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LA RETRIBUZIONE

diritto



la retribuzione


Il lavoratore acquista come corrispettivo dell'attività prestata il diritto ad un congruo trattamento economico, che consiste nella corresponsione della retribuzione secondo cadenze periodiche.

La retribuzione costituisce, secondo la definizione generale desumibile dagli artt. 2094 e 2099 c.c., l'obbligazione fondamentale a cui il datore di lavoro è tenuto nei confronti del prestatore. Essa "può essere considerata il corrispettivo della messa a disposizione delle energie lavorative, in quanto costituisce il prezzo di quest'ultima, prezzo che non risponde a criteri strettamente economici essendo troppi i fattori sociali e politico-sindacali che si intrecciano nella determinazione del suo ammontare. Determinazione che trova la sua prima fonte in una norma costituzionale, l'art. 36, co. I" (MAZZIOTTI). Questa norma testualmente recita "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa". Nonostante la genericità dell'art. 36, co. I, Cost., è possibile individuare il significato:

  • sia del criterio della proporzione, in virtù del quale la retribuzione deve 818j93i essere determinata secondo un criterio oggettivo di equivalenza alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, per cui la sua commisurazione dipende non soltanto dalla durata e dall'intensità della prestazione, ma anche dal tipo di mansioni espletate e dalle loro caratteristiche intrinseche;
  • sia del criterio della sufficienza, che corregge o almeno tempera il rigido criterio proporzionalistico, rispetto al quale assume un'importanza maggiore; in base al criterio della sufficienza, la misura della retribuzione deve 818j93i oltrepassare il minimo vitale o di sussistenza, al fine di assicurare un livello di vita sufficiente a garantire un'esistenza libera e dignitosa non soltanto al prestatore come singolo, ma pure alla sua famiglia;
  • infine, correlativamente al disposto dell'art. 2099 c.c., del criterio della determinatezza o determinabilità: in caso di riconosciuta incongruità del trattamento economico previsto per il lavoratore subordinato da un contratto individuale di lavoro, il giudice ben può adeguare il trattamento stesso ricorrendo ai parametri stabiliti nella contrattazione collettiva di categoria, anche se essa non è direttamente applicabile al caso di specie.

Altri caratteri della retribuzione, desumibili dall'art. 2099 c.c., sono:



  • l'obbligatorietà, in quanto trattasi di un diritto irrinunciabile del lavoratore;
  • la corrispettività, in quanto trova la sua causa nel rapporto di lavoro;
  • la continuità, dal momento che la retribuzione spetta per tutta la durata del rapporto di lavoro.

L'art. 36, Cost., ha innanzitutto natura programmatica, in quanto vincola il legislatore a stabilire, con provvedimenti del Governo o con appositi meccanismi procedurali di carattere amministrativo, il salario minimo spettante al lavoratore. Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico, non è mai stata emanata una legislazione determinatrice dei minimi salariali, per cui la giurisprudenza riconosce all'art. 36, Cost., oltre che la natura di norma direttiva, anche una funzione precettiva, considerandola direttamente vincolante nei confronti dell'autonomia privata. In altri termini, i giudici affermano che, in assenza di determinazione convenzionale della retribuzione o nell'ipotesi in cui la retribuzione pattuita sia insufficiente, il datore deve corrispondere un emolumento equivalente alla retribuzione minima prevista nei contratti collettivi di categoria o del settore produttivo di appartenenza del lavoratore, integrando i medesimi il requisito della sufficienza voluto dall'art. 36, Cost.. Per tale via, si realizza l'estensione erga omnes delle norme dei contratti collettivi riguardanti le tariffe salariali, che si applicano, infatti, in tal modo, anche ai prestatori dipendenti da imprese non aderenti alle associazioni sindacali.

Tra i principi generali in tema di retribuzione, parte della dottrina include anche quelli di eguaglianza e di non discriminazione, che hanno un vasto campo di applicazione in tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. In realtà, il problema della parità retributiva ha una sua pacifica applicazione sotto il profilo del divieto di discriminazione per specifici motivi; sul piano generale è da escludere, invece, un generale ed assoluto principio di eguaglianza retributiva. La cassazione, a sezioni unite, nel ripercorrere il complesso iter giurisprudenziale, ha affermato che nel nostro ordinamento giuridico non può assolutamente parlarsi di un principio di parità retributiva dei lavoratori a parità di mansioni, negando quindi che sussista una automatica equazione qualifica retribuzione: gli unici principi sussistenti sono quelli della garanzia del minimo retributivo e quello di non discriminazione.

