Caricare documenti e articoli online 
INFtub.com è un sito progettato per cercare i documenti in vari tipi di file e il caricamento di articoli online.


 
Non ricordi la password?  ››  Iscriviti gratis
 

Nomi, significati e oggetti, NELLE teorie del linguaggio

filosofia




Nomi, significati e oggetti, NELLE teorie del linguaggio


Proporrò, in questo breve scritto, una sorta di sintesi sulle teorie relative al concetto di "significato"; partendo dalla concezione classica data da S.Agostino (che è la stessa che normalmente si fornisce quando si vuol spiegare la differenza tra significante e significato) passerò direttamente al pensiero di alcuni importanti filosofi di inizi '900, in particolare di G.Frege, L.Wittgenstein e B.Russell.

Non è mia intenzione fornire le notizie circa lo sviluppo cronologico del problema, ciò a cui io miro è sviluppare questo tema comparando, più che contrapponendo, le teorie dei filosofi moderni sopraccitati, per ottenere un'"alternativa" al modello agostiniano.


S.Agostino affronta in più occasioni il problema di che cosa sia o di come si apprenda da bambini il linguaggio. Nelle Confessioni (libro XIII, I, VIII) egli dice di aver appreso il linguaggio imparando preventivamente il nome delle cose, in altri termini memorizzando le parole allo stesso modo in cui si memorizza il nome delle persone, come se ogni parola corrispondesse 747f51h ad un oggetto, ad una "cosa" concreta.



In un'altra importante opera, il De doctrina christiana (libro I), parlando dell'invenire, ossia dello studio e della retta comprensione di ciò che la Scrittura dice, Agostino opera una distinzione tra res e signa: "Ogni insegnamento ha come oggetto cose (res) o segni (signa): ma le cose si apprendono per mezzo di segni. [.] Ci sono [.] segni di cui facciamo uso solo per significare, per esempio, le parole: nessuno ne fa uso se non per significare qualcosa. Di qui si capisce che cosa io intendo per segno: una cosa che serve per significare qualcosa. Perciò ogni segno è anche una cosa, perché ciò che non è una cosa, non esiste affatto: invece non ogni cosa è anche segno".


Ludwig Wittgenstein, benché provasse una forte ammirazione per S.Agostino, mostrò da subito la sua contrarietà per questa concezione del significato come corrispondenza di nomi e oggetti, come se i primi dovessero essere "etichette" dei secondi; agli esordi del suo Libro marrone, ad esempio, egli afferma in proposito: "È chiaro che chi dica ciò ha in mente il modo nel quale un bambino apprende parole quali "uomo", "zucchero", "tavolo", etc., e non tanto parole quali "oggi", "non", "ma", "forse". La teoria di Agostino, quindi, appare ai suoi occhi, se non come sbagliata, almeno come incompleta (vedremo comunque che la ripudierà del tutto).

Bertrand Russell, a proposito del modo in cui avviene il nostro apprendimento, introdusse la distinzione tra conoscenze dirette e conoscenze per descrizione. Le prime sono quelle che ci vengono fornite immediatamente dai nostri sensi, delle quali abbiamo, per forza di cose, esperienza immediata, se pure anche privata; le seconde sono conoscenze che abbiamo acquisito perché qualcuno ci ha insegnato delle nozioni relative a quella persona o oggetto. Ad esempio di Omero noi sappiamo che fu un poeta greco, che visse nell'VIII secolo a.C., che scrisse l'Iliade e l'Odissea; di fatto, però, noi non abbiamo una conoscenza diretta di Omero, ma solo una serie di informazioni su di lui, che neanche derivano dai nostri sensi. Del caldo e del freddo, al contrario, noi abbiamo un'esperienza sensoriale diretta. Per Russell, quindi, i veri nomi propri vanno distinti da quelle che sono in realtà descrizioni mascherate; tutta la nostra conoscenza ha le proprie radici in queste conoscenze dirette, primarie.

