forme (o generi) dell'essere si accompagna al tentativo platonico di giungere ad una ridefinizione del concetto di essere. Che cos'è l'essere? Taluni, i materialisti, lo riducono a corporeità, altri (= Platone stesso nella seconda fase del suo pensiero) lo identificano con le idee. In realtà, secondo il Platone del Sofista, materialità ed immaterialità non possono entrare nella definizione dell'essere, poiché "sono" sia le cose corporee sia le entità incorporee (ad esempio la virtù). Di conseguenza, Platone ricerca una definizione ancor più generale ed universale dell'essere, pervenendo alla tesi secondo cui l'essere è possibilità: "è qualunque cosa si trovi in possesso di una qualsiasi possibilità o di agire o di subire, da parte di qualche altra cosa, anche insignificante, un'azione anche minima e anche solo per una sola volta" (Sofista, 247 c).

Per capire questa affermazione, che a tutta prima può sembrare un po'ostica, bisogna rendersi conto che Platone sottintende qui il concetto di relazione: la sua formula significa che esiste tutto ciò che è capace di entrare in un campo di relazione qualsiasi, cioè in una rete di connessioni possibili. La controprova di ciò risiede nel fatto che il nulla, il quale non può entrare in rapporto con qualcosa, risulta inesistente per definizione. Questa dottrina dell'essere in termini di possibilità-relazione, che Platone, nella sua vecchiaia, ha ritenuto la più precisa e meglio fondata di tutte le definizioni possibili dell'essere, si applica, come i cinque generi sommi, non soltanto alle idee di cui parlava il Platone della maturità, ma anche alle cose naturali e all'uomo: sicché si può dire che quest'ultima fase della filosofia platonica costituisca una generalizzazione rispetto alla prima e costituisca il vero antecedente dell'ontologia aristotelica, che, come vedremo, indagherà i caratteri formali comuni ad ogni tipo di essere.




La dialettica.

Se l'essere e il mondo delle idee costituiscono un tessuto di rapporti possibili, la suprema scienza delle idee, che Platone chiama "dialettica", consisterà nello stabilire la mappa di queste relazioni, cioè nel determinare quali idee si connettono e quali no, precisando i vari modi che possono unire un'idea ad un'altra. Nella Repubblica la dialettica viene genericamente definita come la scienza delle idee-valori. Nel Fedro essa viene presentata come la tecnica stessa del discorso filosofico (il termine dialettica allude appunto all'arte del dialogo) il quale si svolge attraverso due momenti:

1) determinazione e definizione di una certa idea;

2) divisione dell'idea nelle sue varie articolazioni interne.