L'obbligo retributivo caratterizza il rapporto di lavoro come rapporto oneroso di scambio o a prestazioni corrispettive. La corrispettività è un carattere tradizionalmente attribuito alla retribuzione, in quanto essa costituisce la prestazione del datore strutturalmente e funzionalmente correlata alla esecuzione della prestazione di lavoro.

Gli elementi della retribuzione

La retribuzione presenta una struttura composita perché "pur essendo il corrispettivo della prestazione di lavoro può essere utilizzata, a causa della sua intrinseca elasticità, per realizzare determinati scopi aziendali" (MAZZIOTTI). Dunque essa si compone di vari elementi, quali:

  • la paga base, il cui ammontare è fissato dai contratti collettivi per l'orario normale di lavoro, corrispondentemente alle varie categorie e qualifiche. Ad essa si aggiungono i c.d. scatti di anzianità, aumenti percentuali della retribuzione, previsti dalla contrattazione collettiva, con frequenza generalmente biennale;
  • le attribuzioni patrimoniali accessorie, previste dai contratti collettivi ed individuali, consistenti, nella maggior parte dei casi, in attribuzioni corrisposte, in aggiunta alla paga base, in maniera saltuaria o, più spesso, continuativa. Rientrano nella categoria:
    • i superminimi, incrementi collettivi od individuali che corrispondono a quella parte di retribuzione che supera i minimi tariffari;
    • le maggiorazioni per il lavoro straordinario, notturno e festivo;
    • le gratifiche (si pensi, ad esempio, alla tredicesima mensilità o gratifica natalizia, istituita nel periodo corporativo e poi ridisciplinata, alla fine di quest'ultimo, con un accordo interconfederale);
    • i premi di produzione o di rendimento

Un cenno a sé merita l'indennità di contingenza, istituto volto a correggere, almeno in parte, la natura della retribuzione come credito di valuta e, quindi, ad adeguarne il valore nominale a quello reale. Il sistema si è basato, fin dall'origine, sulla c.d. scala mobile, meccanismo che comporta un adeguamento automatico del livello retributivo al costo della vita attraverso il riferimento alle variazioni dei prezzi di particolari beni costituenti il c.d. paniere. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni Settanta, l'istituto della scala mobile è entrato in crisi e, dopo vari interventi legislativi, è stato soppresso con il protocollo triangolare di intesa tra Governo e parti sociali del 31 luglio 1992. L'intera materia della dinamica salariale è stata oggetto di una completa ridefinizione con il protocollo di intesa del 1993. Con tale accordo triangolare le parti sociali ed il governo hanno infatti concordato un nuovo ed organico assetto del sistema retributivo, impegnandosi nel contempo a rendere la contrattazione collettiva in materia salariale compatibile con le politiche economiche ed in particolare con le esigenze di controllo delle spinte inflative. L'accordo individua due livelli contrattuali, quello nazionale di categoria e quello aziendale. Al primo continua ad essere attribuita la tradizionale funzione di fonte generale di regolamentazione dei rapporti di lavoro, ma con la previsione di un ritmo quadriennale per il rinnovo della parte normativa, e di un ritmo biennale per il rinnovo della parte economica. In questo modo è assicurata la possibilità di una dinamica retributiva relativamente frequente, non automatica, ma volta a volta oggetto di negoziazione tra le parti sociali. Con l'importante, previsione, peraltro, che in caso di ritardo del rinnovo contrattuale superiore a tre mesi, sia corrisposta ai lavoratori un'indennità di vacanza contrattuale, di importo pari al 30% (50% dopo il sesto mese) del tasso di inflazione programmato in sede governativa, calcolato sui minimi contrattuali vigenti. Alla contrattazione aziendale è invece attribuita la funzione di definire istituti retributivi diversi rispetto a quelli disciplinati dal contratto nazionale e, specificamente, di prevedere erogazioni correlate ai risultati di produttività e all'andamento economico complessivo dell'azienda, nell'ambito dei programmi concordati tra le parti.

