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I rapporti obbligatori relativi a somme di denaro notoriamente prevalgono, nell'esperienza economica dei nostri tempi, su tutti gli altri. Le ragioni economiche sono di per sé sufficienti a giustificare una trattazione autonoma dei debiti di denaro. In termini strettamente giuridici la scelta sistematica del legislatore si riferisce alla specialità del rapporto. L'impossibilità di ricomprendere le prestazioni pecuniarie in una più generica categoria dipende dall'impossibilità di assimilare in tutto la moneta alle altre cose. Una di queste pretese qualità (consumabilità) si dissolve quando si abbia riferimento alla funzione del denaro in quanto capitale; le altre assumono un significato speciale. A maggior ragione il denaro non può farsi rientrare nella nozione economica e naturalistica di bene produttivo. Il denaro è un'unità ideale di misura, ma è anche mezzo di pagamento che, come tale, è costituito da pezzi monetari, ossia da cose. Queste ultime possono essere "capitalizzate" nel quadro delle più varie operazioni economiche (funzione di capitale). Si sa difatti che i "mezzi di pagamento" non sono presi in considerazione dagli ordinamenti moderni per il loro valore bensì in quanto simboli che si ragguagliano, come multipli o sottomultipli, a un'unità ideale di misura legalmente prestabilita (cassazione sezioni unite 1979\3776). Ogni ordinamento giuridico fissa la sua unità monetaria secondo una misura legale a cui si riportano i singoli strumenti monetari circolanti (corso legale della moneta). L'unità legale diviene dunque un'unità legalmente definita e garantita: è un'unità valutaria legale o più semplicemente "valuta" le cui funzioni sono assolte da strumenti valutari. Il controllo legale sulle obbligazioni pecuniarie è intrinseco alla natura stessa dell'oggetto.
La possibilità di disporre della moneta non presuppone necessariamente la detenzione delle entità materiali che sono strumentali all'esigenza di circolazione del denaro. Il profilo della materialità della moneta non può essere ignorato del tutto, tanto più che l'oggetto diretto del pagamento nel minuto commercio quotidiano è costituito dai pezzi monetari, che sono indiscutibilmente cose anche da un punto di vista giuridico. Nel passato si tendeva a ricomprendere l'obbligazione pecuniaria tra le obbligazioni 333i86d di dare cose generiche e fungibili. Con argomentazione di stretto diritto positivo si può affermare che la disciplina delle obbligazioni di cose generiche ha le sue regole fondamentali. E' palese che tali regole non sono state dettate con riguardo ai pezzi monetari, per la semplice ragione che per i medesimi non si pone un problema di rischio per il perimento o di qualità: giammai è imposta la consegna di banconote in bello stato (sebbene possa giustificarsi il rifiuto di banconote a tal punto deteriorate da essere inservibili). L'autonomia delle obbligazioni avente per oggetto una somma di denaro trova conferma in quell'importante innovazione del codice civile vigente nella quale si prevede che il luogo di adempimento, in mancanza di un'apposita previsione, sia costituito dal domicilio del creditore. La specialità dell'obbligazione pecuniaria va ricercata con riguardo all'autonoma funzione del denaro: non discende dal rapporto con una categoria più ampia. La consegna di mezzi pecuniari può ormai essere sostituita da altre entità o da altre vicende giuridiche che, rispetto al pagamento pecuniario materiale, hanno distinta struttura giuridica ma identica funzione economica, poiché si risolvono nel mettere a disposizione del creditore la somma dovuta. E' risaputo che le grandi operazioni economiche sempre più spesso si stipulano con l'intermediazione delle banche e degli altri agenti finanziari sulla base di operazioni di accreditamento (partite di giro), che non comportano alcuna consegna materiale di pezzi monetari e favoriscono la sicurezza e la celerità della circolazione della ricchezza. Con la nascita della moneta scritturale i pezzi monetari potrebbero perfino assumere una funzione marginale e ridursi al piccolo mercato di ogni giorno. Sempre più diffusa è anche la tendenza a consegnare in pagamento al posto del denaro altri documenti ricompresi in senso ampio nel genere dei titoli di credito o dei valori mobiliari (assegni bancari, vagli cambiari e postali e simili). Giudici e giuristi non sono in sintonia: i primi affermano che il mezzo di pagamento accettato in luogo del denaro contante integra pur sempre gli estremi di una prestazione in luogo dell'adempimento; i secondi propendono ormai per affermare che si tratti di un vero e proprio adempimento, poiché quel che a tal fine è sufficiente è che la prestazione sia eseguita per tramite di uno strumento che assicuri al creditore l'effettiva disponibilità dell'importo dovuto. La forza della prassi e la sostanziale corrispondenza economica con il pagamento in denaro influiscono direttamente sulla valutazione del comportamento delle parti nella fase di adempimento e soprattutto sull'applicazione della regola della correttezza: chi paga con un assegno il debito in denaro, già espressamente pattuito in contanti, non può imporre tale scelta, in assenza di una norma anche consuetudinaria o pattizia, al creditore; ma il rifiuto di quest'ultimo, in relazione alle circostanze può essere contrario a buona fede oggettiva, purchè non si dimentichi che il ricorso al mezzo di pagamento diverso dal denaro contante: è pur sempre un rischio che si assume il debitore; e comunque non deve rendere più onerosa la posizione del creditore, così da alterare unilateralmente le modalità esecutive del credito.