Negli anni '50 Quine introdusse il concetto di opacità referenziale: quando i nomi non si limitano a svolgere solo una funzione denotativa, ma sono tali per cui ci forniscono delle informazioni in più (di quelle che già abbiamo), su ciò che denotano, evidentemente è perché, anche in questo caso, non abbiamo a che fare con quello che propriamente è un nome proprio, ma una sorta di descrizione in una parola sola. Esemplificando, bisogna fare attenzione che il nome "Sir Walter" sia effettivamente, per l'interlocutore, un nome capace di portare subito l'attenzione su quella ben precisa persona, e che non venga percepito, piuttosto, come un'espressione del tipo "l'uomo chiamato Sir Walter": persona che magari l'interlocutore stesso conosce benissimo, pur se soltanto per cognome. In tal caso, quest'ultimo, arriva lo stesso a capire di chi si sta parlando, ma solo dopo avere anche appreso qualcosa in più su quella persona (il nome proprio in questo caso).

La teoria di Russell a cui abbiamo accennato sopra, non accolse i plausi dei suoi contemporanei, poiché concepiva i nomi propri in modo molto lontano dall'uso comune; per Russell i "nomi logicamente propri" sarebbero ad esempio: "questo", "quello", "caldo", "rosso", cioè nomi che indicano oggetti/sensazioni che rientrano nell'esperienza sensoriale privata del parlante.

Strawson, uno degli avversi alla teoria di Russell, introdusse il concetto di riferimento identificante per indicare un nome col quale un parlante designa qualcosa, e di cui il suo interlocutore abbia per lo meno una conoscenza identificante: sappia, cioè, identificare/distinguere quel qualcosa, pur non avendone una conoscenza sufficiente per poterlo descrivere. In altre parole per Strawson è possibile usare un nome proprio anche senza che si abbia una piena conoscenza del suo significato, o anche quando manchi un'univoca descrizione identificante. Nasce così la nuova teoria del riferimento, che non prevede più una precisa e rigida corrispondenza tra significante e significato, ma, al contrario, cerca di rimettere in primo piano la funzione sociale e comunicativa del linguaggio. Questa teoria afferma che i parlanti, una volta appreso il significato di una parola o il suo riferimento identificante, cercano di preservare nel tempo questa loro acquisizione. Se, nel tempo, nuove scoperte portassero a capire che il vero significato/riferimento di quella parola è diverso da quello che conoscevano in precedenza, allora cambierebbe la descrizione definita dell'oggetto designato da quella parola, ma il significato della stessa, nella pratica comune, rimarrebbe invariato. Il nome proprio è diverso dalla descrizione identificante: il primo è legato all'uso, la seconda alla realtà. Negli anni '70 Kripke ribadì questa stessa teoria: i parlanti mettono da parte la loro propria conoscenza identificante, a favore di quella comunemente accettata, pur essendo pienamente consapevoli che questa conoscenza condivisa potrebbe rivelarsi non corretta. Un nome acquista un riferimento tramite un battesimo iniziale, i parlanti se ne trasmettono la conoscenza, e ogni persona che lo apprende cerca di usarlo così come gli è stato insegnato, senza preoccuparsi del fatto che la conoscenza trasmessagli sia scientificamente provata, perché lo scopo del linguaggio è anzitutto quello di intendersi fra parlanti.

Riallacciandoci al discorso fatto in precedenza, circa la differenza fra nome proprio (che si limita a designare) e descrizioni mascherate, Kripke propone un'interessante teoria, nella quale contrappone al mondo attuale gli infiniti altri mondi possibili. Se è vero, per fare un esempio, che nel nostro mondo Aristotele fu maestro di Alessandro Magno, è comunque possibile pensare che in un altro mondo possibile (diverso da quello attuale) non lo fu; in questa seconda realtà non si ha però un Aristotele diverso, una sorta di sosia o di Aristotele "meno vero", perché i nomi hanno sempre e soltanto una funzione denotativa e mai connotativa. Anche in questo, quindi, Kripke si discostò da Russell.


