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LA REGGIA: PROGETTO - LA REGGIA : COSTRUZIONE

storia dell arte



LA REGGIA: PROGETTO


Esercitava in Napoli il ministero sacerdotale, negli anni di Carlo Borbone e anche dopo, tale Gregorio Maria Rocco, figlio di Francesc'Antonio Mari-Ruocco e di Anna Starace, piccoli negozianti.

Gregorio Maria Rocco, che aveva vestito il saio dei frati di San Domenico nel convento della Sanità, a diciotto anni, e che aveva poi acquistato grande popolarità per l'uso generoso che faceva della parola e del bastone nel convertire i peccatori, chiese la re di costruire, alla strada di Foria, un albergo per i poveri.

Era l'anno 1750 e Carlo, che aveva già speso somme rilevanti per le sue residenze di Portici e di Capodimonte e che già da tempo meditava di edificare in Caserta la sua reggia, accolse prontamente la richiesta un po' per tacitare la sua coscienza, e più ancora per il gran conto in cui teneva il facondo frate che andava "a pesca di anime e a caccia del demonio" tra lazzaroni, meretrici e plebe di piazza Castello e della strada San Giuseppe, una via tortuosa che conduceva da piazza Medina ai Fiorentini.

Per la costruzione del Real Albergo dei Poveri, Carlo Borbone si rivolse all'architetto Ferdinando Fuga che gli era stato caldamente raccomandato dal cardinale Colonna Mommo; per la reggia casertana, a Luigi Vanvitelli che in quel tempo lavorava alle dipendenze della Reverendissima Fabbrica di San Pietro.



Vanvitelli godeva a Roma di stima e benevolenza non comuni ed era ritenuto insostituibile dalla Corte Pontificia. C'erano, però, tra il Reame napoletano e la Santa Sede, rapporti piuttosto tesi a causa del tentativo da questa effettuato, nel 1746, di introdurre inosservatamente in Napoli il tribunale di Santo Uffizio. Qualcosa, anzi, era anche stato fatto dall'arcivescovo Spinelli il quale, dopo di aver formato sigillo proprio per i processi, aveva nominato consultori e notai, allestito le carceri e fatto eseguire ad un paio di persone la cerimonia dell'abiura. Ma quando aveva ordinato di attaccare all'ingresso del palazzo un cartello con la scritta "Santo Uffizio", il popolo aveva tumultuato, minacciando di morte due cardinali e dichiarato di dar vita a cose peggiori se il giovane sovrano non avesse prontamente riprovato, con un editto, l'operato dell'arcivescovo.

Carlo non solo emise l'editto (che fu, poi, scolpito in marmo e murato in San Lorenzo), ma costrinse monsignor Spinelli a lasciare la città. Il trasferimento del Vanvitelli apparve, quindi a Papa Lambertini, il mezzo più concreto ed efficace per ristabilire buoni rapporti con i Borbone, e il cardinale Silvio Valenti Gonzaga, si adoperò affinché l'architetto si liberasse al più presto dai suoi impegni in Loreto e raggiungesse Napoli, dove Ferdinando Fuga, 848f53i cercava di ottenere, dal giovane sovrano, l'incarico di progettare anche la reggia casertana.

Giunto a Napoli, Vanvitelli prese alloggio, prima nel convento di San Luigi e successivamente presso il Calascione, dove lavorando alacremente, riuscì ad ultimare alcuni disegni del nuovo palazzo, con piena soddisfazione del re, che ebbe modo di esaminarli a Portici, ove si era recato a caccia di quaglie e a pesca. "Mercoledi andiedi a Portici - si legge in una lettera del Vanvitelli, datata 22 maggio 1751, inviata al fratello Urbano a Roma - a portare li disegni al Marchese Fogliani ... Questa mattina poi all'alba è venuto un lacchè con l'ordine di andare alle 13 ore in Portici, volendomi parlare le LL. MM. ...et hanno avuto la clemenza di amettermi in solo congresso con il Re e la Regina, che con tutta cortesia et impazienza volevano vedere ciò che vi era dentro la cartella; ... ho mostrato li disegni da uno ad uno ...".