Il principio di omnicomprensività della retribuzione

Problema particolarmente discusso in dottrina ed in giurisprudenza è quello dell'individuazione delle attribuzioni patrimoniali da far rientrare nel concetto giuridico di retribuzione. Esso inerisce alla sussistenza o meno, nel nostro ordinamento, del principio di omnicomprensività della retribuzione, per il quale essa ricomprende non solo il compenso che costituisce il diretto corrispettivo della prestazione lavorativa, ma anche tutti gli emolumenti che presentano carattere continuativo, periodico o costante nel tempo. Tale principio non è privo di risvolti sul piano pratico: primo fra tutti, quello dell'individuazione delle erogazioni che possono essere prese in considerazione per il calcolo di istituti che assumono la retribuzione come base di computo. La giurisprudenza era, in passato, nel senso della omnicomprensività della retribuzione, sostenuta sulla base di una congerie di argomentazioni, delle quali la più rilevante era quella dell'applicazione estensiva dell'art. 2121, c.c.. Oggi, anche a causa della modifica di tale articolo ad opera della L. 297/1982, tale orientamento è mutato e prevale quello per cui non esiste nel nostro ordinamento un concetto monolitico di retribuzione ed è da escludere che l'omnicomprensività valga oltre i casi richiamati espressamente dalla legge e dai contratti collettivi.

I sistemi retributivi

L'art. 2099 c.c. codifica una tipologia delle varie forme retributive, stabilendo che la retribuzione può essere determinata: a tempo, a cottimo, con partecipazione agli utili o a prodotti con provvigione, ed infine, in natura. Tali diversi sistemi di retribuzione costituiscono dei metodi per calcolare l'ammontare della retribuzione, a sua volta determinata dai contratti collettivi o, anche, degli accordi individuali. In realtà la retribuzione a tempo è il metodo adoperato in maniera esclusiva nel senso che le altre forme in precedenza indicate costituiscono forme di compenso parziale o di elementi della retribuzione, la quale mantiene sempre una parte fissa, determinata a tempo, al fine di garantire al lavoratore un minimo retributivo dovuto per il semplice fatto di aver prestato l'attività di un determinato periodo di tempo.

Alla stregua dell'art. 2099, c.c., la retribuzione può essere:

  • a tempo, se commisurata alla frazione di tempo di lavoro svolto (ora, giorno, mese). In tale sistema retributivo assume importanza la distinzione tra:
    • retribuzione oraria, o salario, tipica del lavoro operaio e rapportata al numero di ore effettivamente lavorate, con la conseguenza che qualsiasi sospensione del lavoro comporta l'automatica perdita della retribuzione;
    • retribuzione mensile, o stipendio, propria del lavoro impiegatizio e stabilita in misura fissa mensile, comprensiva anche dei giorni di riposo settimanale o infrasettimanale;
  • a cottimo, se commisurata alle unità di prodotto fornite dal lavoratore, cioè al risultato produttivo. Nell'ambito di tale forma retributiva occorre distinguere:
    • il cottimo pieno, che si ha quando la retribuzione viene determinata in base alla quantità di lavoro prestato;
    • il cottimo misto, in cui la retribuzione è calcolata in parte a tempo ed in parte in base al sistema del cottimo;
    • il cottimo collettivo, legato al rendimento, non del singolo lavoratore, ma di un gruppo organizzato di lavoratori;
    • il concottimo, che designa un particolare trattamento retributivo riservato a lavoratori non cottimisti, il cui lavoro può aumentare con l'intensificarsi del ritmo di lavoro di prestatori cottimisti.

Il cottimo può poi essere:

    • obbligatorio, quando, in ragione dell'organizzazione del lavoro il prestatore deve osservare un determinato ritmo produttivo e quando la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle misurazioni dei tempi di lavorazione (art. 2100 c.c.);
    • vietato, per gli apprendisti.