Ancora diversa era la concezione dei nomi nella teoria di Frege, filosofo-matematico che alla fine dell'Ottocento segnò la nascita della filosofia del linguaggio. Nella sua teoria andavano anzitutto distinti tre elementi fondamentali: il significato, il senso e la rappresentazione. Il significato (Bedeutung) di una parola è ciò a cui la parola stessa si riferisce, quindi nel pieno rispetto della teoria "classica" di S.Agostino. Il senso (Sinn) di una parola o di un enunciato è invece il modo in cui, la parola stessa, si pone all'ascoltatore portandogli il pensiero, che è altro rispetto al significato. È questa distinzione importante tra senso e significato, che comunemente sono sinonimi, l'elemento innovativo e fondante della teoria del linguaggio di Frege. I due nomi "Stella del mattino" e "Stella della sera", per esemplificare, si riferiscono entrambi al pianeta Venere, e quindi il loro significato è il medesimo; tuttavia una persona potrebbe non conoscere questa identità, potrebbe rimanere ingannata dal duplice nome e così addirittura asserire cose diverse dello stesso oggetto a seconda che gli sia presentato con un nome o con l'altro. Secondo Frege il senso è ciò che ci permette di giungere al significato: sensi diversi possono portare a significati diversi, ma può anche essere che uno stesso significato sia raggiungibile mediante due o più sensi (quindi pensieri e strade) diversi (come nell'esempio appena mostrato). Ancora differente è la rappresentazione: si tratta dell'immagine mentale del significato, dell'oggetto, designato dal nome; ovviamente essa è diversa da persona a persona, al contrario del significato e del senso che invece sono oggettivi. Nell'articolo Senso e significato del 1892 egli afferma quanto segue: "Supponiamo che uno osservi la Luna attraverso un cannocchiale. Io paragono la Luna stessa al significato: essa è l'oggetto che osserviamo, mediato dall'immagine reale proiettata dalla lente dell'obiettivo all'interno del cannocchiale e dall'immagine che si forma sulla retina dell'osservatore. La prima è paragonabile al senso, la seconda alla rappresentazione o all'intuizione. Certamente l'immagine del cannocchiale è unilaterale, poiché dipende dal luogo di osservazione, ma è obiettiva, in quanto può essere utilizzata da più osservatori". Riassumendo: il percorso di comprensione di un nome proprio (o di una descrizione definita, essendo per Frege equivalenti), passa obbligatoriamente per il senso di quello stesso nome, e approda infine al significato del medesimo: l'oggetto.

Non sempre, tuttavia, è così: se anziché partire da un nome proprio si parte da un termine concettuale si deve operare un passaggio in più: tra il senso del termine concettuale e l'oggetto che cade sotto il concetto (che è il significato vero e proprio) vi è il significato del termine concettuale, ovvero il concetto stesso. Un concetto, per Frege, non è un nome comune, o una categoria, bensì una funzione che ammette come valori della variabile in uscita soltanto il Vero e il Falso: un oggetto cade sotto un concetto solo e soltanto se la funzione dà per risultato il Vero. Il concetto non è quindi né una parola né un oggetto, ma una particolare relazione; è il termine concettuale la parola che serve per designare un concetto, e sono gli oggetti che cadono sotto il concetto i significati ultimi del termine concettuale.   

Altri casi particolari sono quelli relativi al discorso diretto e al discorso indiretto; in entrambi i casi le parole non hanno i loro significati ordinari: nel primo caso le parole riportate stanno a significare quelle dette originariamente, sono quindi "segni di segni", nel secondo caso invece, essendo che si parla di quello che altri hanno detto (senza tuttavia ripetere letteralmente le frasi), le parole di chi sta riportando il pensiero altrui stanno proprio a significare tale pensiero, cioè il senso.

La necessità di passare per il senso per giungere al significato, è negata dalla nuova teoria del riferimento: in particolare Kripke sostiene la teoria del riferimento diretto, secondo la quale non è necessario alcun mezzo per arrivare al significato.

Nel pensiero di Frege, inoltre, ancora non è contemplata la separazione tra i concetti di nome proprio e di descrizione definita, anzi il filosofo stesso sottolinea la maggiore importanza delle relazioni di uguaglianza del tipo a=b, su quelle tautologiche del tipo a=a, poiché le prime portano aumento di conoscenza. Due espressioni come "Aristotele" e "il maestro di Alessandro Magno", sono considerate entrambe come nomi, e non importa che la seconda sia una descrizione e che quindi, oltre al ruolo denotativo tipico di un nome proprio, ne abbia anche uno connotativo.


Un problema importante relativo al significato, e sul quale è bene soffermarsi, si ha quando una parola manca del suo riferimento, pur avendo un senso: "Odisseo", ad esempio, o "Lucia Mondella", sappiamo bene che sono nomi di personaggi fittizi, e allora il problema è quello di come ci si debba comportare nei confronti delle frasi che li contengono. Frege risolve il problema sostenendo che queste parole, essendo comunque dotate di senso, possono essere utilizzate in ambito letterario, poiché alla poesia basta il senso delle parole e non ha bisogno di significati, di verità o di falsità; alla scienza invece non basta il senso, quindi termini privi di significato devono essere banditi.