Con l'autunno il progetto di massima era pressoché terminato. Occorreva, un capomastro capace di impiantare a Caserta sotto la direzione del Vanvitelli, l'imponente cantiere occorrente per la realizzazione della nuova costruzione. Fu scelto Pietro Bernasconi, di Milano, abilissimo costruttore, che aveva sostituito il Vanvitelli a Loreto. Per poter liberare il Bernasconi dai suoi impegni, Vanvitelli ritornò a Loreto e per evitare perdite di tempo, portò con se i disegni della reggia e li affidò all'architetto Marcello Fonton, affinché effettuasse le necessarie correzioni per la disposizione dei reali appartamenti.

Al ritorno da Roma, il Vanvitelli, si trasferì a Caserta, ove era richiesta la sua presenza sia per i lavori di sbancamento del terreno e sia per l'allestimento della mostra dei disegni della Reggia, ai quali aveva aggiunto una prospettiva della facciata principale.

Con la fine di novembre tutto era pronto e il 6 dicembre ebbe luogo la preannunciata visita dei sovrani. Giunse prima la regina e subito salì al piano superiore del vecchio palazzo principesco "... ove erano attaccati li disegni con le cornici e i cristalli, i quali per essere apparati di velluto cremisi con trine doro ... facevano uno spicco notabile ...". Tra le tavole esposte, mancavano quelle relative alla scala regia, alla cappella palatina, al teatro, ai quattro cortili e alla facciata posteriore.

La posa della prima pietra ebbe luogo il 20 gennaio 1752, nel corso di una giornata assolata ma fredda a causa della gelata notturna. La cerimonia si svolse alla presenza dei sovrani e della corte, solo il re manifestò un lieve disappunto per i ritratti incisi sulla medaglia commemorativa, nei quali la regina non era perfettamente ritratta e lui presentava un naso lungo e grosso. Carlo di Borbone, gratificò il Vanvitelli con 1.000 ducati, regalandogli il martello e la cazzuola d'argento, usati per la cerimonia.

LA REGGIA : COSTRUZIONE

La reggia copre una superficie di circa 44.000 mq. I materiali occorrenti alla realizzazione dell'opera, che costò 6.133.507 ducati e alla quale lavorarono, oltre una numerosa schiera di maestranze locali e straniere, anche un gran numero di schiavi e galeotti, catturati dalle regie navi lungo la costa libica, furono estratti in gran parte da cave esistenti nella zona o nei territori del regno: San Nicola la Strada (tufo), Bellona (travertino), Mondragone (marmo grigio), San Leucio (calce), Bacoli (pozzolana), Gaeta (arena), Capua (mattoni e affini), Sicilia, Calabria e Puglia, per i diversi marmi. Venne anche usato, per le statue e per alcune modanature, il marmo bianco di Carrara. La scelta dei marmi occorrenti alla costruzione fu operata dallo scultore francese Giuseppe Canart, che già da tempo era al servizio del re come restauratore di statue e conoscitore di marmi antichi.

La pianta del palazzo, di forma rettangolare (m 247 x 190) con l'area interna divisa in quattro cortili per mezzo di due corpi di fabbrica intersecantisi ad angolo retto, è stata riconosciuta come "un modello di distribuzione dello spazio, di assoluta aderenza alle sue funzioni, di originale collegamento tra il piazzale ed il parco".

Di ispirazione berniana deve invece considerarsi l'impostazione prospettica dei due emicicli che si sviluppano innanzi alla Reggia e che raccolgono intera la visione della lunga facciata.

La facciata della Reggia, eseguita parte in travertino di S. Iorio e parte in laterizi, si sviluppa su di uno schema straordinariamente orizzontale composto da un basamento e da un maestoso ordine composito cui fa da chiusura, in alto, un attico scandito da piccole finestre e ombreggiato da un cornicione sormontato da una balaustrata.