Ma è solo nel Sofista (e nel Politico) che abbiamo l'organica messa a punto del procedimento dialettico nelle sue caratteristiche salienti. L'arte dialettica parte dal presupposto della possibile comunicazione fra le idee. Infatti se tutte le idee comunicassero tra di loro (come volevano gli eristi) ogni discorso sarebbe vero e non avrebbe più senso la fatica della dialettica, volta a fissare quali idee comunichino e quali no, e quindi quali discorsi siano veri e quali falsi. Se nessuna idea comunicasse con le altre (come volevano i Cinici) non sarebbe' possibile alcun discorso, se non quello tautologico del tipo "l'uomo è uomo". Scartate le tesi universali "tutte le idee sono combinabili con tutte le idee" e "tutte le idee non sono combinabili con tutte le idee", resta soltanto la tesi intermedia particolare "alcune idee sono combinabili fra di loro ed altre non lo sono". Su quest'ultima tesi si radica la dialettica. Infatti, pensare dialetticamente non può voler dire che unificare e distinguere determinate idee rispetto ad altre determinate idee. In sintesi, la tecnica dialettica consisterà nel definire un'idea mediante successive identificazioni e diversificazioni, attraverso un processo di tipo "dicotomico", che avanza dividendo per due un'idea, sino a giungere ad un'idea indivisibile. Un esempio servirà a chiarire meglio tale concetto. Supponiamo si voglia definire la nozione di filosofia. Come primo passo, si potrà scegliere di identificare la filosofia con un'attività. Ma le attività, possono essere intellettuali o manuali. Come secondo passo, identificheremo quindi la filosofia con un'attività intellettuale e la diversificheremo da un'attività manuale. Ma le attività intellettuali possono avere per oggetto le idee o le cose fisiche. Come terzo passo, identificheremo la filosofia con un'attività intellettuale avente come oggetto le idee, diversificandola da un'attività intellettuale avente come oggetto le cose fisiche. Ma le idee possono essere idee-valori o idee-matematiche. Come quarto passo, identificheremo la filosofia con un'attività intellettuale avente come oggetto le idee-valori e la diversificheremo da un'attività intellettuale avente come oggetto le idee-matematiche. Sommando tutte le identificazioni e scartando tutte le diversificazioni avremo quindi ottenuto la definizione globale dell'idea considerata, capace di "stringere" davvero il concetto di filosofia. Il processo dicotomico ci ha quindi portati, attraverso successive divisioni, ad un'idea "indivisibile" che ci fornisce la definizione "specifica" di ciò che cercavamo. Ovviamente la definizione proposta non è l'unica possibile, perché scegliendo altre identificazioni iniziali potremmo costruire altre mappe dicotomiche (ad es. identificando la filosofia con un esercizio, potremo distinguere fra esercizi fisici ed esercizi dell'anima ecc., seguendo una diversa ramificazione dicotomica). Sommando le varie definizioni ottenute avremo quindi raggiunto una miglior comprensione dell'idea studiata. Nella dialettica platonica si è visto talora un'anticipazione grezza della tecnica definitoria proposta da Aristotele nella sua Logica. In realtà, la dialettica di Platone presenta caratteri specifici che la distinguono nettamente dal procedimento dimostrativo di Aristotele perché 1) si costituisce su base ipotetica in quanto sceglie una definizione di partenza e poi la mette a prova vedendo se essa è veramente capace di stringere ciò di cui si parla; 2) perché tende a strutturarsi come una ricerca inesauribile e sempre aperta a nuove acquisizioni.  



Il bene per l'uomo: il Filebo.


Nella Repubblica Platone aveva concepito il bene come l'oggetto supremo del pensiero. L'aveva posto al sommo della gerarchia delle idee e l'aveva paragonato al Sole in quanto fa sussistere e rende conoscibili le idee al modo in cui il Sole fa sussistere e rende visibili le cose naturali. Ma questa natura puramente oggettiva del bene non può essere mantenuta ora che Platone ha riconosciuto che lo stesso mondo dell'essere include la soggettività. Platone deve riproporsi il problema del bene; e se lo propone infatti nel Filebo delimitandolo chiaramente: qui egli intende stabilire che cosa è il bene per l'uomo. Evidentemente il bene per l'uomo è una forma di vita, anzi la forma di vita propriamente umana. Ma una vita propriamente umana non è né una vita animale né una vita divina. Una vita puramente animale sarebbe quella fondata esclusivamente sul piacere. La vita umana come tale sarà una vita mista, di piacere e di intelligenza; e tutto sta a rendersi conto della misura, cioè della giusta proporzione, in cui il piacere e l'intelligenza devono mescolarsi insieme per costituire la vita propriamente umana. L'indagine morale di Platone si trasforma così in una indagine metafisica a sfondo matematico, giacché deve risolvere un problema di misura. Platone ricorre ai concetti pitagorici del limite e dell'illimitato. Il piacere è un illimitato (può essere infatti aumentato o diminuito indefinitamente). Bisogna imporre un ordine, una misura al piacere e questa è la funzione del limite. L'illimitato che mediante il limite acquista un ordine o una misura diventa qualcosa di armonico, di proporzionato, un numero. Ma chi impone il limite è l'intelligenza la quale trasforma ciò che è illimitato in un ordine e in una proporzione numerica. Della vita dell'uomo deve dunque far parte l'intelligenza, che sarà la causa dell'ordine e della misura; ma anche il piacere che dovrà essere disciplinato e proporzionato con un limite. Platone ritiene che tutta la vita dell'intelligenza, tutte le forme di conoscenza, da quella più alta a quella più bassa, devono entrare a far parte della vita umana. Per questo non basta la scienza dell'essere in sé; occorre che questa scienza sia fatta servire per le necessità dell'uomo e bisogna quindi ricorrere anche all'opinione. Quanto ai piaceri, devono entrare a far parte della vita umana solo i piaceri puri, quelli che non dipendono dall'appagamento di un bisogno, ma sono dovuti alla contemplazione delle belle forme, dei bei colori, ecc. La gerarchia dei valori viene allora ad essere stabilita da Platone nel modo seguente. Al primo posto c'è l'ordine, la misura, il giusto mezzo. Al secondo posto, ciò che è proporzionato, bello e compiuto. Al terzo posto, l'intelligenza come causa della proporzione e della bellezza. Al quarto posto, la scienza e l'opinione. Al quinto, i piaceri puri. Tale è per l'uomo la tavola dei valori. Il tentativo iniziato da Socrate di fare della virtù una scienza, si conclude in Platone con questa riduzione della virtù a una scienza della misura. Un aneddoto racconta che gli ascoltatori di Platone, negli ultimi tempi rimanevano delusi quando, avendo egli annunziato di parlare del bene, lo ascoltavano dissertare intorno al numero e alla misura. Ma questo era l'ultimo risultato della riduzione socratica della virtù al sapere, giacché solo sulla via della misura e del numero sì poteva, secondo Platone, ridurre la condotta dell'uomo al rigore della scienza.