L'autonomia dei debiti di denaro è innegabile. La definizione dell'obbligazione in generale deve tenere conto della preminenza della figura speciale, tanto più che una gran parte della disciplina dell'attuazione del rapporto obbligatorio ha per oggetto il pagamento, il quale a sua volta ha per modello la regolare esecuzione dei debiti di denaro.
In quanto multiplo o sottomultiplo di una unità valutarie il denaro si presenta come un'entità numerica astratta o formale che corrisponde a una semplice frazione dell'intera massa monetaria. In quanto entità astratta o formale l'unità valutaria è fissata per legge. Anche la parità di cambio può essere mutata con provvedimento legale. Il potere di acquisto della quantità di moneta che corrisponde all'unità valutaria ossia i beni che si possono comprare con una corrispondente somma di denaro, è soggetto per comune esperienza alle oscillazioni di valore provocate dalla congiuntura economica. Nel comune linguaggio si usa parlare di svalutazione per descrivere quegli aspetti delle crisi inflattive che provocano una perdita del potere di acquisto della moneta e danno luogo alla ricerca di una qualche soluzione giuridica. Inoltre con i vocaboli "svalutazione e rivalutazione" si fa riferimento al mutamento legale della parità di cambio con le altre monete; con i vocaboli "deprezzamento e apprezzamento", alla caduta o al rafforzamento del potere d'acquisto delle merci. Il principio generale cui si ispira il nostro ordinamento è noto come principio nominale: il debito pecuniario si estingue secondo la sua misura nominale all'atto della nascita dell'obbligo e non secondo il suo potere di scambio effettivo nel momento del pagamento. Il rischio della perdita del potere d'acquisto della moneta e delle alterazioni dell'unità legale di misura tra il tempo della nascita del debito e il tempo del pagamento è a carico del creditore, il quale non può rifiutarsi di ricevere una quantità di moneta che abbia corso legale nello stato e che corrisponda al valore di importo nominale del debito pecuniario. Il codice regola pure l'ipotesi in cui la somma dovuta era determinata in una somma non avente più corso legale al tempo del pagamento. In tale caso il pagamento deve farsi in moneta che abbia corso legale nello e sempre nel rispetto del principio nominalistico. L'altro principio generale consiste nella facoltà del debitore di liberarsi con un numero qualsiasi di pezzi monetari di qualsivoglia specie, purchè vi sia corrispondenza con il multiplo o sottomultiplo dell'unità legale di misura valutaria. Nel nostro ordinamento le disposizioni fondamentali sui debiti di valuta sono previste da alcuni enunciati testuali che esprimono una scelta politica di carattere generale, a sua volta subordinata ai principi derivanti da leggi speciali, tra cui assumono un rilievo particolare i provvedimenti, tipici della legislazione valutaria, sui pagamenti da farsi fuori dal territorio dello Stato (1281). Prevalente è stata l'affermazione di una derogabilità del principio nominalistico: da intendersi che il rischio da svalutazione ha trovato spesso una distribuzione diversa da quella legale per il tramite delle apposite previsioni contrattuali di salvaguardia del potere di acquisto (clausole monetarie).