Ai due angoli e nella parte centrale la facciata avanza leggermente per brevi tratti evidenziando l'ingresso principale e le due estremità del fabbricato. Il movimento ad arco della porta centrale è ripetuto, nella parte superiore, da una nicchia aperta tra finestre con timpani triangolari o semicircolari e coppie di colonne scanalate che reggono il maestoso frontone a timpano. Il palazzo si sviluppa per una altezza totale di m 41, ha 1.200 vani illuminati da 1742 finestre delle quali ben 241 si aprono sulla facciata anteriore ed altrettante su quella posteriore. Quasi tutte le stanze sono fornite di caminetto per il riscaldamento, di modo che i canali dei tiraggi, attraversano in tutti i sensi le murature e sui tetti si contano 1026 fumaioli. Tutti i vani sono coperti da volte di ogni forma e tipo: a crociera, a vela, a padiglione, a botte, a catino, a scodella ecc., ciò ha imposto di costruire le mura esterne, che formano la cassa dell'edificio, dello spessore di m 3,50 al pianoterra. La copertura del palazzo è a tetto con due falde, di altezza costante, le cui incavallature sono di legno abetone della Sila. Ogni elemento è composto da due puntoni rinforzati, tre monaci e un tirante. Queste capriate sono intercalate da quelle miste di muratura e legname, in questo modo, il tetto è sorretto da 76 elementi dl primo tipo e 64 del secondo. La copertura del tetto, è formata con tegoloni e canali, provenienti dalle fornaci di Portici, come anche i quadroni per i pavimenti, messi in opera dai valenti maestri Zappi e Rossi. I lavori di carpenteria e falegnameria, furono eseguiti dal maestro tedesco Antonio Ross, il quale si dimostrò così abile, da riscuotere la piena fiducia del Vanvitelli, che gli affidò lavori delicati e importanti. A lui successe il figlio Francesco, al quale seguirono i figli Alessandro e Carlo.

Sulle quattro basi di travertino esistenti ai lati dell'ingresso principale dovevano essere collocate (ma non furono mai realizzate) statue illustranti la Giustizia, la Magnificenza, la Pace e la Clemenza.

Subito dopo il cancello centrale una superba galleria a tre navate (alta e larga la mediana, più strette e basse le laterali), conduce all'ottagono centrale ove fasci di colonne di pietra di Bigliemi (Sicilia) reggono forti arcate creando passaggi ai quattro grandi cortili e - sulla destra - al maestoso scalone a tenaglia ove marmi policromi compongono pregevoli effetti decorativi.

Oltre l'ottagono la galleria continua il suo cammino fino a perdersi nella verde prospettiva del parco con un movimento scenografico stupendo.

A sinistra dell'ottagono centrale, proprio di fronte allo scalone, una colossale statua di Ercole, trasportata da Roma nel 1756 e ritenuta opera dello scultore ateniese Gliconio, nasconde l'ingresso di un passaggio coperto che consente di raggiungere il ridotto del Teatro di Corte e il grande vano cilindrico ove fu iniziata, ma non completata, una seconda imponente scala per uso esclusivo dei reali i quali avrebbero potuto così raggiungere gli appartamenti senza attraversare le sale di rappresentanza.

Nelle nicchie laterali all'Ercole, vi sono le riproduzioni di antiche sculture, altre riproduzioni sono poste alla destra e alla sinistra del grande arco di accesso alla Scala Regia.

La Galleria

Subito dopo il cancello centrale, una galleria a tre navate, una centrale per le carrozze e due laterali per i pedoni, conduce all'ottagono centrale dove fasci di piloni in pietra reggono le arcate, creando i passaggi ai quattro cortili interni e, sulla destra, al maestoso scalone a tenaglia. Oltre l'ottagono, la galleria continua il suo cammino fino a perdersi nella verde prospettiva del parco con uno stupendo movimento scenografico.