Il Timeo e la dottrina delle idee-numeri.


a) Il mito del Demiurgo.


Come abbiamo visto, in quest'ultimo periodo del filosofare platonico troviamo il tentativo di sciogliere il rigido dualismo fra il mondo delle idee ed il mondo delle cose alla luce di una considerazione più unitaria della realtà. Il risultato di questo processo è il Timeo, in cui viene approfondito il problema cosmologico dell'origine e della formazione dell'Universo. Certamente, il mondo naturale, anche per l'ultimo Platone, non ha la saldezza e la stabilità delle idee e non può dunque essere oggetto di scienza nel senso rigoroso del termine. Tuttavia su di esso, ossia "su quello che nasce e che muore e si apprende con opinione", si può almeno formulare, anche con l'aiuto del mito, un discorso verosimile e probabile. Sforzandosi di capire meglio il rapporto fra le idee e le cose, Platone introduce innanzitutto un terzo termine mediatore: il Demiurgo. Figura-limite fra il mito e la filosofia, il Demiurgo viene presentato da Platone come una sorta di "divino Artefice", dotato di intelligenza e di volontà, che si trova in una posizione intermedia fra le idee e le cose. All'inizio, il mondo era solo un caos informe o una materia spaziale priva di vita, che Platone chiama chora o Necessità. Il Demiurgo, essendo buono ed amante del Bene, ha voluto ordinare le cose del mondo ad "immagine e somiglianza" delle idee, comunicando loro una parte di perfezione dei modelli iperuranici (come si può notare, il Demiurgo non è un creatore della realtà dal nulla, ma il semplice "plasmatore" di una materia preesistente, coeterna alle idee). In vista dei suoi "nobili scopi", il Demiurgo ha fornito le cose di un'Anima del mondo, che vivifica ed ordina la materia, dando forma all'informe e trasformando l'universo in un immenso organismo vivente, in cui si riflette l'armonia- delle idee. Per rendere questo mondo ancora più simile al suo modello ideale, che è eterno, il Demiurgo ha generato il tempo, che Platone definisce suggestivamente "immagine mobile dell'eternità", intendendo dire, con tale espressione, che il tempo, con il suo succedersi ordinato di giorni, notti, mesi ed anni, riproduce, nella forma del mutamento, l'ordine immutabile dell'eternità. Il tempo è misurato dal movimento degli astri, attraverso i quali si incarna la volontà del Demiurgo, che si serve di essi per formare e governare la scala gerarchica degli enti (da ciò la grande importanza che l'astronomia comincia ad acquistare agli occhi di Platone). L'opera del Demiurgo, nonostante la sua buona volontà, è limitata dalla resistenza "ribelle" della materia, cui Platone tende ad attribuire le imperfezioni e i mali del nostro mondo. Infatti, per il Timeo, tutto ciò che esiste di positivo e di armonico è dovuto al Demiurgo, all'Intelligenza e alle idee, mentre tutto ciò che esiste di negativo e di disarmonico è dovuto alla materia e alla necessità (come si vede, troviamo qui un primo abbozzo di soluzione del problema metafisico del male nel mondo, su cui tornerà ad affaticarsi soprattutto la filosofia cristiana).




b) La visione matematica delle cose.