Tra i temperamenti all'assolutezza e alla rigidità del principio nominalistico può ricomprendersi anche la distinzione tra la categoria dei debiti di valore, che, come si insegna, sono sottratti a tale principio, e debiti di valuta, che rientrano nella previsione dell'art. 1277. Tale summa divisio dei debiti di denaro presuppone un confronto tra entità eterogenee. Il debito di valuta si presenta con lineamenti almeno in apparenza definiti, poiché l'ammontare della prestazione pecuniaria è precisamente determinato fin dall'origine o è determinabile con semplici operazioni contabili. Inoltre è liquido o comunque di pronta e facile liquidazione. Il debito di valore non ha per oggetto una somma liquida o agevolmente liquidabile: presuppone una valutazione discrezionale che è necessaria al fine di determinare il valore della prestazione dovuta in termini effettivi e di fissarne l'ammontare in denaro all'atto della liquidazione, la quale è tutta ancora da compiere. Si dice che il debito di valore non è mai liquido; quando lo diventa, si è trasformato in un debito di valuta. La serie delle figure ricomprese sotto la denominazione di debito di valore può essere descritta soltanto con ricorso al metodo casistico, che pure deve essere sottoposto a controllo critico, al fine di evitare che sia vanificato anche il minimo dei criteri distintivi di carattere generale. La figura principale su cui gli orientamenti della giurisprudenza hanno avuto modo di esercitarsi e di precisarsi nel corso degli anni è costituita dall'obbligo di risarcire i danni derivanti da fatto illecito o dall'inadempimento. Un tale obbligo deve essere liquidato secondo una misura pecuniaria ragguagliata al potere di acquisto della moneta nel momento della reintegrazione della sfera patrimoniale del soggetto leso. La svolta della giurisprudenza in materia di qualificazione delle spese erogate dal danneggiato si è avuta una pronuncia delle sezioni unite, la quale ha posto fine all'indirizzo che attribuiva al versamento di tali somme, in quanto determinate nell'ammontare in denaro, il carattere di un debito di valuta. Un tale atteggiamento era inspiegabilmente incoerente con la posizione complessiva della giurisprudenza stessa rispetto all'obbligazione risarcitoria. Il danneggiato deve ricevere quanto è necessaria a riparare il pregiudizio economico subito. Il ristoro deve essere effettivo: il valore economico complessivo del patrimonio deve essere riportato nella condizione in cui era prima della lesione. Soltanto dopo la liquidazione della somma che è oggetto del debito di valore si suole affermare che l'obbligazione assume i caratteri di un debito pecuniario di valuta, assoggettato come tale al principio nominalistico. Con riguardo all'obbligazione risarcitoria hanno trovato applicazione alcuni importanti canoni processuali su cui esiste un diffuso consenso. Il giudice valuta anche d'ufficio l'incidenza della perdita del potere d'acquisto della moneta. Tale accertamento può variare fino al momento della definitiva liquidazione, e sevi è stata impugnazione, anche nel successivo grado di giudizio. Dopo il passaggio in giudicato della sentenza, il ritardo del debitore nel procedere al pagamento del debito è per comune avviso sottoposto alle regole generali: il giudice non può procedere ancora una volta a un'automatica rivalutazione. Con riguardo all'obbligo di indennizzo che grava sull'assicuratore nei confronti del danneggiato nella materia della responsabilità civile automobilistica, la qualificazione del debito in termini di debito di valore è parsa coerente con la funzione del debito; ma la giurisprudenza di legittimità non si è quasi mai discostata dalla qualificazione in termini di valuta; e tale è considerato anche il credito di rivalsa contro l'assicurato per le somme versate al terzo. Le aree dei debiti di valore che tra tutte sembrano esemplari sono costituite dalle obbligazioni alimentari e più in generale da quelle ipotesi nelle quali debba procedersi a un riequilibrio nelle posizioni degli interessati con valutazioni non automatiche. La specialità dei crediti alimentari è a tal punto evidente da non potersi di certo limitare al problema della sottrazione al principio nominalistico per il tramite dell'espediente della qualificazione in termini di debiti di valore. Costante è la costruzione in termini di debito di valore delle obbligazioni di rimborso; l'ipotesi è da ricomprendere nel più ampio quadro dei rimedi nei confronti degli arricchimenti ingiustificati. Per le obbligazioni restitutorie, alcune sono già quantificate in termini pecuniari e, ove non interferiscano profili risarcitori che comunque rileverebbero in via automatica, sono debiti di valuta e come tali assoggettati al principio nominalistico. Nel caso delle restituzioni da invalidità o da impugnativa contrattuale occorrerà accertare se possa procedersi a una valutazione globale dei reciproci arricchimenti e depauperamenti, secondo gli indirizzi ormai comunemente accolti in altri ordinamenti. Altrimenti la restituzione si riferirà alla prestazione pecuniaria isolatamente considerata nel suo ammontare nominale. Sono infine facilmente intuibili le ragioni che la giurisprudenza pone a fondamento della qualificazione come debito di valore della somma offerta con la finalità di riportare ad equità il contratto rescindibile. Indiscussa sarebbe invece la qualificazione dell'obbligazione di restituire il prezzo in seguito alla pronuncia di rescissione in termini di valuta. La categoria dei debiti di valore è influenzata dal problema della tutela dei creditori dalle oscillazioni monetarie. Ma in quasi tutti gli ordinamenti l'opera delle corti è fonte di regole funzionali all'esigenza della rivalutazione dei debiti pecuniari o comunque di regole dirette a attenuare le sperequazioni create dalla rigida applicazione dei principi.