A sinistra dell'ottagono centrale, di fronte allo scalone, una colossale statua di Ercole proveniente da Roma, rinvenuta acefala nelle terme di Caracalla e venuta in possesso dei Farnese, passò in eredità ai Borbone che la collocarono nella Reggia.

SCALA REGIA

Lo scalone che immette nel Vestibolo Superiore e, quindi, agli appartamenti reali e alla Cappella Palatina, è impostato, inizialmente, su di una sola rampa della larghezza di m 7,70 in cui i gradini sono ricavati da blocchi di lumachella di Trapani.

Dal ballatoio, alle spalle dei due magnifici leoni in marmo bianco di Carrara (quello posto a destra di chi sale è opera dello scultore Tommaso Solari e quello a sinistra di paolo Persico), il Vestibolo Superiore è raggiungibile mediante due rampe larghe m 5, le cui pareti (come del resto, quelle della rampa centrale) sono rivestite da marmi grigi provenienti dalle cave di San Mauro e San Sebastiano sul monte Petrino, presso Mondragone, e da una impiallacciatura dello spessore di circa un centimetro di marmi rosa a macchie chiare provenienti da cave siciliane. I marmi furono segati, aperti e monatti su blocchi di piperno nelle segherie fatte allestire dai Borbone lungo l'attuale vialone Carlo III, nei pressi della reggia. Le modanature sono in marmo bianco di Carrara, mentre i balaustri sono ricavati da blocchi di marmo di Vitulano.

A chiusura della prima rampa, alle spalle dei leoni, la parete presenta una porta e, in alto, un nicchione con una statua di Tommaso Solari simboleggiante la Maestà Regia; a destra di chi guarda vi è la Verità e a sinistra il Merito, due sculture eseguite in gesso non patinato da Gaetano Salomone e Andrea Violani.

La porta immette in una scala di servizio realizzata per consentire ai maestri d'orchestra di poter raggiungere agevolmente lo spazio esistente fra le due volte dello scalone; spazio dal quale i musici, nelle serate di ricevimento, eseguivano, non visti, composizioni del maestro di Camera e Cappella Giovanni Paisiello, personale amico di Ferdinando IV, e di altri artisti preferiti dai Borbone.

Sulla prima volta (quella con l'apertura centrale) Girolamo Starace Franchis dipinse nel 1769 i medaglioni con le quattro stagioni; sulla seconda lo stesso autore eseguì a fresco, nel grande ovale ben visibile dalla rampa mediana dello scalone, La Reggia di Apollo.

VESTIBOLO SUPERIORE

Salendo una delle rampe laterali si giunge al Vestibolo reso luminoso da quattro finestroni aperti sui cortili. Il Vestibolo, a pianta ottagonale, assume, nella parte centrale e mediante un passaggio delimitato da otto fasci di pilastri, lesene e colonne d'ordine ionico, un movimento circolare evidenziato maggiormente dalla volta decorata a scomparti geometrici deformati dalla sollecitazione di una immaginaria forza rotante. Le colonne sono di breccia rossa di monte S. Angelo, nel Gargano, ed hanno basi e capitelli di marmo di Carrara. Le sei nicchie distribuite sulle pareti perimetrali sono di marmo di Mondragone e presentano, in alto, un frontone a timpano. Di marmo di Mondragone sono anche i portali di cui quello centrale (ingresso della Cappella Palatina) è sormontato da putti alati. Il pavimento, eseguito con lumachella di Trapani, breccia rossa, giallo di Sicilia, grigio di Mondragone e bardiglio, si articola su di una composizione geometrica che raggiunge la sua maggiore ampiezza nella parte centrale.

Sul Vestibolo si apre, a sinistra di chi sale, la porta che immette nei Reali Appartamenti.