A tutela dei prestatori, l'art. 2101, c.c., dispone che "L'imprenditore deve comunicare ai prestatori di lavoro i dati riguardanti gli elementi costitutivi della tariffa di cottimo, le lavorazioni da eseguirsi e il relativo compenso unitario". L'art. 2101 c.c. disciplina poi, in via generale, l'intervento del sindacato nella formazione delle tariffe di cottimo, disponendo che i contratti collettivi possono stabilire che le tariffe non divengano definitive se non dopo un periodo di esperimento e che possono essere sostituite oe modificate soltanto se intervengono mutamenti nelle condizioni di lavoro e in ragione degli stessi, aggiungendo inoltre che la sostituzione o variazione non diviene definitiva se non dopo un periodo di esperimento stabilito dalla norme dei contratti collettivi (c.d. assestamento).

Ancora, sempre a termini dell'art. 2099, c.c., la retribuzione può essere:

  • a provvigione, se è commisurata al numero degli affari conclusi;
  • con partecipazione agli utili o ai prodotti, quando il lavoratore è retribuito, in tutto o in parte, con una percentuale sugli utili conseguiti dall'imprenditore nell'esercizio della sua attività;
  • in natura, ipotesi residuale, che si riscontra in alcune forme di lavoro domestico, agricolo e nel settore della pesca.

La determinazione della retribuzione

L'ammontare della retribuzione, secondo quanto disposto dall'art. 36 Cost., deve essere commisurata alla quantità e qualità del lavoro svolto. Per quanto concerne la concreta determinazione della misura della retribuzione, ai sensi dell'art. 2099 c.c., essa è stabilità:

dalla contrattazione collettiva, dovendosi intendere così il rinvio che la norma fa alle norme corporative. Tale rinvio primario alla contrattazione collettiva consente di riconoscere ad essi la fondamentale funzione tariffaria, e cioè di determinazione della retribuzione minima, inderogabile in peius, ma suscettibile di modifiche migliorative ad opera della contrattazione individuale;

dall'accordo delle parti: nella previsione dell'art. 2099 c.c. il riferimento all'accordo individuale delle parti ha riguardo alle ipotesi residuali in manchino determinazioni dei contratti collettivi;

dal giudice: l'art. 2099 c.c. stabilisce che in mancanza di determinazione collettiva o negoziale la misura della retribuzione è stabilita dal giudice.

Le modalità di pagamento della retribuzione

La retribuzione è, di regola, corrisposta in danaro ed è, quindi, soggetta alla disciplina dettata dagli artt. 1277 e ss., c.c.. La contrattazione, collettiva ed individuale, fissa generalmente l'ammontare della retribuzione con riferimento ad un anno di lavoro; la corresponsione avviene, tuttavia, in ratei periodici e, per il principio c.d. della post-numerazione, dopo l'espletamento della prestazione lavorativa. Le modalità ed i termini di corresponsione della retribuzione sono quelli in uso nel luogo in cui il lavoro viene svolto, che è anche il luogo in cui la retribuzione viene pagata. In ordine alle modalità, la L. 5 gennaio 1953, n. 4, sanzionata penalmente, fa obbligo al datore di accompagnare la corresponsione della retribuzione con la consegna di un "prospetto paga", recante l'indicazione di tutti gli elementi costitutivi di essa.

Il trattamento di fine rapporto e l'indennità in caso di morte

La L. 29 maggio 1982, n. 297, ha sostituito all'indennità di anzianità - consistente nella retribuzione che maturava al momento della cessazione del rapporto di lavoro e che era pari al prodotto dell'importo dell'ultima retribuzione per il numero di anni di servizio prestato - il diverso istituto del trattamento di fine rapporto. Quest'ultimo, secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti, ha natura retributiva e previdenziale insieme, perché rappresenta quella parte di retribuzione cui il lavoratore alle dipendenze di un privato o di un ente pubblico economico ha diritto in ogni caso di cessazione del rapporto, al fine di superare le eventuali difficoltà economiche connesse a tale cessazione.

L'art. 2120, c.c., nella nuova formulazione, dispone che il trattamento di fine rapporto si calcola accantonando, anno per anno, una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. Il totale delle quote accantonate - con esclusione della quota maturata nell'anno - è incrementato, su base composta, al 31 dicembre di ciascun anno, con l'applicazione di un tasso costituito dall'1,5% in misura fissa e dal 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati, accertato dall'ISTAT, rispetto al mese di dicembre dell'anno precedente.