I meccanismi convenzionali di rivalutazione dei debiti di denaro sono di due ordini: totalmente o parzialmente automatici ovvero affidati a successive determinazioni dell'ammontare dell'obbligo. I secondi presuppongono un nuovo accordo e non sono pertanto suscettibili di una preventiva sistemazione. I primi si distinguono a seconda che si abbia pur sempre riferimento a un'unità valutaria scelta per la sua presunta maggiore stabilità (clausole oro, clausole-valuta estera) ovvero a seconda che si rinvii al valore di altre merci oppure a indici statistici (clausole merci, clausole di indicizzazione). La distinzione è importante, poiché la diffusione dei vari tipi di clausole dipende dall'economia in generale e soprattutto dalle vicende delle istituzioni monetarie, anche nel quadro della legislazione internazionale. Tra le clausole contrattuali che in senso lato potevano considerarsi di salvaguardia minore diffusione hanno ormai i patti che prevedevano il pagamento con monete di metallo aventi un valore intrinseco. In passato una delle clausole più diffuse era la clausola oro corso secondo cui i pagamenti dovevano avvenire con monete coniate nel materiale prezioso. Il noto evento che ha segnato il tramonto del primato dell'oro negli scambi mercantili fu costituito dalla decisione dell'America di sottrarsi al sistema monetario. Con l'abolizione della stessa convertibilità aurea del dollaro altri sono ormai i parametri utilizzati soprattutto nei mercati internazionali. Per descrivere il fenomeno delle clausole che prevedevano il pagamento in moneta avente un valore intrinseco si è parlato di principio metallista al fine di porre in rilievo il nesso che l'ammontare del debito ha con il valore attribuito ad un bene reale. Il codice, dopo aver premesso che il pagamento deve farsi con la moneta avente valore intrinseco prevista nel titolo costitutivo del credito, regola l'ipotesi in cui la moneta non sia più reperibile, o non abbia più corso legale nello stato, o ne sia alterato il valore intrinseco; e dispone che il pagamento debba allora farsi in moneta corrente per un ammontare corrispondente al valore intrinseco che la specie monetaria dovuta aveva al tempo in cui l'obbligazione fu assunta (1280 comma 2).
In materia di clausole di salvaguardia il dato caratteristico del nostro ordinamento è costituito dalla equivoca affermazione di un principio di autonomia, tradizionalmente confermato nelle decisioni dei giudici, seppure a conclusione di alcune vicende contraddittorie. Il nominalismo può coesistere con forme convenzionali di adeguamento monetario; non esistono divieti di carattere generale (1278, 1279, 1280). La libertà contrattuale non può sempre cancellare le esigenze che si pongono a base del nominalismo, là dove la congiuntura economica accentui il rilievo della politica finanziaria immanente alle direttive giuridiche nella materia monetaria. Eppure vaga e discutibile è certamente la Relazione al codice civile, ove si riafferma l'autonomia privata in materia di rapporti monetari, fino a quando non ostino le esigenze della difesa nazionale. I meccanismi legali di adeguamento monetario hanno avuto nel nostro ordinamento applicazione in alcune aree di grande rilievo dal punto di vista della politica economica e sociale e della politica finanziaria. Il fenomeno più significativo è costituito dal regime della "scala mobile" nel settore dei rapporti di lavoro subordinato. Criteri adeguamento automatico delle retribuzioni per effetto di variazioni di costo della vita sono previsti per legge. (ad es. articolo 429 comma 3 c.p.c. novellato: riguarda la tutela dei crediti di lavoro). Molto più tormentate sono state le vicende relative all'adeguamento del canone delle locazioni degli immobili urbani. Il legislatore ha dichiarato inefficaci le clausole di rivalutazione, ma in seguito ha mutato decisamente orientamento, liberalizzando i canoni e prevedendo gli automatici adeguamenti parzialmente corrispondenti all'aumento del costo della vita. Inoltre, il legislatore ha accolto i rilievi critici della letteratura giuridica in merito all'insufficiente tutela del coniuge divorziato, il quale spesso può vedere vanificarsi, a causa del costante aumento del costo della vita, la misura dell'assegno che pure gli spetta. La singolare natura e durata del rapporto sono stati alla base di uno dei primi interventi del secondo dopoguerra, diretto alla rivalutazione delle rendite vitalizie in denaro. In termini recenti, infine, la rivalutazione monetaria si è imposta con riguardo alla misura dei beni e del capitale delle imprese.
Per i pagamenti in valuta da eseguirsi nel territorio nazionale è possibile che le parti prevedano la consegna di monete non aventi corso legale nello stato. Nel silenzio delle parti il debitore ha la facoltà di liberarsi con una corrispondente somma in valuta nazionale legale. La somma è calcolata secondo il corso del cambio nel luogo del pagamento e alla scadenza prevista. La moneta estera non è oggetto di scambio o merce, ma è un'unità di misura, ancorchè convenzionale, e mezzo di pagamento. L'obbligazione si riferisce pur sempre al versamento di moneta estera; e questa resta soggetta alle oscillazioni del potere d'acquisto. La regola fondamentale è costituita dalla facoltà del debitore di liberarsi con valuta legale di corrispondente ammontare, calcolato secondo il corso del cambio al tempo della scadenza e nel luogo del pagamento. E' opinione diffusa che si tratti di un esempio legale di rapporto obbligatorio facoltativo. L'obbligazione facoltativa si estingue in via automatica ove non sia possibile procurarsi l'oggetto dedotto nel rapporto. Dalla disciplina dettata per le obbligazioni che hanno variamente ad oggetto la moneta estera sembra dedursi invece che il debitore sia comunque tenuto, sia pure in ultima istanza, a versare l'importo corrispondente in valuta legale nazionale.