L'acquedotto Carolino

Fin dall'inizio dell'opera, alle difficoltà di ordine tecnico immediatamente si aggiunsero complicate e laboriose pratiche burocratiche per acquisire la disponibilità delle acque. E' il caso di ricordare l'acquisto delle sorgenti del Fizzo, di proprietà della mensa arcivescovile di Benevento, avvenuto per atto del notaio Giovanni Ranucci il 18 marzo 1753. L'arcivescovo di Benevento Francesco Pacca ricevette, per la cessione, novemila ducati.

Il duca di Airola, don Bartolomeo di Capua, fece omaggio al Sovrano di tutte le acque che attraversavano il suo stato: le fonti erano conosciute con il nome di "Molinise", "Fontana del Duca" e "Matarano".

La donazione avvenne il 12 aprile 1757 e, come osserva argutamente il Nicolini, il Duca, con quel gesto, sperava di guadagnare straordinari favori dal Re che fu ben lieto di accettare il dono, facendo intravedere al munifico donatore che tanta generosità non sarebbe stata priva di compenso.

Né Carlo, né Ferdinando, tuttavia, pensarono di mostrare tangibilmente la loro gratitudine al Duca di Airola che non poté far altro che invidiare i suoi vicini, venditori e non donatori di alcune loro fonti. Per ultima si acquistò l'acqua del Carmignano, così detta perché il condotto per cui passava era opera di Cesare Carmignano che lo aveva realizzato nel 1627.

Poiché quel condotto era l'unica fonte di approvvigionamento idrico per la città di Napoli, si levò un coro di proteste da parte dei napoletani. Il Re, comunque, dette ampie assicurazioni di futuri, rilevanti vantaggi per Napoli e riuscì a placare gli animi.

Vanvitelli, intanto, aveva diviso il lavoro in tre tronchi: il primo, dal Fizzo al monte Ciesco; il secondo, dal Ciesco al monte di Garzano; il terzo, da Garzano alla reggia di Caserta. Iniziando i lavori del primo tronco, Vanvitelli dovette affrontare e risolvere i primi problemi: l'attraversamento di una zona paludosa, sulla quale si passò piantando delle palizzate; il passaggio sul fiume Faenza, superato con un ponte a tre archi, lungo circa 73 metri.

Superate queste difficoltà, il condotto passò per un territorio composto da tufo, creta e macigno e negli scavi furono rinvenuti i resti di un acquedotto romano.

Per completare il primo tratto mancava solo la foratura del monte Ciesco, che fu attraversato nel 1755. Il secondo tratto dell'acquedotto Carolino creò enormi difficoltà a Vanvitelli ed alle maestranze impegnate nell'impresa. I lavori, iniziati nel 1753, si protrassero fino al 1762.

Il primo ostacolo da superare fu il monte Croce nel tenimento di Sant'Agata de' Goti, perforando il quale si lamentò un incidente mortale che rallentò i lavori in quanto gli operai, per due mesi, si rifiutarono di proseguire gli scavi. Si andò avanti, toccando i monti Castrone, Acquavivola, Sagrestia, Stella Maggiore, Fiero e Fano, per arrivare alla valle di Durazzano: qui per superare il torrente Maiorano, nel 1760 fu costruito un ponte alto 18,50 metri, a quattro luci uguali, ciascuna di 6,45 metri.

Si giunse, così, al monte Longano, difficile da perforare a causa della friabilità del terreno. Il timore di frane rallentò il cammino del condotto, rendendosi necessaria anche la costruzione di numerosi contrafforti per sorreggere alcuni punti particolarmente friabili.

Superato l'ostacolo del monte Longano, Vanvitelli si trovò di fronte il monte di Garzano per raggiungere il quale occorreva superare un'ampia e profonda vallata. Fu deciso, allora, di costruire un ponte con triplice ordine di arcate che, in quell'epoca, era il più lungo d'Europa.