Nella retribuzione media da prendere a base del calcolo devono farsi rientrare tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro a titolo non occasionale, e con esclusione di quanto corrisposto a titolo di rimborso spese. Previsioni diverse possono, però, essere contenute nei contratti collettivi a cui la L. 297/1982 concede ampio spazio, tanto che la Cassazione ritiene possibili anche deroghe in peius, purché la disciplina pattizia assicuri al prestatore un trattamento complessivamente più favorevole.

L'art. 2120, co. VI, c.c., dispone che il lavoratore, con almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore, può chiedere in costanza di rapporto di lavoro, un'anticipazione non superiore al 70% sul trattamento cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta. I commi dal VII all'XI dello stesso articolo contemplano una serie di limiti per tale anticipazione, che deve essere giustificata dalla necessità di:

  • eventuali spese sanitarie per terapie ed interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche;
  • acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile (si ricorda che la sent. n. 142/1991 della Corte cost. ha dichiarato illegittimo l'art. 2120, co. VIII, lett. b), nella parte in cui non prevede la possibilità di concessione in caso di acquisto in itinere comprovato con mezzi idonei a dimostrarne l'effettività).

L'indicazione delle finalità per cui può essere chiesta l'anticipazione è evidentemente generica: ciò si spiega in considerazione dell'ampio margine che la legge lascia in materia alla contrattazione collettiva ed individuale, chiamata ad integrare e migliorare la disciplina legislativa.

Il trattamento di fine rapporto, unitamente all'indennità di preavviso, spetta nel caso di morte del prestatore, ai "superstiti", ossia al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del lavoratore, ai parenti entro il terzo grado ed agli affini entro il secondo grado. La ripartizione deve seguire i criteri stabiliti dall'accordo tra i superstiti; in difetto di accordo, il criterio del bisogno attuale di ciascuno.

Secondo l'orientamento dottrinale prevalente, il diritto spetta ai prossimi congiunti indicati dalla legge "iure proprio", ciò che implica importanti conseguenze sotto il profilo fiscale e sotto quello dei rapporti del de cuius con i creditori, che non possono rivalersi sull'indennità in questione avente natura anche previdenziale ed assistenziale. Solo in mancanza di "superstiti" subentrano le norme della successione testamentaria o legittima e l'acquisto avviene "iure successionis".

La nuova nozione di reddito da lavoro dipendente a fini contributivi

Il nostro ordinamento, fino ad un'epoca recente, forniva ancora un'altra nozione di retribuzione, applicabile al rapporto contributivo previdenziale e al fine di determinare la base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza sociale. Ed a tal fine l'art. 12 della legge n. 153 del 1969, riferendosi a tutto ciò che veniva corrisposto dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto di lavoro, offriva una definizione molto ampia della retribuzione ai fini previdenziali. A fronte di questa definizione la giurisprudenza era giunta ad affermare la sottoposizione a contribuzione previdenziale non solo delle prestazioni assistenziali obbligatorie, ma perfino gli atti ricorrenti di liberalità del datore di lavoro a favore dei propri dipendenti. Il Dlgs n. 314 del 1997 ha superato tale principio riconoscendo la retribuzione imponibile in tutte le somme e i valori a qualunque titolo percepiti nel periodo di competenza in relazione al rapporto di lavoro, ferma restando l'esclusione di alcune voci indicate dal decreto stesso.