La facoltà di liberarsi del debito con il pagamento in valuta estera nazionale è esclusa, se le parti, nel fissare in moneta estera l'oggetto dell'obbligazione, abbiano aggiunto, con patto espresso, la clausola "effettivo". La facoltà del debitore è pertanto un effetto automatico legale, ma non inderogabile. La deroga alla facoltatività del pagamento in valuta legale anziché in moneta estera è senza effetto, ove il debitore non possa procurarsi la moneta all'atto della prestazione. Sembra trovare conferma la specialità del regime dell'impossibilità. Il debitore è tenuto a versare in valuta legale nazionale l'ammontare corrispondente al corso del cambio nel luogo della scadenza e al tempo del pagamento. (1279)
Le norme che si traggono dagli articoli 1278 e 1279 non danno luogo a particolari dubbi interpretativi. Nel caso di mora del debitore è stata costruita una regola, la quale dovrebbe temperare le conseguenze che si pensa possano derivare da riduttive interpretazioni letterali. Si suole dire che l'ordinamento non può offrire al debitore, il quale non paghi regolarmente alla scadenza, l'opportunità di addossare al creditore di moneta estera le conseguenze negative prodotte da un corso del cambio che sia a lui sfavorevole all'atto del tardivo pagamento. Il debitore difatti approfitterebbe in maniera arbitraria della facoltà di liberarsi con moneta nazionale a danno del creditore. Il debitore in mora non perde automaticamente la facoltà di pagare in moneta nazionale, ma al tempo stesso non deve arrecare al creditore un pregiudizio a causa del suo inadempimento. Egli è tenuto a versare al creditore anche la differenza tra la valuta legale dovuta secondo il corso del cambio all'atto della scadenza e la valuta legale dovuta secondo il corso del cambio all'atto del pagamento. Al debitore moroso, il quale paghi con moneta estera non avente corso legale nello stato, si applicherebbero invece, secondo i giudici di legittimità, le regole generali, perché l'oggetto del pagamento è lo stesso dedotto fin dall'origine nell'obbligazione e quindi non vi è un abuso di una facoltà di scelta: il debitore è tenuto soltanto agli interessi di mora, salva, a carico del debitore, la prova del maggior danno. Tra la disciplina dei debiti monetari e la disciplina dei debiti in denaro non aventi corso legale nello stato vi è un significativo punto di contatto, che sembra avere un rilievo sistematico non secondario nel più ampio quadro dell'impossibilità sopravvenuta di reperire i pezzi monetari pattuiti. Gli impedimenti previsti nel caso del debito di moneta estera (1279) sostanzialmente coincidono con quelli a cui si fa riferimento nel caso del debito metallico. In tutti i casi l'obbligazione viene riportata entro lo schema- base del debito di valuta aveva corso legale nello Stato, ossia di un debito che in ragione della sua stessa funzione si riferisce ai multipli o ai sottomultipli di un'unità di misura legale che per definizione è indistruttibile. Il debitore dovrà versare l'ammontare corrispondente in moneta legale al corso del cambio, se il debito è in moneta estera, ovvero in denaro corrente, equiparato al valore intrinseco che la specie monetaria aveva al tempo in cui l'obbligazione fu assunta, nel caso di debito monetario o metallico (1280). Quando non sia possibile l'oggetto monetario originariamente dedotto in obbligazione, questa si trasforma per legge in un debito di valuta nazionale, sia o meno attribuita al debitore la facoltà di liberarsi in tal modo. (1278)
Risale a data relativamente recente l'analisi giuridica dei debiti di denaro per gli aspetti relativi agli interessi. Le ragioni sono note. Il divieto di morale e religioso dell'usura ha impedito a lungo di studiare il fenomeno senza remore, con piena consapevolezza della rilevanza economica del denaro. Il tema degli interessi prende ad essere concepito in maniera unitaria, nel contesto della disciplina dei rapporti obbligatori di natura pecuniaria (1282-1284). Nasce la consapevolezza dell'autonoma funzione di capitale che il denaro ha assunto nelle società moderne. La rottura con i codici ottocenteschi è netta. Il codice napoleonico e il codice civile del 1865 non si curano di offrire al debito di interessi una sicura legittimazione: le norme, poche e disperse, sono difficilmente compatibili con una categoria generale. L'innovazione è già nel codice tedesco. Il codice civile del 1942 si inserisce senza dubbio nella trasformazione in atto; la fusione con il codice di commercio accentua le innovazioni. Una scelta sistematica generale pone la disciplina degli interessi, salve le importanti disposizioni previste per il caso di mora del debitore o alle norme dettate per i singoli contratti, nella sede delle obbligazioni pecuniarie. All'immagine della naturale fecondità del denaro si unisce l'altra degli interessi come frutti civili derivanti dalla produttività del capitale. Agli interessi che si producono di pieno diritto è dedicata la norma che meglio sembra esprimere le innovazioni del codice: l'art. 1282. Un'altra regola generale è prevista nel quadro della disciplina degli effetti posti a carico del debitore che versi in situazione di mora (interessi moratori 1224). Nel tentativo di trovare un criterio che consenta di sistemare in un terzo genere le varie disposizioni sul debito di interessi la giurisprudenza ancora prevalente individua, accanto alle categorie generali, desunte dagli art. 1224 e 1282, un'ulteriore figura alla quale suole darsi la denominazione di interessi compensativi (testualmente riprodotta nella rubrica dell'art. 1499 per descrivere gli interessi sul prezzo che il compratore deve al venditore se la cosa venduta e consegnata produca frutti o altri proventi).