Se si intendono i nomi propri alla maniera di Russell (nomi logicamente propri), invece, non ha nemmeno senso parlare di nomi vacui, senza significato: è una "impossibilità intrinseca". Per frasi del tipo: "Il re di Francia è calvo", Russell propende per il sostenere che sono più dalla parte del falso (non esistendo un re di Francia attualmente) che della neutralità (il né vero né falso di Frege). Strawson invece, per eliminare il problema, distingue tra: enunciato, la sua asserzione e l'episodio storico in cui viene fatta l'asserzione. Una frase come la precedente non è in sé per sé valutabile come vera o falsa, è la sua asserzione, fatta in un certo contesto storico, che può essere giudicata vera o falsa: detta ai giorni nostri sarebbe allora falsa, nel Settecento poteva magari essere vera.

Un'altra importante differenza di pensiero tra Frege e Russell, sta nella differente concezione del rapporto tra i nomi e l'esistenza del loro riferimento. Per Frege l'esistenza non è una proprietà degli oggetti, ma l'essenza stessa dell'oggetto, quindi, al di là dell'ambito poetico-letterario che è un caso a sé stante, quando si fa un'asserzione si dà per scontata l'esistenza dei riferimenti delle parole, è un presupposto. Per Russell, invece, l'affermazione di esistenza fa parte di quel che asseriamo, e può, quindi, rivelarsi anche falsa, ma allora la sua negazione è vera, mentre per Frege anche questa rimarrebbe nel limbo del "né vero né falso".



Un filosofo che sicuramente si pone nei confronti del linguaggio in modo molto originale e innovativo, pur non essendo ormai più un pensatore propriamente contemporaneo, è il già citato Wittgenstein. Il suo pensiero non fu costante nel corso della sua attività, ma soggetto a evoluzione, si possono così distinguere almeno due periodi: si può affermare che l'anno di passaggio dal primo al secondo sia stato il 1930. Al primo periodo risale la stesura, tra le altre opere, del Tractatus logico-philosophicus, al secondo quella del Libro Blu e del Libro Marrone, di cui qui ci interesseremo maggiormente. Tralasciando questa distinzione temporale, ci si accorge che rimane costante l'idea che il significato non vada ricercato al di fuori della proposizione, bensì all'interno della proposizione stessa: Wittgenstein voleva ritrovare il contatto diretto tra la proposizione e la realtà; non era sicuramente possibile, d'altra parte, che il significato di una proposizione dipendesse da quello di un'altra proposizione, il che avrebbe portato ad un regresso all'infinito senza approdare ad alcun risultato. È all'interno del linguaggio che si doveva trovare il potere di raffigurazione di una proposizione. Citando una famosa frase del filosofo preso in esame: "La proposizione descrive la realtà, per così dire, di proprio pugno" (Quaderni 1914-1916, 5.11.1914). La proposizione suscita, sull'esclusiva base delle proprie risorse interne, la raffigurazione dei fatti, senza modelli che la debbano precedere; d'altra parte non riesce, assieme a questo importante fine, a mostrare anche come essa faccia, è in questo che sta la vera parte "mistica", ineffabile, del linguaggio.

Oltre a quanto appena detto, Wittgenstein, nella sua prima teoria del linguaggio, presuppone che la connessione tra le parole in quella struttura chiamata "proposizione", rifletta e raffiguri la forma logica della realtà. L'unità base del discorso è costituita dalle proposizioni elementari: si tratta di raffigurazioni autonome e indipendenti della realtà, dalle quali non si può inferire in alcun modo l'esistenza o l'inesistenza di un altro stato di cose. Ciò implica che sia impossibile determinare, per una medesima coordinata della realtà (colore, temperatura, lunghezza ecc.), una molteplicità di valori diversi: non è possibile, ad esempio, che la superficie di un corpo sia al tempo stesso rossa e nera, o che un suono corrisponda contemporaneamente a una nota e a un'altra. La conclusione del ragionamento è che nella determinazione di un aspetto della realtà, devono essere applicate contemporaneamente tutte le graduazioni di quell'aspetto: se si dice che un certo punto è blu, ciò vuol dire che esso non è né rosso, né verde, grigio ecc.; io applico, così, l'intero sistema dei colori. Questo sembra rievocare la triade dialettica hegeliana di tesi, antitesi e sintesi: ogni tesi richiama la sua antitesi, per spiegare che cos'è una cosa bisogna, più o meno implicitamente, dire cosa non è. Ma il passo conclusivo fondamentale è la sintesi: riuscire a cogliere l'unità delle determinazioni opposte. Esiste l'unità, ad esempio, ma esiste anche la molteplicità: la sintesi è che esiste l'unità proprio perché esiste la sua antitesi, la molteplicità, non avrebbe senso, altrimenti, parlare di unità.