La novità più rilevante del Timeo consiste nell'avvicinamento al pitagorismo. Infatti, la struttura del cosmo formato dal Demiurgo risulta esplicitamente di tipo matematico: le cose sono ridotte ai quattro elementi empedoclei (terra, acqua, aria e fuoco), che vengono ridotti a loro volta a poche figure geometriche essenziali, che sono a loro volta ridotte a numeri. Di conseguenza, il platonismo del Timeo giunge ad interpretare i numeri come schemi strutturali delle cose e a fare della matematica la "sintassi del mondo", cioè il codice di interpretazione di tutto ciò che esiste. Come vedremo nel paragrafo di fine capitolo, dedicato all'Antica Accademia, questa tendenziale risoluzione del platonismo nel pitagorismo, o meglio questa rielaborazione platonica del pitagorismo, appare ulteriormente accentuata negli ultimi anni della vita del filosofo. Secondo un'esplicita testimonianza di Aristotele, sembra infatti che Platone, alla fine dei suoi giorni, nelle cosiddette "dottrine non scritte" abbia finito per interpretare il mondo delle idee come un mondo di numeri (distinti da quelli della matematica), cercando di spiegare tutto alla luce di quella triade pitagorizzante - "limite", "illimitato", "medietà" - cui abbiamo già accennato parlando del Filebo. L'accostamento platonico al mondo naturale attuato dal Timeo non implica, come si può vedere, un suo avvicinamento alle ricerche dei naturalisti greci precedenti. Anzi, questi ultimi, e Democrito in particolare, vengono combattuti proprio in ciò che per noi moderni hanno di più scientifico, cioè per il loro spiegare tutto in termini naturalistici e meccanicistici. Pur non negando le cause meccaniche, Platone le subordina totalmente alle cause finali, elaborando un suo modello di spiegazione della natura basato sulle nozioni di "scopo" e di "Bene", ben lontano dallo sforzo atomistico di "disantropomorfizzare" la scienza fisica.


c) La concezione della storia.


Per quanto riguarda l'interpretazione della storia (di cui si parla nel dialogo successivo, il Crizia) Platone torna a recuperare una concezione della storia come regresso da una mitica età primordiale, affermando che la felicità risiede prima della fondazione della civiltà e non dopo di essa - ritornando in tal modo a quell'immagine mitìca del passato da cui i Sofisti e Dernocrito avevano faticosamente cercato di liberarsi.





d) Il Timeo nella storia del pensiero filosofico e scientifico


Il destino del Timeo è veramente singolare. Presentato da Platone come frutto di conoscenza verosimile e probabile è divenuto, per una serie di circostanze, l'opera platonica che ha influito maggiormente sulla filosofia e sulla scienza posteriore. Fra i pochissimi dialoghi platonici noti nel Medioevo - senz'altro il più letto e studiato dell'epoca - esso ha improntato di sé una tradizione plurisecolare. Sul piano filosofico e metafisico la rilevanza del Timeo consiste nell'aver diffuso il concetto di una Mente intelligente ed ordinatrice del mondo, che rappresenterà lo schema di fondo con cui molti filosofi successivi e l'intero Cristianesimo spiegheranno la realtà. Tant'è vero che il Demiurgo sarà una delle "figure" più celebri della filosofia platonica e verrà sostanzialmente assimilata al Dio creatore della Bibbia. In tal modo, Platone ha finito per incarnare la più decisiva antitesi ad ogni forma di naturalismo e di materialismo e per radicare nelle menti una visione finalistico-religiosa che è penetrata nell'inconscio collettivo e nella mentalità comune. La stessa idea-chiave, tipica della tradizione occidentale, secondo cui l'essere è qualcosa di buono e di razionale, con il conseguente ottimismo metafisico, è una eredità del Timeo. Sul piano della storia del pensiero scientifico il Timeo è importante perché esso, in virtù della gran massa di notizie fisiche, astronomiche, matematiche, fisiologiche, mediche ecc., è stato, per molti secoli un'autentica miniera di informazioni sulle conoscenze scientifiche deIl'antichità, rappresentando uno dei principali punti di riferimento della scienza medioevale. Ma la rilevanza della cosmologia matematizzante del Timeo sta soprattutto nell'aver mantenuto viva, attraverso i tempi, l'idea pitagorica secondo cui la matematica costituisce la chiave interpretativa della natura. Come vedremo, tale nozione starà alla base della nascita della scienza moderna e Copernico, Keplero, Galileo ne saranno gli eredi. Ciò ha portato taluni studiosi ad ingrandire l'importanza di Platone per la scienza occidentale. I)n realtà, per essere obbiettivi e storicamente veritieri è bene tener presenti le seguenti considerazioni:

1) fermo restando che Platone ha il merito, per la storia della scienza, di aver difeso l'idea pitagorica dello studio aritmetico-geometrico della realtà, la sua matematica a sfondo metafisico risulta ìnequivocabilmente lontana dalla matematica scientifica di Galileo;

2) il tentativo platonico di spiegare finalisticamente la realtà mediante le nozioni di scopo, anima e valori morali, mettendo a tacere per sempre il meccanicismo democriteo, ha contribuito a ritardare nel tempo la nascita della scienza: "da questo punto di vista l'antagonismo PlatoneDemocrito (e in seguito Platone-Epicuro) assume il carattere di un vero dramma del pensiero umano. Su di esso si innesterà, come vedremo, la fisica aristotelica, con schemi diversi da quella platonica, ma animata dal medesimo odio contro ogni spiegazione puramente meccanicistica. Occorreranno tutte le lotte del XVI e XVII secolo... per dare la definitiva vittoria alla mentalità democrìtea". Ciò significa che la scienza moderna, se per certi versi nascerà da eredità platoniche, per altri versi nascerà e si svilupperà da presupposti anti-platonici.







Il problema politico come problema delle leggi.


a) Le leggi.


L'ultima attività di Platone è ancora dedicata al problema politico. Nel Politico, Platone ricerca quale deve essere l'arte propria del reggitore dei popoli. E la conclusione è che questa arte deve essere quella della misura: in ogni cosa difatti bisogna evitare l'eccesso o il difetto e trovare il giusto mezzo. Tutta la scienza dell'uomo politico consisterà essenzialmente nel cercare il giusto mezzo, ciò che è in ogni caso opportuno o doveroso nelle azioni umane. L'azione politica deve "tessere insieme" nell'interesse dello stato le due indoli opposte degli uomini coraggiosi e dei prudenti, in modo che vengano contemperate in giusta misura nello stato la prontezza d'azione e la saggezza di giudizio. La cosa migliore sarebbe che l'uomo politico non ponesse leggi giacché la legge, essendo generale, non può prescrivere con precisione ciò che è bene per ognuno. Le leggi sono tuttavia necessarie per l'impossibilità di dare prescrizioni precise ad ogni singolo individuo; ed esse si limitano quindi ad indicare ciò che genericamente è il meglio per tutti. Tuttavia una volta che siano stabilite nel modo migliore, vanno conservate e rispettate e la loro rovina implica la rovina dello stato. Delle tre forme di governo storicamente esistenti, monarchia, aristocrazia e democrazia, ciascuna si distingue dalla corrispondente forma deteriore proprio per l'osservanza delle leggi. Così il governo di uno solo è monarchia se è retto dalle leggi; è tirannide se è senza leggi. Il governo dei pochi è aristocrazia quando è governato da leggi, oligarchia quando è senza leggi e la democrazia può essere retta da leggi o governata contro le leggi. Il miglior governo, prescindendo da quello perfetto delineato nella Repubblica, è quello monarchico, il peggiore è quello tirannico. Tra i governi disordinati (cioè privi di leggi) il migliore è la democrazia. In tal modo il problema politico, che nella Repubblica era stato considerato come il problema di una comunità umana perfetta, quindi nel suo aspetto morale, acquista un carattere più determinato e specifico nell'ultima fase della speculazione platonica; e diventa il problema delle leggi che devono governare gli uomini e indirizzarli gradualmente a diventare cittadini di quella comunità ideale. Al problema delle leggi è infatti dedicata l'ultima opera platonica, che è anche la più estesa di tutte,