Gli interessi che sono detti corrispettivi costituiscono la categoria forse meno controversa; e al tempo stesso la più importante, al fine di comprendere il normale meccanismo di nascita del debito di interessi. I debiti liquidi di somme di denaro producono alla scadenza interessi di pieno diritto. La misura percentuale è detta saggio di interessi. Il saggio legale è del dieci per cento in ragione di un anno. Una tale disciplina, legale e automatica, non ha né un carattere imperativo né assoluto: alle deroghe pattizie, sempre possibili nei limiti previsti dalla legge, si aggiungono le stesse disposizioni speciali introdotte dal legislatore. Due figure di debiti pecuniari liquidi, esigibili, ma non produttivi di interessi corrispettivi sono indicate nello stesso articolo 1282 comma 2 e 3. La prima si riferisce ai crediti per fitti e per pigioni: tale disposizione è però derogabile con patto contrario. La seconda si riferisce ai crediti di rimborso di spese fatte per cose da restituire, con riguardo al tempo in cui della cosa si sia goduto senza corrispettivo e senza obbligo di rendiconto.
L'altra norma di carattere generale cui si è
accennato è indicata come il polo opposto dell'intero sistema degli interessi.
In primo luogo si è affermato che diventano produttivi di interessi moratori
anche i debiti esigibili ma non liquidi. Secondo una parte della letteratura
civilistica gli interessi sulle somme dovute a causa del fatto illecito hanno
difatti natura moratoria, sebbene l'art. 2056 non faccia rinvio espresso
all'art.
2) creditori-risparmiatori;
3) creditori-investitori;
4) creditori modesti consumatori, che abitualmente spendono il denaro per i bisogni familiari e personali, i quali avrebbero diritto al risarcimento pari all'indice di svalutazione ISTAT.
Certo è che la categoria dei modesti consumatori sempre più spesso è sottoposta a un difficile confronto con il trattamento assicurato per legge alla classe dei lavoratori subordinati. Si sa che a questi ultimi le conseguenze negative del principio nominalistico più non si applicano in maniera assoluta per effetto del provvedimento legislativo che ha portato a una significativa modificazione del codice di procedura civile con riguardo al processo del lavoro. L'art. 429 c.p.c. è ormai interpretato nel senso dell'automatico adeguamento dei crediti scaduti del lavoratore al valore reale della moneta al momento del pagamento, sempre secondo l'indice dei prezzi elaborato dall'ISTAT. Gli interessi di mora hanno assunto inoltre rilievo nella materia dei crediti pecuniari dei cittadini verso lo Stato. L'obbligazione dello stato si esegue presso l'ufficio stesso della pubblica amministrazione. Nel caso di interessi di mora l'applicazione delle regole generali del codice civile sembra ormai prevalere in maniera costante. Talvolta si precisa che l'atto di costituzione in mora non può essere surrogato da una semplice domanda amministrativa, lì dove la pubblica amministrazione abbia dato inizio e corso al conseguenziale procedimento.
La categoria degli interessi compensativi è discussa già sul piano lessicale. La formula è spesso usata quale sinonimo di interesse corrispettivo per descrivere il compenso per il differimento nell'uso del capitale. Si disegnano inoltre alcune figure legali, dettate in materia di vendita, di mutuo e di conto corrente. Il modello è costituito dall'art. 1499 che si riferisce al caso in cui la cosa venduta e fruttifera già sia stata consegnata all'acquirente dal venditore, il quale ancora non abbia ricevuto in cambio il prezzo. Il venditore si priva dei frutti e degli altri proventi della cosa e non ha contestualmente alcun corrispettivo: deve essere pertanto altrimenti tutelato. Lo svantaggio è compensato dalla previsione della decorrenza di interessi sul prezzo, ancora prima che lo stesso sia esigibile. Diverso è il fondamento degli art. 1815 e 1825. La prima delle due disposizioni nell'affermare finalmente la presunzione di onerosità del mutuo, consacra il primato anche giuridico del credito nell'economia, secondo un indirizzo ormai apertamente riconosciuto.