Il linguaggio così concepito è definito dallo stesso Wittgenstein come un calcolo, che forse non ci accorgiamo di effettuare, ma che comunque ci assicura di rispettare la forma logica della realtà. La proposizione trova il proprio significato nella sua applicazione regolata alla realtà secondo le istruzioni di un calcolo, non in un processo di raffigurazione mentale del suo contenuto. Il significato della parola "rosso", ad esempio, non è un'immagine visiva di questo colore, se sappiamo riconoscerlo è solo perché conosciamo "un metodo per cercare la strada per pervenire ad esso" (Osservazioni filosofiche, § 32); le regole della sintassi sarebbero come delle istruzioni, che servono per collegare le proposizioni con l'esperienza, con la realtà, indicandoci il modo di ricercare in essa i contenuti delle proposizioni.

Molto diversa da questa era la teoria di Russell, che Wittgenstein contrastava tenacemente. Russell si poneva il problema di come facesse una persona a capire la relazione logica esistente tra i nomi e i predicati di una frase, nel complesso i suoi componenti. La risposta che si dava aveva ancora una volta a che vedere con l'esperienza diretta e personale: esiste una forma o oggetto logico estremamente generalizzato, complesso ma semplice, appreso per esperienza diretta, che è necessario per rendere conto della nostra capacità di comprendere e valutare il significato di una proposizione. La conoscenza della forma logica doveva quindi essere presupposta, come un modello ideale e trascendente, lontano da qualsiasi proposizione ordinaria. Wittgenstein argomentava, contro Russell, che non vi sono oggetti logici autonomi e indipendenti, la conoscenza dei quali renderebbe possibile la comprensione delle proposizioni ordinarie; egli era fermamente convinto che la logica non può dipendere dalla conoscenza di qualsiasi tipo di fatto, né da alcuna esperienza o fatto sia empirico che reale. La logica viene prima di ogni esperienza e non dipende da come è il mondo. 

Ritornando al discorso interrotto, riguardante il linguaggio come regola, si ha che il problema ora diventa quello di definire che cosa voglia dire "seguire una regola", ed è proprio a questo punto che Wittgenstein si accorse della difficoltà a cui andava incontro concependo il linguaggio come un calcolo. Risale al 1930 la svolta che porterà, negli immediati anni successivi, a concepire il linguaggio non più come un calcolo, bensì come un complesso "gioco". In quell'anno, nel corso di una conversazione, Wittgenstein propose un punto d'incontro tra il linguaggio inteso come raffigurazione (cioè alla maniera agostiniana), e la concezione del linguaggio come uso: le proposizioni del nostro linguaggio sarebbero delle istruzioni per fare qualcosa; il linguaggio non è più concepito nei termini dell'immagine statica di un fatto, ma è un sistema di regole che stabiliscono quello che si può fare e quello che non si può fare con le proposizioni. Da questa concezione segue direttamente il concetto di "gioco linguistico", che appare per la prima volta nel Libro Blu, del 1933-34, ma che viene approfondito nel Libro Marrone, dell'anno successivo.