I ponti della valle, sono, certamente, l'elemento più spettacolare dell'intero condotto, tuttavia anche altri lavori, meno appariscenti ma non di minore impegno, costrinsero l'architetto ed i suoi collaboratori ad affrontare e risolvere problemi di eccezionale difficoltà. Vanvitelli dovette, infatti, vincere l'asprezza della roccia e perforare i duri macigni del monte Garzano, che fu attraversato dopo tre anni di duro lavoro, il 23 marzo 1759.

Ci fu gran festa, il 7 maggio 1762, allorquando si provò il tratto del condotto che dal Fizzo giungeva al Garzano. Il Re giovanetto, con l'intera corte, giunse all'imboccatura del traforo per assistere all'arrivo dell'acqua che, in quella occasione, per la prima volta veniva immessa nella conduttura. Secondo i calcoli di Vanvitelli il tempo necessario affinché l'acqua giungesse dalle sorgenti al Garzano era di quattro ore. Passato il tempo previsto, Vanvitelli non vedeva defluire quell'acqua tanto attesa e notava sul viso dei presenti espressioni di incredulità e delusione.

Può facilmente immaginarsi lo stato d'animo dell'architetto ed i momenti di autentico panico da lui vissuti. Dopo qualche minuto, invece un grido di gioia annunciò il torrente d'acqua che finalmente sbucava dalla montagna, precipitando nella vallata sottostante.

Conclusi anche i lavori del secondo tronco, si iniziò l'ultimo tratto dell'acquedotto che dal Garzano doveva arrivare alla Reggia. Si attraversarono le frazioni di Casolla, Tuoro, Santa Barbara per arrivare a toccare l'altura di Caserta Vecchia dove, nel maggio del 1768, un'altra cerimonia celebrò i progressi compiuti dalla via d'acqua che, finalmente, stava avviandosi a compimento. La regina Maria Carolina, giovane sposa, riprovò le stesse emozioni che Ferdinando aveva provato sei anni prima.

Si era arrivati, dunque al monte Briano, alle spalle della Reggia, dove si praticò il foro d'uscita del condotto coronandosi, così, un sogno a lungo vagheggiato da Carlo e diventato realtà grazie all'ineguagliabile maestria del suo architetto.

Il percorso del canale principale risultò lungo 38 chilometri e la spesa complessiva sostenuta dalla Reale Amministrazione ammontò a poco più di settecentomila ducati. Bisogna rilevare, tuttavia, che l'acquedotto Carolino era stato progettato per giungere fino a Napoli e dare alla città acqua potabile più abbondante e di migliore qualità rispetto a quella proveniente dal Carmignano.

Per tale motivo il condotto era stato costruito in muratura ed erano state adottate tutte le possibili misure per evitare ogni inquinamento.

Fin dal 1762 Luigi Vanvitelli, in una delle periodiche relazioni inviate al marchese Tanucci, aveva formulato un'ipotesi per condurre l'acqua verso la capitale dopo averla fatta passare per San Benedetto. Nella relazione si proponeva di prolungare il condotto fino a Napoli, facendolo arrivare sull'altura di Capodichino ed eventualmente, con l'ausilio di qualche macchina idraulica, spingere l'acqua fino a Capodimonte.

Purtroppo la decisione sollecitata dall'architetto presso Tanucci si fece attendere parecchio e Vanvitelli non poté far altro che rammaricarsi e rimpiangere i tempi in cui, regnando re Carlo, i rapporti con il Sovrano erano ottimi e improntati a grande stima e fiducia. Finalmente, nel 1767, giunse l'autorizzazione a redigere il progetto e Vanvitelli si pose immediatamente al lavoro pur rimanendo molto dubbioso circa il felice esito dell'iniziativa.

Il re di Spagna, pur sollecitato ad intervenire, non rispondeva con segnali incoraggianti. Alla fine i dubbi di Vanvitelli si dimostrarono fondati e l'acquedotto Carolino venne immesso nel Carmignano per proseguire la sua corsa verso Napoli.





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