Al di fuori della tripartizione tradizionale si porrebbero gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento danni da fatto illecito, sui quali le divergenze di opinioni sono nette già con riguardo al lessico prevalentemente utilizzato dai giudici nelle decisioni. Si tratta di un orientamento altrettanto incerto nei suoi fondamenti testuali quanto radicato in una lunghissima tradizione di regole desunte da massime consolidate, sebbene non di rado si sia profilato il rischio di pervenire ad un irragionevole arricchimento del danneggiato per effetto del cumulo tra la rivalutazione della somma da liquidare e gli interessi. La ricostruzione più lineare è quella che resta aderente ai dati essenziali del sistema; quando il debito deriva da fatto illecito, gli effetti della mora sono automatici; dal giorno della mora sono dovuti gli interessi che ben possono qualificarsi di mora. Le obiezioni possibili sono di due ordini: la prima è testuale, poiché si basa sul mancato richiamo della disposizione dell'art. 1224 nel quadro della norma generale sul risarcimento da fatto illecito; la seconda sottolinea l'inconveniente che può derivare dal sommare vrivalutazioni d'ufficio del debito di valore con il debito degli interessi, di ammontare certo.
La discrezionalità del giudice è incompatibile con liquidazioni irragionevoli, non con la liquidazione della voce interessi, purchè si chiarisca che si tratta di interessi che sempre si riferiscono alla fase del risarcimento del danno consequenziale al tardivo adempimento. Sembra comunque possibile trarre dagli orientamenti prevalenti in sede giudiziaria le seguenti regole: il debito di risarcimento dei danni da fatto illecito è di valore; sull'ammontare rivalutato si calcolano gli interessi che spesso sono definiti compensativi, sebbene i giudici in prevalenza mostrino di non nutrire dubbi sul fatto che si tratti di interessi moratori; una volta liquidata con pronuncia giudiziale definitiva l'intera somma in tal modo calcolata, il debito assume le caratteristiche di un debito pecuniario di valuta, che produrrà automaticamente ulteriori interessi; il sistema così ricostruito può apparire non privo di un'intera coerenza, ma in termini di stretto calcolo economico potrebbe talvolta giustificare le ferme critiche a cui si è accennato. L'attribuzione la giudice di un potere di chiusura e di carattere discrezionale rende forse meno equivoco il riferimento al carattere compensativo degli interessi.
L'analisi del debito pecuniario degli interessi non può dirsi completa senza un riferimento alle previsioni normative e alle regole pretorie specialmente costruite con riguardo a singole categorie di rapporti. Esemplare tra tutti, per la specialità della disciplina e per l'ampia casistica, è il settore dei crediti di lavoro. L'intervento del legislatore è stato guidato dalla finalità di risolvere alle radici il problema dell'adeguamento monetario per l'intera categoria di rapporti. L'obbligazione retributiva è ormai un debito di per sé indicizzato e soggetto a rivalutazione; né si richiede quella prova del maggior danno che il creditore della retribuzione sarebbe altrimenti tenuto a fornire nei confronti del debitore in mora. La somma capitale dovuta è costituita dall'obbligazione retributiva in quanto rivalutata. Dalla data di scadenza dei singoli crediti relativi alle frazioni di capitale rivalutate decorrono, per regola ormai costante nella prassi delle corti, gli interessi legali.