Wittgenstein, nelle pagine iniziali del Libro Blu, dichiara esplicitamente che la filosofia è una disciplina puramente descrittiva, non può dare spiegazioni, non può porre domande e rispondere ad esse allo stesso modo in cui lo fa la scienza. Il processo attraverso il quale un parlante, alla parola "foglia", riesce a coglierne il significato, non è di fatto spiegabile. Wittgenstein non fornisce una teoria risolutoria, quello che gli interessa è indagare, per quanto possibile, su quello che avviene realmente eliminando le mistificazioni. L'idea, ad esempio, che ogni persona abbia in mente un'immagine "generalizzata" di una foglia che gli permetta di riconoscere tutte le foglie come tali, non è giustificata; allo stesso modo non ha senso pensare che per immaginare una macchia rossa si debba confrontare ciò che ci si sta creando nella mente con un modello di macchia rossa già esistente in essa. Nel Libro marrone l'autore giunge ad affermare che siamo noi stessi a creare stampi sugli oggetti che vediamo, non sono le loro immagini a cadere dentro stampi prefabbricati che già sono in noi. Così, quando dobbiamo riconoscere un uomo in un enigma figurato, inizialmente vediamo solo un mero complesso di linee, poi ad un tratto, riconosciamo un volto, ma non è che vediamo realmente un volto, è la nostra mente che, d'improvviso, struttura quelle linee nell'immagine di un volto. Interessanti sono i casi in cui riconosciamo una persona che non vediamo da parecchio tempo: "Molto spesso - afferma Wittgenstein - una tale immagine ci si ripresenta alla mente immediatamente dopo che abbiamo riconosciuto qualcuno. Io lo vedo nell'atteggiamento in cui era quando, dieci anni fa, lo vidi per l'ultima volta". 

Il significato di una parola non è mai chiaramente definibile, Wittgenstein lo paragona alla luce di una lampadina: non ha confini netti. Se, ad esempio, si usa una parola in senso estensivo, un parlante potrebbe cogliere la somiglianza con il suo senso letterale pur non essendo in grado di esplicitare in cosa stia la somiglianza; ma, afferma Wittgenstein, è proprio questo che caratterizza l'esperienza di somiglianza. Individuare il significato di una parola non può essere qualcosa di slegato dall'uso che ne facciamo, proprio perché non è un elemento intrinseco della parola. Condensare tutto l'uso di un nome in una relazione misteriosa tra questo e l'oggetto che indica, è proprio solo di una filosofia primitiva: "[.] ma allora è chiaro che, tra nome e oggetto, v'è non un'unica relazione, ma tante relazioni quanti sono gli usi dei suoni o degli scarabocchi [.] che noi chiamiamo: "nomi"" (L.marrone, §19).

L'autore, si chiede se sia possibile pensare un enunciato mantenendo solo le immagini mentali (significati) delle parole: è evidente che questo non è possibile (Libro blu). Il linguaggio è qualcosa di insostituibile ed ineliminabile.

In conclusione "comprendere un enunciato significa afferrare il suo contenuto, ed il contenuto dell'enunciato è nell'enunciato" (L.marrone, §18). Mi pare molto bello il paragone che Wittgenstein istituisce, alla fine del Libro marrone (§17, 22), tra il linguaggio e la musica: "Ciò che chiamiamo "comprendere un enunciato", è in molti casi più simile al comprendere un tema musicale di quanto penseremmo." [.] "S'è detto talvolta che ciò che la musica ci comunica siano sensazioni di gioia, melanconia, trionfo ecc., e ciò che ci ripugna in questa concezione è che essa sembra dire che la musica sia uno strumento per produrre in noi sequenze di sentimenti. Da questo si potrebbe inferire che qualsiasi altro mezzo per produrre siffatte sensazioni possa far le veci della musica. A tale concezione siamo tentati d'obiettare: "La musica ci comunica se stessa!".













BIBLIOGRAFIA


q      PICARDI, Eva, Linguaggio e analisi filosofica, ed. Patron, Bologna, 1992;


q      WITTGENSTEIN, Ludwig, Libro blu e Libro marrone, ed. italiana a cura di Amedeo G.Conte, introduzione di Aldo Gargani, ed. G.Einaudi, Torino, 1983;


q      FREGE, Gottlob, Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici 1891-1897, a cura di Carlo Penco ed Eva Picardi, ed.  G. Laterza, Roma-Bari, 2001;


q      CASALEGNO, Paolo, Filosofia del linguaggio, ed. La Nuova Italia, 1997;


q      DI RAIMO, Umberto, Sant'Agostino e l'occidente cristiano. Il De doctrina christiana e la letteratura sapienzale, in ANSELMI, Gian Mario (a cura di), Mappe della letteratura europea e mediterranea, vol. 1°, ed. Bruno Mondatori, Milano, 2000.




Privacy




Articolo informazione


Hits: 5469
Apprezzato: scheda appunto

Commentare questo articolo:

Non sei registrato
Devi essere registrato per commentare

ISCRIVITI



Copiare il codice

nella pagina web del tuo sito.


Copyright InfTub.com 2024