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La leadership: teorie a confronto

storia



La leadership: teorie a confronto


La posizione alta nella gerarchia è, ovviamente, quella del leader o dei leader.

Il leader è la persona che esercita più influenza nel gruppo degli altri membri; poiché i processi d'influenza sociale sono reciproci (vale a dire il leader influenza, ma è anche influenzato dagli altri partecipanti), si può precisare la definizione affermando che il leader è la persona che può influenzare gli altri membri di un gruppo più di quanto sia esso stesso influenzato. In un gruppo può esservi più di un leader, seppure con ambiti d'influenza diversi; il leader può essere formale, quando ne ha l'incarico ufficiale o informale, nei gruppi spontanei o anche nei gruppi formali, quando emerge nel corso delle interazioni una leadership non istituzionalmente definita, ma ugualmente con forte influenza sugli altri. Il leader può essere imposto ad un gruppo o emergere spontaneamente, può essere legittimo o illegittimo. Il leader gioca il ruolo più importante nel dirigere le attività di gruppo, nel mantenimento delle sue tradizioni e costumi e nell'assicurare il raggiungimento dei suoi obiettivi.

Hollander rileva la differenza fra leadership e potere, mentre la prima è un processo d'influenza fra leader e membri per raggiungere gli scopi del gruppo e produce persuasione, il secondo implica aspetti d'obbligo e controllo e produce soddisfazione. Hollander rileva il significato di leadership, che è un processo che implica non solo il leader, per quanto il suo ruolo sia centrale in detto processo, ma anche i seguaci (followers) o «subordinati», che hanno un ruolo attivo nelle attività di gruppo, ivi comprese anche le azioni per stimolare il leader. In ogni gruppo ed organizzazione devono essere portate a compimento varie funzio 141f51b ni di leadership, che non possono essere in toto assunte dal leader e che includono i ruoli di direttore dei lavori, di pianificatore, di comunicatore, di avvocato, di arbitro dei conflitti ecc. In altri termini, la leadership è un processo e non una persona, e tale processo implica l'interazione fra leader, seguaci e situazioni.



La leadership appare come un fenomeno complesso, poiché come afferma Hollander, essa si trova nell'interazione di tre fattori: la situazione, il leader, i membri del gruppo.

Novara e Sarchielli propongono queste definizioni concettuali:

il potere, come capacità di influenzare o di vincere le resistenze degli altri, assicurandosi comportamenti di consenso o di acquisiscenza- compiacenza;

l'autorità, come validità dell'esercizio del potere, che si fonda su regole stabilite e rispetto a un certo campo di attività;

il controllo, come modalità con cui viene valutato il conseguimento degli obiettivi predefiniti, e assicura il rispetto di un certo patto sociale che lega fra loro gli attori sociali;

la leadership, pur comprendendo gli aspetti sopra citati, si delinea con una propria specificità e cioè come «una forma d'influenza, caratterizzata dalla capacità di determinare un consenso volontario, un'accettazione soggettiva e motivata nelle persone rispetto a certi obiettivi del gruppo o dell'organizzazione».

Secondo Turner i tre principali processi d'influenza sociale, intesa nel senso più largo, sono: il potere, che produce soddisfazione; l'influenza, che produce persuasione, come mostrato da Moscovici nel caso delle minoranze attive; l'autorità, definita come potere d'influenza che si basa su norme sociali, tradizioni, valori e regole, ed è cioè convalidata. La leadership rappresenta, secondo quest'autore, o un ruolo sociale formale o un esercizio d'influenza agito da uno o più membri del gruppo; tanto nel primo caso (ruolo sociale formale) quanto nel secondo (ruolo informale), i leader possono usare uno o più dei tre processi d'influenza sopra descritti.


1. Le teorie del «grande uomo» ovvero l'approccio dei tratti

I primi approcci teorici alla comprensione del fenomeno della leadership hanno tentato di mostrare un set di tratti di personalità che costituiscono dei predittori, o delle spiegazioni post hoc, per dar conto del fenomeno dell'emergere di un leader. L'idea sottostante a quest'approccio individualistico è che «leader si nasce e non si diventa», vale a dire esistono negli individui delle tendenze «naturali» all'esercizio del comando, tendenze che alcuni avrebbero ed altri no.

Questa concezione di leadership, che ebbe una fioritura di studi nella prima metà di questo secolo, è conosciuta anche come l'approccio dei tratti, che consiste nel sottolineare le qualità personali del leader. Le numerose ricerche effettuate in quest'ambito sono state utilizzate da Stogdill in due rassegne in cui l'autore cerca di identificare i tratti correlati positivamente con la leadership. Nella prima rassegna emerge che i tratti che differenziano il leader dai non- leader sono: l'intelligenza, la vigilanza, l'intuizione, la responsabilità, l'iniziativa, la fermezza, la fiducia in sé, la socievolezza. Nella seconda rassegna, sono stati elencati altri tratti che caratterizzano il leader: propensione alla responsabilità e al conseguimento del compito, forza e tenacia nel raggiungimento degli obiettivi, coraggio e originarietà nel problem solving, tendenza a prendere iniziative nelle situazioni sociali, fiducia in sé e sentimento d'identità personale, disponibilità ad accettare le conseguenze di decisioni ed azioni, prontezza nell'assorbire lo stress interpersonale, capacità di tollerare frustrazioni e ritardi, abilità nell'influenzare il comportamento degli altri, capacità di strutturare il sistema d'interazioni sociali in vista del risultato.

Altri autori hanno svolto simili rassegne su numerosi studi riguardanti i tratti, giungendo a mettere in luce altre caratteristiche del leader, come Lord che aggiunge all'intelligenza la mascolinità e la dominanza come elementi significativamente correlati a come gli individui percepiscono i leader, o come Kirkpatrick e Locke che sottolineano l'importanza di tratti come la grinta, il desiderio di comandare, l'onestà e l'integrità, la fiducia in sé, l'abilità cognitiva, la conoscenza del compito. Secondo gli autori appena citati, questi tratti renderebbero diversi alcuni individui dagli altri e tali differenze dovrebbero essere riconosciute come una parte importante del processo di leadership.