Il Dlgs 314 del 1997 ha altresì operato una armonizzazione della retribuzione imponibile ai fini previdenziali alla retribuzione imponibile ai fini fiscali, in quanto il calcolo della retribuzione da assoggettare a contribuzione è effettuato mediate derivazione dalla nozione di reddito di lavoro dipendente contenute nel Testo unico imposte sul reddito. Infatti, l'art. 12 della legge 153 del 1969, modificato dal Dlgs 314 del 1997, per la determinazione della retribuzione imponibile ai fini contributivi, rinvia alla nozione di reddito di lavoro dipendente di cui agli artt. 49 - 51 del T.u.i.r.. Ai sensi dell'art. 49 sono redditi da lavoro dipendente quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il lavoro a domicilio. L'art. 51 stabilisce come deve essere determinato il reddito di lavoro dipendente, fornendo il criterio menzionato di retribuzione imponibile e un elenco di voci che non concorrono alla formazione del reddito. Dal combinato disposto dagli artt. 49 e 51 T.u.i.r. si ottiene in base imponibile ai fini fiscali, dalla quale, sottraendo gli importi relativi agli elementi indicati tassativamente nell'art. 12 della legge 153/69, si giunge alla base imponibile contributiva.

L'adempimento dell'obbligazione retributiva: tempo, luogo e modalità

La retribuzione è, come detto, una tipica obbligazione corrispettiva da ricomprendere tra le obbligazioni pecuniarie, avente come oggetto una somma di denaro e sottoposte alla disciplina degli artt. 1277 c.c. e seg.. Per ciò che riguarda la corresponsione della retribuzione, il datore è sottoposto alle regole generali degli art. 1176 e 1182 c.c..

L'art. 2099 c.c. si limita a stabilire le modalità ed i termini e cioè i tempi e le circostanze del pagamento che devono essere desunti da quelli in uso nel luogo ove il lavoro viene eseguito. Quanto al luogo dell'adempimento, la retribuzione viene corrisposta nella sede dell'imprenditore, che è il luogo di lavoro nel quale il lavoratore presta la propria attività. La legge impone al datore di consegnare al lavoratore, unitamente alla retribuzione, un prospetto paga analitico delle diverse voci che compongono la retribuzione, con indicazione delle trattenute di legge, fiscali, previdenziale ed assistenziali.

Il termine per la corresponsione della retribuzione è, di regola, stabilito dai contratti collettivi o in mancanza dagli usi.

Il diritto al pagamento della retribuzione sorge a lavoro compiuto: è questo il principio della postnumerazione, in forza del quale il pagamento della retribuzione è posticipato rispetto alla erogazione della prestazione lavorativa.

La tutela del credito di lavoro

Nel caso in cui un datore ometta in tutto o in parte di corrispondere al lavoratore il pagamento della retribuzione, sorge in capo a questi un diritto di credito nei confronti del primo, garantito da varie disposizioni di legge.

Le principali ipotesi di tutela del credito lavorativo sono:

l'art. 429, comma 3, c.p.c. che prevede il cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria sui crediti di lavoro. La norma prevede che quando il giudice pronuncia sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme di denaro in favore del lavoratore, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto. In particolare sulla somma rivalutata vanno calcolati gli interessi nella misura legale. Tale previsione si giustifica nell'intento di conservare il calore economico della prestazione dovuta al lavoratore in forza del rapporto di lavoro, e preservarlo, quindi, dalla perdita del potere di acquisto per effetto del fenomeno inflativo;

le sentenze di condanna per crediti di lavoro sono immediatamente esecutive sin dal dispositivo della sentenza. Il giudice d'appello può tuttavia sospendere l'esecuzione, qualora possa derivarne al datore gravissimo dallo (art. 431 c.p.c.);

i crediti retributivi, in caso di insolvenza del datore, sono assistiti da privilegio generale sui beni mobili (art. 2751 bis c.c.). Essi pertanto devono essere soddisfatti prima degli altri crediti e sono posposti soltanto alle spese di giustizia. Il lavoratore insoddisfatto può proporre domanda al Fondo di garanzia istituito presso l'INPS, affinché si sostituisca al datore di lavoro insolvente nel pagamento di quanto a lui spettante. Il fondo garantisce il pagamento del TFR e degli altri crediti di lavoro inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, rientranti nei dodici mesi che precedono la dichiarazione di insolvenza;

il credito di lavoro è parzialmente pignorabile a istanza di eventuali creditori del lavoratore. L'art. 545 c.p.c. fissa infatti dei limiti alla possibilità di pignorare la retribuzione corrisposta dal datore: in generale la trattenuta sullo stipendio per effetto del pignoramento, non può superare la misura di un quinto. Lo stesso vale per il sequestro conservativo e per la compensazione.





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