il dialogo in 12 libri intitolato Le Leggi, pubblicato da Filippo di Opunte dopo la morte del maestro. Platone è ormai più vivamente consapevole della "debolezza della natura umana" e perciò ritiene indispensabile che anche in uno stato bene ordinato vi siano leggi e sanzioni penali. Ma la legge deve conservare la sua funzione educativa; non deve solo comandare, ma anche convincere e persuadere della propria bontà e necessità: ogni legge deve quindi avere un preludio insegnativo, simile a quello che si premette alla musica e al canto. Quanto alla punizione, poiché nessuno accoglie volentieri nell'anima l'ingiustizia che è il peggiore di tutti i mali, essa non deve essere una vendetta, ma solo correggere il colpevole spingendolo a liberarsi dell'ingiustila e ad amare la giustizia. Da ciò risulta che il fine delle leggi è quello di promuovere nei cittadini la virtù che, come già Socrate insegnava, si identifica con la felicità. Ed esse non devono promuovere una sola virtù, per esempio, il coraggio guerriero, ma tutte, perché tutte sono necessarie alla vita dello stato; e perciò devono tendere all'educazione dei cittadini, intendendo per educazione "l'indirizzare l'uomo sin dai teneri anni alla virtù, rendendolo amante e desideroso di divenire cittadino perfetto che sa comandare e ubbidire secondo giustizia". Ma questa educazione ha come suo fondamento la religione.



b) La religione e la teologia astrale.


Platone considera la religione come un incentivo al rispetto della virtù e delle leggi e quindi solido fondamento di coesione sociale e di stabilità politica. Di conseguenza, in questo dialogo, la religione trova un vistoso riconoscimento e tende ad assumere un posto-chiave nella vita e nel pensiero dell'uomo. Tant'è vero che Platone ritenendo l'ateismo cancro di ogni comunità politica, propone l'esilio e la pena di morte per chi non riconosca la Divinità. La Religione di Stato delle Leggi, tuttavia, è ben diversa dalla religione tradizionale (che viene combattuta), poiché costituisce una sorta di religione a sfondo cosmico, che, sulla scia del Timeo, vede la Divinità concretizzata nell'ordine e negli astri dei cieli. Da ciò l'accresciuta importanza dell'astronomia, che diviene sforzo di comprensione degli scopi divini attraverso lo studio dei moti astrali, da cui tutto dipende (teologia astrale). Contro i fisici e contro Democrito, che facendosi portatori di una nuova razionalità scientifica avevano riconosciuto la sostanziale omogeneità del mondo terrestre e di quello celeste, Platone torna in tal modo a recuperare l'antico pensiero mitico, che vedeva negli astri delle divinità: "noi ora dobbiamo accusare le opere dei nostri moderni sapienti, in quanto sono causa di mali. L questo dunque ciò che fanno i discorsi di uomini come costoro: quando tu ed io portiamo le prove dell'esistenza degli dèi, e proponiamo proprio cose come queste, il sole, la luna, le stelle, la terra come dèi e cose divine esistenti, allora coloro che si sono lasciati convincere da questi uomini sapienti direbbero che tutte queste cose non sono altro che terra e pietra, incapaci di pensare nessuna delle cose umane ... " (Leggi, 886 d-c). Come si può notare dal finale di questo passo, la regressione platonica verso il mito la si può adeguatamente comprendere solo in relazione al suo tentativo di dare una fondazione cosmica all'etica, e alla politica. Infatti, se la realtà è solo materia e caso, appare impossibile, dal punto di vista di Platone, derivarvi una solida proposta politica. Invece, se si interpreta il mondo come un organismo razionale e retto da leggi divine, lo stato degli uomini potrà agevolmente essere concepito come riflesso e impegno di realizzazione di tale ordine. Tant'è vero che la teologia astrale, cioè la sapienza religioso-filosofica sull'ordine divino e provvidenziale del mondo, che prende corpo nei moti astrali, tende a sostituirsi alla dialettica e a tradursi in una nuova filosofia politica incentrata sul pensiero-programma di portare, nella tormentata e violenta città degli uomini, la misura e l'armonia dei cieli.



c) Differenze e analogiefra la Repubblica e le Leggi.