La leadership non sarebbe, secondo Bodiou, questione di tratti della personalità, ma di una strategia identitaria, che permette all'individuo di soddisfare certi suoi bisogni, quali il rinforzo dell'immagine di sé, la valorizzazione di sé, il desiderio di contare agli occhi degli altri e, in qualche modo, di sedurli. Nella costruzione dell'identità personale, gli individui devono necessariamente ricorrere agli altri, che confermano o non confermano ciò che l'individuo pensa di sé; Codol vede nel riconoscimento sociale un elemento necessario di qualunque dinamica identitaria individuale e nella valorizzazione di sé una dimensione fondamentale dell'identità personale. Ciò comporta una certa «visibilità sociale», che secondo Moscovici costituisce la preoccupazione principale d'ogni individuo, il bisogno di sentire di contare agli occhi degli altri. Nel gruppo la visibilità sociale si conquista innanzi tutto con la parola, il leader parla più degli altri. D'altra parte, lo status di leader non risponde solo ai bisogni identitari individuali, ma anche ai bisogni del gruppo, che richiede alcune funzioni fondamentali che il leader esercita, come perseguire gli obiettivi stabiliti, coordinare le risorse, organizzare gli scambi ecc., funzioni che danno al gruppo sicurezza e stabilità. In altri termini, si diventerebbe leader per una specie di contratto interattivo, che Oberlé definisce come «transazione implicita», fra il leader e il suo gruppo, contratto che d'altra parte, è per sua natura instabile, poiché altri membri del gruppo possono avere lo stesso bisogno di emergere come leader e dato che non sempre il leader è in grado di soddisfare le funzioni per cui è designato. Dunque, la leadership è una strategia identitaria che insieme ai sicuri benefici, comporta per l'individuo dei costi in termini di mantenimento di tale posizione. Per tale motivo, Bodiou vede nella leadership un processo dinamico ed evolutivo, che è il risultato di strategie individuali, interpersonali e di gruppo.

Come sostiene anche Northouse, l'approccio dei tratti ha il merito di avere messo in luce una serie di caratteristiche che costituiscono la specificità del leader, per quanto abbia alcune innegabili debolezze, la prima delle quali è quella di prendere in considerazione solo un elemento del processo di leadership, in pratica i comportamenti del gruppo e le situazioni, gli ambienti in cui si afferma un certo leader. I fattori situazionali hanno un'influenza evidente sul processo di leadership ed è praticamente impossibile giungere ad elencare in modo completo una serie di tratti validi universalmente che siano totalmente isolati dalle concrete situazioni in cui il processo di leadership si svolge.

Inoltre, la lista di tratti che potrebbe essere redatta dalle ricerche effettuate, è quasi infinito ed esistono scarse somiglianze fra i risultati dell'uno e dell'altro studio. Un altro aspetto critico è che l'approccio dei tratti si limita ad elenchi descrittivi delle qualità del leader, ma non si occupa di come queste influenzino i membri del gruppo, la loro produttività e il loro livello di soddisfazione. In altri termini, i «tratti» non sono posti in relazione con altri aspetti della vita di gruppo, quindi non possiamo sapere se quel leader intelligente, responsabile, fiducioso nelle proprie capacità potrà portare al successo il suo gruppo di lavoro o la sua squadra sportiva, e se il clima e il morale del suo gruppo saranno buoni o negativi.

Poiché i tratti sono considerati come delle strutture psicologiche relativamente stabili, è ovvio che nell'approccio che stiamo esaminando non c'è grande spazio per l'apprendimento e lo sviluppo delle caratteristiche utili per essere dei buoni leader, cosa che invece viene contemplata in altri modelli teorici. In altre parole, se la leadership è una questione unicamente basata su tratti psicologici del leader, è piuttosto difficile pensare ad un seguito applicativo di questa teoria, a tecniche che mirino allo sviluppo di detti tratti.

Altra difficoltà dell'approccio che stiamo esaminando è che i tratti non sono, come osserva Hollander, degli elementi fissi, ma piuttosto attivi in quanto si esprimono in un contesto interpersonale, che può chiarirne o meno l'espressione e che può giudicarli più o meno adeguati al momento che il gruppo sta attraversando.


2. I comportamenti del leader

Secondo Hollander, fu proprio l'insoddisfazione per l'approccio dei tratti a condurre a due filoni di studio sulla leadership fra loro interrelati: da un lato le ricerche sul comportamento del leader, dall'altro l'approccio situazionalista, che ingrandisce le caratteristiche di una particolare situazione e compito nei quali leader e membri sono reciprocamente coinvolti.

Una delle ricerche classiche è quella di Lewin, Lippitt e White, su tre stili di leadership: autocratica, democratica e permissiva o laissez faire. Il leader autocratico organizza e dirige ogni attività, resta piuttosto distaccato nei confronti dei ragazzi, tende a proibire le comunicazioni fra i coetanei, non rende partecipi gli allievi del progetto operativo. Il leader democratico discute con il gruppo ogni decisione ed attività, è piuttosto amichevole e disponibile, non proibisce i contatti fra i pari, rende partecipativi i membri del gruppo. Il leader permissivo interviene pochissimo nelle attività di gruppo, lasciando quest'ultimo libero di agire.

Il programma di ricerche dell'Ohio State University, sotto la direzione di Stodgill, Fleishman e Hemphill, inizia nel 1947 e costituisce un specie di pietra miliare negli studi sul comportamento del leader. Le analisi evidenziarono quattro fattori: 1) la considerazione, 2) il dare origine ad una struttura, 3) l'enfasi sulla produzione, 4) la sensibilità. I primi due fattori sono quelli meglio conosciuti e sono così sintetizzati:

la considerazione include comportamenti come aiutare i sottoposti, porre attenzione alla loro sicurezza sociale, fare loro dei favori, spiegare le cose, essere amichevoli e disponibili;

il dare origine ad una struttura include comportamenti come portare i sottoposti a seguire regole e procedure, mantenere gli standard produttivi, rendere espliciti i ruoli dei leader e dei subordinati.

In altre parole, la considerazione può essere ritenuta come relativa alle «relazioni umane», e il dare origine ad una struttura come il «centraggio sul compito»; dalle analisi effettuate questi due fattori non appaiono opposti, ma indipendenti; in altre parole si potrebbero avere leader con valutazioni elevate in entrambi i fattori, con valutazioni basse in entrambi, o con un punteggio elevato su di uno o l'atro fattore.

