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Confronti, conflitti e tensioni nelle relazioni fra gruppi
1. Gli studi sulle relazioni intergruppi
Quali sono le caratteristiche del comportamento intergruppi di un attore sociale?
La risposta che dà Tajfel a quest'interrogativo, è semplice: i due tipi di comportamento possono essere immaginati come posti su un continuum teorico ad un estremo del qual è posto il comportamento autenticamente interpersonale, i 434h71e n pratica caratteristico di quelle situazioni sociali tra due o più persone in cui ogni interazione reciproca è determinata dalla loro appartenenza a diversi gruppi o categorie sociali.
Le situazioni ai due estremi del continuum sono soltanto teoriche.
È più facile trovare un incontro che appare totalmente determinato dall'appartenenza di gruppo. Ma a voler considerare il problema in termini pienamente interattivi anche questo estremo è teorico.
Ancora più difficile, forse, trovare un caso di puro comportamento intergruppi in una situazione di collaborazione fra gruppi.
Tutte le situazioni sociali si pongono ad un qualche punto fra i due estremi di questo continuum. Quanto più il comportamento sarà vicino all'estremo intergruppi, tenderà ad essere indipendente dalle differenze individuali, nel senso che ogni attore coinvolto si sente «necessitato» ad agire come agisce, sa che gli altri membri del suo gruppo agirebbero come lui e non distingue in alcun modo gli interlocutori che compongono l'outgroup; esso sarà inoltre indipendente dalle relazioni personali tra i singoli membri dei due gruppi e non sarà influenzato dagli stati motivazionali degli attori coinvolti nell'incontro.
Quanto più il comportamento sarà vicino all'estremo interpersonale, saranno messe in risalto le differenze e le analogie dei protagonisti, ciascuno dei quali avvertirà che ogni sua iniziativa e ogni risposta alle iniziative dell'interlocutore potranno essere decisive per l'evoluzione dell'interazione. Ognuno cercherà di mantenere il rapporto al di fuori d'ogni limitazione derivante dalle rispettive appartenenze sociali nello sforzo di esprimere atteggiamenti e comportamenti coerenti in modo esclusivo con i propri sentimenti e le proprie motivazioni più profonde.
La condizione essenziale per la comparse di forme estreme di comportamenti intergruppi, sostiene Tajfel, è la credenza secondo cui i confini fra i due gruppi sono definiti in modo rigido ed immutabile per cui non è possibile che gli individui passino da un gruppo ad un altro.
Per contro, la condizione essenziale per la comparsa di un comportamento interpersonale fra individui che si considerano membri di gruppi diversi, è la credenza secondo cui i confini fra i gruppi, pur socialmente rilevanti, sono in ogni modo permeabili e non vi sono ostacoli tanto più forti da impedire l'eventuale passaggio di un individuo da un gruppo ad un altro quando egli voglia migliorare la propria condizione.
Data la prima condizione, l'attore sociale in gioco giunge a ritenere di non avere altro modo disponibile per poter cambiare la propria situazione che quello di operare insieme al proprio gruppo, come membro di lui, per poter giungere ad un nuovo ordine del rapporto tra i gruppi. Quello che persegue assieme al proprio gruppo, può essere definito cambiamento sociale.
Se è data la seconda delle condizioni citate, la quantità e la qualità delle situazioni sociali che un individuo avverte rilevanti per la propria appartenenza di gruppo sono più o meno numerosi a seconda:
della misura in cui egli sia chiaramente consapevole di essere membro di un determinato gruppo;
dell'ampiezza delle valutazioni positive e negative associate a questa appartenenza;
dell'estensione dell'investimento emozionale associato alla consapevolezza e alle valutazioni.
In più, compaiono, quasi inevitabilmente, nell'esperienza di tutti gli attori sociali, alcune situazioni che obbligano la maggior parte degli individui implicati ad agire nei termini della loro appartenenza di gruppo, anche nel caso in cui il loro sentirsi identificati sia stato inizialmente debole o poco importante.
Questa considerazione evidenzia come l'appartenenza di gruppo sia avvertita in termini cognitivi, valutativi ed emozionali ma possa anche essere incrementata da fattori oggettivi (sociali, storici, economici) con cui gli attori entrano in contatto in modo inatteso, non progettato.
Merton riteneva che gli atteggianti verso un outgroup potessero essere positivi o neutrali, oltre che negativi. Shmidt, d'altro canto, sosteneva che lo sviluppo della coscienza di gruppo comportava atteggiamenti di rifiuto verso chi non è parte dello stesso gruppo.
Lo «scopo sovraordinato» è uno scopo che ha un forte potere di richiamo per i membri di ognuno dei gruppi ma che nessuno dei gruppi può raggiungere senza la partecipazione dell'altro.
L'elaborazione teorica di Sherif è molto semplice: se due gruppi che sono in rapporto tra loro si pongono degli scopi competitivi giungeranno rapidamente ad un conflitto intergruppi; se due gruppi in rapporto tra loro si pongono scopi sovraordinati giungeranno ad una cooperazione reciproca.
I risultati ottenuti con altre ricerche mettono in dubbio la validità della ricerca di Sherif sulle condizioni necessarie perché il proprio rapporto fra gruppi generi animosità (ostilità) reciproca.
Infatti, si è visto che anche gruppi appena costituiti diventano immediatamente antagonisti se posti in una situazione che in qualche modo evochi un confronto.
A livello scientifico si tracciano due orientamenti di studio: l'uno ispirato alla tradizione della scuola di Francoforte che, usando strumenti concettuali tratti sia dalla sociologia marxista sia dalla psicoanalisi freudiana, tentava di spiegare i fenomeni in questione chiamando in causa distorsioni quasi- patologiche dello sviluppo personale degli attori implicati; l'altro, ancorato alla tradizione fenomenologia della filosofia europea e della psicologia della Gestalt, vedeva gli stessi fenomeni di distruzione e crudeltà come manifestazioni assurde, anche perché tragicamente banali, dei processi psicologici e sociali «normali». I contributi della scuola di Lewin, quelli dello stesso Sherif e quelli di Rabbie e Tajfel s'inscrivono entro questo quadro di riferimento.
Tajfel elaborò l'ipotesi secondo la quale non fu necessario chiamare in causa, per dar conto delle discriminazioni intergruppi, né i conflitti oggettivi d'interessi, né l'interdipendenza del destino. È sufficiente, a suo giudizio, una categorizzazione in gruppi di certi attori del mondo sociale.
Tajfel concluse che in una situazione in cui si pongono a confronto due gruppi si attiva, nei membri di ognuno di essi, il bisogno di affermare la specificità positiva del proprio gruppo a scapito dell'altro: il fatto puro e semplice della categorizzazione sociale provoca negli individui un comportamento intergruppi che discrimina l'«altro» gruppo e favorisce quello di appartenenza.
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