Nei confronti della struttura statale della Repubblica, nelle Leggi abbiamo talune novità, che discendono, in parte, dalla consapevolezza che il precedente stato ideale forse è possibile "solo a dèi o discendenti di dèi". Ad esempio non esiste più la rigorosa tripartizione delle classi; i filosofi non sono più reggitori; i guerrieri sono sostituiti dalla vecchia milizia cittadina; il governo proposto è una forma mista di aristocrazia e democrazia; viene di nuovo ammessa la famiglia e il matrimonio viene incoraggiato (al punto da prevedere una multa per i celibi di étà superiore ai 35 anni); viene reintrodotta, sia pure in misura ristretta e sotto controllo statale, la proprietà privata. La comunità platonica continua dunque ad essere, come già nella Repubblica, una forma di statalismo che non lascia spazio consistente all'iniziativa del singolo o delle famiglie, per cui la distanza fra la Repubblica e le Leggi, sotto questo aspetto, risulta meno grande di quanto si sia tradizionalmente affermato. Una delle parti più interessanti del dialogo è quella riguardante l'educazione, che viene totalmente gestita e sorvegliata dallo Stato. Ma l'istituzione più caratteristica delle Leggi è forse il "Consiglio notturno", che sostituisce i filosofi-re e assume il compito di supervisore generale della vita collettiva e di severo garante dell'osservanza delle leggi, della religione e dei costumi. Su quest'opera la critica attuale appare divisa: mentre qualcuno vede in essa l'estrema fedeltà di Platone all'idea di uno Stato portatore di interessi sovra-individuali, e quindi considera le Leggi come un coerente testamento filosofico, altri vi scorgono una marcata involuzione in senso autoritario e conservatore. Tant'è vero che taluno è giunto a parlare di "lugubre Stato teocratico e repressivo" o di "una società in cui Socrate non sarebbe stato felice di vivere".