Nella stessa traiettoria di pensiero, Blake e Mouton progettarono la Leadership Grid, conosciuta come Griglia Manageriale, ideata per valutare lo stile di comando dei dirigenti, che include come fattori indipendenti l' «interesse per le persone» e l' «interesse per la produzione». Ciascuna di queste dimensioni è misurata in una scala a 9 punti (1 min - 9 max) e rappresentata lungo due assi (quella verticale esprime l'interesse per le persone, quello orizzontale per la produzione). Dall'utilizzo di questa griglia appaiono cinque stili di leadership, così denominati:

«povero» o laissez faire, stile in cui è basso sia l'interesse per le persone sia quello per la produzione. I leader che hanno questo stile cercano di fare il minimo sforzo per eseguire il lavoro richiesto, cercano di evitare i problemi e di passare inosservati;

«circolo ricreativo», stile in cui è alto l'orientamento alle persone e basso quello alla produzione. È uno stile definito anche come «gruppo d'amici»; i leader sono amichevoli, cercano di creare un'atmosfera confortevole, il ritmo di lavoro è molto rilassato;

«orientato al compito», stile in cui è basso l'interesse per la produzione e alto quello per le persone. I leader che usano tale stile organizzano il lavoro in modo tale da raggiungere nel minor tempo possibile gli scopi prefissati e in modo tale che l'elemento umano interferisce in misura molto ridotta;

«metà strada», stile di un leader che mostra un interesse medio per il compito e per la relazione, in pratica che non trascura né gli obiettivi aziendali né le relazioni con i dipendenti;

«team o squadra», stile in cui è alto sia l'orientamento alla produzione, sia l'orientamento alle persone. I leader che adottano questo stile possono ottenere buoni risultati in un clima contrassegnato da soddisfazione e fiducia.

Ricerche successive non confermano in toto questa tesi, poiché vari altri fattori di tipo organizzativo, relativi cioè ad una funzione concreta in cui si esercita una funzione di comando, possono intervenire nel determinare l'efficienza di uno stile di leadership.

È soprattutto da tenere in conto che lo stesso comportamento può non essere efficace in tutte le situazioni.


3. L'approccio situazionista

Questo approccio allo studio della leadership nasce, come quello appena esaminato, per superare i limiti dell'approccio dei tratti. Mentre quest'ultimo era centrato sulle qualità stabili di un leader attraverso le varie situazioni, l'approccio situazionalista cerca di definire cos'è richiesto ad un leader nella situazione in cui si trova. Il problema non è, dunque, quello di accertare quali tratti possiede un leader, ma quali sono i tratti o le caratteristiche che la situazione richiede ad un leader. Se tanto nell'approccio dei tratti quanto in quello centrato sul comportamento del leader il focus attentivo è sulla persona del capo, nell'approccio situazionalista il focus si sposta sulle circostanze ambientali, sulle situazioni in cui si svolge il processo di leadership, dando loro un carattere di priorità assoluta.

Se la natura del compito costituisce uno dei fattori situazionali più importanti per la leadership, vi sono, secondo Hollander, anche altri fattori in genere poco considerati sebbene importanti che riguardano la storia passata del gruppo e il suo feeling tone, in pratica il suo clima affettivo, elementi che concorrono nel definire la situazione e nell'influenzare le relazioni interpersonali e le prospettive dei membri del gruppo. Altri fattori situazionali sono costituiti dal tipo di relazioni interne al gruppo che porteranno ad effetti diversi e l'ampiezza del gruppo, per cui un gruppo molto ampio e le relazioni leader- membri possono essere depersonalizzante al punto di influenzare le aspettative di successo e il livello di soddisfazione del gruppo. Inoltre, la leadership può subire l'effetto dello stadio di sviluppo in cui il gruppo si trova. Oltre ai fattori situazionali relativi al «dentro» del gruppo, esistono gli aspetti di contesto complessivo, esterno, che costituiscono elementi che tendono a definire differentemente la situazione, come un periodo di crescita o di depressione economica, o un ambiente sociale stabile o instabile.

L'approccio situazionalista ha permesso di superare la concezione di leadership come legata unicamente alle qualità del leader, mostrandone invece i legami con fattori paralleli. In tal modo quest'approccio apre la strada agli sviluppi teorici o di ricerca successivi, come i modelli della contingenza e gli approcci transazionali.



4. I modelli della contingenza

I modelli della contingenza sono un tentativo di superare da un lato le concezioni che enfatizzano lo stile di leadership, che da solo non riesce a spiegare perché uno stesso stile sia a volte efficace e a volte non lo sia, dall'altro gli approcci che centrandosi esclusivamente sulle situazioni non riescono a dar conto del perché alcuni individui diventino leader e altri no. I modelli della contingenza prendono in considerazione l'interazione fra lo stile di leadership e la situazione; in tal modo è superata l'idea semplicistica che esita una forma di leadership ottima o addirittura ideale, buona per tutte le «stagioni», mentre è riconosciuto che l'efficacia di una leadership è legata a contingenze, situazioni particolari che il leader efficace deve sapere correttamente riconoscere per modulare il proprio comportamento in vista del raggiungimento degli obiettivi.

Il modello della contingenza di Fiedler. Fiedler è stato il primo autore che ha aperto la strada agli studi interazionisti sulla leadership, prendendo in considerazione lo stile del leader e la situazione del gruppo come variabili in relazione reciproca.

L'orientamento del leader può essere più o meno efficace a partire da tre fattori che determinano il grado di favorevolezza della situazione per il leader; questi tre fattori, misurati in modo dicotomico, sono:

la qualità delle relazioni leader- membri, che sono buone se esistono elementi come fiducia reciproca, lealtà, clima affettivo positivo, o povere in assenza di tali elementi;

il grado di strutturazione del compito, che è positivo se lo scopo da raggiungere è chiaro, le istruzioni sono precise, il risultato finale è previsto;

il potere legato alla posizione del leader, che può essere forte o debole, a seconda che il capo abbia a disposizione mezzi sufficienti per influenzare i membri o la competenza necessaria per affrontare quel compito.

Combinando fra loro questi tre fattori di favorevolezza, considerati dicotomicamente si ottengono otto combinazioni possibili, che vanno da un massimo ad un minimo.

Le verifiche sperimentali dello stesso Fiedler e d'altri ricercatori hanno confermato in parte, ma non completamente, il modello della contingenza di Fiedler. Oltre ai risultati delle ricerche, altri elementi di natura più teorico- metodologica sono da considerare per un esame obiettivo di questo modello.

Anche i fattori considerati da Fiedler per mostrare il continuum di favorevolezza della situazione sono stati sottoposti a critiche. La relazione leader- membri non è sempre categorizzabile come «buona» o «povera», in quanto si tratta di un fattore delicato ed instabile, legato da un lato a caratteristiche della dinamica interna di gruppo, in cui possono prevalere in certi momenti aspetti conflittuali o cooperativi, dall'altro ai bisogni degli individui che, come abbiamo visto considerando il modello di socializzazione e di Moreland e Levine, costituiscono un elemento che può incidere sul clima complessivo di gruppo. Inoltre, come notano Novara e Sarchielli, vi sono altre variabili che incidono sulle relazioni leader- membri, come le dimensioni del gruppo e il clima politico- culturale, che interviene come modulatore sulle relazioni fra membri e leader.

Per quanto riguarda la natura del compito la dicotomia fra strutturato e non strutturato non appare illustrare esaustivamente quanto avviene nella realtà. La complessità o semplicità del compito costituisce una variabile che può modificare le richieste nei confronti della leadership.