Tra le norme che sono espressione dell'antica lotta contro le usure e che al tempo stesso sembrano offrire una testimonianza dell'anacronismo delle sue residue tracce può considerarsi esemplare il c.d. divieto dell'anatocismo (1283), ossia dell'esclusione della possibilità che la somma costituita dalla capitalizzazione degli interessi scaduti produca autonomamente nuovi interessi e renda in tal modo più difficile il controllo sui costi complessivi dell'operazione. La disposizione del codice prevede che gli interessi scaduti possano produrre ulteriori interessi soltanto se esistano in tal senso specifiche disposizioni di legge, ovvero norme consuetudinarie; altrimenti, alle seguenti condizioni: che si tratti di interessi dovuti per almeno sei mesi; che vi sia un accordo tra le parti e che tale patto non sia anteriore alla scadenza degli interessi stessi; che, in mancanza di accordo, gli interessi siano chiesti per mezzo di una domanda giudiziale con decorrenza dal giorno della domanda stessa (1283). Riguardo al termine domanda giudiziale si sono formate alcune incertezze in giurisprudenza nel senso di una interpretazione restrittiva o estensiva del termine; dopo le incertezze iniziali,
l'orientamento prevalente fa riferimento alla domanda anche in corso di giudizio, quasi a conferma della tendenza liberale e realista a cui si è accennato. I limiti dell'autonomia privata in materia di patti relativi agli interessi si riferiscono alla proibizione degli interessi usurari, con la clausola generale in cui è testuale la menzione dell'usura (1815 comma 2); all'imposizione di un onere di forma, quando il saggio di interesse, ancorchè non usurario, sia superiore alla misura legale. Le clausole relative agli interessi sono nulle, seppure siano stipulate in forma scritta, qualora gli interessi pattuiti siano talmente alti da poter essere qualificati come usurari. Se la clausola relativa agli interessi è nulla, si ha una sostituzione automatica della norma di legge di legge sulla misura degli interessi alla contraria previsione privata, secondo un meccanismo simile a quello previsto dagli articoli 1339,1374 e1419. Le clausole relative agli interessi sono difatti valide, purchè siano stipulate in forma scritta, se la misura del saggio pattuito è superiore alla misura legale del dieci per cento, pur senza essere qualificabile come usuraria. (1284 comma 3). La clausola degli interessi non rientra tra quelle che devono essere puntualmente sottoscritte nei contratti che si stipulano sulla base di condizioni generali unilateralmente predisposte (1341 comma 2). I dubbi interpretativi più forti non si riferiscono all'esistenza e al carattere costitutivo del vincolo di forma ma alla determinazione delle modalità minime richieste dalla legge. La tendenza informale cerca un supporto ulteriore nella regola tramandata secondo cui il versamento degli interessi non usurari, in misura superiore al tasso legale e in mancanza di un patto scritto, non sarebbe ripetibile, poiché costituirebbe adempimento di un'obbligazione naturale. Se una tale regola venisse generalizzata, si giungerebbe alla conseguenza di considerare irripetibili tutti i pagamenti che non fossero dovuti a causa della nullità soltanto formale del titolo. La rilevanza della disciplina della forma costitutiva si limiterebbe al patto non ancora eseguito. Tale scelta spetta al legislatore, ove reputi di non dar prevalenza alle esigenze di sicurezza e di uniformità connesse al vincolo sostanziale di forma.
Il debito relativo agli interessi ha alcuni caratteri tipici, la cui precisa ricostruzione comporta non pochi problemi. Il dato meno controverso si riferisce al requisito della normale pecuniarietà del debito-capitale, al quale corrisponde la pecuniarietà del debito degli interessi. Non danno luogo a speciali questioni i caratteri della proporzionalità e della periodicità. E' ormai noto che la somma degli interessi è determinata: in virtù di un coefficiente , che è rapportato in una misura percentuale alla somma capitale; secondo una durata base (mese, anno). Nel difetto di un patto espresso, la scadenza si verifica a periodi determinati dagli usi o in mancanza in relazione alla durata-base del tasso di interesse ferma restando l'esigenza di tener conto del tipo di rapporto. Anche il carattere dell'accessorietà suol essere considerato fondamentale; eppure è senza dubbio uno dei più controversi. I dubbi relativi all'accessorietà derivano dal fatto che per alcuni aspetti il debito di interessi sembra assurgere al rango di un obbligo indipendente dalle sorti del titolo del credito relativo al capitale: con la possibilità che il corrispondente credito possa formare oggetto di atti separati, quand'anche non possa di norma sopravvivere all'estinzione del debito principale. L'esempio più significativo è costituito dagli interessi dovuti a titolo di risarcimento danni: costante è la tendenza ad escludere che tali prestazioni abbiano carattere dell'autonomia. Le altre ipotesi tendono invece ad essere considerate nel segno della netta separazione: la prescrizione del credito principale non comporta la prescrizione quinquennale del credito relativo agli interessi maturati, così come la domanda relativa al capitale non interrompe la prescrizione del credito relativo agli interessi. L'opinione relativa all'autonomia del debito di interessi sembra essere un corollario del principio processuale secondo cui il credito relativo agli interessi deve essere chiesto con apposita domanda in giudizio, nella quale siano indicate la fonte e la misura della prestazione. Inoltre si ha l'improponibilità della richiesta d'interessi per la prima volta in appello, salvo che si tratti di interessi maturati dopo la sentenza di primo grado. Sulla disciplina della materia degli interessi nel fallimento devono finalmente tenersi presenti almeno gli articoli 54 e 55 della legge fallimentare. La prima disposizione richiama gli articoli 2788 e 2855 (estensione delle garanzie agli interessi). La seconda sospende gli interessi fino alla chiusura del fallimento, almeno che i redditi non siano garantiti da ipoteca, pegno o da privilegio.
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