Platone nella storia


Platone è certamente uno dei filosofi più conosciuti ed amati dell'Occidente e uno dei pensatori che hanno maggiormente influito sulla nostra cultura. Tant'è vero che il filosofo esistenzialista novecentesco Karl Jaspers, orecchiando analoghi giudizi, è giunto a sostenere che la storia della filosofia l'ha scritta Platone, mentre quelli che sono venuti dopo di lui hanno aggiunto solo qualche postilla. Questa tesi è certamente eccessiva, ma il fatto che-sia stata proclamata è rivelativa dell'innegabile peso storico di questo filosofo. Di conseguenza, determinare le varie influenze, o specificare i vari modi con cui Platone è stato letto, risulta impresa ardua, e, in questa sede, impossibile. Del resto ad alcune delle principali influenze - filosofiche, politiche o scientifiche abbiamo già accennato. Altre verranno rilevate ed approfondite proseguendo nell'esposizione della materia. Qui ci limitiamo ad una sintetica storia della "presenza" di Platone nei secoli, mettendo in luce, a grandi linee, l'atteggiamento generale che le varie epoche hanno assunto nei suoi confronti. Nel mondo greco, Platone è stato il filosofo con cui si sono misurati i pensatori più noti. Aristotele riterrà di averlo superato ed inverato al tempo stesso, mentre Plotino, il fondatore del neoplatonismo del ni secolo, rifacendosi esplicitamente a Platone, interpreterà il suo pensiero in chiave fortemente religiosa, fornendone un modello di lettura che durerà secoli e che agli occhi degli studiosi contribuirà a fare di Platone e del neoplatonismo quasi una stessa cosa. L'interpretazione di Plotino preparerà la piena utilizzazione cristiana di Platone. Infatti, quando il Cristianesimo si sforzerà di darsi una filosofia, ricorrerà proprio al filosofo delle idee, riconoscendolo, per bocca dei Padri della Chiesa, come il pensatore che più di ogni altro si è avvicinato al messaggio cristiano (S. Agostino), rappresentando una sorta di "Mosè attico" illuminato inconsapevolmente dalla grazia (Clemente Alessandrino). Di conseguenza la filosofia cristiano-medioevale, la cosiddetta "Scolastica", scorgerà in Platone il pensatore religioso per eccellenza, che ha distinto fra il mondo dell'al di là e il mondo dell'al di qua, contrapponendo l'immutabile e l'eterno al mutevole e al perituro. Con la "scoperta" di Aristotele, nel XIII secolo, Platone vedrà diminuire la sua fortuna a favore del grande discepolo, anche se quest'ultimo sarà ancora letto in chiave platonico-neoplatonica. Verso la fine del XIV secolo, con l'Umanesimo italiano, che esalterà Platone in funzione antiaristotelica, celebrandone il filosofare aperto e problematico, si assisterà ad una rinnovata fortuna del platonismo. Se fino alla metà del Quattrocento dominerà il Platone politico e morale, in seguito prevarrà soprattutto il Platone metafisico e religioso, sostenitore della presenza del divino nel mondo e nell'uomo. A Platone come filosofo della interpretazione matematica della natura si rifaranno pure, come già sappiamo, i protagonisti della rivoluzione scientifica moderna, da Copernico a Galileo. Nel secolo XVIIi si avrà la cosiddetta "Scuola di Cambridge", che sosterrà l'innatismo a proposito delle verità matematiche e dei principi morali. La grande frattura della tradizione platonica si avrà invece, fra il XVII e XVIII secolo, con l'affermazione dell'empirismo e dell'Illuminismo, cioè di correnti di pensiero che privilegiando l'esperienza e la razionalità critica, risulteranno tendenzialmente avverse al discorso metafisico e religioso del filosofo delle "idee". Dopo l'Illuminismo, che segnerà un certo "oblio" di Platone, il filosofo tornerà a godere di maggior considerazione. Da un lato - a partire da Schleiermacher, che all'inizio dell'Ottocento tradurrà tutti i dialoghi platonici - si darà inizio ad una lettura più filologica e scientifica della sua opera, la quale sarà definitivamente liberata dalle secolari incrostazioni interpretative che l'avevano sempre confusa con il neoplatonismo. D'altro lato, pur essendo sparito il "platonismo" come corrente filosofica specifica, Platone, divenuto ormai un "classico" del pensiero, continuerà ad ispirare filosofi e correnti disparate. Elementi decisamente platonici si trovano ad esempio nel neokantismo e nella fenomenologia del Novecento. Significativa è pure la corrente del cosiddetto "platonismo matematico" che raggruppa quei matematici e filosofi, da Cantor a Gödel, che sostengono la realtà oggettiva ed extramentale degli enti matematici.





L'antica Accademia.


Subito dopo la morte di Platone, il suo maggiore discepolo Aristotele si staccò dalla scuola e fece parte per se stesso. A capo dell'Accademia fu eletto allora SPEUSIPPO, nipote di Platone, che la tenne per otto anni (347-339). Speusippo accentuò l'indirizzo pitagorico iniziato da Platone nell'ultima fase della sua speculazione. Al posto delle idee, egli ammetteva, come modelli delle cose naturali, i numeri matematici che distingueva da quelli sensibili. Egli ebbe una visione evolutiva della realtà naturale. Il bene che Platone metteva all'inizio del processo cosmico, quale principio di tutto, fu messo da lui al termine dello stesso processo per la considerazione chie tutti gli esseri tendono a passare dall'imperfezione alla perfezione e che perciò il bene si trova al termine del divenire, non all'inizio. Concepì inoltre la divinità come l'anima reggitrice del mondo, secondo la dottrina del Timeo e delle Leggi. Alla morte di Speusippo fu eletto a capo dell'Accademia SENOCRATE, che vi rimase 25 anni (339-314).  



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