Il potere che nel modello di Fiedler appare come la variabile situazionale meno rilevante, costituisce in realtà un fattore molto importante, ma non sempre collegato con le caratteristiche «oggettive» di tale potere.

Nonostante le possibili critiche al suo modello della contingenza, Fiedler ha avuto un'indubbia importanza sugli studi sulla leadership, in quanto è stato il primo autore ad avviarsi concretamente verso una direzione interattiva, in cui stili di leadership e variabili situazionali sono presi contemporaneamente in considerazione.

Il modello della contingenza di Vroom e Yetton. Il modello di Vroom e Yetton riguarda principalmente gli stili del leader nei processi decisionali organizzativi e s'interessa in particolare di individuare quali stili di presa di decisione sono resi necessari dalle diverse situazioni. Il modello è definito dagli autori come «normative model of decision making», vale a dire modello normativo della presa di decisione, in quanto una volta analizzata la situazione si può indicare quale stile sia più adatto per giungere ad una soluzione efficace.

Gli stili decisionali dei leader sono cinque e variano su di un continuum che va dall'autocratico al partecipativo:

autocratico, in cui il leader prende le decisioni da solo senza consultare i membri del gruppo, utilizzando le informazioni di cui dispone;

autocratico con richiesta di informazioni ai collaboratori; il leader decide da solo, anche se i subordinati sono almeno in parte coinvolti, poiché il leader chiede loro delle informazioni, precisando o non precisando a quale scopo esse siano utili;

consultivo individuale, in cui il leader consulta individualmente i collaboratori e prende da solo la decisione, che può tener conto o meno dei suggerimenti dei subordinati;

consultivo di gruppo, in cui il leader consulta il gruppo nel suo insieme, per quanto egli prenda da solo la decisione, che può tener conto o meno dei suggerimenti del gruppo;

partecipativo, in cui il leader condivide il problema col gruppo, valuta insieme ad esso la situazione per arrivare a una soluzione consensuale.

Questi stili consensuali possono determinare una diversa efficacia della decisione, efficacia che è stabilita secondo tre criteri: 1) la qualità delle decisioni; 2) il tempo richiesto per giungere alla decisione; 3) l'accettazione della decisione da parte dei subordinati.

Rispetto al modello della contingenza di Fiedler, quello di Vroom e Yetton accorda un interesse maggiore al livello di partecipazione dei subordinati, rispetto ai quali sono considerati elementi precedenti la decisione, sia elementi successivi alla decisione, in pratica l'accettazione o il disaccordo rispetto a quanto deciso, aspetti questi tutt'altro che irrilevanti per portare a buon fine le linee decise dal leader.

Ovviamente, anche il modello di Vroom e Yetton è stato sottoposto a critiche, tanto sul piano metodologico, che su quello della sua portata teorica. Tuttavia il merito di Vroom e Yetton è quello di essere usciti dalla classica bipartizione del leader centrato sul compito o sulle relazioni e di aver mostrato che vi possono essere vari tipi di leadership, nessuno dei quali valido in assoluto ma efficaci secondo le richieste situazionali.

La path- goal theory. Questo modello della contingenza si basa sugli aspetti motivazionali individuali nei gruppi ed è stato dapprima delineato da Evans, poi sviluppato da House e definitivamente messo a punto da House e Mitchell.

Evans aveva osservato che i leader possono influenzare la prestazione e la soddisfazione dei subordinati incentivando la loro motivazione. House e House e Mitchell hanno esteso questa prospettiva analizzando i comportamenti dei leader per incrementare la motivazione dei subordinati, includendo i seguenti fattori contingenti:

le caratteristiche dei subordinati nei termini di disponibilità ad essere guidati, abilità in certe aree del compito, fiducia in sé, bisogni individuali, stile attribuzionale personale, per cui il locus of control è interno o esterno;

i fattori del contesto, in cui sono compresi il tipo di compito e di gruppo. Per quanto riguarda il compito, vi possono essere compiti interessanti che motivano di per sé i subordinati, oppure compiti routinari in cui non è percepita come essenziale la guida del leader, oppure compiti complessi e poco strutturati in cui diviene centrale la guida del leader. Altri fattori di situazione sono le caratteristiche del principale gruppo di lavoro, il sistema d'autorità formale dell'organizzazione.

Nella path- goal theory due sono gli assunti di base: in primo luogo, il comportamento del leader sarà accettabile per i sottoposti se essi lo considerano capace di soddisfare i loro bisogni immediatamente o nel futuro; in secondo luogo, il comportamento del leader risulta motivante per i subordinati, quando è in grado di far loro comprendere che la soddisfazione dei loro bisogni va di pari passo con il raggiungimento dell'efficacia produttiva.

Per assumere una funzione motivante e di guida, i leader potranno adottare quattro forme di leadership in rapporto alle caratteristiche situazionali che abbiamo presentato sopra:

leadership strumentale, definita anche come initiating structure cioè «dare origine a una struttura»; con questo stile che è orientato al compito, il leader pianifica il lavoro, fornisce spiegazioni, controlla;

leadership supportiva, detta anche «considerazione», che è orientata a creare un clima di lavoro sereno e a considerare i bisogni dei subordinati;

leadership orientata ai risultati, in cui il leader ha elevate aspettative nei confronti dei subordinati e cerca di incentivarli di continuo;

leadership partecipativa; come quella supportiva è orientata alle relazioni, e in misura ancora più rilevante. Il leader vuole mettere in comune con i collaboratori, le informazioni, li interpella, ascolta i loro pareri, vuole effettivamente lavorare con tutto il gruppo.

Questi quattro stili di leadership possono essere assunti volta per volta dallo stesso leader, che in base alle caratteristiche della situazione potrà decidere di adottare uno stile piuttosto dell'altro.

Il modello di Hersey e Blanchard. Hersey e Blanchard presentano un modello di leadership da loro definito come Situational Leadership Theory che si focalizza sulla corrispondenza fra stile della leadership e caratteristiche dei membri. Per essere efficace, il leader deve adattare il suo stile al livello di maturità dei membri del gruppo, maturità che è definita come capacità di porsi mete alte ma raggiungibili, di prendersi delle responsabilità, di mettere a frutto le esperienze. Gli stili di leadership sono quattro e nascono dalla combinazione di due comportamenti: quello di sostegno (centrato sulle relazioni) e quello direttivo, di guida (centrato sul compito):

telling: si tratta di uno stile prescrittivo, contrassegnato da molta guida e poco sostegno, per cui il capo dà ordini, usa generalmente comunicazioni ad una via, fissa gli obiettivi per i collaboratori, controlla i risultati, non delega;

selling: si tratta di uno stile contrassegnato da molta guida e da molto sostegno, per cui il leader definisce il lavoro in modo preciso come nel telling ma, a differenza di quest'ultimo stile, tiene anche in considerazione i sottoposti, usa comunicazioni a due vie, incoraggia, aiuta, fornisce supporto;

partecipating: è uno stile partecipativo contrassegnato da poca guida e molto sostegno; c'è un centraggio forte sulle relazioni interpersonali, ai collaboratori vengono offerti incoraggiamenti, aiuto, sostegno, in modo tale che essi possano da soli organizzare il proprio lavoro;

delegating: stile caratterizzato da poca guida e poco sostegno, definibile «di delega», in cui il leader lascia che i collaboratori organizzino il proprio lavoro e non fornisce loro neppure supporto o incoraggiamenti particolari.

I quattro modelli della contingenza che abbiamo presentato costituiscono un superamento della logica troppo centrata sul leader o sulla situazione, in quanto è in tutti presente lo sforzo di mettere in relazione alcuni stili di leadership con gli elementi della situazione.


5. Le teorie transazionali e le teorie dello scambio

Le teorie transazionali e dello scambio si basano sull'idea che le relazioni fra il leader e i membri di un gruppo si sviluppano e si mantengono attraverso un reciproco scambio di risorse indicative. In queste teorie è dato più ampio spazio, rispetto ai modelli finora discussi, ai followers, che contribuiscono in modo rilevante al processo di leadership.

La teoria transazionale di Hollander. Le teorie transazionali rilevano, a differenza dei modelli finora discussi, l'interazione reciproca fra leader e subordinati. Anche partendo dall'assunto che il leader è il membro del gruppo che influenza gli altri partecipanti più di quanto sia lui stesso influenzato, è difficile ipotizzare che il processo d'influenza non sia reciproco. Insomma, il termine di transazione si riferisce allo scambio sociale che avviene fra il leader e i seguaci e sottolinea un ruolo più attivo di quest'ultimi in tale relazione.

Hollander nell'ambito della prospettiva transazionale presenta il suo modello del credito idiosincratico, che appunta l'attenzione sulle fonti di status, uno che viene «guadagnato» fra i seguaci, e sulla base del quale il leader può approvare innovazioni al gruppo. Il credito idiosincratico, che è l'attendibilità personale che il leader conquista presso i followers, riguarda i seguenti quattro punti:

conformismo iniziale: il leader, o l'aspirante tale, deve inizialmente adattarsi alle norme del gruppo per acquistare l'influenza necessaria per poi eventualmente cambiarle. Le ricerche condotte da Hollander sui gruppi con compiti di problem solving hanno mostrato che un'iniziale non conformità alle norme di gruppo anche da parte di un membro competente può bloccare il suo potere d'influenza, mentre una non conformità manifestata più avanti può produrre cambiamenti nelle norme di gruppo. Il guadagnare o meno una posizione di leadership dipenderà dalla capacità che l'individuo dimostra nel condurre ad azioni di successo; in altre parole saranno giudicati ben diversamente dal gruppo atti di non conformità che conducono al fallimento delle iniziative;

competenza: il leader deve dare prova di contribuire al principale compito del gruppo con le competenze di cui dispone. Insieme alla conformità iniziale, le prove di competenza costituiscono i primi elementi che fondano il credito che il gruppo accorda al leader;

legittimità: essa è importante per guadagnare autorità; la legittimità può derivare sostanzialmente da due fonti, non necessariamente in contrasto fra di loro: la prima riguarda la designazione esterna, cioè il leader viene assegnato ad un gruppo, come avviene nella maggior parte dei contesti organizzativi ed istituzionali; la seconda fonte si riferisce al fenomeno dell'emergere di un leader, fenomeno che può realizzarsi sia con l'elezione del leader da parte del gruppo, come avviene ad esempio nel mondo politico, sia informalmente nei gruppi naturali, nei quali l'individuo può conquistare legittimità con le prove della sua abilità e del supporto che offre ai followers. La designazione esterna può essere una fonte di credito abbastanza debole, se il leader non è in grado di dar prove di competenza e d'efficacia. In pratica, posizione di leadership ed esercizio della medesima non sono la stessa cosa, e ciò dipende da come i followers riconoscono ed agiscono alle capacità e ad altre caratteristiche del leader. Diverso da quello del leader designato è il caso del leader emergente, vale a dire di chi guadagna legittimità in un processo informale d'accettazione (da parte dei subordinati) della sua influenza attraverso la dimostrazione delle sue qualità, in pratica assicurandosi «promozioni sul campo», come si dice in ambito militare. Per quanto riguarda in specifico la bipartizione fra leader designato e leader eletto, i dati di ricerca propendono per il riconoscere ai leader eletti più autorità di quelli designati, in quanto i seguaci si sentono maggiormente coinvolti ed hanno attese diverse secondo la loro percezione di aver scelto il proprio capo o di averlo dovuto subire per imposizione esterna;

identificazione con gruppo: la credibilità che si conquista un leader è legata anche a quanto egli dimostri d'identificarsi con gli scopi e la natura del gruppo. Hollander parla di lealtà, che può anche essere riferita alle norme, per quanto egli rileva alcune differenziazioni necessarie: vi sono norme cui i membri del gruppo devono conformarsi, altre da cui il leader può deviare senza sanzioni da parte del gruppo. Vi sono, inoltre, particolari attese nei confronti del ruolo del leader. Se da un lato il leader può assumere qualche posizione personale senza conseguenze, è tuttavia assai probabile che i seguaci lo rifiutino se è percepito come qualcuno che agisce in nome dei propri interessi personali invece che in nome degli interessi di gruppo o come qualcuno che si comporta in modo sleale. Anche la percezione della responsabilità del leader in rapporto a qualche ingiustizia è un fattore rilevante che può scatenare la rivolta dei subordinati, mentre se il leader non è percepito come responsabile di un atto iniquo è giudicato più favorevolmente dai seguaci. Il leader, insomma, deve essere percepito come qualcuno che lavora al meglio per il bene comune del gruppo, per quanto nella prospettiva transazionale esiste l'idea che c'è scambio fra leader e membri, nel senso che da entrambe le parti c'è consapevolezza dei bisogni degli altri e controllo sugli egoismi, sugli eccessi di centraggio su di sé. Il leader che si comporta bene in quest'ottica di lealtà ed correttezza può godersi anche i privilegi della sua alta posizione di status; se non si comporta bene, e soprattutto per mancanza di impegno piuttosto che per mancanza di abilità, i seguaci avranno con grande probabilità il senso di una ingiustizia, di una disparità nella relazione di scambio e agiranno di conseguenza.

La teoria di Hollander si presenta come un approccio più dinamico di quelli della contingenza e pare più adatta a spiegare i cambiamenti che si realizzano in qualsiasi processo di leadership. Tali cambiamenti dipendono dalle relazioni leader- membri nel corso del tempo, relazioni che ovviamente non sono fisse, ma si evolvono con varie modalità. Secondo Brown, un limite della teoria di Hollander è quello di incentrarsi esclusivamente sui processi intragruppo, mentre le relazioni intergruppi sono spesso responsabili di notevoli cambiamenti anche nelle relazioni intragruppo e possono influenzare lo stesso processo di leadership.

Il modello dei legami verticali di leadership e il modello della costruzione della leadership. Nel modello dei legami verticali diadici, i rapporti fra il leader e i followers non sono considerati tutti allo stesso livello; in altre parole il gruppo non è preso in considerazione come un tutto omogeneo e si parte dall'ipotesi che ogni seguace costruisce un rapporto specifico col capo. Ogni leader ha un cerchio più o meno stretto di seguaci, questi cerchi costituiscono un ingroup quando sono vicini al capo, un outgroup quando sono più distanti. I seguaci che fanno parte dell'ingroup ricevono più informazioni, interesse e confidenze dal leader rispetto ai seguaci che fanno parte dell'outgroup, che invece hanno rapporti più formali col capo e comunicazioni che trattano soprattutto sul compito.

Essere più vicini ad un leader ha un costo, poiché ai seguaci ingroup possono essere avanzate richieste più alte di prestazione e d'adesione ad un codice più rigido di lealtà ed obbedienza; inoltre se un membro vicino al capo fallisce, il fallimento coinvolge anche il leader in quanto egli è percepito come responsabile delle azioni di un seguace che ha un rapporto di favore con lui. Per contro, ai seguaci outgroup sono fatte poche richieste personali da parte del leader; questi seguaci sono di solito membri con basso status nel gruppo, possono essere anche nuovi arrivati che in quanto tali vengono considerati in modo uniforme e poco differenziato.

Accanto ai costi del far parte dell'ingroup, sono da comprendere i benefici di questa situazione, che consistono in relazioni marcate da fiducia, rispetto, piacevolezza e influenza reciproca. Liden e Graen hanno mostrato che i subordinati aventi relazioni d'alta qualità con i loro capi assumono maggiori responsabilità lavorative, offrono più contributi inerenti al compito e sono considerati come membri che offrono prestazioni migliori dei subordinati che hanno relazioni di bassa qualità col leader.

Nell'evoluzione della teoria che stiamo esaminando, Graen e Uhl- Bien sono giunti a presentare un modello di costruzione della leadership, che ha come base l'idea che il leader possa sviluppare scambi di qualità con tutti i subalterni e non solo con alcuni, fatto che avvantaggerà gli obbiettivi dell'organizzazione come pure il progresso di carriera dagli individui. Gli autori citati sostengono che la costruzione della leadership si sviluppò nel corso del tempo in tre fasi:

a)    la fase sconosciuta; in questa fase le interazioni all'interno della diade leader- sottoposto sono limitate dalle norme esistenti, suggerite dai rapporti contrattuali. Leader e sottoposti si muovono tra i ruoli stabiliti, hanno scambi di bassa qualità, il processo d'influenza è unidirezionale, i subordinati obbediscono al leader per raggiungere le ricompense che egli gestisce;

b)   la fase di conoscenza; questa fase inaugura gli scambi ed inizia con un'«offerta» da parte del leader e del subalterno per migliorare gli scambi, condividere informazioni e risorse. Si tratta di una fase di valutazione sia per il leader, che deve decidere se il sottoposto può assumere maggiori responsabilità e modificare il suo ruolo, sia per il sottoposto, che deve valutare se il leader sia disposto a fornire nuove opportunità ai seguaci. L'influenza fra le diadi non è ancora reciproca, ma è mista; gli scambi sono di media qualità e l'interesse si sposta da quello personale della prima fase ad un maggior interesse per gli scopi e gli obiettivi di gruppo.

c)    la fase matura di associazione; questa terza fase è caratterizzata da scambi di alta qualità, da un alto grado di scambio fra leader e sottoposti. C'è maggiore interdipendenza, nel senso che il leader può contare sulla disponibilità dei sottoposti ad assumere compiti aggiuntivi, come pure quest'ultimi possono fare affidamento sull'incoraggiamento e sul sostegno del leader.

Nella teoria che stiamo esaminando è, dunque, centrale l'idea che il leader forma con ciascuno dei sottoposti una diade, un rapporto diadico, che può essere di tipo ingroup o outgroup. I subordinati ingroup sono disposti a fare più di quello che è loro richiesto contrattualmente e il leader in contraccambio della loro devozione e del loro impegno offre loro maggiori responsabilità ed opportunità, oltre a dedicare loro più attenzione, tempo e sostegno. Per contro, i membri dell'outgroup operano tra i ruoli stabiliti, ma non sono disposti a ruoli supplementari e il leader, pur trattandoli correttamente, non accorda loro attenzioni speciali. Nel modello di costruzione della leadership di Graen e Uhl- Bien si sostiene che il leader dovrebbe creare con tutti i sottoposti delle relazioni di tipo ingroup, favorendo scambi d'alta qualità contrassegnati da fiducia e rispetto; da ciò deriverebbero notevole facilitazione nel lavoro ed efficienza maggiore del gruppo.

Questa teoria dello scambio, che parte dal modello dei legami diadici verticali per giungere al modello della costruzione della leadership, ha come punti di forza il fatto di prendere in considerazione la qualità differente delle relazioni fra il leader e ciascuno dei suoi sottoposti, di sottolineare come in ogni gruppo vi siano sottogruppi e di portare l'attenzione sull'importanza della comunicazione nel processo di leadership, poiché è proprio la comunicazione il via tramite il quale leader e subalterni creano, consolidano e sostengono scambi reciprocamente utili. La sua debolezza è nel non chiarire come i sottoposti entrano all'ingroup o all'outgroup e quanto è possibile muoversi dall'uno all'altro, quando le categorizzazioni all'interno del gruppo sono piuttosto consolidate.


6. Leadership trasformazionale e leadership carismatica

L'approccio trasformazionale è relativamente recente e inizia col lavoro del sociologo politico Burns, che considera i leader come gli individui che stimolano le motivazioni dei seguaci allo scopo di raggiungere in modo adeguato sia i propri scopi sia quelli dei seguaci. Burns distingue fra il concetto di leadership transazionale e leadership trasformazionale, distinzione necessaria in quanto entrambe si occupano dei rapporti fra leader e sottoposti. La prima è centrata sugli scambi, le transazioni o negoziazioni fra loro, per cui il leader acquista un vantaggio concedendo qualcosa ai seguaci, ad esempio il manager che dà promozioni ed incentivi di carriera agli impiegati che raggiungono obiettivi elevati. La seconda si riferisce ad un processo diverso per cui il leader si impegna attivamente con i suoi seguaci, creando con essi un'interrelazione che eleva sia la propria motivazione e il proprio morale sia quelli dei sottoposti. Si tratta, in altri termini, di un leader attento ai bisogni, alle motivazioni e alle potenzialità delle persone a lui subordinate.

Con la nozione di leadership trasformazionale ci si riferisce dunque, ad un processo che cambia, che trasforma gli individui in lui coinvolti, in pratica sia il leader sia i suoi seguaci. Il leader trasformazionale valuta le motivazioni dei suoi sottoposti, va incontro ai loro bisogni, li considera persone a tutto tondo, cerca di aiutarli nel raggiungere pienamente le loro potenzialità e così facendo trasforma anche se stesso, perché pur essendo egli il centro dell'operazione, è coinvolto totalmente nel processo d'interazione con i sottoposti e investito al pari di essi dal cambiamento.

La teoria della leadership carismatica è stata elaborata da House. Essa ha diversi aspetti simili a quelli della leadership trasformazionale, tanto che è considerata come facente parte, complessivamente, degli approcci trasformazionali.

House sostiene che il leader carismatico ha speciali caratteristiche, quali la dominanza, il desiderio di influenzare gli altri, la fiducia in sé, una forte consapevolezza dei propri valori morali. Questo set di tratti personali si concretizza nei seguenti comportamenti dei leader carismatici:

essi forniscono forti modelli di ruolo ai loro seguaci allo scopo di permettere loro l'adozione di particolari credenze e valori;

essi mostrano livelli di competenza elevati ai loro seguaci;

essi esprimono chiaramente scopi ideologici che hanno implicazioni morali;

essi hanno la capacità di comunicare ai loro seguaci un elevato grado di aspettative nei loro confronti e hanno fiducia nelle loro capacità di rispondere a tali attese;

essi sono in grado di attivare le motivazioni rilevanti per l'esecuzione del compito nei seguaci, motivazioni che possono includere anche sentimenti di affiliazione e appartenenza, desiderio di potere e di autostima.

Gli effetti della leadership carismatica sui seguaci sono senza dubbi potenti. Dal lato dell'appartenenza al gruppo nei termini d'ideali condivisi e di scopo da raggiungere, vi è fiducia nell'ideologia del leader, una profonda similarità delle credenze dei seguaci a quelle del leader, obiettivi elevati accompagnati dalla fiducia di poterli raggiungere; dal lato dei comportamenti e dei sentimenti verso il leader, i seguaci mostrano un'incondizionata accettazione della sua leadership, che giunge fino all'obbedienza e all'identificazione, e inoltre essi sono coinvolti emozionalmente e nutrono nei suoi confronti un affetto che può giungere fino alla devozione.

Bass ritiene che la leadership transazionale e trasformazionale non siano dimensioni indipendenti, ma piuttosto gli elementi di un unico continuum, per quanto d'accordo sul fatto che la leadership trasformazionale superi la logica dello scambio, interna nella leadership transazionale. Rispetto a House, egli suggerisce che il carisma è una condizione necessaria ma non sufficiente per una leadership trasformazionale.

Nel continuum della leadership, che va dalla leadership trasformazionale a quella transazionale alla non- leadership, Bass e Avorio individuano sette fattori:

a)    Fattori di leadership trasformazionale; questo tipo di leadership comprende quattro fattori conosciuti come le «quattro I».

Influenza idealizzata: i leader trasformazionali mettono in atto comportamenti tali da renderli modelli di ruolo per i loro collaboratori. Essi sono molto rispettati, hanno standard elevati di condotta morale ed etica, favoriscono i bisogni degli altri ai propri, forniscono ai seguaci una «visione» e un senso della «missione».

Motivazione ispirazionale: i leader trasformazionali motivano i collaboratori, li coinvolgono nell'immaginare situazioni future attraenti, rendono il lavoro efficace, comunicano chiaramente le loro attese. Tutto ciò genera spirito di gruppo ed entusiasmo.

Stimolazione intellettuale: i leader trasformazionali stimolano i loro seguaci ad essere creativi, innovativi, affrontano le vecchie situazioni in modi nuovi. Non sono espresse critiche pubbliche a chi nel gruppo ha fatto sbagli, s'incoraggiano chi guarda di là dai suoi interessi e che s'impegna in soluzioni attente dei problemi.

Considerazione individualizzata: i leader trasformazionali sono attenti ai bisogni di crescita e di successo di ognuno dei loro seguaci. In questo senso promuovo opportunità d'apprendimento diverse e misurano il loro comportamento secondo le differenze dei seguaci. Ad esempio ad alcuni danno più incoraggiamenti, ad altri più autonomia, ad altri compiti più strutturati, ad altri ancora standard più rigidi. S'incoraggia la comunicazione a due vie, si pratica l'ascolto attivo, ci si muove di continuo nei luoghi di lavoro per assicurare la propria presenza, si pratica la delega per far crescere i propri collaboratori.

b)   Fattori di leadership transazionale; questo tipo di leadership si realizza quando il leader premia o punisce i collaboratori a seconda dell'adeguatezza della loro prestazione; essa comprende due fattori:

La ricompensa contingente: si riferisce al processo di scambio per cui il leader ricompensa gli sforzi dei seguaci. Con questo tipo di leadership il leader cerca di ottenere l'accordo dei seguaci rispetto a ciò che deve essere fatto e in rapporto al quale egli accorderà loro dei vantaggi.

Direzione per eccezione che assume due forme: attiva e passiva. La direzione per eccezione si riferisce a quel tipo di leadership che comprende la critica tendente a correggere, feedback negativo e rinforzo negativo. La forma attiva implica un'osservazione da vicino di quanto fanno i sottoposti allo scopo di rilevare errori e violazioni di regole per recare immediatamente le relative correzioni. La forma passiva implica che l'intervento del leader non sia così immediato, per così dire in corso d'opera, ma avvenga, quando non sono stati raggiunti gli standard previsti e siano sopraggiunti dei problemi. La differenza fra la ricompensa contingente e la direzione per eccezione è che la prima usa modelli di rinforzo positivo, la seconda modelli di rinforzo negativo.

c)    Fattore di non- leadership; in questo caso c'è assenza o evitamento di leadership. Si tratta di uno stile non transazionale, e, come mostrano la maggior parte delle ricerche, fra i meno efficaci. La «non- leadership» comprende un unico fattore.

Laissez- faire; il leader cede le proprie responsabilità, rinvia le decisioni, non fornisce feedback, non ha particolari scambi con i sottoposti, non si sforza di andare incontro ai loro bisogni e di occuparsi della loro crescita.

I punti forti della teoria trasformazionale e carismatica consistono nel superamento dell'ottica di scambio e di ricompensa per inaugurare una diversa considerazione del processo di leadership, che si fissa non sui bisogni contingenti del leader e dei seguaci, ma su un corpus di valori che spingono al superamento degli interessi soggettivi in vista di un bene comune che può essere quello del gruppo, dell'organizzazione o di una comunità. Si tratta, in altre parole, del significato concordato ad un punto di vista etico e valoriale, che è introdotto nella logica delle organizzazioni come un elemento principale in grado di motivare ed attivare gli individui in loro implicati. Inoltre, questo tipo di leadership non è una semplice questione di capacità del leader, ma può realizzarsi solo in un potente processo interattivo che coinvolge insieme tanto i bisogni e i valori del leader quanto quelli dei seguaci. Infine, le teorie trasformazionali e carismatiche esercitano un'indubbia fascinazione a livello di senso comune, con queste concezioni di leadership in cui il capo fornisce una «visione» nei confronti del futuro, da valore agli sforzi individuali, mostra la possibilità di cambiamento e innovazione.

I punti critici di questo nuovo corso negli studi della leadership sono, a dispetto della loro insistenza sull'interazione leader- membri, un'enfasi sulla forza trascinante del leader che ricorda da vicino l'approccio dei «tratti», il mito del «grande uomo», che può elicitare una considerazione aristocratica ed esclusiva del capo. Anche lo stesso significato di leader trasformazionale non appare chiarissimo, in quanto si sovrappone con quello di leader carismatico, mentre Bass ha sostenuto che il carisma sarebbe una delle parti della leadership trasformazionale, che avrebbe dunque un range più ampio di quella carismatica. Un'altra critica a quest'approccio è che i primi dati sulla leadership trasformazionale sono stati ricavati da ricerche qualitative su leader ad alto livello, posti ai vertici delle organizzazioni, ed è quindi lecito chiedersi quanto loro sono poi esportabili a posizioni basse o intermedie di leadership. Infine, nell'enfasi posta sui valori della leadership transazionale si mette in secondo piano un rischio a lei legato, in pratica il possibile eccesso di questo stile di leadership per scopi distruttivi, situazione che ha nella storia moltissimi esempi illustrativi.


7. Donne e leadership: un binomio possibile?

Nel corso di questo secolo nei paesi occidentali si è assistito al fenomeno di una crescente presenza delle donne nel mondo del lavoro, di un incremento dei loro livelli d'istruzione e di una ridefinizione dei loro classici e tradizionali ruoli di mogli, madri e casalinghe.

Oggi, nelle nostre società «evolute», le donne occupano posizioni nelle varie organizzazioni e partecipano della loro cultura, una cultura che pretende di essere «neutra», per quanto essa sia in realtà «sessuata».

Nella realtà, le organizzazioni si differenziano secondo il genere: il mondo degli affari è più «maschile» di quello della pubblica amministrazione, e in genere sono più maschi gli ambiti di lavoro considerati consensualmente come più importanti.

La domanda che si può porre a questo punto, riguarda le eventuali somiglianze e differenze della leadership femminile rispetto a quella maschile. Rosener nel suo studio su donne leader, effettuato tramite interviste a donne ed uomini, ha trovato che le donne descrivono il loro stile di leadership come più interattivo o trasformazionale rispetto a quello degli uomini e che questa differenza risale alla socializzazione ricevuta e al sistema di attese sociali, per cui dalle donne ci si aspettava che fossero collaborative, comprensive, supportanti, gentili, e dagli uomini che fossero competitivi, decisi, forti.

Griggs mette in luce le seguenti caratteristiche di un modello di leadership femminista, in una ricerca esplorativa presso centri di studi di donne:

tendenza a mettere in essere strutture partecipative piuttosto che autoritarie;

la concezione del potere distingue uomini e donne: mentre per i primi il potere è concepito come dominazione e controllo degli altri, per le seconde il potere non è dominazione ma energia e forza che possono essere condivise;

la gestione del conflitto nella prospettiva femminista di leadership è qualcosa di importante per giungere a soluzioni produttive e soddisfacenti per tutti;

la creazione di un ambiente di lavoro di tipo supportivo costituisce una forza particolare della leadership femminista. Per «supportivo» s'intende un ambiente lavorativo caratterizzato da calore, comprensione, incoraggiamento, supporto, fiducia reciproca, empatia;

la valorizzazione della differenza costituisce uno dei cavalli di battaglia del femminismo fin dai suoi esordi; si tratta di una prospettiva di pensiero non limitata alla differenza di genere, ma che si estende al considerare tutte le differenze come possibili fonti di arricchimento e di innovazione.

Gli uomini e le donne possono imparare gli uni dalle altre, incorporando reciprocamente gli aspetti migliori degli uni e delle altre, e dando luogo ad uno stile di leadership più «androgino», che potrà rivelarsi come il più efficace.

La realtà è che ancora oggi sono attivi parecchi stereotipi negativi sulla capacità di leadership delle donne e quest'ultime sono ancora penalizzate nell'ambiente di lavoro.

Secondo Smith, le ricerche sulla leadership femminile hanno il merito di aver messo in luce abilità che superano il modello verticistico, gerarchico di divisione del lavoro, e che indicano un modello di lavoro di natura più fortemente partecipativa, che valorizza il consenso nei processi decisionali e la condivisione del potere e delle informazioni, modello che le donne sono più attrezzate a realizzare in virtù della loro socializzazione. Inoltre, l'interrogarsi sullo stile di leadership femminile invita a riflettere, per contrasto, su quello della leadership maschile e su quanto è vantaggiosa l'osmosi, lo scambio fra l'uno e l'altro, per dar luogo ad uno stile androgino che assume il meglio del femminile e del maschile.

D'altra parte la stessa Smith rileva che i limiti di quest'approccio allo studio della leadership sono da attribuirsi ad una certa aneddoticità, spesso determinata da un punto di partenza ideologico (femminista) che enfatizza eccessivamente le differenze fra il modo d'essere leader di maschi e femmine e meno legata all'esigenza di buoni disegni di ricerca. Inoltre, gli studi sulla leadership femminile sono affetti da un'altra bias di partenza, essendo stati svolti su donne bianche ed ignorando che le donne d'altre razze ed etnie hanno esperienze molto diverse, che andrebbero ugualmente analizzate e raccontate.





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